PIETRO ARETINO

LA CORTIGIANA


Personaggi (in ordine di apparizione)
Istrione del prologo
Istrione dell'argomento
Messer Maco de Coe, di Siena
Sanese, suo famiglio
Maestro Andrea
Grillo, altro famiglio di Messer Maco
Furfante che vende istorie
Rosso, famiglio di Messer Parabolano
Cappa, altro famiglio di Messer Parabolano
Flaminio, cortigiano
Valerio, cortigiano
Sempronio, cortigiano vecchio.
Messer Parabolano, di Napoli
Ser Faccenda, pescatore
Guardiano d'aracoeli
Aloigia, ruffiana
Zoppino, tabacchino
Maestro Mercurio, falso medico
Romanello giudeo, mercante
Ercolano, fornaio
Antonia, detta Togna, moglie di Ercolano
Biasina, fantesca di Camilla Pisana
Sbirri.



PROLOGO

ISTRIONE DEL PROLOGO Io avevo imparato un certo proemio, diceria, sermone, filostoccola, intemerata o prologo che se sia, e ve'l volevo recitare per amor de un mio amico, ma ognun mi vuole in pasticci. Ma se voi siate savi Plaudite et valete!
ISTRIONE DELL'ARGOMENTO Come 'Plaudite et valete'? Donque io ho durato tanta fatica a comporre questo argumento, serviziale, cristioro o quel che diavol si chiami, et ora vuoi ch'io lo getti via? Per mia fe', che tu hai magior torto che 'l campanile de Pisa e che la superchiaria.
ISTR. PROL. Sta molto ben, poich'io ho 'l torto. Oh, corpo di me, part'egli onesto ch'a petizione d'una comedia io abbi ad esser crucifisso?
ISTR. ARG. Messer no che non mi pare né giusto né onesto; né si crucifiggono così per poco le persone.
ISTR. PROL. Anzi, per niente! E che 'l sia el vero, un meser Mario Romanesco or ora m'è venuto a trovare e dice ch'io gl'ho detto ch'egli dà il portante a le puttane, e che per questo mi vuol fare e dire.
ISTR. ARG. Ah, ah, ah!
ISTR. PROL. Tu hai un bel ridere e io forse ne piangerò; perché non fu sì tosto partito il prefato messer Mario, che mi assaltò Ceccotto Genovese, già sarto e ora astrologo, e dice ch'io ho detto che li spagnuoli [non] sono da più che i francesi; oh, questa pecora! Messer Lorenzo Luti ancora quasi cacciò mano a un coltello per darmi, con dire ch'io ho sparlato di lui e detto che gli è un pazzo, sendo sanese. Et una certa monna Maggiorina, che racconcia l'ossa per Roma, manda i gridi al cielo per esserli stato solo riapportato ch'io l'ho per una strega e mille altre novelle; e non voglio che 'l padrone abbia quista impressione di me, ché importano le impressioni assai, massime nelli orecchi de' gran maestri.
ISTR. ARG. Tu sei presso la morte, poiché stimi se le impressioni buone o cattive ne li orecchi de' signori possono o non; come se tu facessi un gran conto di dispiacerli. Aprezza tanto la grazia loro quanto ha aprezzato Girolamo Beltramo il Giubileo! E ora stai sul severo; recita quisto beato prologo e io farò l'argumento a quisti òmini da bene, e poi chi ha a fare la comedia la faccia, ch'io per me non son per fare altro che l'officio mio; e ecco la calza.
ISTR. PROL. Io ti vo' contentare, e chi l'ha per male grattisi il culo.


PROLOGO

Chi cercassi tutta la maremma non che Italia, non saria mai possibile a ragunare tanta turba di sfaccendati, e ognuno è córso al romore e non è niuno che sappia a che proposito. Almen quando quel medico da Verzelli e i compagni si squartorno, e' si sapeva per dua giorni inanzi perché e per come. Sarà qualche satrapo che dirà essere venuto per avere qualche piacere de la comedia, come se la comedia non avesse altra faccenda che farlo ridere...
Ma voi non volete star queti; orsù, ch'io vi chiarisco ch'io vi vitupererò tutti, per Dio! Per Dio che se non fate silenzio ch'io sciorrò el cane, e dirò el tal è agens, el tal è patiens; e se non ch'io ho rispetto a monna Comedia che rimarrebbe sola, io publicarei tutti i defetti vostri, ché gli ho meglio in mente che la Marca la buona e santa memoria de l'Armellino, con reverenzia parlando.
Oh, quanti ce ne sono che fariano il meglio a procacciare la pigione de la casa e la Signora; e altri a fare che 'l suo famiglio abbia il suo salario provedere doverìa.
E chi è in disgrazia al maestro di casa riaverlo per amico serìa buono di tentare; e vadi a cena chi non ha cenato, 'nanzi che le campanelle, imbasatrici de la fame, suonino; e chi non ha ditto l'offizio si non andassi a dirlo non peccarebbe però in Spirito Santo.
Per certo che si può rallegrare quel padre e fratello che ha il figliolo e fratello in Corte e con tutti i dessagi del mondo lo mantiene, perché doventi messere e reverendo, perché arà le some de' benefici per andare dietro a le favole....
Ma io getto via le parole e veggo che a ogni modo volete impregnarvi di questa comedia! Orsù, a le mani, assettarètivi mai più, perdigiornate? A fe' che c'è tale che sta a un sinistro strano e per che cosa? Per vedere una favola. 'egli fusse in San Piero e avesse a vedere il Volto Santo, stando a sì gran disconcio dirìa a messer Domenedio che 'l verebbe a vedere una altra volta; ma avete ventura che ci sono donne oneste e poche, ché vi so dire che bagnaresti e' piedi d'altro che d'acqua lanfa. Ma torniamo al proposito.
Vostre Signorie mi son patrone, e ancora ch'io abbia bravato un poco, non c'è periculo niuno, e mi burlo con voi che sète nobilissimi, costumati e virtuosi. E non credete che questa ciancia che vi sarà racconta vi facessi dispiacere, perché ella è nata a contemplazione vostra, e mi vien da ridere perch'io penso che inanzi che questa tela si levassi dal volto di questa città, vi credevate che ci fussi sotto la torre de Babilonia, e sotto ci era Roma. Vedete Palazzo, San Piero, la Piazza, la Guardia, l'Osteria de la Lepre, la Luna, la Fonte, Santa Caterina e ogni cosa.
Ma adesso che ricognoscete che l'è Roma al Coliseo, a la Ritonda e altre cose, e che siate certissimi che dentro vi si farà una comedia, come credete voi che detta comedia abbia nome? Ha nome La Cortigiana, et è per padre toscana e per madre da Bergamo. Però non vi maravigliate s'ella non va su per 'sonetti lascivi', 'unti', 'liquidi cristalli', 'unquanco', 'quinci e quindi' e simili coglionerie, cagion che madonne Muse non si pascono si non d'insalatucce fiorentine!
E per mia fe' ch'io son schiavo a un certo cavaliero Casio de' Medici bolognese, poeta que pars est, che in una sua opera de la vita de' santi, dice questo memorabile e divino verso

Per noi fe' Cristo in su la croce el tomo.

E se 'l Petrarca non disse 'tomo', l'ha detto egli ch'è da Bologna, et altro omo che 'l Petrarca, per essere eques inorpellato. Così Cinotto, pur patricio bolognese, che scrivendo contro il turco disse così

Fa' che tu sippa Padre santo in mare
El turco deroccando e tartussando
Che Dio si vuol con teco scorucciare.

'Sippa' è vocabulo antiquo, 'deroccare' e 'tartussare' moderno, e Cinotto, poeta coronato per man di papa Leon, l'usa e sta molto bene; sì che questi comentatori di vocabuli del Petrarca gli fanno dire cose che non le farìa dire al Nocca da Fiorenza otto altri tratti di corda, come ebbe già, benemerito, in persona propria, da la patria sua.
E non è niuno che sappia meglio di Pasquino quello si può usare o no. Egli ha un libro il qual tratta de la sua genologia e c'è de belle cose, come intenderete, e perché gli è nato di poeta però qui lo faccio autore. Parnaso è un monte alto, aspero, indiavolato, che non ci andarebbe San Francesco per le stìmate, e questo loco era d'un povero gintilomo che si chiamò ser Apollo; il qual, o fosse per voto o per disperazione, fattoci un romitorio, si viveva ivi. Avvenne che non so chi toccò il core a nove donne da bene, e dette donne, accettate dal sopra detto Apollo, entroron seco nel monasterio e dandosi a la virtù steteron non molto insieme che si piglioron grande amore. E, come accade che 'l Demonio è sutile, ser Apollo bello e madonne muse bellissime, si consumò el matrimonio, onde nacquero figlioli e figliole. E perché Apollo fu ceretano, come per la lira si può cognoscere, e molti anni cantò in banca, tutti e' figlioli e figlie ch'egli ebbe fur poeti e poetesse. Ora, cominciandosi a sapere che suso quel monte, a petizione d'un solo, stavono nove così belle donne, ce furon molti che per industria saliron in cima al monte, e assai, credendosi salire, rupporo il collo. E come le buone muse videro di poter scemare la fatica a Apollo, si domesticorono sì con coloro che erono con tanto ingegno saliti su l'indiavolato monte, che poseno le invisibile corna a quella gintil creatura di Apollo e con tale archimia fu acquistato Pasquino, né si sa di qual musa o di qual poeta. Bastardo è egli, questo è certo, e chi dice che dette muse fussero sorelle ha il torto, et ha quel giudizio in le croniche ch'ha il Mainoldo mantuano in anticaglie o in gioie; e lo prova, non essere pur parenti, la differenzia de le lingue che si leggono, e lo conferma Pasquino, che cicala d'ogni tempo greco, còrso, francese, todesco, bergamasco, genovese, veneziano e da Napoli.
E questo è perch'una musa nacque in Bergamo, l'altra in Francia, questa in Romagna e quella in Chiasso e Caliope in Toscana. O vedete se di tanta mescolanza nascono le sorelle! E la ragion che piace più la lingua toscana che l'altre, è perché ser Petrarca in Avignon s'inamorò di monna Laura, la qual fu fantesca di Caliope, e aveva tutto il parlare suo, e a ser Francesco piacendoli la dolce lingua di monna Laura, cominciò a comporre in sua laude.
E perché a lui non è ancora agiunto stile se non quello de l'Abate di Gaeta, bisogna andare dietro a le autorità sua, ma circa al parlare non c'è pena niuna, salvo se non dicessi el vero. E il milanese può dire 'micca' per 'pane' e il bolognese 'sippa' pro 'sia'...
ISTR. ARG. Oh, tu leggeresti bene il processo o la condemnazione a un podestà. O che cicalare è stato il tuo? Che domin t'importa egli il volere disputare del parlare? Tu non dovevi finire mai più, acciò ch'io avessi a stare con questa calza tutt'oggi in mano, e che 'l serviziale si freddassi e che costoro non ricevessino la mità de l'argomento.
ISTR. PROL. Tu hai ragione; tamen io voglio sapere, quanto ad un certum quid, che erbe sono in cotesto cristero, perché se tu ci avessi messo 'snelle', 'frondi', 'ostro', 'sereno', 'campeggianti rubini', 'morbide perle' e 'terse parole' e 'melliflui sguardi', e' sono sì stitichi, che non gli smaltirebbono gli struzzi, che padiscono e' chiodi.
ISTR. ARG. Io li ho messo la merda, sta' queto, e vedi farmi cotale argomento, e poi mi parla.
ISTR. PROL. Or comincia.


ARGOMENTO

In questa calza vi porto un argomento molto ristorativo e in questa sua composizione, ch'è buona a fare ridere il pianto, c'è Messer Maco di Coe da Siena, studiante in libris, venuto a Roma per acconciarsi per cardinale con qualche papa; che essendo in caso di morte per il mal di mazzucco, suo padre fe' voto che, guarendo il detto Messer Maco, lo acconcerìa per cardinale con un papa. Sndo essaudito, e sano e più bello che mai il figliolo, l'ha mandato in Roma per adempire il voto fatto per la salute sua e, preso maestro Andrea per pedagogo, gli fa credere che non è possibile a mettersi per cardinale con il papa se prima non si diventa cortigiano; e facilmente gli fa credere ch'un Gioan Manente da Reggio si fece cortigiano ne le forme, e con questa solenne sciocchezza mena questo ineffabile castrone a la stufa, dove gli dice esser le forme che fanno i più bei cortigiani del mondo. E così, di pecora diventando un bue, pone il sigillo a tutte le savie e salate parole di quel pazzo di maestro Andrea, e – si non ch'in Corte si veggono tutto il dì miracoli assai maggiori – non crede[res]te mai ch'un omo si conducessi a tanta castroneria. E mi pare molto maggior cosa [de] il testamento che fece lo Elefante et era sì gran bestiaccia; così a sentire ragionare maestro Pasquino che è di marmo; e faretevi anco fare le stìmate avere visto un Accursio e un erapica comandare al mondo, che uno era stato fattore di Caradosso orefice, e l'altro canattiero. Or lasciamo ire le filosofie morale. Omero fu litigato da sette cittade, e ognuna per suo l'ha sempre voluto. A messer Maco interviene peggio, ché da più di trenta paesi è refiutato; no 'l vuol niuno per amico né per parente. Milano lo renunzia per minchione, Mantoa per babione, Venezia per coglione, e sin a Matelica. Ma, per tagliare le lite, la causa è messa in ruota, e per grazia de li auditori arà fin presto, come le altre cose. Sì che per oggi il faremo da Siena, domani chi 'l vuole se 'l pigli.
Et anche piaceravi, credo, vedere inamorato Parabolano da Napoli, uno altro Accursio, in Corte più per i capricci della fortuna che per sua meriti, il qual tormentandosi per Laura, moglie di messer Luzio Romano, e non volendo questo amor scoprire, un suo famiglio ribaldo sentì che 'l padrone di lei si lamentava sognando e, avendo per tal mezzo questo secreto, gli fa credere che Laura di lui sia inamorata e per via de una ruffiana conclude il parentado, e il magnifico, goffo al possibile, si ritrova con una fornaia più sucida che la manigoldarìa. E mentre che saranno in essere queste cose, e che vederete rappresentare qualche particella dei costumi cortigiani di donne et òmini, e che vederete doe comedie in una medesima scena nascere e morire, non vi spaventate, perché monna Comedia Cortigiana, per essere ella più contrafatta che la Chimera, più spiacevole che 'l fastidio, più costumata che l'onestà, più suave che l'armonia, più gioconda che la letizia, più iraconda che la còlera, più faceta che la buffonarìa, è, nel dir il vero, molto più temeraria che la prosompzione. E se più di sei volte messer Maco o altri uscissi in scena, non vi corrucciate, perché Roma è libera e le catene che tengono i molini sul fiume non terrebbono questi pazzi stregoni..., volsi dire 'istrioni'. Così abbiate pazienzia si alcun parla fuor di comedia, perché se vive a una altra foggia qui che [a] Atene non si faceva; dipoi colui che ha fatto la novella è omo di suo capo, né lo riformarìa il Vescovo di Chieti.
ISTR. PROL. E 'nfine tu sei omo che ti governi con le bigonce – disse messer Zanozzo Pandolfini – e per mia fe' che sei un buon maestro da fare argomenti et è stato molto solutivo. Or tiriamoci da parte e ascoltiamo come messer Maco si porta a diventare cortigiano! Eccolo ah, ah, ah! Oh, che pecora, ah, ah, eh, oh!



ATTO PRIMO DE LA CORTIGIANA

Scena prima
Messer Maco, padrone, el Sanese suo famiglio

MESS. MACO Per certo che Roma è capus mundi e se io non ce veniva...
SANESE Il pan muffava.
MESS. MACO Cacava io dico, ché mai l'arei creduto che la fussi bella a millanta miglia come è bella Siena.
SANESE O non ve dicevo io che Roma era un poco più bella e più grande che Siena, e voi diciavate non! E a Siena c'è lo tudio, c'è' Dottori, fonte Branda, fonte Beccia, la piazza, la guardia, si fa la caccia del toro, e' carri, con ceri e pimpinelli e mille gentilezze per mezzo agosto a Siena ci si fanno e' marzapani, e' bericuocoli a centinaia, e ci vuol ben l'imperadore e tutto il mondo, fòr che i fiorentini.
MESS. MACO Tu mi dicevi el vero, mi dicevi! A Siena non ci sono sì ben vestiti gli òmini a cavallo, con il famiglio. Oh, che magnificenzia!
SANESE State cheto, uno picchio favella.
MESS. MACO Papagallo volesti dire, che ti venga il grosso.
SANESE Io dico picchio e non papagallo.
MESS. MACO E io dico papagallo, e non picchio.
SANESE Padrone, voi siate una bestia, perdonatime, ché gli è un de quelli che vostro avolo comperò tre lire e mandòlo a Corsignano, e non fu esso, così disse il Morgante.
MESS. MACO Il Morgante, Sanese, ci voleva male, e io n'ho monstro all'orefice ottonaio una penna, e dice ch'ella è di papagallo, e ben fine.
SANESE Padrone, voi non cognoscete li ucelli.
MESS. MACO Al tuo dispetto li cognosco.
SANESE Non vi adirate!
MESS. MACO Mi voglio adirare, mi voglio, e voglio essere obedito, stimato e creduto.
SANESE Io vi estimo più ch'un ducato, v'obedisco da servitore e credo come a messer Maco.
MESS. MACO Io ti perdono, e basta.


Scena seconda
Maestro Andrea, Messer Maco, Sanese.

M. ANDREA Cercate voi padrone?
MESS. MACO Messer sì.
SANESE Ha nome messer Maco de Coe.
M. ANDREA A proposito! Io vi domando se voi volete stare a padrone.
SANESE La notte di Beffana fece ventidue anni.
M. ANDREA Lassa parlare a lui, manigoldo.
MESS. MACO Lasciami favellare, tu sei un tristo e parli inanzi a me.
M. ANDREA Che sete voi venuti a fare a Roma?
SANESE Per vedere il Verbum caro e il Giubileo.
MESS. MACO Tu ti menti per la gola, ch'io ci son venuto per acconciarmi per papa con qualche imperadore o re di Francia.
SANESE Voi volesti dire per cardinale con qualche papa.
MESS. MACO Tu dici il vero, il mio Sanese!
M. ANDREA Voi non potete essere cardinale si prima non diventate cortigiano io son maestro di farli, e per amor del paese son per farvi ogni apiacere.
MESS. MACO Ago vobis gratis.
SANESE Non vi dico io che gli è dottore?
M. ANDREA E anche lo esser dotto vi farà onore, massime con li bergamaschi; ma dove alloggiate voi?
MESS. MACO A Roma.
M. ANDREA Sta molto ben; in qual loco, dico io?
SANESE Per una via lunga lunga...
M. ANDREA Tu fai onore a[l] tuo padrone.
MESS. MACO pettate, ch'io l'ho in su la punta della lingua il suo nome Botto..., cotto..., Arlotto..., carabotto..., il Biliotto..., Ceccotto; Ceccotto, ah, colui che ci ha alloggiati; uno omo molto savio e favorito de l'imperatore.
M. ANDREA Per Dio, ch'io ho caro d'avervi cognosciuto, e per amor vostro adesso vado per il libro che insegna fare e' cortigiani; e con questo libro si fece uomo, essendo bestia, el Cardinale de Baccano e Monsignore della torta e l'Arcivescovo delle Tre Capanne.
MESS. MACO Andate, di grazia!
M. ANDREA Adesso adesso ritorno, e trovaròvi in casa Ceccotto.
SANESE Come aveti voi nome?
M. ANDREA Andrea, al piacere della Signoria Vostra.
MESS. MACO De chi?
M. ANDREA Senatus PopulusQue Romanus! Io vado.


Scena terza Messer
Maco e Sanese

MESS. MACO Bonum est nomen Magister Andreas.
SANESE Or così gitevi digrossando con le profezie.
MESS. MACO Che dici tu?
SANESE Dite la Signoria Vostra. Non sentisti voi Maestro Andrea che disse la Signoria Vostra?
MESS. MACO Mi raccomando alla Signoria Vostra.
SANESE Bene; mandate su la veste!
MESS. MACO Così, la Signoria Vostra?
SANESE Messer sì; acconciate la beretta così, andate largo di qua, di là; ben, benissimo.
MESS. MACO Farò io onore al paese?
SANESE Diavolo, eh!


Scena quarta
Furfante che vende le Istorie

Alle belle Istorie! La pace tra il Cristianissimo e l'Imperatore! La presa del re ! La riforma de la Corte, composta per il Vescovo di Chieti! I Capriccide fra Mariano in ottava rima! Egloghe del Trasinio! La vita dell'abbate de Gaeta! Alle belle Istorie; alle belle Istorie! La Caretta; Il Cortigiano falito! Istorie, Istorie!


Scena quinta
Messer Maco, Sanese

MESS. MACO Corre, Sanese, e compera la legenda e l'orazione ch'insegna a diventare cortigiano. Corre, corre!
SANESE Olà! Olà! Vendemi el libro per fare cortigiano messere!


Scena sesta
Messer Maco, solo

Come è bella quella donna che sta lassù in quella fenestra, sul tappeto, vestita di seta per certo che la debbe essere moglie di qualche re di Milano o duca di Francia. A la fe', ch'io mi sento inamorare. Oh, che bella via, forse che ci si vede un sasso?


Scena settima
Sanese, solo

Doi baiocchi, o balocchi che i quattrini abbin nome a Roma, m'ha costo questa leggenda; e bon per il mio padrone ch'è mezzo dottore, ché mai mai mai intenderebbe il favellare di questa terra; ma s'io sapessi leggere bene, mi farei, con questa orazione, cortigiano inanzi al mio Messer Maco de Coe, da Siena "O Màdrama non vuole o Lorenzina...; le s...t...a...r... starne, e... ne... starne...". Starne, dice che non può dire né gallo né gallina, ma starne dice! "E vado mendicando uno s...p...e...; spe...d...a; d...a... speda, spedale...". Non può dire palazzo, e infin'è questo 'spedale' senza compitarlo, e dice così Le starne odiava e or bramo una radice E vado mendicando uno spedale.
Cazzica! A Roma si mangia le radice e poi si va a l'ospitale! Egli era pur meglio a stare per senese a Siena che per cortigiano a Roma!
Ma dove è ito messer? – O messer Maco? Maco, messer? Padrone?– Ohimè ch'e' ladri me 'l furarano. O ladri, io vi farò impiccare dal senatore. O òmini con la beretta da uomo, dove è il mio messere, dico?
A punto; niuno mi risponde. Sarà meglio farlo bandire e andare de qua.


Scena ottava
Messer Maco, solo

Io ho bello che perduto il famiglio e io a pena mi son ritrovato, e sarà meglio ch'io impari a caminare e poi uscire fuora. Ma questa è la porta? No, questa altra..., anzi pur questa! Ma come farò io senza il Sanese?


Scena nona
Il Cappa, il Rosso, famigli di Parabolano

ROSSO Il nostro padrone è il più magnifico gaglioffo, el più venerabile manigoldo e 'l maggior sciagurato che sia al mondo, e non è però tre anni che egli trottava alla staffa sì ben come noi facciamo seco.
CAPPA Io l'ho visto camariero d'una mula, e or non si degna toccar l'oro macinato con guanti, e si Domenedio lo servissi no 'l contentarebbe mai. E' fa una galantaria con servitori e' piglia famigli a provarsi un mese l'un l'altro. In capo al mese il povero uomo s'ingegna servire el meglio che sa per rimanere seco et egli gli dice "Tu non fai per me, perch'io ho bisogno d'un più da straziare se io ti posso fare piacer niuno, parla, ma tu non sei per me".
ROSSO Io so ciò che vuoi dire; a punto egli, con queste ribaldarie, è molto ben servito e non paga salario.
CAPPA È pur gran compassion quella d'un suo camariero che mette più tempo in spogliarlo o vestirlo che non fa un giubileo con l'altro, e crepo di stizza quando il furfante si fa portare la carta da forbirsi il culo in un piatto d'argento, e prima si fa fare la credenza al servitore, ch'ei sia amazzato!
ROSSO E a la Messa il paggio tiene e' sua paternostri, e quando n'ha detto uno, il paggio manda giù un paternostro e fa la reverenzia a la spagnola; così nel tôrre l'acqua santa il sopra detto ragazzo si bacia prima il dito; poi lo intinge ne l'acqua benedetta e al padron la presenta; il goffo ribaldo gli porge el dito e con gran cerimonia si fa el segno de la croce in fronte.
CAPPA O Cristo, io ne disgrazio il priore di Capua.
ROSSO Il grattar de' piedi e pettinare di barba, e 'l lavarsi le mani, e 'l montare a cavallo non [usa] senza il maestro delle cerimonie.
CAPPA Vogliamo noi, una notte, dargli d'una accetta sul capo, al boia?
ROSSO Non già che no 'l meritassi, pur staremo a vedere qualche dì s'egli muta con noi verso; quando che no, qualche cosa serà.


Scena decima
Flaminio scudiero e Valerio camariero

VALERIO Hai sentito, per tua fe'?
FLAMINIO Ah, briachi, gaglioffi, ladroni, traditori! A que sta foggia si parla del padrone, ah?


Scena undicesima
Rosso e Valerio

ROSSO Valerio, io t'ho pur fatto saltare! Ben sapevo io, e il Cappa, che tu e Flaminio ci stavate a scoltare, e per burla sparlavamo insieme del nostro padrone; ma chi non sa ch'egli è un uom da ben e una gentil creatura?
VALERIO Anche hai ardire d'aprir bocca, disonor del vituperio? E tu, Cappa, se non ch'io non voglio fare tanto danno a le forche, adesso adesso ti cavarìa il cuore. Brutti ghiottoni, andate al bordello, ché per Dio, per Dio me vien voglia de...
ROSSO Tempera la còlera, di grazia!


Scena dodicesima
Flaminio e Valerio

FLAMINIO Per mia fe', che questi signori non meritano altri servitori che de la sorte del Rosso e il Cappa, e quasi più giova de essere un simile che virtuoso. Quante volte m'ha ditto el padrone che 'l Rosso ha buona creanza e che gli è fedele e costumato!
VALERIO L'è un bugiardo, inbriaco, maldicente, ghiotto, ladro e simulatore! È ben creato el Rosso, e divino, o che cosa? E perciò le signorie de' Signori dicono avere buona creanza colui che sa trinciare un fagiano, fare bene un letto o una reverenzia mentre che è dato loro bere; e piuttosto uno di questo Rossi doventa grande in Corte, che quanti interpetri ebbero mai le littere greche e latine. E più superbo è un tale che per portare imbasciate è grato al padrone che non è umile la pazienzia! Oh, oh, oh, oh!
FLAMINIO Gli è forse un'ora ch'io senti' ch'un altro padrone biasimava Julio con dire che gli è plebeo e che 'l Signor Parabolano faceva gran male a dare tanto credito a un villano, essaltando la sua nobile e antichissima genologia.
VALERIO Flaminio, fratello, bisogna altro al dì d'oggi che dire "De la mia casa fu monsignore tale e messer cotale!" Bisogna essere uomo da bene per le sue e non per le opere de' suoi. E se la nobiltà del sangue avessi a fare onorare gl'òmini che per loro stessi meritano niente, el re di Cipri, e 'l principe de Fiossa non sarebbono così male aviati, e anche il Signor Constantino riarìa il principato de Macedonia, né si degnerebbe del governo di Fano.
FLAMINIO Veramente giova[n] poco le croniche, gli epitaffi e i privillegi del benemerito de li antichi, né mai Rafaele giudeo vole prestare doi baiocchi alle memorie della nobiltà, e in Roma tanto se estima quanto fa el Romanello se 'l Messia vien più oggi che crai.
VALERIO Questo è chiaro e védesi che sino a la Fortuna si fa beffe del sangue greco e troiano, e il più de le volte cardinali e papi sono de la stirpe de ser Adriano.


Scena tredicesima
Parabolano e Valerio suo camariero

PARABOLANO Valerio!
VALERIO Signor? – A Dio, Flaminio!
PARABOLANO Chiama il Rosso!
VALERIO Fate carezze al Rosso, che poco fa ha detto cose di voi che no 'l punirebbono i tormenti che castigono le colpe!
PARABOLANO Per mia fe' che gl'importa assai! O non sai tu che per il biasmo d'un tal non si scema e per le lode non si cresce?
VALERIO Lo so benissimo, ma basta che i suoi pari sono gl'idoli vostri. Ma eccolo, e con che fronte!
PARABOLANO Va', rassetta la camera e tu, Rosso, vien meco.


Scena quattordicesima
Parabolano e Rosso

PARABOLANO Dove se' tu stato?
ROSSO A la taverna, salvando l'onore de la Signoria Vostra, et ho veduto quella buona robba d'Angela Greca.
PARABOLANO Che faceva ella?
ROSSO Parlava con don Cerimonia spagnolo, e dicevano de andare a cena a non so che vigna; et io feci come la gatta de Masino.
PARABOLANO Come faceva la gatta di Masino?
ROSSO Chiudeva gli occhi per non pigliare i topi.
PARABOLANO Tal mi cocessi altra fiamma, ch'io viverei senza noia.
ROSSO Infine gli è un peccato a fare piacere a un gran maestro, perché gli vien a noia ogni cosa.
PARABOLANO Oimè, che colei ch'io adoro non mi verrà mai in fastidio, tanto m'è avara d'un sguardo.
ROSSO Non vi dissi io che 'l cibo vi sazia troppo tosto?
PARABOLANO Or taci ascoltami.
ROSSO Or dite, ch'io intenda!
PARABOLANO Sai tu la casa di Messer Ceccotto?
ROSSO Di quel pazzo? Signor sì.
PARABOLANO Pazzo o savio, andarai ivi e presenterai messer Maco sanese, perché mio padre ebbe gran servigi dal suo mentre studiò in Siena, ma non so che mandargli.
ROSSO Mandategli quattro tartarughe.
PARABOLANO Son presenti da miei pari tartarughe, bestia?
ROSSO Mandategli doi gattucci soriani!
PARABOLANO Son buoni a mangiare i gatti, furfante?
ROSSO e voi li mandate dieci carciofi, vi serà schiavo.
PARABOLANO La peste che t'occida; dove sono ora i carciofi, pecora?
ROSSO Donatili doi fiaschi di Mangiaguerra; oh, il Riccio de la Lepre l'ha perfetto.
PARABOLANO Fai conto che debba essere un imbriaco come te, bufolaccio?Or non mi rompere la testa, va', e con questi dieci scudi compera de le lamprede, e dilli che le mangi per amor mio, ancor che gli sia piccolo presente; e sappi dire quattro parole.
ROSSO Ne saperò dire più d'ottanta millia non che quattro; et è un peccato ch'io non sia mandato per imbasciatore a qualche ofì, ch'almeno io mi farìa onore. Io gli direi 'Magnificenzia, Reverenzia, acra Maestà, Padre Santo, Cristianissimo, Illustrissimo, Reverendissimo, in Cristo patri, Paternità, Omnipotenzia, Viro, Domino, e tutto il mondo'; e farìa un inchino così, l'altro così, inchinarei la testa e ogni cosa.
PARABOLANO Deh, spàcciati, matto spacciato, ma porta prima questa vesta a Valerio, e io entrarò nella stalla a vedere quei turchi che mi son stati mandati a donare dal conte di Verucchio.


Scena quindicesima
Rosso, solo

Io vo' provare come sto bene con la seta. Oh, che pagarei io un specchio per vedere campeggiarmi in questa galantaria; e infine e' panni rifanno sino alle stanghe Oh, si questi gran maestri andassino mal vestiti, quanti ce ne sono che parrebbono scimie e babuini. Ma io sono il bel pazzo a non fare un leva eius, denari e veste! S'io stessi mille anni con questo furfante di Parabolano non son mai per vedere un ducato; dipoi ognuno mi benediria le mani, s'io rubbo un di questi padroni ladroni che ci furano l'anima e il corpo. Ma sarà bene giuntare questo pescatore col mio padron gaglioffo mi accaderà più ingrosso, e voglio usare l'arte che già usò un altro mio pari, che finse d'essere spenditore e menò un che vendeva el pesce a un frate che confessava. La favola si sa per tutto.


Scena sedicesima
Rosso e pescatore

ROSSO Quante n'hai, senza queste?
pescatore Nissuna, perché or or l'ha compero l'altre lo spenditore de frate Mariano.
ROSSO Ben, da qui inanzi tieni a mia stanza tutte quelle che tu pigli, e io son per servirmi da te, ch'hai cera de bon compagno.
PESCATORE SIGNOR, Vostra Signoria, non pensi, ch'in fatti, tant'è. Io vi son servitore!
ROSSO Sta molto ben. Che vòi tu di queste?
PESCATORE Otto scudi. Più o meno, quel che piace alla Signoria Vostra. In dono; non guardi ch'io sia povero omo, perché io ho il cuor generoso.
ROSSO Sei sono el debito e trapàgate con questo prezzo.
PESCATORE Ciò che piace a la Signoria Vostra.
ROSSO Ma guarda per tua fe' quanto stanno i miei servitori a venire con la mula. O furfanti, magnapagnotte, io vi manderò a ponte isto.
PESCATORE Vostra Signoria non si scrucci perché le porterò io!
ROSSO De grazia; ma io dissi che togliessero la mula e loro aranno inteso il giannetto, il qual è focoso, e stassi un pezzo a metterli la sella.
PESCATORE Per mia fe' che non può essere altro!
ROSSO Andiamo, ché l'incontraremo per la via. Ma come tu hai nome?
PESCATORE Il Faccenda, fiorentino, da Porta Pinti, abitante a San Pietro Gattolini, et ho due sorelle al Borgo a la Noce, al piacere de la Signoria Vostra.
ROSSO Fara'ti tagliare un par de calze a la mia divisa.
PESCATORE Mi basta la grazia della Signoria Vostra, non pensate altro.
ROSSO e' tu colonnese o ursino?
PESCATORE Tengo da chi vince, infatti.
ROSSO aviamente. Pur fa' che la dritta sia spezzata e l'altra tutta d'un colore.
PESCATORE Come piace a la Signoria Vostra così farò!
ROSSO Farai dipingere la mia arme dove tu vendi el pesce.
PESCATORE Che arme è la vostra?
ROSSO Una scala d'oro in campo azzurro. Ma ventura ce viene. Io ho certi ducati scarsi, male al proposito el magistro di casa ch'è là su l'uscio di San Pietro ti pagherà.
PESCATORE A tempo, come el buon dì.
ROSSO Aspettami qui, ch'adesso torno.


Scena diciassettesima
Rosso e Sagrestano

ROSSO Padre, quel sciagurato che è quivi ha la sua moglie spiritata ne la ostaria de la Luna, e fa cose indiavolate onde supplico vostra paternità voglia metterla a la colonna e col nome de Dio cavarli questa maledizione da dosso perché ha forse dieci spiriti in corpo che parlano d'ogni linguaggio, e anche il povero uomo è mezzo aduggiato.


Scena diciottesima
Sagrestano, Rosso e Pescatore

SAGRESTANO Verrà qua. Come ho ditto vinte parole a questo amico mio, farò el debito d'una buona voglia.
PESCATORE Io vi ringrazio, padre.
ROSSO Non dubitare; da' qua le lamprede e piglia questi quattro giuli e dagli per caparra al calzettaio.
PESCATORE Voi fate troppo, la Signoria Vostra; ma qual calza va spezzata?
ROSSO Qual tu vuoi.
PESCATORE Basta; ma questo maggiordomo è più longo che un dì senza pane. Abrevia, cancar ti venga; ma cicala, pur che tu mi paghi el tempo a peso di zafferano.
Io arei dato per quattro scudi quello che tu paghi otto! Oh, che accorti spenditori, oh che maestri de casa!


Scena diciannovesima
Sagrestano e Pescatore

SAGRESTANO Tu non odi, an?
PESCATORE Eccomi servitore de la Signoria Vostra, infatti.
SAGRESTANO Non dubitare ch'io ti vo' contentare.
PESCATORE Se Vostra Signoria mi farà ben niuno, sarà una limosina perch'i' ho quattro bambolini che non peson l'un l'altro
SAGRESTANO Quanto è che gl'introrno?
PESCATORE Quattro.
SAGRESTANO Di giorno o di notte?
PESCATORE Tra oggi e stanotte.
SAGRESTANO Come è il suo nome?
PESCATORE No 'l sapete voi?Lamprede.
SAGRESTANO A punto! Io ti domando come la tua moglie si chiama e quanti spiriti l'ha a dosso.
PESCATORE Voi aveti el bel tempo, Iddio ve 'l mantenga; ma se voi avessi a pensare al pan, vi uscirebbono di capo i grilli.
SAGRESTANO Tuo padre ti dovette lasciare la sua maladizione.
PESCATORE Mio padre mi lasciò maladizione troppo a lasciarmi povero.
SAGRESTANO Fagli dire le messe di San Gregorio.
PESCATORE Gli farò dire. Spresso ch'io non dissi. Che diavolo ha da fare le messe de San Gregorio con le lamprede? Maestro di casa, io voglio essere pagato, altrimenti mi basta l'animo di parlare sino al Papa.
SAGRESTANO Pigliàtelo, preti! Sta' saldo. – Qui habitat.
– Fatti el segno di la croce!
PESCATORE O Cristo! Lasciatemi, pretacci!
SAGRESTANO Tu mordi!Demonio, io ti scongiuro!
PESCATORE Con pugni, schiericati!
SAGRESTANO Tiratelo in chiesa; a l'acqua santa!
PESCATORE Ah, che siate amazzati! piritato io? Io spiritato?
SAGRESTANO Tu n'uscirai senza fare male. In aiutorio Altissimi! Dove entrarai? Rispondi.
PESCATORE In cul, v'entrerò, in culo! Dissi Ercule!


Scena ventesima
Cappa e Rosso

CAPPA Tu sei molto alegro, Rosso; tu vai ridendo da te stesso che vuol dire?
ROSSO Io mi rido d'una giuntaria ch'è stata fatta, tanto destra che non se ne sarebbe accorto il maestro de le bagatelle, e te la conterò più per agio. Io voglio portare questa vesta al padrone, e poi farem un presente di queste lamprede a un gintilomo; e tu ritròvati a la Lepre.
CAPPA Torna presto!
ROSSO Adesso adesso!


Scena ventunesima
Pescatore, Cappa

PESCATORE Roma doma!Oh, credi, ch'è 'l Paradiso, naccheri!
CAPPA Che cosa c'è, Faccenda?
PESCATORE Oh, che ladronerie si fanno per Roma! E a chi? A un fiorentino! O pensa quello che se farìa a un senese! Forse che tutto dì non vanno bandi che non si porti armi?
CAPPA Non si può dire questa sciagura?
PESCATORE Te dirò io sono stato giuntato di certe lamprede a un modo, per una via, ch'io mi vergogno a dirlo, e poi come un spiritato sono stato messo a la colonna. ' pegni la lampa..., non fare male a persona.' Et ho avuto tanti pugni, e tutto el capo mi hanno pelato; preti becchi, sodomiti, ladroni! Al corpo, al sangue, che s'io giungo quel ghiotton del sagrestano gli mangerò il naso, gli pesterò gli occhi e caverògli la lingua. Che maledetta sia Roma, la Corte, la Chiesa e chi ci sta e chi li crede!
CAPPA Per Dio, che l'è una gran truffarìa e quasi quasi men pare avere, e s'io posso niente, comandami.
PESCATORE Ti ringrazio. Io voglio irmi con Dio di questa Roma porca, e forse forse ch'un dì, se io trovo un di qua in Firenze..., basta, basta!


Scena ventiduesima
Parabolano e Valerio

PARABOLANO Quanto odii comincio avere con la vita!
VALERIO L'odio con la vita abiam noi, poveri servitori.
PARABOLANO Tu non senti quello che mi duole.
VALERIO E' vi nuoce el più de le volte il troppo bene, e mi dispero quando un vostro pari si lagna. O pensate ciò che doverìa fare un simile a me, che vivo del pan d'altri. E un inciampare in una paglia ci fa rompere il collo.
PARABOLANO Non t'odo.
VALERIO e voi avessi nella bilancia de la pretesca discrezione la speranza, come hanno cotanti che servono, voi intenderesti.
PARABOLANO O Fortuna invidiosa!
VALERIO La fortuna sète voi, voi Signori sète la fortuna, che da le stalle e da le staffe su levate il vizio e la ignoranzia, et alle stalle e alle staffe ponete la virtù.
PARABOLANO Io mi consumo!
VALERIO Che voresti voi?
PARABOLANO Il premio de le mie fatiche.
VALERIO Da chi desiderati voi questo premio?
PARABOLANO Dove son io? Almen n'avess'io lettere o ambasciata!
VALERIO Dove s'hanno a dirizzare queste lettere?
PARABOLANO Dove io sono.
VALERIO Voi l'arete tardi.
PARABOLANO Perché?
VALERIO Perché non sète né qui né altrove, pare a me.
PARABOLANO Aiutami!
VALERIO Ma non vi aiuterò, se non me aprite il vostro secreto.
PARABOLANO Quanti amari veneni ascondeno i preziosi vasi. Entriamo in casa.


Scena ventitreesima
Maestro Andrea, solo

Io ho voluto dare padrone a quel sanese e poi mi sono acconcio seco per pedante; questa è pur bella! Or dico io, che son dotto, diàngli pur dentro, acciò che agosto lo trovi bello e legato. Ma, quando accadessi, non solamente a lui, ma a mio padre l'accoccarei, e parmi un gran mercè a pagare i cavagli a un che voglia mandar e' cervelli per le poste. E mi penso che non si possa fare la maggior limosina al mondo quanto fare impazzire uno, fosse che gli doni officio o beneficio, anzi non è sì tosto scappato il cervello, che subito el capo è rompito di signorie, di grandeze, di trionfi, di giardini ch'hanno i fiori a ogni luna come il rosmarino; e questi tali gongolano quando gli credi, gl'essalti e ogni loro detto gli confermi.
E per Dio, ch'un simile non cambiaria il suo stato con quello che ha dato l'imperatore a Ceccotto. Ma io veggio el mio scolare pincolone fermo su la porta come un termine. A fe', che come trovo il maestro de le cerimonie lo voglio far porre sul catalogo de' pazzi, acciò che di lui si facci solenne commemorazione a laude e gloria de la reverenda e imperialissima Siena.


Scena ventiquattresima
Messer Maco e Maestro Andrea

M. ANDREA Ben sia trovata la Signoria Vostra.
MESS. MACO Buona sera e buon anno. Io credeva aver perduto voi come el mio famiglio.
M. ANDREA Gli è meglio perdermi che smarirme. Or ecco el libro; andiamo dentro ch'io vi legerò una lezioncina dolce dolce per la prima volta.
MESS. MACO Deh, maestro, fatemi questa grazia; 'nsegnatemi qualche cortigianeria ora.
M. ANDREA Voluntieri. Aprite gli occhi ben ben perché le prime e principal cose a essere buon cortigiano son queste saper biastemare et essere eretico.
MESS. MACO Cotesto non voglio io fare perché andarei in l'inferno e mal per me.
M. ANDREA Come in l'inferno? Non sapeti voi ch'a Roma non è peccato a rompersi il collo nella Quaresima?
MESS. MACO Signor sì.
M. ANDREA Messer no; e sapiate che tutti quelli che vengono a Roma, subito che sono in Corte, per parere d'essere pratichi, non andarebbeno mai a Messa per tutto l'oro del mondo e poi non parlarebbono mai, che la Vergine e la agrata non gli fussi in bocca.
MESS. MACO Adonque io biastemerò 'la potta da Modena!', n'è vero?
M. ANDREA Signor sì.
MESS. MACO Ma come se doventa eretico? Questo è il caso.
M. ANDREA Quando un vi dicessi 'Gli struzzi son camelli', dite 'Io no 'l credo'.
MESS. MACO Io no 'l credo.
M. ANDREA E chi vi dessi ad intendere che i preti abbino una discrezione al mondo, fativene beffe.
MESS. MACO Io me ne fo beffe.
M. ANDREA E se alcun vi dicessi ch'a Roma c'è conscienzia niuna, ridètivene.
MESS. MACO Ah, ah, ah!
M. ANDREA Insomma, se voi sentite mai dire bene de la Corte di Roma, dite a colui che non dice el vero.
MESS. MACO Non sarà meglio a dire 'Voi mentite per la gola'?
M. ANDREA Madesì, serà più facile e più breve. Or questo basti quanto alla prima parte. Vi insignerò poi el Barco, la Botte di termine, il Coliseo, gli archi, Testaccio e mille belle cose che un cieco pagarìa un occhio per vederle.
MESS. MACO Che cosa è il Coliseo? Ègli dolce o agro?
M. ANDREA La più dolce cosa di Roma e più stimata da ognuno, perché è antico.
MESS. MACO Gli archi gli cognosco per cronica e gli ho veduti per lettera su la Bibbia, così l'anticaglie. Ma le debbono essere tutte grotte, l'anticaglie?
M. ANDREA Qual sì e qual no. E come sapete queste cose, pigliarete pratica con Magistro Pasquino. Ma vi sarà gran fatica a imparare la natura di MaestroPasquino, il qual ha una lingua che taglia.
MESS. MACO Che arte fa egli, questo Maestro Pasquino?
M. ANDREA Poeta di porco in la ribecca.
MESS. MACO Come, poeta? Io gli so tutti a mente i poeti, e anch'io son poeta!
M. ANDREA Certo?
MESS. MACO Chiaro! Ascoltate questo epigramma ch'io ho fatto in mia laude.
M. ANDREA Dite.
MESS. MACO Si deus est animas prima cupientibus artem
Silvestrem tenui noli gaudere malorum
Hanc tua Penelope nimium ne crede colori
Titire tu patule numerum sine viribus uxor.
M. ANDREA O che stile! Misericordia!
MESS. MACO Mortem repentina pleno semel orbe cohissent
Tres sumus in bello, vaccinia nigra leguntur
O formose puer, musam meditaris avena
Dic mihi Dameta recumbens sub tegmine fagi.
M. ANDREA O che vena da pazzo!
MESS. MACO Son io dotto, maestro?
M. ANDREA Più che l'usura, che insegna a leggere ai pegni. Or be', io son ricco se voi me date de queste musiche. Le farò stampare da Ludovico Vicintino e da Lautizio da Perugia, e eccomi un re. Ma da che avete perduto el paggio, bisogna trovarne un altro perché voglio che voi v'inamorate.
MESS. MACO Io son inamorato d'una signora e son ricco, e ciò che voi vorrete farò.
M. ANDREA Poiché sète ricco torrete casa, farete veste, comprarete cavalcature, faremo banchetti a vigne, in maschera. Ite pur, magnifico messer mio. Ah, ah, ah, ah!



ATTO SECONDO DE LA CORTIGIANA

Scena prima
Rosso e il Cappa

ROSSO Chi non è stato a la taverna non sa che paradiso si sia. O taverna gintile, forse che fai una reputazione al mondo?Anzi obedisci ognuno da signor, e che inchini t'è fatto intorno! Per mia fe', Cappa, che s'io avesse mai figlioli, farìa imparare i costumi e le virtù ne le taverne.
CAPPA Tu hai ingegno!
ROSSO Oh che musica galante fanno gli spiedoni quando son pien di tordi, salcicce o capponi! Oh, che odore ha la vitella mongana, barbacano o ambracano dentrovi!
CAPPA STA bene! e le taverne fussino a canto a' profumieri, a ognuno putirìa il zibetto.
ROSSO C'è qualche bue che fa dolce amore e 'l fare quella novella. Dolce è un buon pasto che se piglia senza sospiri o gelosia. Sai tu se quel Cesare che loda tanto il nostro padrone, avessi trionfato per mezzo una taverna ben in ordine d'ogni cosa? Per mia fe' che gli archi de marmo gli venivono a noia e' suoi soldati ci sarìano passati più voluntieri.
CAPPA Io el credo.
ROSSO Oh che magnificenzia, oh che allegrezza è vedere fumare gli arosti e' pesci d'ogni sorte! Oh che bel vedere fanno le tavole apparecchiate!Io per me, s'io fussi stato quel papa che fece Belvedere, arìa spesi i miei danari in una ostaria ch'almeno una volta il mese facessi un bel vedere d'altro che de logge o camere depinte.
CAPPA Rosso, queste lamprede son bocconi d'angeli; io, per me, ne ho invidia a chi esce da stregiare uno cavallo e fassi grande. Ma quando io veggio Brandino e 'l Moro de' Nobili che s'empiono il corpo di queste cose sante e divine, io crepo e vienmi l'anima ai denti per lo affanno.
ROSSO Sì che le son buone e conosciute! Ma se quel PESCATORE mi trova me le farà smaltire.
CAPPA A sua posta! Io non combattei mai a' mie die; ma per una di queste lamprede mi farìa ammazzare cento volte il dì. Ma Valerio mi domanda. A rivederci!


Scena seconda
Messer Maco, Maestro Andrea e Grillo, famiglio di Messer Maco

M. ANDREA Molto ben vi sta questa vesta; da paladino!
MESS. MACO Voi mi fate ridere, mi fate!
M. ANDREA Voi avete ben tenuto a mente quello ch'io vi ho insignato, n'è vero?
MESS. MACO So fare tutto el mondo!
M. ANDREA Fate el duca.
MESS. MACO Così..., così..., a questo modo; ohimè ch'io son caduto!
M. ANDREA Rizzatevi, castrone!
MESS. MACO Fatemi doi occhi al mantello, a la vesta, ch'io per me non so fare il duca al buio.
M. ANDREA Sì, sì; ma come se risponde ai signori?
MESS. MACO 'Bacio le mani'.
M. ANDREA A le signore?
MESS. MACO 'Questo cuore è il mio!'
M. ANDREA Ai bon compagni?
MESS. MACO 'Sì, a fe'.
M. ANDREA Ai prelati?
MESS. MACO 'Giuro a Dio'.
M. ANDREA Buono, savio. E al servitor come si comanda?
MESS. MACO 'Porta qua la mula, mena qua la vesta, che t'ammazzarò!'
GRILLO Maestro Andrea, fatemi dare buona licenzia, ch'io non voglio stare con questi bestialacci.
MESS. MACO Io fo per giambo, Grillo, e imparo a essere cortigiano, né ti farò male.
M. ANDREA Ora andiamo, ché impararete Borgo Vecchio, Corte avella, Torre di Nona, Ponte Sisto e Dietro Banchi.
MESS. MACO Porta la barba, Borgo vecchio?
M. ANDREA Ah, ah, ah!
MESS. MACO Torre de Nona suona anche vespero?
M. ANDREA E compieta, con i tratti de corda! Poi andaremo a Santo Pietro; vederete la Pina, la Nave, Campo Santo e la Guglia.
MESS. MACO In Campo anto possiamici ire con le scape?
M. ANDREA [Io] sì, voi altri no.
MESS. MACO Andiam, ch'io voglio mangiare quella pina, e costi ciò che la vuole.


Scena terza
Rosso, solo

Il mio padrone gaglioffo non crede ch'io sappia perch'egli sta fantastico, ancora ch'io abbia fatto vista non sapere la sua rabbia. Questa notte, andando io a procission per casa, come è mio costume, senti' ch'egli sognando era a le mani con madonna Laura, moglie de messer Luzio, e la chiamava per nome, la maneggiava come se fosse stato vero. Io ho questo secreto, il qual non ho scoperto a persona, e col mezzo de Aloigia specciala, la qual dirò che sia sua baiala, piglierò verso di far credere al signor mio ciò ch'io voglio. Io vado adesso a trovarla, e so ch'e'la corromperìa la castità. Farà ogni cosa per amor mio.


Scena quarta
Parabolano, solo

Questo vivere è peggio che morte. Quando io era in minor grado, tutto il giorno il stimulo del salire mi molestava e ora che quasi mi potrei chiamare contento sono assalito da sì pessima febre che niuna medicina mi può sanare, salvo che una che non si compera per oro né per grandezza, perché Amor la vende di sua mano e per prezzo ne vuole sangue, lagrime e morte de' suoi sugetti. Oh Amor, che non puoi tu fare! Molto è maggior la tua possanza che quella della fortuna ella comanda a gli òmini, e tu gli òmini e gli Dei sforzi. Ella volubile e instabile. E con queste armi feminili e con questo dolermi non acquisterò io chi più che la vita desìo; e voglio ire in camera e forse ch'Amore m'insegnerà a sciôrmi come insegnò [a] legarmi. E potria ancora per me stesso di questi tormenti uscire per industria [di] petra, di ferro, laccio e veneno.


Scena quinta
Flaminio e Sempronio, vecchio

SEMPRONIO Donque, tu mi consigli di metter Camillo mio figliolo al servizio de la Corte?
FLAMINIO Sì, se già il tuo figliolo odiassi da inimico.
SEMPRONIO Molto è intristita la Corte al tempo di voi altri cortigiani. Io mi ricordo che quando io stetti con Monsignore Reverendissimo che non era altro paradiso, e tutti eravamo ricchi, favoriti e fratelli.
FLAMINIO Voi vecchi ve ne andate dietro a le regole del tempo antico e noi siamo nel moderno, in nome del centopaia! Al tempo tuo a un servitore di papa Janni era dato letto, camera, legne, candele, cavalcatura, pagato la lavandara, il barbieri, il salario del garzon, e 'l vestito doe volte l'anno; e adesso un povero cortigiano a pena è accettato, [ha] a comprarsi l'acqua e il fuoco, e quando pure pure t'è fatto carezze, te si concede un mezzo famiglio. Or pensa come è possibile ch'un mezzo uomo basti a un intero! Quanto c'è di buono è che se tu t'ammali, ancor che fussi in lor servitù, ti si provede d'un spedale, e con mille prieghi.
SEMPRONIO O che fanno egli de tante entrate?
FLAMINIO A le puttane e ragazzi, o veramente moiono senza cavarsi mai la fame, e poi lasciano quindici o venti milia scudi e tali che non trarìano una coreggia per l'anima loro.
SEMPRONIO Gran pazzia, però.
FLAMINIO Almen trattassero ben la famiglia! Sai tu come fanno i ribaldoni?
EMPRONIO Non io.
FLAMINIO Gli hanno imparato a mangiar soli in camera e dicano che 'l fanno perché doi pasti il giorno gli amazza e che la sera fanno colazione leggieri leggieri e i miseroni lo fanno perché non si trattenghino i poveri virtuosi a la tavola loro.
SEMPRONIO Gran vergogna, per certo, e gran meccanecarìa.
FLAMINIO Non fu bella quella del Molfetta che, avendo speso el suo spenditore doi baiocchi più che 'l solito in una laccia, non la volse? Onde certi della famiglia, e così lo spenditore, messono tanto per uno e comperòrla e cotta per mangiarla insieme, el bon vescovo, sentito l'odore e corso in cocina, volse anch'egli pagare la rata sua per mangiarne, e i buon compagni non volsero.
SEMPRONIO Ah, ah; eh, eh; oh, oh; uh, uh!
FLAMINIO Una altra più bella. Io ho inteso in casa del Ponzetta, che fu un Monsignore Reverendissimo, che faceva mettere un ovo e mezzo per frittata e facevalo poi porre ne le forme dove pigliano le pieghe le berette. Avvene una mattina un caso strano, ch'un vento le portò sino a le scale de. Pietro come porta le fronde lo autunno, e cadevono in capo a le genti a guisa di diadema.
SEMPRONIO Ah, ah, ah!
FLAMINIO Odi questa altra. Voi avevate per maestri di casa gli uomini e noi le donne. Le matri de' nostri padroni ci dànno contumacia, assaggion vini, se c'è poca acqua, tengon le chiavi de le cantine, dànno a conto i bocconi tanti el dì de le feste e tanti i dì neri; e ci misurano sino a le minestre.
SEMPRONIO o che 'l mio figliolo starà in casa sua.
FLAMINIO Dipoi fatto un cortigiano, è fatto un invidioso, ambizioso, misero, ingrato, adulatore, maligno, iniusto, eretico, ipocrito, ladro, ghiotto, insolente e busardo; e se minor vizio che 'l tradimento si trovassi, direi che 'l tradimento è il minor peccato che ci sia.
SEMPRONIO Come, i ladri ancora sono in Corte?
FLAMINIO Ladri, sì! Il minor furto che si faccia è el robarsi dieci o venti anni a la vita e servitù tua, e non si attendere ad altro ch'aspettare che muoia questo o quello; e se per sorte avvenne che colui del quale hai impetrati [i] benefizii campi, tutti quei fastidi, tutte quelle febbre e dolori che ha avuto nel male quello per la morte del quale credevi esser ricco, tormentono te, sconsolato per la sanità sua. Cose crudeli a desiderare la morte a chi non ti offese mai!
SEMPRONIO Non m'aiuti Dio, se Camillo serve mai Corte.
FLAMINIO empronio, se tu ti consigli meco perché io dica a tuo modo è una, ma se tu vuoi ch'io dica el vero è un'altra.
SEMPRONIO Ti sono obligatissimo, Flaminio, e conosco che sei verace uomo e da ben. Io delibero non mandare il mio figliolo con niuno e ci riparleremo più per agio. Io voglio ire a pigliare i denari del mio offizio al banco de li trozzi.
FLAMINIO E io mi tornerò in Corte a consumarmi de dispiacere.


Scena sesta
Rosso e Aloigia roffiana

ROSSO Dove vai tu con tanta furia?
ALOIGIA Mo' qua e mo' là, tribulando.
ROSSO Che ti manca? Tu governi Roma!
ALOIGIA Gli è vero; ma la disgrazia de la mia maestra mi dà questa briga.
ROSSO Che ha, male?
ALOIGIA L'averà male, e el malanno è pro meriti si abrucia domattina. Part'egli onesto?
ROSSO Né giusto, né onesto come diavolo abrucia?Ha ella crucifisso Cristo?
ALOIGIA Non ha fatto nulla.
ROSSO Oh, àrdese la gente per non fare niente? Che cose son queste ladre e ribalde? Or credi a me, che Roma ha presto a ruinare!
ALOIGIA L'ha bevuto el figliolo de la sua comare, per troppo amore.
ROSSO E non altro?
ALOIGIA Ammaliò il suo compare, per compiacere a un amico.
ROSSO Questo è una galanteria!
ALOIGIA Diede el veleno al marito de la Georgina, perché gli era un tristo.
ROSSO El enatore non sa ricevere gli scherzi!
ALOIGIA Rosso mio, l'ha fatto un testamento da reina, e m'ha fatto erede de ciò che l'ha.
ROSSO Bon pro'! Che t'ha ella lasciato, se si può dire?
ALOIGIA Molte belle cose lambicchi da stillare, acqua da levare lentigini e macchie di mal francioso, strettoio da ritirare poppe che pendono, mollette da pelare ciglia, un fiasco de lacrime d'amanti, un bicchiere di sangue di nottola, ossa di morti per tormenti e per tradimento, unghie de gufi, cuori d'avoltori, denti di lupi, grasso d'orso e funi d'impiccato a torto. E poi il vicinato non se ragiona d'altro; dove, per sua grazia, son sempre la prima chiamata a nettare denti, a cavare la puzza del fiato e mille gintilezze.
ROSSO Riscòtila con digiuni, fagli dire le messe de San Gregoro, il paternostro de San Giuliano e qualche orazione, ché la merita.
ALOIGIA Credi tu ch'io no 'l facessi, se bisognassi?La poveretta!
ROSSO Per piangere non la riarai tu!
ALOIGIA Come che quando mi ricordo che sino a gli sbirri gli facevano di beretta, mi scoppia el cuore; e non è però un mese che all'ostaria del Pavone e' la bevette forse di sei ragioni vini, sempre al boccale, senza una reputazione al mondo. Non fu mai la meglior compagna, né mai fu donna vecchia di sì gran pasto e di così poca fatica.
ROSSO Però la morte la vuole per sé.
ALOIGIA Al beccaio, al pizzicagnolo, al mercato, a la fiera, al fiume, al forno, a la stufa, al barbiero, a la gabella, a la taverna, con sbirri, cuochi, messi, preti, frati e fra' soldati, sempre sempre toccava a favellare a lei, e era una alamona tenuta.
ROSSO Abrucia, impicca, e non ci campa più né un uomo né una donna da bene!
ALOIGIA Come una draga e una paladina andava a cavare gli occhi agl'impiccati, per cimiteri, de notte, a cavare l'unghie a' morti per fare certe medecine per el mal del fianco. Si trasformava in gatta, in topo, in cane e andava sopra acqua e sopra vento a la noce de Benevento.
ROSSO Come ha ella nome?
ALOIGIA Madonna Maggiorina, con reverenzia parlando. Non ti segnare, ché gli è ciò che tu odi.
ROSSO A questo modo si fa ragione a Roma? Oh, oh, oh, oh, la mi rincresce pure.
ALOIGIA Però tu sei uomo diritto, perciò te rincresce!
ROSSO e fussi mezzo agosto, la farìa chiedere da' rioni, per mezzo di Rienzo Capovacina, di Lielo caporione de Parione.
ALOIGIA e avessino, con la mitria, spuntati gl'orecchi e 'l naso ci si poteva stare, ch'anch'io quando era giovene l'ho provato, e poi [è] un pizzico di mosca; dipoi bisogna provare qualche cosa di qua, per non ire, di là, a casa calda.
ROSSO È vero, e' preti dal bon vino ebbero pazienzia, loro che furono squartati.
ALOIGIA Quella fu altra ribaldaria e forse che non erano fratelli giurati de la mia maestra?
ROSSO Or lasciamo ire le cose coleriche e ragioniamo de le alegre perché morremo anche noi, e Dio el sa se meglio o peggio. Aloigia, noi siamo felici el mio padrone è inamorato di Laura di messer Luzio.
ALOIGIA È mio fratello di latte.
ROSSO Ricchi siamo! Egli non l'ha mai scoperto a persona, e sognando hoglielo da lui sentito. Io vorrei.
ALOIGIA Taci e lascia fare a me tu vòi che gli diamo ad intendere che la stia mal di lui.
ROSSO Entriamo in casa, ché tu vali più che un destro a chi ha preso le pillole.


Scena settima
Messer Maco e Maestro Andrea

MESS. MACO L'è donque de legno quella pina de bronzo?
M. ANDREA Sere sì.
MESS. MACO Quella nave dove son quei santi che affogano di chi è?
M. ANDREA Di musaico.
MESS. MACO Oh, fatemi insegnare la musica da lei, poi che l'importa a farsi cortigiano; bench'io so la mano e gamaut, are, bemi, mi, fa, sol, fare.
M. ANDREA Voi avete un gran principio, ma sarà buono andare a riposare.
MESS. MACO Io ho la gran sete, Dio me la perdoni.
M. ANDREA Ecco la casa; entrate, signore.
MESS. MACO Entrate voi, ché siate maestro.
M. ANDREA Procedete voi, messere.
MESS. MACO Non bene conveniunt; con vostra licenzia.


Scena ottava
Parabolano e Valerio

PARABOLANO Parlarò, tacerò?Nel parlare è el suo sdegno e nel tacere è la mia morte, perch'io scrivendoli quanto l'amo, si sdegnerà essere amata da sì basso uomo. 'io sto queto, el celare tanta passione mi condurrà a estremo fine.; ma consigliami tu, Amore.
VALERIO Signore, per usare ufficio de bon servitore e non de presuntuoso, cerco di sapere el vostro male e procacciarvi rimedio con la propria vita.
PARABOLANO L'averti io sempre conosciuto tale t'ha fatto diventare meco quello che tu sei ma questo mio novo accidente non ti curare sapere.
VALERIO Qui manca d'assai la grandezza vostra e vi è poco onore che un vil desìo signoreggi di così mala maniera la prudenzia vostra, e ancora che 'l nascondere il dolore vostro proceda d'amore, ben lo cognosco io al poco mangiare e niente dormire e al volto depinto de le vostre passioni ma se gli è amore, màncav'egli animo de ottenere qual si voglia donna? Voi sete ricco, bello, nobile, liberale, accorto, dolce nel parlare, che son mezzi fideli a ottenere Venere, non solamente questa che così vi trafigge.
PARABOLANO e l'impiastri de le savie parole guaressino le piaghe mie, tu m'aresti a quest'ora sanatomi.
VALERIO Deh, signore mio, retrovate e recognoscete voi stesso e rilevativi di sì stranio umore e non vogliate diventare favola de la Corte e de' vostri emuli.
Donque voleti ch'a Napoli si sappia questa sciocchezza, che vi mena a la vergogna e morte vostra? entendo tal cosa, che alegrezza ne averanno li vostri, che gloria la patria, che consolazione li amici e che utile e' poveri servitori?
PARABOLANO Vatti a spasso, ché mi faresti forse uscire del manico, con tante ciance.


Scena nona
Parabolano, solo

Conosco che Valerio mi dice el vero, come giovene prudentissimo, ma el soverchio amore mi diffida d'ogni salute. Pur ogni cosa si vede avere fine. Oggi non somiglia a ieri, sempre non sono le nevi e i ghiacci; si placa el cielo e gli Dei. Serà meglio ch'io intenda il consiglio di Valerio. Eccolo su la porta. Valerio?


Scena decima
Parabolano e Valerio

PARABOLANO Valerio, s'io, come tu dici, fussi inamorato, che remedio mi daresti tu?
VALERIO Trovare una ruffiana e scrivere una lettera.
PARABOLANO E se la non la volessi?
VALERIO Di questo state sicuro, ché mai né lettere né denari sono refiutati da le donne.
PARABOLANO E che vorresti ch'io gli dicessi?
VALERIO Quello ch'amor vi dettarà.
PARABOLANO 'ella l'avesse per male?
VALERIO Io vi ricordo che le donne sono di più molle carne e de più tenere ossa di noi.
PARABOLANO Quando manderesti tu questa lettera?
VALERIO pettarei la opportunità del tempo.
PARABOLANO cempio, io t'ho pur fatto parlare io ho altro caldo che d'amore.
VALERIO Padrone, ma per voi non si pigliava San Leo, poi che non vi basta l'animo d'ottenere una donna.
PARABOLANO Nè per questo scema una dramma del mio tormento. Or entriamo in casa, ché l'essere solo più mi contenta che con altrui ragionare.


Scena undicesima
Maestro Andrea, solo

Mentre che messer Moccicone beeva s'è inamorato di Camilla Pisana per averla vista da le fenestre de la camera. Questa è quella volta che Cupido doventa una pecora. Egli canta improviso e compone i più ladri versi e le più ribalde parole che se udissero mai. E per non parere busardo come gl'astrologhi del diluvio, vi voglio leggere una pìstola ch'egli manda alla Signora.
(Lettera de messer Maco a la Camilla Pisana) 'Salve Regina misericordie. Perché i vostri occhi marmorei e inorpellata bocca e serpentini capelli e fronte corallina e labra di broccato m'hanno cavato di me stesso, e son venuto a Roma e faròmi cortigiano, favente Deo, per amore vostro, perché sete più morvida che le ricotte, più fresca del ghiaccio, più polita che la mandragola, più dolce che la quintadecima, e più bella che la fata Morgana e la Diana stella. Sì che spettate il luogo e trovate el tempo dove io possa dirvi millanta parole, le quale seranno secrete come un bando, et fiat voluntas tua.
Maco che sta per voi a pollo pesto vi vorìa far quel fatto presto presto'.


Scena dodicesima
Messer Maco e Maestro Andrea

MESS. MACO Portate questo strambottino ancora!
M. ANDREA Di grazia! Ma lo voglio prima leggere, perché voi siate malizioso e chi sa che voi non mi volessi fare dare cento bastonate.
MESS. MACO No no, maestro, ché vi voglio bene!
M. ANDREA Io el so, certo, pure.
(Strambottino di messer Maco, letto da Maestro Andrea)
:
O stelluzza d'amore, o Angel d'orto
Faccia di legno e viso d'oriente
Io sto pur mal di voi, la nave in porto,
È sì più bella che tutto el ponente.
Le tue belezze veneron di Francia
Come che Guida che si strangoloe,
Per amor tuo mi fo cortigiano io
Non aspetto già mai con tal desìo.

O che versi sentenziosi, tersi, limitati, dotti, novi, arguti, divini, correnti, dolci e pien di sugo! Ma c'è un latino falso!
MESS. MACO Qual'è, la nave in porto?
M. ANDREA Signor sì.
MESS. MACO Ell'è una licenzia poetica! Ora andate, via, presto a la diva!


Scena tredicesima
Maestro Andrea, solo

Ora sì ch'e' poeti andaranno a la stufa! El bisogna fare mettere el basto a' camelli per coronarci su messer Maco de spini, ortiche e bietoloni; al dispetto de' lauri e de' mirti, che fanno tante cacherìe inanzi che vogliono ornare le tempie a niuno e non si degnono se non con l'imperatori e con poeti e con le taverne. Ma mi pare così vedere che messer Maco farà impazzire d'alegrezza una coperta, e ch'egli scoppia se non sta tre mesi legato. Ora a trovare el Zoppino.


Scena quattordicesima
Rosso, solo

La vecchia farà el debito. Oh, l'è gran ribalda questa Aloigia, e l'ha più punti che non hanno mille sarti. Barbuta, strega, suocera da atanasso, avola de l'Aversiera e madre de Antecristo! Ma sia come la vuole; a me basta d'assassinare el mio padrone e vendicarmi de' mille disagi che mi dà senza proposito il furfantino, ché gli pare essere de ventidue anni cavati d'aprile al maggio, e passa la quarantina; e crede che tutte le duchesse del mondo si consumino per lui. Ma tu assaggerai d'una fornaia, ignorantone! Ma ci comparisce.


Scena quindicesima
Rosso e Parabolano

PARABOLANO Che c'è, Rosso?
ROSSO Vorrei che voi ridessi un poco, per amor mio.
PARABOLANO E sì sia.
ROSSO Mala parola, et è scritta per tutto né si seppe mai chi la scrivessi né mai fu detta da uomo lieto.
PARABOLANO Che più?
ROSSO Ma torniamo al proposito. Che pagheresti voi se m'endovinassi de chi e de come amor vi crucifigge?
E non mi fa profetizzare el vino, ché, Dio grazia, s'adacqua in modo che 'l cervello sta in cervello.
PARABOLANO Che di' tu, fratello?
ROSSO Fratello, ah? appiate ch'io so come l'ha nome, di chi è moglie, dove è la casa e tutto.
PARABOLANO Come, la casa, el marito e lei?
ROSSO Ogni cosa moglie, marito, balie, fratelli e peggio.
PARABOLANO e mi dici la prima lettera del suo nome ti guadagni cento ducati.
ROSSO D'oro o di carlini?
PARABOLANO D'oro!
ROSSO Larghi o stretti?
PARABOLANO Traboccanti e larghi.
ROSSO Levàtimi di tinello e diròvi ogni cosa, ancora che no 'l meritati
PARABOLANO Padrone de la mia casa ti faccio. Comincia per S?
ROSSO Messer no.
PARABOLANO Per A?
ROSSO A punto 'Viola'.
PARABOLANO Per Z?
ROSSO Più su sta Santa Luna!
PARABOLANO Per C?
ROSSO A un buco vedesti. A fe' che domani o l'altro ve lo dirò e molto voluntieri.
PARABOLANO Ah, Cielo, perché consenti tu che un mio famiglio mi schernisca?
ROSSO Che vi fa più oggi che domani a saperlo? Dipoi se voi mi amazzate Laura non sète voi per avere il Rosso valente come Astolfo!
PARABOLANO Non più! Dove son io?
ROSSO In astesis!
PARABOLANO Dormo io?
ROSSO SÌ, a farmi bene.
PARABOLANO Con chi parlo io?
ROSSO Col Rosso, che non ha più a mangiare in tinello, e l'ho più caro che s'io fussi potestà di Norcia, imbasciatore di Todi e veceré di Baccano.
PARABOLANO Andiam dentro, amico mio carissimo, ch'è buon per te.


Scena sedicesima
Zoppino tabacchino e Maestro Andrea

M. ANDREA Mai da che furon fatte le baie si udì la maggior ciancia de questa.
ZOPPINO Io gli dirò che la Signora mi manda a ua Altezza e si non fussi per rispetto di Don Lindezza spagnolo, che per gelosia tien le guardie dì e notte a la sua porta, ch'egli potrìa venire a dormir seco; ma che, scognosciuto, non c'è niuno periculo.
M. ANDREA Tu sei per la via maestra; ma el babuasso vien fuora. Càvategli la beretta.


Scena diciassettesima
Messer Maco, Maestro Andrea e 'l Zoppino

ZOPPINO La Signora vi bascia le mani e' piedi, e sta molto mal di voi.
MESS. MACO O poveretta; gran mercè a voi.
ZOPPINO Più di cento baci ha dato la Signora a la letterina e a lo strambotto e l'ha imparato a mente e càntalo in su l'organo.
MESS. MACO Come io mando per marzapani a Siena, ve ne darò uno per questa buona nuova!
M. ANDREA Liberalaccio che voi siete! Or, Zoppino, drento in casa; e ordinaremo quello che la Signora Camilla vuol qui da messer Maco.


Scena diciottesima
Rosso, solo

Io sto meglio che non merito; el mio padron m'ha dato mille baci e me dice 'messer' e vuol che me obedisca sino al canovaio. Ah, ah, ah! E che sì, che sì, che sì ch'io dovento più gran maestro che Marforio. Infin beato è chi sa ben portare polli. E mi pare così vedere ch'ognun mi si caverà la beretta. Or m'è forza ritrovare Aloigia e menarla a lui; ma se questa cosa si scuopre, suo danno; io so ogni buco in Italia a irsi con Dio. Ma io mi confido in santa Aloigia che ne sa più che 'l calendario, che insegna le feste a l'anno; e credo che mi bisognerà spettarla un'ora, perché l'ha più da fare che la solicitudine.


Scena diciannovesima
Grillo, solo

Che cicalone e simpliciotto è questo mio padrone ti so dire che per un pecorone egli non ha invidia a niuno.
Ma gli è capitato in buone mani a maestro Andrea e al Zoppino! Uno giuntarìa l'usura e l'altro farìa impazzire la sapienza capranica. O può fare questo la natura, ch'egli si creda che gli asini tenghino scuola? Veramente gli è, come disse la buona memoria de trascino, un maccherone senza sale, senza caseo e senza fuoco.


Scena ventesima
Maestro Andrea, Zoppino e Messer Maco

MESS. MACO La mi vuol bene, è vero?
M. ANDREA Più che se la v'avesse partorito.
MESS. MACO e la mi fa un figliolo, gli pagherò la culla a la fegatella, ghiotta, traditrice, ribaldella!
ZOPPINO Torniamo a la cosa nostra. A me pare che serìa securissimo a venire vestito da facchino e Grillo vestito con suoi panni gli verrà dietro.
MESS. MACO Acconciatemi pur ben, maestro!
M. ANDREA Non dubitate, ma bisogna che voi impariate certe parole per contrafare la lingua, e se nisun dicessi se voi sète facchino, dite 'Ohi, olà!'
MESS. MACO Olà!
M. ANDREA Galante; e se persona dicessi ' e' tu da Bergamo?', dite 'Maidé! Maidé!'
MESS. MACO Be' be'.!
M. ANDREA E se nesun dicessi 'Quando venesti qui facchino?', respondete 'Anco'.
MESS. MACO Cacarò!
M. ANDREA Ah, ah, ah, buono, bonissimo! Andate a travestirvi con Grillo, ché in casa sono i vostri panni.


Scena ventunesima
Mastro Andrea e Zoppino

ZOPPINO Vogliamo noi metterlo sotto un peso che li rompa una spalla?
M. ANDREA Non, che serìa peccato; basta vestirlo da facchino, e come s'è posto a sedere su la porta, muta solamente la cappa e dimandagli poi s'e' ti vuol portare un ammalato di peste a l'ospitale.
ZOPPINO T'ho inteso; io ti farò ridere, ché una di queste burle farìa ringiovenire el Testamento vecchio! A revederci.


Scena ventiduesima
Maestro Andrea e Grillo con i panni di Messer Maco

GRILLO Sto io da uomo?
M. ANDREA Non guastare l'ucellare; noi gli volemo dare ad intendere che gli è el Siciliano facchino e menarlo dove tu sai.


Scena ventitreesima
Messer Maco, Maestro Andrea e Grillo

M. ANDREA Non vi conosceria el senno, ma bisogna mostrare el cervello che voi avete. Ponetevi a sedere su la porta de la Signora, e se niuno passa fingete d'avere a portare una cassa; ma se voi non vedete nisuno per la strada, intrate in casa e fate quella cosa a la Signora.
MESS. MACO Con gintilezza, giuro a Dio; bacio le mani.
M. ANDREA Avviatevi inanzi, noi vi verremo dietro, passo passo; e se la mala ventura volessi che quel spagnolo traditore ve incontrassi, Grillo, che per avere vostri panni par voi al naturale, gli passerà da lato e non piglierà sospetto di voi così travestito; intendi, gocciolon mio dolciato?
MESS. MACO Io v'afferro; ma caminatemi presso, ché qualcun non mi furassi a me stesso.


Scena ventiquattresima
Maestro Andrea e Grillo

M. ANDREA Questa novella non è nel Boccaccio! O che ladra cosa, eh, eh, eh, ah, ah, ah! El coronare de l'Abbate di Gaeta non fu niente, ancora ch'egli andassi su lo Elefante; né quante ciance si fecion mai in Palazzo al buon tempo, agiongono a questa.
GRILLO O che da ben tristo è questo Zoppino; oh, gli è el suttile impiccato! Vede come si mostra d'essere un altro, e messer mescolone s'è posto a sedere e sta saldo come un edificio.
M. ANDREA Andiamoli presso e ascoltiamo ciò che li dice el Zoppino reverendissimo.


Scena venticinquesima
Zoppino e Messer Maco vestito da facchino

ZOPPINO Hai tu, compagno, da portarci uno ammalato in Santo Spirito?
MESS. MACO Ben sai ch'io ho spirito!
ZOPPINO Dico ben a anto pirito, et è poco male la peste.
MESS. MACO Che peste? No io, che non l'ho!
ZOPPINO Tu cianci gaglioffo; come el pan val poco così non volete durare fatica!
MESS. MACO e 'l pan val poco, tuo danno!


Scena ventiseiesima
Maestro Andrea, Messer Maco, Grillo e Zoppino

M. ANDREA Siciliano, fa' piacere a questo gintilomo è una opera de misericordia.
MESS. MACO Maestro Andrea, volete voi la baia, o pur mi sono scambiato in questi panni?
M. ANDREA Tu parli sanese, perché i sanesi ogni Natale si fanno uno di cotesti saltimbarchi ricamati; oh, il gintil manigoldo!
MESS. MACO Adonque, non son io?
M. ANDREA Deh, vanne a le forche!
GRILLO Che tu trovi quel che tu cerchi, boiaccia!
MESS. MACO Deh, Grillaccio ladro, tu mi dileggi! Or da' qua e' mia panni, malandrino traditore!
M. ANDREA Fatti indietro, becco, pesadeos, vigliacco, che chiero matarti!
MESS. MACO Oimè, ch'i' mi son perduto!
ZOPPINO Dice uno che passa adesso adesso de qui, che 'l Governatore ha mandato uno bando che chi sapessi, avessi o tenessi un Messer Maco da Siena, che a pena del polmone lo riveli, perché gli è venuto a Roma senza bulettino.
MESS. MACO Oimè, ch'io son spacciato!
M. ANDREA Non dubitare; spoglia qui queste veste e mettiamole a questo facchino, e tu vestiti el saltimbarco e così trovandolo el Barghello lo appiccarà in tuo scambio.
MESS. MACO Impiccato, ah! Misericordia! A la strada, a la strada! occorretime, io son morto!
ZOPPINO Tenetelo, tenetelo! Piglia, para! A la spia, al mariolo! Ah, ah, ah, ah!
M. ANDREA Di grazia, Grillo, corrigli dietro e rimenalo a casa e digli che abbiamo burlato seco per dare piacere a la Signora, perché a Roma s'usano queste burle. Perché gli è ben nato e qualcuno de' suoi il porrìa avere per mal da noi.
GRILLO Andrò perché me lo pare vedere come un barbagiannino e avere intorno tutti i banchieri fiorentini, ché i cicaloni ingrassano a queste coglionerie come fanno nel guadagno de le usure.