ROMANZO EROTICO D'AUTORE

GUILLAUME APOLLINAIRE

LE UNDICIMILA VERGHE

Il romanzo ridicolizza la società del tempo, ed è un peccato che i riferimenti a personaggi realmente esistiti si siano persi, perché ne costituivano sicuramente uno degli aspetti più divertenti e godibili. Non ci è più consentito di riconoscere nel romanzo dietro i tratti caricaturali, la gran dama, lo spocchioso seduttore, la vecchia snob, la star del momento, la checca isterica. Non sfuggono invece gli sberleffi di Apollinaire ai simbolisti,e ai valori più diffusi del moralismo cattolico: le verghe sono undicimila come le vergini della leggenda di Sant’Orsola, che scelsero il martirio invece di assecondare le smanie di sesso di un esercito di Unni.

Figlio naturale di un ufficiale italiano (forse l'aristocratico Francesco Flugi d'Aspermont) e di una nobildonna polacca, Angelica Kostrowicka, Guillaume Apollinaire si trasferì in Francia ancora adolescente, scegliendo dal 1908 Parigi come sua patria adottiva; proprio nella capitale, grazie al legame sentimentale con Marie Laurencin, entrò in contatto con gli ambienti artistici d'avanguardia e con eminenti personalità quali Maurice de Vlaminck, André Derain, Pablo Picasso, Georges Braque, Henri Matisse.
L'interesse per il moderno lo portò a sostenere anche il futurismo di Filippo Tommaso Marinetti e la pittura metafisica di Giorgio De Chirico.
Il 1910 inaugurò la vita letteraria del trentenne Guillaume con i sedici racconti fantastici intitolati L'eresiarca & C., mentre nel 1911 pubblicò le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913 Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912. Quest'opera rinnovò profondamente la letteratura francese, ed è oggi considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918).
Per quanto riguarda la prosa si può ricordare Il poeta assassinato (1916), raccolta di novelle e racconti che si articolano tra l'epico e l'autobiografico, ispirati alle esperienze sul fronte francese della Grande Guerra, dove combatté col grado di sottotenente e venne ferito; e il dramma Les mammelles de Thyrésia (scritto nel 1903 e pubblicato pressoché postumo nel 1918), nell'introduzione del quale per la prima volta compare la definizione di un'opera surrealista.
Morì di influenza spagnola il 9 novembre 1918, in un desolato attico parigino; venne sepolto insieme a tanti altri nomi illustri nel cimitero di Père Lachaise.
[WIKIPEDIA]


TESTO COMPLETO
NELL'ORIGINALE FRANCESE

ATTENZIONE: TESTO SCONSIGLIATO AI BIGOTTI, AI BENPENSANTI E AI MORALISTI


CAPITOLO I

Bucarest è una bella città in cui si direbbe che si mescolino tra loro l'oriente e l'Occidente. Siamo ancora in Europa, dal punto di vista della geografia, ma già in Asia per certi costumi del paese, in cui dominarono i turchi, i serbi e altre razze di cui si vedono per le strade esemplari pittoreschi. Eppure è un paese latino: i soldati romani che colonizzarono il paese avevano il pensiero continuamente rivolto verso Roma, allora capitale del mondo e capoluogo di tutte le eleganze. Questa nostalgia occidentale si è trasmessa ai loro discendenti: i romeni pensano sempre a una città in cui il lusso è naturale, in cui la vita è allegra. Ma Roma è decaduta dal suo splendore, la regina delle città ha ceduto il suo scettro a Parigi; e che c'è di strano se, per un fenomeno atavico, i romeni pensano costantemente a Parigi, che ha così bene sostituito Roma alla testa dell'universo?
Come tutti gli altri romeni, il bel principe Vibescu sognava Parigi, la Ville-Lumière, dove le donne, tutte belle, sono anche tutte di coscia leggera. Quando era ancora in collegio, sempre a Bucarest, gli bastava pensare a una parigina, perché il membro gli si indurisse e fosse obbligato a farsi lentamente e beatamente una sega. Più tardi s'era sfogato in tante vagine e tanti sederi di deliziose romene, ma, se ne rendeva conto molto chiaramente, era una parigina quella che lui voleva.
Mony Vibescu era di famiglia ricchissima. Suo bisnonno era stato hospodar, come dire, in Francia, sotto-prefetto. Ma questa dignità si era trasmessa al nome di famiglia, e il nonno e il padre di Mony si erano ambedue vantati del titolo di hospodar. Mony Vibescu aveva dovuto portarlo anche lui in onore dell'avo.
Ma aveva letto abbastanza romanzi francesi per poter ridere alle spalle dei sotto-prefetti: «Suvvia, diceva, non è ridicolo farsi dire sotto-prefetto perché lo è stato un vostro avo? È semplicemente grottesco.» E per essere meno grottesco aveva sostituito il titolo di hospodar/sotto-prefetto con quello di principe. «Ecco, esclamava, un titolo che può venire trasmesso ereditariamente. Hospodar indica una funzione amministrativa, ma è giusto che chi si è distinto nell'amministrazione abbia diritto a un titolo. Mi faccio nobile. Dopo tutto sono un avo anch'io: i miei figli e i miei nipoti me ne saranno grati.»
Il principe Vibescu era molto legato al vice-console di Serbia, Bandì Fornoski che, si diceva in città, inculava volentieri l'affascinante Mony. Un giorno il principe si vestì correttamente e si diresse verso il vice-consolato di Serbia. Per strada, tutti lo guardavano e le donne se lo bevevano con gli occhi pensando: «Che tono parigino!»
Effettivamente il principe Vibescu camminava come a Bucarest si pensa che camminino i parigini, cioè a passi piccolissimi e ancheggiando moltissimo. Straordinario! Quando un uomo cammina in questo modo, a Bucarest non c'è una donna che gli resista, fosse anche la moglie del primo ministro!
Giunto dinnanzi alla porta del vice-consolato di Serbia, Mony pisciò a lungo contro la facciata, poi suonò, venne ad aprirgli un albanese vestito con una fustanella bianca. Il principe salì rapidamente al primo piano. Il vice-console Bandì Fornoski se ne stava completamente nudo nel suo salotto. Sdraiato su un morbido sofà, gli si poteva notare una ottima erezione: vicino a lui c'era Mira, una bruna montenegrina che gli titillava i testicoli. Era nuda anche lei, e un po' inclinata: la posizione metteva in mostra un bel culo paffutello, bruno e vellutato, dalla pelle fine tesa da rompersi. Le natiche erano divise da una lunga fessura ben netta e bruno-pelosa e si vedeva anche il buco proibito, tondo come una pasticca. Al disotto, si allungavano le cosce, nervose e lunghe, e poiché la posizione costringeva Mira a tenerle aperte, si poteva vedere la vulva, piena e spessa, dal taglio preciso, ombreggiata da una criniera folta e nerissima. Quando Mony entrò non si scomodò affatto. In un altro angolo, su un'ottomana, due belle ragazze dal gran culo si maneggiavano a vicenda lanciando piccoli «Ah!» di voluttà. Mony si liberò rapidamente dei vestiti e poi, col membro in aria, ben eretto, si precipitò sulle due donne tentando di separarle. Ma le sue mani scivolavano sui loro corpi umidi e lisci che si torcevano come serpenti. Vedendo come gemevano di voluttà, e furioso di non poterla condividere, Mony cominciò a dare grandi schiaffi sul gran culo bianco che gli stava a portata. Ma questo sembrava eccitare notevolmente la proprietaria di detto culo, per cui egli si mise a picchiare con molta più forza, in modo che il dolore fosse superiore al piacere. La bella ragazza di cui aveva fatto rosso il sedere già bianco si alzò allora tutta arrabbiata e gli disse: «Maiale, principe degli inculati, non romper le scatole, non sappiamo che farcene della tua minchia. Va' a dare il tuo biscotto a Mira, e lasciaci in pace. Non è vero Zulmé?»
«Sì, Toné», rispose l'altra ragazza.
Il principe brandì il suo gran coso gridando:
«Come, giovani troie, ancora e sempre a passanti la mano nel didietro?»
Poi, afferrando una di loro, tentò di baciarla sulla bocca. Era Toné, una bella bruna il cui corpo bianco aveva ai posti giusti dei bei nèi che ne facevano risaltare ancora di più il candore, il volto era pallido, e un neo sulla guancia sinistra rendeva più affascinante il viso della fanciulla. Il petto era ornato da due superbe tette dure come il marmo, cerchiate di blu e sormontate da due fragole rosa-tenero, quella di destra abbellita anch'essa da un neo messo lì come una mosca, una mosca assassina.
Mony Vibescu, afferrandola, aveva spinto le mani sotto il bel culo, che faceva pensare a un melone cresciuto al sole di mezzanotte, tanto era bianco e pieno. Ognuna delle due natiche sembrava tagliata in un blocco di Carrara senza imperfezioni, e le cosce che le sostenevano erano rotonde come colonne di un tempio greco. Ma, che differenza! Le cosce erano tiepide e le natiche fredde, e questo, come tutti sanno, è un segno di buona salute. La sculacciata le aveva rese un po' rosee, e parevano fatte di crema mescolata a lamponi Questa vista portava al limite dell'eccitazione il povero Vibescu. La sua bocca succhiava prima una e poi l'altra tetta soda di Toné, oppure si posava sul collo o sulla spalla in ardenti succhioni. Le mani stringevano fortemente il bel culo, sodo come un cocomero duro e polposo. Palpava le chiappe regali ed aveva insinuato l'indice in un buco di strettezza mirabile. La sua grande asta, sempre più rigida, spingeva contro un affascinante sesso di corallo sormontato da un vello nero-lucente. La ragazza gli gridava in romeno: «No, non me lo infilerai!» e intanto dimenava le belle cosce tonde e grassottelle. Il gran membro di Mony aveva già la rossa testa infiammata a contatto con l'umida caverna di Toné. Quella si dimenò ancora, ma così facendo le sfuggì un peto, tutt'altro che volgare, e anzi con un suono cristallino che le provocò una risata violenta e nervosa. La sua resistenza si rilassò, le cosce si aprirono e il grosso arnese di Mony aveva già nascosta la testa nella caverna quando Zulmé, amica di Toné e sua partner in manipolazioni, afferrò improvvisamente i testicoli del principe e stringendoli nella manina gli provocò un dolore tale che il membro fumante uscì dal suo domicilio con gran disappunto di Toné, che cominciava già ad agitare il culone sotto la vita sottile.
Zulmé era bionda, e la fitta capigliatura le ricadeva sino alle caviglie. Era più piccola di Toné, ma la sua agilità e la sua grazia non le erano da meno. Gli occhi erano neri e cerchiati. Non appena ebbe lasciato le palle del principe, questi le si gettò addosso dicendo: «Ebbene, pagherai per Toné!» Poi, afferrando una bella tetta, si mise a succhiarne la punta. Zulmé si torceva tutta. Per eccitare il Mony faceva ondulare e muovere il ventre, che finiva in una deliziosa barbetta bionda e riccioluta. Contemporaneamente spingeva verso l'alto il bel sesso che fendeva in due l'inguine paffuto. Tra le labbra di quella rosea vulva fremeva un clitoride abbastanza lungo, a dimostrazione delle sue abitudini lesbiche. Il membro del principe tentava invano di penetrarla. Infine agguantò le chiappe della ragazza e tenendole ferme con le mani stava per lanciarsi, quando Toné, infuriata per essere stata privata dell'eiaculazione del superbo arnese, si mise a far solletico sui piedi del giovanotto con una penna di pavone. Mony si mise a ridere, anzi a torcersi dalle risa. La penna di pavone continuava a solleticarlo; era risalita dai piedi alle cosce, poi all'inguine, poi al membro che rapidamente si smontò e si afflosciò.
Le due sbarazzine, Toné e Zulmé, felici del loro scherzo risero per un bel po', poi, rosse e senza fiato, ricominciarono a manovrarsi a vicenda abbracciandosi e leccandosi davanti al principe, vergognoso e stupefatto. I loro culi si alzavano ritmicamente, i loro peli si mischiavano, i loro denti battevano nell'incontro dei baci, i loro seni sodi e palpitanti ... dalla pelle di seta si strofinavano tra loro. Infine, contorcendosi e gemendo di piacere si bagnarono reciprocamente, mentre il principe si stava di nuovo eccitando. Ma vedendole entrambe stanche delle loro fatiche, si rivolse a Mira, che continuava a maneggiare il membro del vice-console. Vibescu si avvicinò piano piano, e facendo passare il suo bel membro tra le grosse chiappe di Mira, lo inserì nella vagina socchiusa ed umida della bella ragazza che, non appena sentì entrarvi dentro la testa, dette un colpo di sedere che in un attimo fece penetrare tutto quanto l'arnese. Poi continuò i suoi movimenti disordinati, mentre con una mano il principe le carezzava abilmente il clitoride e con l'altra i capezzoli.
Il suo movimento di va-e-vieni nel sesso ben stretto pareva produrre su Mira un grande piacere, dimostrato dalle sue grida voluttuose. Il ventre di Vibescu batteva contro il sedere di Mira, la cui freschezza provocava nel principe una sensazione altrettanto piacevole di quella causata alla ragazza dal calore del ventre del principe. Ben presto i movimenti divennero più vivaci, più irregolari; il principe si stringeva più addosso a Mira, che ansimava stringendo le chiappe. La morse sulle spalle e la tenne stretta in questo modo. La ragazza gridava: «Ah! che bello.., resta.., più forte.., più forte.., tieni, tieni.., prendi tutto. Dammelo, il tuo sperma... Dammelo tutto... Tieni... Tieni!» E in un orgasmo comune si accasciarono e rimasero un attimo come annientati. Toné e Zulmé, allacciate sull'ottomana, li guardavano ridendo. Il vice-console di Serbia aveva acceso una sottile sigaretta di tabacco orientale. Quando Mony si fu rialzato gli disse:
«Adesso, caro principe, tocca a me: attendevo il tuo arrivo e mi sono solo fatto maneggiare un po' da Mira, ma riservando a te il mio godimento. Vieni, cuoricino mio, mio adorato culetto, vieni, che te lo metto!» Vibescu lo osservò un istante, poi, sputando sul membro che il vice-console gli presentava, così parlò: «Ne ho abbastanza di essere inculato da te, tutta la città ne parla!» Ma il vice-console s'era fatto avanti, sempre col membro in resta, ed aveva afferrato una pistola. La puntò su Mony, con la mano sul grilletto, e quello, tremando, si voltò presentandogli il culo e balbettando: «Bandì, caro Bandì, lo sai quanto ti amo, inculami, inculami.» Bandì, sorridendo, introdusse il membro nel buco elastico che si trovava tra le natiche del principe. Entratovi, mentre le tre donne guardavano, si dimenò come un invasato gridando: «Per Giove! Godo, stringi, stringi, mio bel gitone, stringi, vengo! Stringi le tue belle chiappe!» E, gli occhi stravolti, le mani contratte sulle spalle delicate, eiaculò. Poi Mony si alzò, si rivestì, disse che sarebbe tornato dopo pranzo, e se ne andò. Ma giunto a casa sua scrisse questa lettera:

Mio caro Bandì, sono stufo di farmi inculare da te, sono stufo delle donne di Bucarest, sono stufo di dilapidare qui un patrimonio, che potrebbe rendermi felice a Parigi. Tra due ore sarò partito. Spero di divertirmi enormemente e ti dico addio. Mony, principe Vibescu
hospodar ereditario.


Il principe sigillò la lettera, e ne scrisse un'altra al suo notaio pregandolo di liquidare i suoi beni e mandargli il ricavato a Parigi non appena avesse ricevuto il suo indirizzo. Prese tutto il denaro che possedeva, cioè 50.000 franchi, e si diresse verso la stazione. Imbucò le due lettere e salì sull'Orient-Express diretto verso Parigi.


CAPITOLO II

«Ah!, signorina, appena vi ho visto, io, folle d'amore, ho sentito i miei organi genitali tendersi verso la vostra sovrana bellezza, ritrovandomi più in calore che dopo aver bevuto un bicchiere di raki.» «Con chi? Con chi?» «La mia fortuna e il mio amore sono ai vostri piedi. Se fossimo soli in un letto, vi proverei la mia passione venti volte di seguito. Che le undicimila vergini o perfino undicimila verghe mi puniscano se qui si mente!» «E talmente! » «I miei sentimenti non sono finti. Non parlo così a tutte le donne. Non sono mica una farfalla.»
«Tua sorella! » Questa conversazione si svolgeva sul boulevard Malesherbes in un mattino di sole. Maggio ridestava la natura a nuova vita e i passeri di Parigi pigolavano d'amore sugli alberi di nuovo verdi. Il principe Mony Vibescu teneva questi galanti discorsi a una bella ragazza agile, vestita con eleganza, che scendeva verso la Madeleine. La seguiva con fatica, tanto quella andava svelta. Improvvisamente però si voltò bruscamente e gli scoppiò a ridere in faccia:
«Ne avete ancora per molto? Adesso non ho tempo. Vado a trovare un'amica a rue Duphot, ma se volete fare compagnia a due donne scatenate di lusso e d'amore, se insomma siete un uomo quanto a fortuna e a potenza copulatoria, allora seguitemi.» Mony scattò sull'attenti esclamando: «Sono un principe romeno.» «E io,» disse la fanciulla, «sono Culculina d'Ancona, ho diciannove anni, e ho già disseccato le sacche di dieci uomini eccezionali dal punto di vista amoroso, e la borsa di quindici milionari.» Chiacchierando piacevolmente di diverse cose futili o conturbanti, il principe e Culculina giunsero in rue Duphot e salirono con l'ascensore fino al primo piano.
«Il principe Mony Vibescu... La mia amica Alessina Mangiatutto.» Culculina fece le presentazioni con molta serietà, in un boudoir decorato con stampe oscene giapponesi. Le due amiche si baciarono, mettendo in funzione le loro lingue. Erano entrambe di buona corporatura, però senza esagerazione. Culculina era bruna, con occhi grigi scintillanti di malizia, e un neo pelosetto sulla guancia destra, in basso. Di colorito opaco, il sangue a fior di pelle, le guance e la fronte facilmente corrugantesi a prova delle sue preoccupazioni di soldi e d'amore.
Alessina era bionda, di quel colore che sfuma verso il cenere, come se ne vedono solo a Parigi. La carnagione chiara sembrava trasparente. La bella ragazza sembrava, nell'affascinante déshabillé rosa, delicata e sbarazzina come una marchesa birboncella del penultimo secolo.
La conoscenza si sviluppò facilmente, e Alessina, che aveva un amante romeno, andò a cercare la sua foto nella camera da letto. Il principe e Culculina la seguirono, e si precipitarono all'unisono su di lei denudandola tra matte risate. La vestaglia le scivolò in terra lasciandola in una camicia di batista che scopriva un corpo affascinante, grassottello, pieno di fossette nei punti canonici.
Mony e Culculina la rovesciarono sul letto e scoprirono le belle tette rosa, grandi e sode, di cui Mony cominciò a succhiare avidamente le punte. Culculina si abbassò, ed alzando la camicia scoprì invece due cosce tonde e belle, che convergevano su un boschetto biondo-cenere come i capelli. Lanciando gridolini voluttuosi, Alessina tirò i piedini sul letto, facendo cadere a terra le pantofole con un rumore secco. Con le gambe ben aperte, lasciava che l'amica le leccasse il sedere, aggrappandosi intanto al collo di Mony.
Il risultato non si fece attendere molto, le natiche si irrigidirono, il galoppo divenne più veloce ed ella si infiammò moltissimo, ed esclamò:
«Vigliacchi, mi eccitate troppo, adesso dovete soddisfarmi!»
«Ha promesso di farlo venti volte!» disse Culculina, e si spogliò.
Il principe seguì il suo esempio. Furono nudi allo stesso istante, e mentre Alessina giaceva in estasi sul letto, poterono ammirare a vicenda i propri corpi. Il gran culo di Culculina ondulava deliziosamente sotto una vita sottile, e i ricchi testicoli di Mony si gonfiavano sotto un enorme affare di cui Culculina non tardò a impossessarsi.
«Comincia con lei, a me toccherà dopo.»
Il principe accostò il bell'arnese alla fessura palpitante di Alessina, che al contatto esclamò:
«Tu mi uccidi!»
Ma intanto quello era penetrato fino in fondo, ed era uscito e rientrato come uno stantuffo. Culculina balzò sul letto e avvicinò la sua passerina di pelo nero alla bocca di Alessina, mentre Mony le leccava l'altra apertura. Alessina s'agitava come un'indemoniata; infilò un dito nel didietro di Mony al quale la carezza provocò un'erezione ancora più violenta. Mony congiunse le mani sotto le natiche di Alessina, aggrappandosi con forza incredibile e stringendo nella vagina in fiamme l'enorme membro che poteva appena muoversi.
Ben presto l'agitazione dei tre personaggi raggiunse l'apice e la loro respirazione si fece affannosa. Alessina venne tre volte, poi toccò a Culculina, che si distaccò dal gruppo per scendere a mordicchiare le palle di Mony. Alessina si mise a gridare come una dannata, e si contorse tutta come un serpente, quando Mony le scaricò nel ventre i suoi succhi romeni. Culculina la strappò immediatamente da quella situazione, e la sua bocca prese il posto del membro per leccare lo sperma che colava dalla vagina a grandi fiotti. Intanto Alessina aveva preso in bocca il membro di Mony, che ripulì a dovere provocando una nuova erezione.
Un minuto dopo, il principe si precipitò su Culculina, ma fermò il membro alla sua porta, solleticando il clitoride, mentre nella bocca stringeva una tetta della giovane donna. Alessina li carezzava entrambi.
«Mettimelo,» gridava Culculina, «non ne posso più! »
Ma il membro sembrava non volerne sapere. La ragazza venne due volte e sembrava disperata, quando infine il membro la penetrò improvvisamente fino alla matrice; allora, folle di eccitazione e di voluttà, dette un morso all'orecchio di Mony, così forte che gliene rimase un pezzetto tra i denti. Lo inghiottì, gridando con tutta la forza che le restava ed agitando il sedere in modo fantastico. La ferita, da cui scaturiva sangue a fiotti, parve eccitare Mony, perché i suoi movimenti si accelerarono, e non lasciò andare la bella Culculina che dopo esser venuto tre volte, mentre lei godeva dieci orgasmi.
Quando si staccarono, i due amanti si accorsero con stupore che Alessina era sparita. Ma la videro tornare quasi subito con dei prodotti farmaceutici destinati a curare Mony e con una enorme frusta da cocchiere.
«L'ho comprata per cinquanta franchi» esclamò la ragazza, «dal cocchiere del fiacre 3269, e ci servirà per ridestare le forze del romeno. Lascia che si curi l'orecchio, Culculina mia, e intanto facciamo un sessantanove per eccitarci.»
Mentre l'uomo arrestava il sangue, assistette al seguente stuzzicante spettacolo: testa-piedi, Culculina e Alessina si leccavano piene d'ardore. Il grosso culo di Alessina, bianco e ben modellato, si muoveva ritmicamente sulla faccia di Culculina; le lingue, lunghe come membri di bambini, si davano da fare con decisione, saliva e sperma si mescolavano, i peli bagnati s'incollavano e sospiri da far piangere l'anima se non fossero stati di voluttà si alzavano dal letto, che scricchiolava e gemeva sotto il piacevole peso delle belle fanciulle.
«Mettimelo dietro! » esclamò Alessina.
Ma Mony perdeva tanto di quel sangue da non aver più nessuna voglia d'eccitarsi. Allora Alessina si alzò dal letto e, presa la frusta del fiacre 3269, un superbo strumento nuovo fiammante, si mise a manovrarlo sulle spalle e le natiche di Mony, che dimenticò subito l'orecchio sanguinante e urlò per il nuovo dolore. Ma Alessina, nuda e simile a una baccante in delirio, picchiava senza fermarsi.
«Tu picchia me!» gridò a Culculina, i cui occhi fiammeggiavano, e che venne a sculacciare con entusiasmo il grosso culo agitato di Alessina, finendo per eccitarsi a sua volta, sì da gridare a Mony:
«Sculacciami, sculacciami! »
E quello, ormai abituatosi alla punizione, anche se sanguinava in più parti, cominciò a picchiare a mano aperta sulle belle chiappe brune che s'aprivano e richiudevano ritmicamente. Quando il membro gli si eresse, il sangue non gli colava più solo dall'orecchio, ma da ogni ferita lasciata dalla frusta crudele.
Allora Alessina si voltò e presentò le belle chiappe infuocate all'enorme membro, che vi penetrò senza esitazione, mentre la poverina gridava agitando il sedere e le tette. Le due donne ripresero a palpeggiarsi reciprocamente, mentre Mony, tutto insanguinato e bene insediato nel sedere di Alessina, si agitava con un vigore che faceva godere pazzescamente la sua partner. I testicoli gli si muovevano come le campane di Notre-Dame e si scontravano con il naso di Culculina. Ci fu un momento in cui il sedere di Alessina si richiuse con gran forza sulla base del glande di Mony, che non poté più muoversi. E fu così che egli eiaculò possentemente nell'avido ano di Alessina Mangiatutto.
Intanto, per strada, la folla si radunava attorno al fiacre 3269 e al suo cocchiere privo di frusta.
Un agente gli chiese che ne avesse fatto:
«L'ho venduta a una signora della rue Duphot.»
«Andate a recuperarla, o vi rifilo una bella contravvenzione.»
«E va bene» disse l'automedonte, un pezzo di normanno dalla forza fuori del comune che, dopo essersi informato in portineria, suonò al primo piano.
Alessina andò ad aprirgli nuda come era; il cocchiere ne ricavò un capogiro, e poiché quella si rifugiava nella camera da letto, le corse appresso, l'afferrò per la vita, e le infilò per di dietro un affare di volume rispettabile. E non ci mise molto a venire, esclamando: «Puttana Eva! Tuoni e fulmini! Razza di cagna! »
Alessina si muoveva a gran colpi di sedere e venne contemporaneamente al cocchiere, mentre Mony e Culculina si torcevano dal ridere. Il cocchiere, pensando che lo prendessero in giro, s'arrabbiò come un toro:
«Ah! puttane, magnaccia, carogna, immondezza, lebbra, mi prendete per il culo! La mia frusta, dov'è la mia frusta?»
E, vistala, se ne impossessò per menar colpi a tutta forza su Mony, Alessina e Culculina, i cui corpi nudi scattavano sotto le frustate che vi lasciavano segni di sangue. Poi il coso gli si eresse un'altra volta, e saltando su Mony glielo infilò nel didietro.
La porta d'ingresso era rimasta aperta e lo sbirro, che non vedendo di ritorno il cocchiere era salito su per le scale, entrò proprio in quel momento nella camera da letto; e non ci mise molto a mettere in mostra il suo membro regolamentare. Lo insinuò nel didietro di Culculina, che chiocciava come una gallina e rabbrividiva al freddo contatto dei bottoni della divisa.
Alessina, disoccupata, prese il bianco bastone che dondolava nella guaina su un fianco del sergente, e se lo introdusse dove sapete. Ben presto, tutti e cinque si misero a godere spaventosamente, mentre il sangue delle ferite colava sul tappeto, sulle lenzuola, sui mobili, e mentre nella strada si portava al deposito degli oggetti perduti il fiacre abbandonato 3269, e il cavallo lanciava peti a ogni passo, profumando il percorso in maniera nauseante.


CAPITOLO III

Qualche giorno dopo la seduta conclusa così bizzarramente dal cocchiere del fiacre 3269 e dall'agente di polizia, il principe Vibescu s'era appena rimesso dalle sue emozioni. I segni della flagellazione si erano cicatrizzati ed egli se ne stava mollemente disteso su un sofà in un salotto del Grand-Hôtel. Per eccitarsi leggeva la cronaca del Journal. Una storia lo appassionava in modo particolare. Il delitto era orribile. Uno sguattero di ristorante aveva fatto arrostire il sedere di un altro sguattero più giovane, e poi l'aveva sodomizzato tutto caldo e ancora al sangue, mangiando i pezzi rosolati che si staccavano via via dalle natiche dell'efebo. Alle grida del Vautel in erba, i vicini erano accorsi ed avevano arrestato il sadico lavapiatti. La storia era narrata in tutti i particolari, e il principe se la godeva manovrandosi dolcemente il membro che aveva tirato fuori dai pantaloni.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta. Una cameriera fresca e graziosissima, completa di cuffia e di grembiule, entrò su ordine del principe. Aveva in mano una lettera e si fece tutta rossa al vedere in che stato era il principe, che si ricompose e si allacciò le brache dicendo:
«Non ve ne andate, bella signorina bionda, debbo dirvi due paroline.»
Intanto aveva chiuso la porta, e afferrata la graziosa Marietta alla vita la baciava bramosamente sulla bocca. Quella dapprima si dibatté un poco, stringendo le labbra, ma non ci volle molto perché, sotto la stretta, cominciasse a lasciarsi andare e a socchiudere la bocca. La lingua del principe vi penetrò, subito morsa da Marietta, la cui lingua vivace solleticò l'estremità di quella di Mony.
Con una mano il giovane la stringeva alla vita; con l'altra le tirava su la gonna. Non aveva mutande. La mano fu subito tra due cosce che Mony non avrebbe immaginato così grosse e tonde, perché la ragazza era alta e magra. La cosetta era pelosissima e calda. La mano si ritrovò ben presto all'interno di una umida feritoia, mentre Marietta si abbandonava spingendo il ventre in avanti. La sua mano non rimaneva inattiva, ed errava sulla patta del principe, accingendosi a sbottonarla. Ne tirò fuori la superba lancia portafortuna appena intravista quand'era entrata. Si masturbarono delicatamente: lui, pizzicandole il clitoride; lei, massaggiando col pollice l'estremità del membro. Egli le alzò su le gambe e se la mise sulle spalle, mentre lei si slacciava il corsetto per mostrare due superbi seni ben eretti che il principe si mise a succhiare l'uno dopo l'altro, mentre faceva penetrare nella donna il suo membro infuocato. La ragazza di lì a poco gridò:
«Che bello! che bello!... come ci sai fare!...»
Allora agitò più forte e disordinatamente il sedere ed egli la sentì godere dicendo:
«Tieni... vengo... tieni... prendi tutto!»
Subito dopo, gli afferrò bruscamente l'arnese alla radice, e gli disse:
«Da questa parte basta.»
Lo tirò fuori da dov'era e se lo infilò in un altro buco bello tondo, situato poco più in basso del primo, come un occhio di ciclope tra due globi carnosi, bianchi e freschi. Il membro, lubrificato dal succo femminile, vi penetrò con facilità e, dopo aver agitato arditamente il suo posteriore, il principe scaricò tutto il suo sperma nel sedere della bella cameriera. Poi tirò fuori il suo affare, che fece «floc», come quando si stappa una bottiglia, e sulla punta c'era ancora dello sperma, mescolato con un po' di merda. In quell'istante qualcuno suonò nel corridoio e Marietta disse: «Devo andare a vedere.» E scappò via dopo aver baciato Mony, che le mise in mano due luigi. Non appena fu uscita, si lavò per bene il membro afflosciato, poi dissuggellò la lettera, che diceva quanto segue:

Mio bel romeno,
che fine hai fatto? Ormai dovresti esserti rimesso dalle tue fatiche. Ricorda quello che hai detto: "se non faccio l'amore venti volte di seguito, che undicimila verghe mi castighino". Venti volte non l'hai fatto, peggio per te.
L'altro giorno sei stato ricevuto nel foutoir di Alessina, a rue Duphot. Ma adesso che ti conosciamo puoi anche venire da me. Da Alessina non è possibile: non può ricevere nemmeno me. Per questo ha un foutoir suo: il suo senatore è troppo geloso. Io me ne frego: il mio amante fa l'esploratore e in questo momento sta infilando perle con le negre della Costa di Avorio. Puoi venire da me, al 241 di rue de Prony. Ti aspettiamo alle quattro.
Culculina d'Ancona.

Letta la lettera, il principe guardò l'ora. Erano le undici del mattino. Suonò per far venire il massaggiatore, che lo massaggiò e lo inculò come di dovere. La seduta lo rimise in sesto. Fece un altro bagno, e sentendosi fresco e preparato suonò per il parrucchiere, che lo pettinò e lo inculò artisticamente. Poi venne il pedicure-manicure, che gli fece le unghie e lo inculò vigorosamente. Il principe si sentì alla perfezione. Scese nei boulevards, pranzò abbondantemente, e salì su un fiacre che lo portò a rue de Prony a un palazzetto il cui unico abitante era Culculina. Una vecchia cameriera lo fece accomodare. La casa era ammobiliata con gusto squisito.
Fu fatto subito entrare in una camera da letto col letto d'ottone bassissimo e larghissimo. Il pavimento era coperto di pelli d'animali che attutivano il rumore dei passi. Il principe si spogliò rapidamente ed era nudo quando entrarono Alessina e Culculina, in déhabillés affascinanti. Ridendo le ragazze lo baciarono sulle guance. Mony si mise seduto, poi si mise sulle ginocchia le due amiche, ma con le vestaglie aperte in modo che, pur sembrando decentemente vestite, sentisse i culi nudi sulle sue cosce. Poi si mise a palparle, una mano per ciascuna, mentre loro gli vellicavano il membro. Quando le sentì eccitate a dovere, disse loro:
«E adesso, faremo la lezione.»
Le fece accomodare su una sedia di fronte a lui e, dopo aver riflettuto un momento, chiese:
«Signorine, sento che non avete mutande. Dovreste vergognarvi. Correte a metterle.»
Quando furono tornate, la lezione ebbe inizio.
«Signorina Alessina Mangiatutto, come si chiama il re d'Italia?»
«Se pensi che me ne freghi qualcosa, ti sbagli di grosso!» disse Alessina.
«Immediatamente sul letto!» gridò il professore.
La fece mettere in ginocchio sul letto, in modo che gli voltasse le spalle, e le fece tirar su la vestaglia e giù le mutande, scoprendo la luminosa bianchezza dei due globi culari. Allora si mise a picchiare a mano aperta, e il posteriore divenne rapidamente rosso. Alessina era tutta eccitata e spingeva in fuori il sedere con convinzione, ma il principe si stancò presto dei preliminari. Le passò le mani attorno alla vita, le afferrò i seni sotto la veste, poi fece scivolare una mano ad accarezzare il clitoride, e sentì che la zona era tutta bagnata.
Le mani della ragazza non erano inattive: avevano afferrato l'asta del principe e l'avevano indirizzata sullo stretto sentiero di Sodoma. Si chinava, inoltre, in modo che il culo fosse meglio disposto per l'introduzione.
Il glande fu inghiottito rapidamente, il resto gli venne dietro con facilità, e i testicoli urtarono contro le basse natiche della ragazza. Culculina, che a far niente s'annoiava, prese posto sul letto e leccò la vulva di Alessina che, soddisfatta da due parti, godeva fino alle lacrime. Il suo corpo, scosso dalla voluttà, si contorceva come per inaudite sofferenze. Dalla gola le sfuggivano rantoli voluttuosi. Il grosso membro le riempiva il didietro e, muovendosi avanti e indietro, veniva a urtare la membrana che la separava dalla lingua di Culculina che raccoglieva i succhi provocati da questo passatempo. Il ventre di Mony si scontrava col sedere di Alessina. A poco a poco il principe sculettò più rapidamente, e si mise a mordere il collo della ragazza. Il membro gli si gonfiò. Alessina non poté più sopportare tanto piacere; s'abbandonò sul volto di Culculina, che non smise per questo di leccare, mentre il principe la seguiva nella caduta, col membro ben riparato. Ancora qualche spinta di reni, e Mony si liberò del suo seme. La ragazza rimase distesa sul letto, mentre Mony andava a lavarsi e Culculina si alzava per pisciare. Prese un secchio, visi mise a cavalcioni, tirò la sua veste e orinò abbondantemente. Poi, per soffiare via le ultime gocce rimaste tra i peli, lanciò un piccolo peto tenero e discreto che eccitò molto Mony.
«Defeca nelle mie mani, cacami nelle mani!» esclamò.
La ragazza sorrise. Mony si mise alle sue spalle, mentre quella abbassava un poco il sedere e cominciava a fare qualche sforzo. Aveva mutandine di batista trasparenti che avevano un taglio nella parte posteriore e che lasciavano intravedere al disotto le belle cosce nervose. Lunghe calze nere le salivano sopra al ginocchio modellando due polpacci meravigliosi dal profilo incomparabile, né troppo grossi né troppo magri. Il sedere, in questa posizione, risultava magnificamente inquadrato dal taglio delle mutande. Mony osservava avidamente le natiche brune e rosa, vellutate, animate da un sangue generoso. Intravedeva l'estremità della spina dorsale, e sotto, dove cominciava il solco culino: dapprima largo, poi più stretto e profondo via via che aumentava lo spessore delle natiche, fino ad arrivare al bel buco bruno e tondo e con molte piegoline interne. Gli sforzi della ragazza ebbero come primo effetto quello di dilatare il buco, e di farne vedere un po' di pelle liscia e rosea dell'interno, come un labbro rigirato verso l'esterno.
«E dàgli!» gridava Mony.
Apparve infine una punta di merda, aguzza e insignificante, che mostrò il capo per ritirarsi subito nella sua caverna.
Ricomparve, però, seguita lentamente e maestosamente dal resto del salame, che costituiva uno dei più bei prodotti intestinali mai visti.
La merda usciva untuosa e ininterrotta, solida, come una gomena di nave, e penzolava graziosamente tra le belle chiappe che s'allargavano sempre più. Poi dondolo con più animazione. Il sedere si dilatò ancora di più, si scosse un po', e la cosa ne cadde calda e fumante, nelle mani di Mony pronta a riceverla. Allora egli esclamò: «Rimani come sei!» e, chinandosi, le leccò per bene il buco d'uscita, mentre intanto arrotolava lo sterco tra le mani. Poi lo schiacciò voluttuosamente e se ne cosparse tutto il corpo. Culculina si spogliava per fare come Alessina, che si era denudata per far vedere a Mony il bel culo dalla pelle trasparente di bionda. «Cacami addosso!», esclamò Mony rivolto ad Alessina, sdraiandosi per terra, in modo da potersi godere lo spettacolo offerto dal sedere di quella. I primi sforzi ebbero per tutto risultato di far uscire un po' dello sperma che Mony vi aveva lasciato; poi uscì il resto, sterco giallo e molle che cadde in più riprese e, poiché la ragazza rideva e si muoveva, finì su una parte e l'altra del corpo di Mony, che ne ebbe il ventre adorno di strisce odorifere.
Alessina aveva però contemporaneamente orinato, e il getto caldo era caduto sul membro di Mony, risvegliando i suoi spiriti animali. L'asta cominciò a rizzarsi a poco a poco gonfiandosi sino al momento in cui, raggiunta la sua grossezza normale, il glande si tese, rosso come una grossa prugna, sotto gli occhi della ragazza che, accostandosene, si chinò sempre di più, fino a far penetrare il membro in erezione tra le sponde pelose del suo sesso ampiamente aperto. Il culo di Alessina, abbassandosi, sfoggiava ancor meglio la sua appetitosa rotondità. Le curve piccanti si delineavano ancor meglio a causa dell'allargamento delle natiche. Quando il culo fu sceso per bene, e l'asta completamente inghiottita, si rialzò dando inizio a un grazioso movimento di va-e-vieni che modificava il suo volume in proporzioni notevoli, producendo uno spettacolo delizioso a vedersi. Mony, tutto smerdato, era al massimo del godimento: e sentì presto restringersi la vagina della bella Alessina, che disse con voce rantolante: «Porco, vengo... godo...»
Ed emise il suo seme. Ma Culculina, che aveva assistito all'intera operazione e sembrava tutta in calore, la strappò via violentemente da sopra il suo palo, e gettandosi su Mony senza affatto preoccuparsi della merda, che sporcò anche lei, si infilò la banana nel sesso, con un gran sospiro di piacere. E cominciò a dare terribili colpi di sedere dicendo: «Ah!», ad ogni colpo di reni. Ma Alessina, irritata per essere stata spossessata del suo bene, aprì un cassetto e ne tirò fuori uno staffile fatto di strisce di cuoio. E cominciò a picchiare sul culo di Culculina, i cui sobbalzi divennero ancora più appassionati. Alessina, eccitata dallo spettacolo,
picchiava sodo e senza esitazioni. I colpi piovevano sul magnifico posteriore. Mony abbassando la testa un po' dilato, vedeva, in uno specchio posto proprio di fronte, il grosso culo di Culculina sollevarsi e abbassarsi. Nel sollevarsi, le natiche si aprivano e appariva per un attimo la rosetta, per sparire nell'abbassarsi quando le belle chiappe paffute si restringevano. Più in basso, le labbra pelose e allargate del sesso inghiottivano l'enorme membro che, nel movimento di ascesa del culo, appariva quasi per intero, e bagnato. I colpi di Alessina fecero arrossare del tutto il povero culo, che ora trasaliva di voluttà. Ben presto uno dei colpi lasciò un segno sanguinante. Tutte e due, quella che dava le frustate e quella che le riceveva, deliravano come baccanti e sembrava godessero l'una e l'altra allo stesso modo. Lo stesso Mony si mise a dividere il loro furore, e le sue unghie s'accanirono sulla pelle di seta delle spalle di Culculina. Alessina, per picchiare più comodamente l'amica, si inginocchiò a fianco del gruppo. Il suo bel culo grassottello e sobbalzante a ogni colpo che dava, si trovò così a due dita dalla bocca di Mony.
Il quale non ci mise molto a infilarvi la lingua. Poi, crescendo l'ira e la voluttà, si mise a mordere la chiappa destra. La ragazza lanciò un grido di dolore. I denti erano penetrati nella carne e un sangue fresco e rosso dissetò la gola secca di Mony. Egli lo succhiò, apprezzandone parecchio il gusto ferroso appena un po' salato. In quel momento i sobbalzi di Culculina cominciarono a diventare più disordinati. Gli occhi stralunati non mostravano più che il bianco. La bocca macchiata dalla merda ch'era sul corpo di Mony, emise un gemito, e la bella raggiunse l'orgasmo contemporaneamente a Mony. Alessina cadde su di loro sfinita, rantolante e digrignando i denti, e a Mony, ci volle poco per farla venire infilandole la lingua nel sesso. Poi i nervi si rilassarono dopo qualche sobbalzo ancora, e il trio si distese tra la merda, il sangue e lo sperma. Si addormentarono in questo stato. Quando si svegliarono sentirono l'orologio a pendolo della camera che suonava i dodici colpi della mezzanotte.
«Non muovetevi, ho sentito un rumore» disse Culculina «non può essere la cameriera: è abituata a lasciarmi in pace, e starà di certo dormendo.»
Un sudore freddo coprì il volto di Mony e delle due ragazze. I capelli si drizzarono loro in testa e i corpi nudi e merdosi furono scossi da brividi.
«C'è qualcuno!» disse Alessina.
«C'è qualcuno!» confermò Mony.
In quell'istante la porta si aprì e quel poco di luce che proveniva dalla strada notturna permise di vedere due ombre umane vestite di soprabiti dal collo rialzato e con la bombetta in testa.
La prima ombra illuminò improvvisamente la stanza col raggio discreto di una pila elettrica che teneva in mano, ma i due scassinatori non videro subito il gruppo disteso sul pavimento.
«Accidenti, che puzza! » disse il primo.
«Entriamo lo stesso, nei cassetti dev'esserci un sacco di grana!» ribatté il secondo.
In quel momento Culculina, che silenziosamente si era trascinata verso l'interruttore della luce, illuminò improvvisamente la stanza.
Gli scassinatori rimasero allibiti di fronte a quelle nudità.
«Merda!» disse il primo. «Parola di Cornaboeux, non mancate certo di gusto!»
Era un colosso scuro dalle mani pelose. La barba incolta lo rendeva ancora più orrendo.
«Guarda un po' che roba» disse il secondo. «Però la merda non è poi un guaio, porta fortuna!»
Si trattava di una pallida canaglia guercia, che si rigirava tra le labbra un mozzicone spento.
«Proprio vero, Scialuppa,» disse Cornaboeux, «ci ho appena messo il piede sopra, e come prima fortuna credo che mi farò 'sta figliola. Ma prima sistemiamo il giovinotto.»
E gettandosi su Mony spaventatissimo, i due ladri lo imbavagliarono e gli legarono braccia e gambe. Poi, voltandosi verso le due donne tremanti di paura, ma anche un po' divertite, Scialuppa disse:
«E voi, bambine, cercate di far le gentili, se no vi sistemo per le feste.»
Aveva in mano una canna, e la passò a Culculina ordinandole di picchiare Mony con tutte le sue forze. Poi le si mise alle spalle ed estrasse dai calzoni un membro sottile come un mignolo, ma molto lungo. Culculina cominciava a divertirsi. Scialuppa, per tutto inizio, le diede due pacche sulle natiche dicendo:
«Ci siamo! bel culetto: ti toccherà suonare il piffero, adesso!»
Maneggiava e palpava il gran culo vellutato e, passata una mano sul davanti, gingillava col clitoride, poi, improvvisamente, inserì nel didietro l'asta lunga e sottile. Culculina cominciò ad agitare il sedere picchiando intanto Mony. Non potendo né difendersi né gridare, questi si dimenava come un verme ad ogni bastonata, che lasciava un segno prima rosso ma che stingeva subito in un colore violetto. Man mano che l'operazione di Scialuppa proseguiva, Culculina eccitata picchiava sempre più forte, gridando:
«Porco, carogna, prendi questo, e prendi quest'altro... Scialuppa, fammi entrare il tuo stuzzicadenti fino in fondo.»
Il corpo di Mony sanguinò da ogni parte.
Intanto Cornaboeux aveva afferrato Alessina e l'aveva gettata sul letto. Cominciò col mordicchiarle i capezzoli che cominciarono a indurirsi. Poi scese fino al sesso e vi premette avidamente la bocca, mentre tirava i bei peli biondi e ricciuti del pube. Si rialzò e denudò un membro enorme, ma corto, dalla testa paonazza. Rivoltò la ragazza, e si mise a sculacciarla sul grosso culo roseo; di tanto in tanto passava la mano nella fessura culina. Poi strinse a sé la ragazza col braccio sinistro, in modo da avere a portata della mano destra il suo sesso. La sinistra la teneva per la barba di quella... e non era piacevole per lei, che cominciò a piangere e a gemere sempre più forte, specialmente quando Cornaboeux riprese a sculacciarla a più non posso. Le grandi cosce rosa fremevano tutte, e anche il sedere, ogni volta che vi piombava la zampata dello scassinatore. Cercò di difendersi, e con le manine libere si mise a graffiare la faccia barbuta del violento, e gli tirò i peli del viso così come quello le tirava la barba del sesso:
«D'accordo! » disse Cornaboeux, e la rivoltò sulle spalle.
In quell'istante, la ragazza poté vedere lo spettacolo costituito da Scialuppa che inculava Culculina che picchiava Mony che aveva il sedere tutto sanguinato, e ne fu eccitata. Il gran membro di Cornaboeux batteva contro il suo culo, ma senza trovare il punto giusto, o troppo a destra o troppo a sinistra, o più in alto o più in basso. Ma quando infine trovò il buco, mise le mani sulle reni lisce e ben tornite di Alessina e se la tirò contro con tutta la sua forza. Il dolore provocatole dall'enorme affare che le lacerava il didietro l'avrebbe fatta gridare di dolore se non fosse stata così eccitata da tutto quanto era successo. Appena il suo membro fu entrato, Cornaboeux lo tirò fuori, poi rivoltò Alessina sul letto e le infilò lo strumento nella vagina. L'arnese entrò a fatica, causa la sua grossezza, ma non appena dentro Alessina incrociò le gambe sulla schiena dello scassinatore e lo tenne così stretto che anche se avesse voluto uscirne non ci sarebbe riuscito. L'agitazione dei due sederi fu furiosa. Cornaboeux le succhiava i capezzoli, e la barba le faceva solletico eccitandola ancora di più. La donna mise una mano nei pantaloni dello scassinatore e gli infilò un dito nel sedere. Poi si misero a mordersi come bestie selvagge, dando intanto frenetici colpi di reni. E l'orgasmo freneticamente arrivò. Ma il membro di Cornaboeux, prigioniero nella vagina di Alessina, cominciò a indurirsi di nuovo. Alessina chiuse gli occhi per gustare meglio il secondo abbraccio. E venne quattordici volte, contro le tre di Cornaboeux. Quando si fu rimessa, si accorse di avere sesso e culo insanguinati, feriti dall'enorme membro di Cornaboeux. E vide sul suolo il corpo di Mony scosso da sussulti convulsivi. Un corpo che era tutto una piaga.
Su ordine del guercio Scialuppa, Culculina gli succhiava il membro, inginocchiata davanti a lui.
«In piedi, adesso, puttana! » gridò Cornaboeux.
Alessina obbedì e l'uomo le rifilò un tale calcio nel didietro da farla cadere addosso a Mony. Cornaboeux le legò braccia e gambe e la imbavagliò senza badare alle sue suppliche e afferrata la canna, si mise a decorare il suo corpo di nerbate. Il sedere trasaliva a ogni colpo, poi fu la volta delle spalle, del ventre, delle cosce e dei seni sui quali la gragnuola si intensificò. Sussultando e dibattendosi, Alessina si ritrovò sul membro di Mony, eretto come quello di un cadavere, e che si avvicinò al sesso della ragazza e lo penetrò.
Cornaboeux bastonò ancora più forte, e picchiò indistintamente su Mony e su Alessina, che godevano in modo atroce. Ben presto la bella pelle rosea della biondina divenne invisibile sotto le zebrature e il sangue che ne colava. Mony era svenuto, la donna svenne poco dopo. Cornaboeux, con le braccia ormai stanche, si rivolse a Culculina, che tentava di far venire Scialuppa senza però esserci ancora riuscita.
Cornaboeux ordinò alla brunetta di allargare le cosce. Fece una certa fatica a infilarla di dietro. La ragazza soffrì molto, però stoicamente, senza smettere un solo istante di succhiare il membro a Scialuppa. Quando Cornaboeux ebbe preso pieno possesso di Culculina, le fece alzare il braccio destro e le morse i peli foltissimi delle ascelle. Quando l'orgasmo arrivò, esso fu così forte che Culculina svenne mordendo violentemente l'affare di Scialuppa. Questi lanciò un grido di dolore, ma il glande era ormai troncato. Cornaboeux, che aveva appena eiaculato, uscì di colpo dalla vagina di Culculina, che cadde svenuta al suolo. Scialuppa, svenuto, perdeva tutto il suo sangue.
«Povero Scialuppa,» disse Cornaboeux, «è meglio che crepi sull'istante!»
E, tirato fuori dalla tasca un coltello, gli affibbio un colpo mortale, scuotendo sul corpo di Culculina le ultime gocce di sperma che gli colavano dal membro. Scialuppa morì senza dire «Ah!»
Cornaboeux si riaggiustò accuratamente i pantaloni, vuotò i cassetti di tutto il denaro e gli abiti che vi trovò, e prese inoltre i gioielli e gli orologi. Poi guardo Culculina svenuta per terra.
«Bisogna vendicare Scialuppa» pensò.
E estrasse ancora una volta il coltello, infilandolo di forza tra le natiche di Culculina, sempre svenuta. Cornaboeux lasciò il coltello piantato nel sedere. Gli orologi suonarono le tre del mattino. L'uomo uscì come era entrato, lasciando quattro corpi distesi a terra, nella stanza piena di sangue, di sperma e di un disordine indescrivibile.
Una volta in strada, si diresse allegramente verso Ménilmontant canticchiando:

E un culo deve odorare di culo
e non di acqua di Colonia...

oppure:

Bec... co di gas
bec... co di gas
Accendi accendi il mio bel buchino.


CAPITOLO IV

Lo scandalo fu grandissimo. I giornali parlarono del fattaccio per otto giorni. Culculina, Alessina e il principe Vibescu dovettero rimanere a letto per due mesi. Durante la convalescenza, Mony entrò una sera in un bar vicino alla stazione di Montparnasse. Vi si beveva petrolio, una bevanda niente male per i palati abituati agli altri liquori.
Il principe, degustando l'infame torcibudella, stava scrutando i consumatori. Uno di loro, un colosso barbuto, era vestito da scaricatore di mercato e l'enorme cappello lo faceva sembrare un semidio da racconto pronto a compiere qualche eroica impresa.
Al principe sembrò di riconoscere il simpatico volto dello scassinatore Cornaboeux. Lo sentì a un tratto ordinare petrolio con una voce tonante. Era proprio la voce di Cornaboeux. Mony si alzò e gli andò incontro tendendogli la mano:
«Buongiorno, Cornaboeux, siete ai mercati, adesso?»
«Io?» disse lo scaricatore sorpreso, «come fate a conoscermi?»
«Vi ho visto al 241 di rue de Prony» disse Mony con fare disinvolto.
«Non ero io,» rispose spaventatissimo Cornaboeux «non so proprio chi siete, lavoro ai mercati da tre anni e tutti mi conoscono. Lasciatemi in pace!»
«Basta con le sciocchezze» rispose Mony. «Cornaboeux, tu mi appartieni. Posso consegnarti alta polizia. Ma mi piaci, e se vuoi seguirmi mi farai da servitore, verrai con me dovunque, ti assocerò ai miei piaceri, mi aiuterai e mi difenderai se ce ne sarà bisogno. E se mi sarai fedele ti farò diventare ricco. Rispondi immediatamente.»
«Siete proprio in gamba, e sapete parlar bene. Qua la mano, sono l'uomo che fa per voi.»
Pochi giorni dopo Cornaboeux, promosso al grado di valletto, chiudeva le valigie del principe. Mony era richiamato in tutta fretta a Bucarest: il suo amico intimo, il vice-console di Serbia, era morto lasciandogli in eredità tutte le sue fortune, che non erano indifferenti. Si trattava di miniere di stagno, che rendevano molto bene da qualche anno in qua, ma che bisognava sorvegliare da vicino se non si voleva vederne i profitti calare immediatamente. Il principe Mony, come abbiamo visto, non amava il denaro in quanto tale; desiderava più gran ricchezza possibile solo per i piaceri che solamente l'oro può procurare. Ripeteva sempre questa massima, pronunciata da uno dei suoi avi: «Tutto si vende; tutto si compra; è solo questione di prezzo.»
Il principe Mony e Cornaboeux avevano preso posto sulI'Orient-Express; le vibrazioni del treno ebbero subito effetto su Mony, cui venne un'erezione da cosacco e che lanciò verso Cornaboeux sguardi infiammati. Fuori il bellissimo paesaggio dell'Est della Francia sciorinava le sue magnificenze placide e nitide. Lo scompartimento era quasi vuoto; un vecchio podagroso, vestito molto riccamente, si lamentava sbavando sul Figaro che tentava di leggere.
Mony, che era tutto avvolto in un grande mantello, afferrò la mano di Cornaboeux e, facendola entrare nell'apertura uso tasca di quel comodo capo di abbigliamento, se la portò alla patta. Il colossale valletto non tardò a capire il desiderio del padrone. La sua gran mano pelosa, ma ben modellata e più dolce di quanto si sarebbe potuto pensare, sbottonò con dita delicate i pantaloni del principe, e afferrò il delirante membro, che giustificava in tutto e per tutto il celebre distico di Alphonse Allais:

L'eccitante vibrazione dei treni
Stimola brucianti desideri nelle reni.

Ma entrò un impiegato della Compagnia dei vagoni‑letto e annunciò che era l'ora del pranzo e che molti viaggiatori già si trovavano nel vagone‑ristorante.
«Ottima idea,» disse Mony «Cornaboeux, andiamo prima a mangiare.»
La mano dell'ex‑facchino scivolò fuori dall'apertura del mantello. I due uomini si diressero verso la sala da pranzo. Il membro del principe era tuttora in erezione e poiché non si era riallacciato i calzoni, si notava sul mantello una bella bozza. Il pranzo cominciò senza inciampi, cullato dal rumore ferroso del treno e dai tintinnii del vasellame, dell'argenteria e dei cristalli, turbato talvolta dall'improvviso schiocco di un tappo di Apollinaris.
A un tavolo sul fondo, al lato opposto di quello di Mony, erano sedute due donne bionde e graziose. Cornaboeux, che le aveva di fronte, le indicò a Mony. Il principe si voltò a guardarle e riconobbe in una delle due, vestita più modestamente dell'altra, Marietta, l'eccellente cameriera del Grand‑Hotel. Subito si alzò in piedi e si diresse verso le signore. Salutò Marietta e si rivolse all'altra viaggiatrice, bella e truccata. I capelli ossigenati le davano un tono moderno che incantò Mony:
«Signora» le disse, «vi prego di scusare il mio comportamento. Mi presento da solo, vista la difficoltà di trovare in questo treno qualche comune conoscenza. Sono il principe Mony Vibescu, hospodar ereditario. La signorina qui presente, cioè Marietta, che ha senza dubbio lasciato il servizio al Grand-Hotel per passare al vostro mi ha fatto contrarre nei suoi confronti un debito di riconoscenza di cui voglio disobbligarmi oggi stesso. Voglio farla sposare al mio valletto, intestando a ognuno una dote di cinquantamila franchi.»
«Non vedo in ciò nessun inconveniente» disse la dama, «ma vedo qualcosa che non sembra affatto male attrezzato. A chi è che lo destinate?»
Il membro di Mony aveva trovato una via d'uscita e mostrava la testa rubiconda tra due bottoni. Il principe arrossì e fece sparire l'arnese. La donna si mise a ridere.
«Per fortuna siete in una posizione che ha permesso solo a noi di vederlo... Sarebbe stato buffo... Ma rispondete, dunque, per chi è quell'arnese spaventoso?»

 

«Permettetemi,» disse galantemente Mony, «di farne omaggio alla vostra sovrana bellezza.»

«Vedremo, vedremo», disse la dama. «Ma intanto poiché vi siete presentato, ora tocca a me farlo... sono Estella Romange...»
«La grande attrice del Français?» chiese Mony.

La dama annuì con modestia.

Mony, pazzo di gioia, esclamò:
«Estella, avrei dovuto riconoscervi subito! Sono vostro appassionato ammiratore da tanto tempo! Quante serate ho passato al Teatro Francese, a guardarvi nelle vostre parti di amorosa! E per calmare la mia eccitazione, non potendo masturbarmi in pubblico, m'infilavo le dita nel naso, ne tiravo fuori tutto il possibile, e me lo mangiavo. Ed era bello! ah! com'era bello!»
«Marietta, andate a pranzare col vostro fidanzato» disse Estella. «E voi, principe, accomodatevi al mio tavolo.»
Appena furono seduti uno di fronte all'altra il principe e l'attrice si guardarono come due innamorati:
«Dove andate?» chiese Mony.
«A Vienna, a recitare dinnanzi all'Imperatore.»
«E il decreto di Mosca?»
«Del decreto di Mosca me ne frego: manderò a Claretie le mie dimissioni... Mi trascura... Mi si affidano ruoli secondari... mi si rifiuta quello di Eorakâ nella nuova pièce di Mounet-Sully.. Parto... Non permetterò che il mio talento venga soffocato.»
«Recitate qualcosa per me... dei versi» chiese Mony.
E mentre un cameriere cambiava le stoviglie, Estella gli recitò l'Invitation au Voyage. Mentre proseguiva la declamazione della stupenda poesia in cui Baudelaire ha messo un po' della sua malinconia amorosa e della sua nostalgia appassionata, Mony sentì i piedini dell'attrice risalire lungo le sue gambe: raggiunsero sotto il mantello il membro di Mony, tristemente reclinato fuori dai calzoni. Lì i piedini si fermarono e, stringendo delicatamente l'arnese, iniziarono un curioso movimento di va-e-vieni. Immediatamente induritosi, il membro del giovane si lasciò manovrare dalle delicate scarpine di Estella Romange. Non ci volle molto perché cominciasse a star bene, e allora Mony improvvisò questo sonetto, che recitò all'attrice, il cui lavoro pedestre non ebbe sosta sino agli ultimi versi:

EPITALAMIO

Le tue mani inseriranno il mio bel membro asinino
Nel dannato bordello tra le tue cosce aperte
E voglio confessarlo malgrado Agostino,
Che mi infiamma il tuo amore, se il tuo corpo l'avverte!
La mia bocca i tuoi seni bianchi più del latte
Suggerà, onore abbietto che mi farà felice.
Dalla mentula maschia che nel tuo sesso batte
Scaturirà lo sperma, oro nella matrice.
Le tue chiappe hanno vinto, mia dolce puttana,
D'ogni frutto polposo il mistero profondo,
L'insipienza mensile del culo della luna,
L'umile ed asessuata rotondità del mondo
Pure se chiudi gli occhi, da loro si diffonde
Quel chiarore opaco che dalle stelle scende.

E poiché il membro era arrivato al limite dell'eccitazione, Estella ne tirò via i piedi dicendo:
«Mio principe, non facciamolo esplodere nel vagone-ristorante; che si penserebbe di noi?... Lasciatemi ringraziarvi per l'omaggio reso a Corneille in punta del vostro sonetto. Benché io stia per lasciare la Comèdie Française, tutto ciò che interessa la Casa è oggetto delle mie costanti preoccupazioni.»
«Ma» disse Mony, «dopo aver recitato di fronte a Francesco Giuseppe, cosa pensate di fare?»
«Il mio sogno,» disse Estella, «è quello di diventare una stella del café-concert.»
«State attenta!» riprese Mony. «Il triste Monsieur Claretie distruttore di stelle vi intenterà processi senza fine.»
«Lascia andare, Mony, e dimmi ancora qualche verso prima di andare a nanna.»
«Bene,» disse Mony, e improvvisò queste delicate liriche.

ERCOLE E ONFALE

D'Onfale
il culo
è vinto
è spinto.
- «Lo senti,
il fallo
com'è duro!»
- «Bello!
io troppo soffro
eppur te l'offro!»
Ercol s'avvale
del cul
d'Onfale.

 

PRIAMO E TISBE

Madama
Tisbe
vola
da sola.
Piramo
giunge,
la sposa
stringe.
La bella
alfine
favella,
freme,
e viene,
insieme.

«Squisito! Delizioso! Stupendo! Mony, sei un poeta arcidivino, vieni a fottermi nel vagone-letto, stasera ho sentimenti chiavatori.»
Mony pagò i due conti. Marietta e Cornaboeux si guardavano languidamente. Nel corridoio, Mony fece scivolare cinquanta franchi nelle mani dell'impiegato della Compagnia dei vagoni-letto, che permise alle due coppie di occupare lo stesso scompartimento. «Alla dogana ci penserete voi» disse il principe all'uomo dal berretto. «Non abbiamo nulla da dichiarare. Dovrete però bussare alla nostra porta due minuti prima del passaggio della frontiera.»
Nella cabina si denudarono tutti e quattro. Marietta fu la prima a finire l'operazione. Mony non l'aveva mai vista in quello stato, ma riconobbe le belle cosce tornite e la foresta di peli che annerivano il sesso ben rilevato. I suoi capezzoli erano eretti, come del resto i membri di Mony e Cornaboeux.
«Cornaboeux,» disse Mony «tu pensa a incularmi, mentre io fotterò questa bella ragazza.»
Estella ci mise più tempo a spogliarsi e quando fu pronta Mony s'era già introdotto da dietro nella vagina di Marietta che, cominciando a godere, agitava il suo bel sedere e lo faceva schioccare contro il ventre di Mony. Cornaboeux aveva infilato il suo strumento corto e grosso nell'ano dilatato di Mony, che urlava:
«Maiale di ferrovia! In questo modo perderemo l'equilibrio!»
Marietta schioccava come una gallina e guizzava come un tordo in una vigna. Mony le passò un braccio attorno alla vita e le schiacciò le tette. Ammirava intanto la bellezza di Estella, la cui folta capigliatura rivelava la mano di un abile parrucchiere. Era la donna moderna nel pieno senso della parola: capelli ondulati tenuti insieme da pettini di tartaruga, dal colore che si accordava con la sapiente ossigenazione. Il corpo era affascinante e grazioso. Il sedere nervoso e prominente in modo provocante. Il volto truccato con arte le dava l'aspetto di una puttana di gran lusso. I seni erano un po' cadenti, ma non le stavano male: piccoli, minuti, a forma di pera. A carezzarli erano dolci, soffici, e al tatto facevano pensare alle mammelle di una capra da latte, mentre, se Estella si girava all'improvviso, saltellavano come un fazzoletto di batista arrotolato a mo' di una pallina che ci si divertisse a far danzare sulla mano.
Sul pube aveva soltanto un piccolo ciuffo di peli di seta. Si mise sulla cuccetta e, con una specie di capriola, passò le cosce nervose attorno al collo di Marietta, che si trovava così ad avere il sesso della padrona proprio davanti alla bocca, e che cominciò a leccarlo avidamente, affondando il naso tra le cosce, e nel buco più basso. Estella aveva già infilato la lingua nel sesso della servetta e succhiava allo stesso tempo l'interno di un sesso infiammato e il grosso membro di Mony che ci si agitava con ardore. Cornaboeux si godeva beatamente lo spettacolo. Il suo gran membro, interamente penetrato nel buco peloso del principe, andava e veniva lentamente. Lanciò due o tre bei peti che ammorbarono l'atmosfera aumentando il godimento del principe e delle due donne. Improvvisamente Estella si mise a dimenarsi spaventosamente; il suo culo cominciò a danzare davanti al naso di Marietta, i cui mugolii e movimenti divennero anch'essi più vivaci. Estella dimenava a destra e a sinistra le lunghe gambe inguainate in calze di seta nera e calzate di scarpine a tacco in stile Luigi XV. Così agitandosi, rifilò un tremendo colpo al naso di Cornaboeux, che ne rimase stordito e si mise a sanguinare abbondantemente. «Puttana!» urlò Cornaboeux e, per vendicarsi, morse terribilmente la spalla di Marietta, che stava venendo tra grandi grida. Per il dolore, questa piantò i denti nel sesso della padrona che, istericamente, strinse forte le cosce attorno al suo collo.
«Soffoco!» mormorò con difficoltà Marietta.
Ma nessuno le diede ascolto. La stretta delle cosce si fece più forte. Il volto di Marietta si fece violaceo, la bocca schiumante ferma sul sesso dell'attrice.
Mony eiaculava, urlando, in una vagina ormai inerte. Cornaboeux, con gli occhi fuori dalle orbite, lanciava il suo sperma nel didietro di Mony, dichiarando con voce sfinita:
«Se non resti incinto, non sei un uomo!»
I quattro s'erano ormai afflosciati. Distesa sulla cuccetta, Estella stringeva i denti dando pugni al vento e agitando le gambe. Cornaboeux pisciava dallo sportello. Mony tentava di ritirare il membro dalla vagina di Marietta. Ma non c'era niente da fare. Il corpo della servetta non aveva più movimenti di sorta.
«Fatemi uscire,» le diceva Mony accarezzandola, poi le pizzicò violentemente le natiche e la morse, ma non servì a niente.
«Vieni ad allargarle le cosce, è svenuta!» disse Mony a Cornaboeux.
Fu con gran fatica che Mony riuscì infine a tirar fuori il suo membro da un'apertura che si era spaventosamente stretta. Cercarono poi di far rinvenire Marietta, ma non ci fu niente da fare.
«Merda! E crepata!» dichiarò Cornaboeux.
Ed era vero. Marietta era morta, strozzata dalle gambe della padrona. Era morta, irrimediabilmente morta.
«Stiamo freschi!» disse Mony.
«È tutta colpa di questa porca» dichiarò Cornaboeux indicando Estella, che cominciava infine a calmarsi.
E prendendo una spazzola per i capelli dal nécessaire di Estella cominciò a darle gran colpi in testa. Le setole della spazzola la pungevano violentemente a ogni colpo. La punizione la eccitò enormemente.
In quell'istante, qualcuno bussò alla porta.
«È il segnale,» disse Mony «tra qualche istante passeremo la frontiera. Bisogna, l'ho giurato, farne una metà in Francia e metà in Germania. Infila la morta.»
Mony, a membro eretto, si buttò su Estella che, a cosce larghe, lo accolse nel suo sesso bruciante esclamando:
«Fallo entrare sino in fondo, dài!... dai!...»
Le spinte del suo sedere avevano qualcosa di diabolico, dalla sua bocca colava una bava che si mescolava al trucco, scivolando infetta sul mento e sul seno; Mony le mise la lingua in bocca, e le ficcò il manico della spazzola nel sedere. Per effetto di questa nuova voluttà, Estella morse con tale violenza la lingua di Mony che questi dovette pizzicarla a sangue perché la smettesse.
Intanto Cornaboeux aveva rigirato il cadavere di Marietta, il cui volto violaceo era spaventevole. Le allargo le chiappe e fece entrare con grande fatica l'enorme membro nell'apertura sodomitica. Allora diede libero sfogo alla sua ferocia naturale. Strappò a ciuffo a ciuffo con le mani i biondi capelli della morta. Dilaniò con i denti le spalle di una bianchezza polare, e il sangue vermiglio che ne scaturì, presto coagulato, sembrava nascere dalla neve.
Poco prima di godere, introdusse la mano nella vulva ancora tiepida, e facendovi entrare tutto il braccio si mise ad estrarne le budella della disgraziata cameriera. Nel momento dell'orgasmo, aveva già estratto due metri di intestini e se li era passati attorno alla vita, come una cintura di salvataggio.
Eiaculò vomitando il pasto, sia per le vibrazioni del treno, sia per le emozioni provate. Mony era appena venuto, e guardava stupefatto il suo valletto colto da spaventosi singulti mentre vomitava sul misero cadavere. Tra i capelli insanguinati, budella e sangue si mescolavano al vomito.
«Maiale infame,» esclamò il principe, «lo stupro di questa giovane morta che avresti dovuto sposare secondo la mia promessa peserà sulla tua coscienza nella valle di Giosafat. Se non ti amassi così tanto ti ammazzerei come un cane.»
Cornaboeux si alzò, insanguinato, frenando gli ultimi sussulti di vomito. Indicò Estella, che contemplava con occhi dilatati dall'orrore il turpe spettacolo:
«È lei la causa di tutto! » dichiarò.
«Non essere crudele» disse Mony, «ti ha pur dato la possibilità di soddisfare i tuoi gusti di necrofilo.»
E poiché stavano passando sopra un ponte, il principe si mise al finestrino per contemplare il romantico paesaggio del Reno che dispiegava i suoi splendori avanzando in larghe curve fino all'orizzonte. Erano le quattro del mattino, nei prati si muovevano lente le vacche, e bambini già giocavano sotto germanici tigli. Una musica di pifferi, monotona e mortuaria, annunciava la presenza di un reggimento prussiano, e la melopea si mescolava malinconicamente al rumore di ferraglia del ponte e al sordo accompagnamento del treno in marcia. Villaggi felici animavano le rive dominate da castelli centenari, e le vigne renane esibivano all'infinito il loro mosaico regolare e prezioso.
Quando Mony si voltò, vide il sinistro Cornaboeux seduto sul volto di Estella. Il suo sedere di colosso copriva la faccia dell'attrice. Aveva defecato e la merda infetta e molle cadeva d'ogni lato.
Impugnava un enorme coltello, e lavorava con quello sul ventre palpitante della donna. Il corpo dell'attrice aveva brevi sussulti.
«Aspetta» disse Mony, «resta seduto.»
E, coricandosi sulla morta, introdusse il suo membro nel sesso moribondo. Godette così degli ultimi spasmi dell'assassinata, le cui ultime sofferenze dovettero essere terribili e immerse le braccia nel sangue caldo che le scaturiva dal ventre. Quando ebbe eiaculato, l'attrice non si muoveva più. Era rigida, e gli occhi riversi erano coperti di sterco.»
«Adesso, » disse Cornaboeux, «bisogna squagliarsela.»
Si lavarono e si vestirono. Erano le sei del mattino. Uscirono dal finestrino e si sdraiarono coraggiosamente lungo il marciapiede del treno che correva a tutta velocità. Poi, a un segnale di Cornaboeux, si lasciarono cadere dolcemente sulla massicciata della ferrovia. Si rialzarono un po' storditi, ma sani e salvi, e salutarono con un gesto pieno di intenzioni il treno, che già si rimpiccioliva allontanandosi.
«Era ora!» disse Mony.
Raggiunsero la città più vicina, vi riposarono due giorni, poi ripresero il treno per Bucarest.
Il duplice assassinio dell'Orient-Express occupò i giornali per sei mesi. Gli assassini non vennero ritrovati, e il crimine venne attribuito a Jack lo squartatore, che ha le spalle larghe.
A Bucarest, Mony ritirò l'eredità del vice‑console di Serbia. Le sue relazioni con la colonia serba fecero sì ch'egli ricevesse una sera un invito a casa di Natascia Kolowit, la moglie del colonnello prigioniero per la sua ostilità contro la dinastia degli Obrenovic.
Mony e Cornaboeux arrivarono verso le otto di sera. La bella Natascia era in un salone dai tendaggi neri, illuminato da ceri gialli e decorato con tibie e teschi.
«Principe Vibescu» disse la dama, «state per assistere a una seduta segreta del comitato anti-dinastico di Serbia. Stasera verrà certamente votata la morte dell'infame Alessandro e di quella puttana di sua moglie, Draga Mascin; dobbiamo rimettere re Pietro Karageorgevic sul trono dei suoi avi. Se rivelerete quanto vedrete e sentirete, una mano invisibile vi ucciderà, dovunque voi siate.»
Mony e Cornaboeux si inchinarono. Uno a uno arrivarono i congiurati. André Bar, il giornalista parigino, era l'anima del complotto. Arrivò, funereo, avvolto in una cappa alla spagnola.
Venne fatta entrare una strana coppia: un bambino di dieci anni in abito da sera, il gibus sotto braccio, accompagnato da una bimbetta deliziosa che non poteva avere più di otto anni, e che era vestita da sposa, in un abito di satin bianco ornato di mazzetti di fiori d'arancio.
Il pope fece un bel discorso e li sposò con lo scambio degli anelli. Poi li invitò alla fornicazione. Il bambino tirò fuori un affarino della grandezza di un dito mignolo e la sposina, sollevando le gonne di falbalà, mostrò le coscette bianche, in cima alle quali aspettava una fessurina imberbe e rosea come l'interno del becco di una ghiandaia appena nata. Un silenzio religioso era sceso sull'assemblea. Il ragazzino cercò di infilare la bambina, ma, poiché non ci riusciva, gli tolsero i calzoni e per eccitarlo Mony lo sculacciò gentilmente mentre Natascia, con la punta della lingua, gli titillava pisellino e palline. Infine l'erezione arrivò e il bambino poté sverginare la bambina. Quando ebbero giocherellato per una decina di minuti, vennero separati e Cornaboeux afferrò il ragazzino e gli sfondò il retro col suo possente spadone. Mony non poté trattenere la voglia che aveva di farsi la bambinetta. L'afferrò, se la mise a cavallo sulle ginocchia e le infilò nella minuscola vagina il suo bastone animato. I due bimbi lanciavano grida spaventevoli, e giù per i membri di Mony e Cornaboeux scorreva il sangue.
Poi la bambina fu sistemata sopra Natascia, e il pope, che aveva infine terminata la messa, le alzò le gonne e si mise a sculacciare il culetto bianco e affascinante. Natascia allora si alzò, e inforcando André Bar, seduto in una poltrona, si infilò da sé l'enorme sesso del congiurato, cominciando con lui quello che gli inglesi chiamano un vigoroso sangiorgio.
Il ragazzino, in ginocchio davanti a Cornaboeux, gli pompava il dardo piangendo a calde lacrime. Mony sodomizzava la bambina che si dibatteva come un coniglio che si tenti di strozzare. Poi Matascia si rialzò e si voltò, mostrando il sedere a tutti i congiurati, che lo baciarono a uno a uno. In quel momento venne introdotta una balia dal volto di madonna, dalle tette enormi rigonfie di latte generoso. La fecero mettere a quattro zampe e il pope si mise a mungerla come fosse una vacca, nei sacri vasi. Mony le infilò il sedere di bianchezza luminosa, teso da rompersi. La bambina venne invitata a far pipi nel calice. I congiurati si comunicarono sotto le specie del latte e della pipì.
Poi, afferrando le tibie, giurarono la morte di Alessandro Obrenovic e della moglie Draga Mascin.
La serata finì in maniera infame. Vennero fatte salire delle vecchie, la più giovane delle quali aveva settantaquattro anni e i congiurati le inforcarono in tutti i modi possibili. Mony e Cornaboeux si ritirarono disgustati verso le tre del mattino. Tornato a casa, il principe si denudò e presentò il bel sedere al crudele Cornaboeux, che lo sodomizzò otto volte di seguito senza mai ritrarsi. Queste sedute quotidiane essi le chiamavano il loro «gustino penetrante.»
Per qualche tempo Mony condusse a Bucarest questa vita monotona. Il re di Serbia e la moglie vennero assassinati a Belgrado. Il loro omicidio appartiene alla storia ed è già stato giudicato in vari modi. Poi scoppiò la guerra tra la Russia e il Giappone.
Un mattino, il principe Mony Vibescu, nudo e bello come l'Apollo del Belvedere, stava facendo un sessantanove con Cornaboeux. Si succhiavano entrambi i reciproci zuccherini e soppesavano voluttuosamente dei rulli che non avevano niente da invidiare a quelli dei fonografi. Eiacularono contemporaneamente, e il principe aveva la bocca piena di sperma quando un compunto cameriere inglese entrò nella stanza e gli presentò una lettera su un vassoio d'argento dorato.
La lettera annunciava al principe Vibescu che egli era stato nominato tenente in Russia, a titolo straniero, nell'esercito del generale Kuropatkin.
Il principe e Cornaboeux dimostrarono il loro entusiasmo inculandosi a vicenda. Poi si equipaggiarono a dovere e andarono a San Pietroburgo prima di raggiungere il loro corpo d'armata.
«La guerra mi piace,» dichiarò Cornaboeux «e i culi dei giapponesi devono essere molto gustosi.»
«E le passere delle giapponesi sono certamente piacevoli» aggiunse il principe, accarezzandosi i baffi.


CAPITOLO V

«Sua eccellenza il generale Kokodryov in questo momento non può ricevere. Sta intingendo il pane nell'ovetto mattutino.»
«Ma,» rispose Mony al portiere «io sono il suo ufficiale di ordinanza. Voi petropolitani siete ridicoli, coi vostri continui sospetti... Non vedete la mia divisa? Se sono stato chiamato a San Pietroburgo, non credo sia stato per subire le lavate di capo di un qualsiasi portiere!»
«Mostratemi le vostre carte!» disse il cerbero, un tartaro gigantesco.
«Tenete!» esclamò seccamente il principe mettendo la pistola sotto il naso dell'individuo terrorizzato, che s'inchinò e lasciò immediatamente che l'ufficiale passasse.
Mony sali rapidamente (facendo tintinnare gli speroni) al primo piano del palazzo del generale Kokodryov, col quale avrebbe dovuto partire verso l'Estremo Oriente. Tutto era deserto e Mony, che aveva visto il suo generale una volta sola, il giorno prima dallo Zar, era grandemente stupito per questo strano modo di riceverlo. Eppure il generale gli aveva dato appuntamento ed era venuto esattamente all'ora da quello fissata.
Mony apri una porta ed entrò in un grande salone deserto e buio che attraversò mormorando:
«Parola mia, vada come vada, il dado è tratto, bisogna continuare. Avanti con le nostre investigazioni.»
Aprì un'altra porta che gli si richiuse alle spalle. Si trovava in una stanza ancora più buia della precedente.
Una dolce voce femminile disse in francese:
«Fiodor, sei tu?»
«Sì, sono io, amor mio!» disse a bassa voce, ma con decisione, Mony, col cuore che gli batteva all'impazzata.
Avanzò rapidamente verso l'origine della voce e si ritrovò accanto a un letto. Vi era sopra una donna, tutta vestita. Essa attirò Mony a sé stringendolo appassionatamente e infilandogli la lingua in bocca, provocando in lui risposte appassionate. Mony alzò le gonne. La donna allargo le cosce.
Le gambe erano nude. Dalla pelle di seta emanava un profumo delizioso di verbena misto agli effluvi dell'odor di femmina. Il suo sesso, sul quale Mony aveva messo la mano, era già umido. La donna mormorava:
«Facciamo l'amore... Non ne posso più... Cattivo, sono otto giorni che mi trascuri.»
Invece di rispondere, Mony estrasse il suo membro minaccioso e, così armato, salì sul letto e spinse la daga infuriata nella fessura pelosa della sconosciuta, che agitò immediatamente le natiche dicendo:
«Entra bene... Mi fai godere!...»
Nello stesso tempo, portò la mano alla base del membro e si mise a palpare le pendule palline, che sono chiamate testicoli non, come si afferma comunemente, perché fanno da testimoni alla consumazione dell'atto d'amore, ma perché sono le piccole teste in cui è racchiusa la materia cervicale che scaturisce dalla mentula o piccola intelligenza, così come la testa contiene il cervello, sede di tutte le funzioni mentali.
La mano della sconosciuta palpava accuratamente le sacche di Mony. Tutt'a un tratto ella lanciò un grido e con un gran colpo di culo sloggiò il fottitore dalla sede in cui s'era introdotto:
«Voi m'ingannate, signore!» ella esclamò «il mio amante ne ha tre!»
E saltò dal letto, correndo verso un'interruttore. E la luce fu.
La stanza era ammobiliata con semplicità: un letto, qualche sedia, un tavolo, una toilette, una stufa. Sul tavolo, qualche fotografia, una delle quali rappresentava un ufficiale dall'aspetto brutale, nella divisa del reggimento di Preobrajenski.
La sconosciuta era alta, con i bei capelli castani un po' in disordine, il corsetto aperto a mostrare un seno prorompente, con seni bianchi venati d'azzurro, dolcemente riposanti in un nido di merletti. Le gonne erano state castamente riabbassate. Stava in piedi di fronte a Mony, con la collera e la stupefazione dipinte sul volto. Il principe era seduto sul letto, col membro per aria e le mani sull'impugnatura della sciabola:
«Signore» disse la giovane donna «la vostra insolenza è degna del paese che servite. Un francese non sarebbe mai stato così cafone da approfittare, come voi avete fatto, d'una circostanza tanto imprevista. Uscite, ve lo ordino.»
«Signora, o signorina» rispose Mony, «io sono un principe romeno, nuovo ufficiale di stato maggiore del principe Kokodryov. Sono appena arrivato a San Pietroburgo, non conosco le usanze di questa città e, essendo riuscito a entrare in questo palazzo solo minacciando il portiere colla i pistola, pur avendo appuntamento col mio capo, mi sarebbe parso di comportarmi da cafone se non avessi soddisfatto una donna che sembrava aver tanto bisogno di sentire un membro nella sua vagina.»
«Ma avreste almeno dovuto» disse la sconosciuta guardando quel membro virile di misura inusitata, «avvertire che non eravate Fiodor. E adesso, andatevene.»
«Ahimé!» esclamò Mony «eppure voi siete parigina, e non dovreste essere così vereconda... Ah! chi mi ridarà Alessina Mangiatutto e Culculina d'Ancona!»
«Culculina d'Ancona?» esclamò la donna «voi conoscete Culculina? Io sono sua sorella, Elena Verdier, e Verdier è il suo vero cognome. Sono istitutrice della figlia del generale. Ho un amante, Fiodor. È ufficiale. Ha tre palle.»
In quel momento si udì per strada un gran chiasso. Elena corse a vedere. Mony guardò da dietro alle sue spalle. Il reggimento di Preobrajenski stava passando. La fanfara suonava una vecchia aria, sulla quale i soldati cantavano tristemente:

Ah! che ti fottano la mamma!
Povero contadino, parti per la guerra,
Tua moglie si farà montare
Da tutti i tori della sua stalla.
Tu ti farai insozzare il membro
Da tutte le mosche siberiane
Ma il venerdì tienilo ben coperto
Che è giorno di vigilia
E non dar loro nemmeno un po' di zucchero,
Ché quello che ti danno l'hanno fatto
Macinando le ossa degli scheletri.
Fottiamo, fratelli, fottiamo
La cavalla dell'ufficiale.
La sua fica è sempre meno larga
Di quella delle figlie dei tartari.
Ah! che ti fottano la mamma!

All'improvviso la musica cessò e Elena lanciò un grido. Un ufficiale girò la testa. Mony, che l'aveva visto in fotografia, riconobbe Fiodor, che salutò l'amante con la sciabola gridando:
«Elena, addio! Parto in guerra... Non ci vedremo più!»
Elena diventò bianca come una morta e cadde svenuta nelle braccia di Mony, che la trasportò sul letto.
Dapprima le tolse il corsetto, mettendo in libertà i seni: due tette magnifiche, dalla punta rosata. Le succhiò un po', poi slacciò la gonna, che tirò via assieme a tutte le sottovesti. Elena rimase in camicia. Mony eccitatissimo, alzò la bianca tela che nascondeva gli incomparabili tesori di due gambe perfette. Le calze giungevano a metà coscia, e le cosce erano tonde come torri d'avorio. Alloro punto d'incontro si nascondeva la grotta misteriosa, in un bosco sacro, fulvo come l'autunno. Il vello era folto, e le labbra strette del sesso non lasciavano intravedere che un solco sottile simile a uno di quei segni messi come promemoria sui pali che servivano da calendario agli Incas.
Mony rispettò lo svenimento di Elena. Le tolse le calze e cominciò a farle il giochetto dei sapori. I piedini erano deliziosi, paffuti come quelli dei bebé. La lingua del principe cominciò dalle dita del destro. Passò coscienziosamente sull'unghia dell'alluce, poi tra le giunture. Si fermò parecchio sul mignolo, che era davvero carino. Il piede destro sapeva di lampone. La lingua leccatrice s'insinuò quindi tra le pieghe del piede sinistro, il cui sapore sembrò a Mony simile a quello del prosciutto di Magonza.
In quel momento Elena aprì gli occhi e si mosse un poco. Mony interruppe i suoi esercizi e guardò la ragazza alta e rotondetta stirarsi mentre sbadigliava. La bocca aperta mostrò una lingua rosea tra denti corti e bianchissimi. Poi la donna sorrise.
ELENA. Principe, in che stato mi avete messa?
MONY. Elena! Vi ho messa a vostro agio solo per il vostro bene. Non ho fatto che il buon Samaritano. Una buona azione non va mai persa, e ho trovato una deliziosa ricompensa nella contemplazione delle vostre grazie. Siete deliziosa e il vostro Fiodor è un fusto fortunato.
ELENA. Povera me! Non lo vedrò mai più! I giapponesi lo uccideranno!
MONY. Vorrei tanto poterlo sostituire, ma purtroppo, io ho solo due testicoli.
ELENA. Non parlare così. È vero, Mony, ne hai soltanto due, ma il resto vale abbondantemente il suo.
MONY. È proprio vero mascalzoncella? Aspetta che mi slacci il cinturone... Ecco fatto. Mostrami il tuo culetto... ah! Com'è grosso, tondo, paffutello... Sembra un angelo che stia soffiando... Senti! Devo proprio sculacciarti in onore di tua sorella Culculina... clic, clac, pam, pam...
ELENA. Ahi! ahi! ahi! Mi fai bruciare, sono tutta bagnata.

MONY. Che bei peli fitti hai... clic, clac; devo assolutamente far diventare rossa la tua grossa faccia posteriore. Guarda, non è arrabbiato: quando ti muovi un po' sembra che si stia divertendo.
ELENA. Fatti più vicino, voglio sbottonarti. Fammelo vedere questo bambinone che vuole venire dalla mammina a scaldarsi. Che bello! Ha una testolina rossa, ma neanche un capello. Guarda guarda, che peli duri e neri ha giù in basso alla radice. Che bell'orfanello... infilamelo, Mony! Voglio gustarlo, succhiarlo, succhiarlo, farlo godere...
MONY. Aspetta che giochi un po' a foglia di rosa...
ELENA. Ah! che bello, sento la tua lingua nella fessura... Entra, e si muove nelle pieghe della rosetta. Non spiegacciarlo troppo, questo povero buco. Ecco, Mony, non è male il mio sedere, vero? Ah! Hai messo la faccia tra le mie chiappe. Aspetta, ora ti lancio un peto... Chiedo scusa, non sono riuscita a trattenermi!... Ah! i tuoi baffi mi pizzicano, e tu salivi, porcone... tu sbavi. Dammelo, il tuo gran membro, fammelo succhiare... ho sete...
MONY. Ah, Elena, che lingua abile hai! Se insegni l'ortografia così bene come aguzzi le matite, devi essere un'istitutrice straordinaria... Ah! tu pilucchi il buco del glande con la tua lingua... tu ripulisci le pieghe con la tua lingua calda. Ah! Fellatrice insuperabile, sai leccare meravigliosamente!... Non succhiare così forte. Mi prendi tutto il glande nella tua boccuccia. Mi fai male... Ah! Ah! Ah! Ah! Mi fai il solletico su tutto il membro... Ah! Ah! non schiacciarmi le palle... hai i denti taglienti... Ecco, riprendi la testa del membro, è lì che devi lavorare... Ti piace, vero?... maialetta... Ah!... Ah!... Ah!... Ah!... io... ven... go... puttana.... ha ingoiato tutto... Adesso, dammi quel bel sesso, che ti manovro un poco mentre mi riscaldo...
ELENA. Vai più forte... Agita bene la lingua sul mio bocciolo... Senti come si fa più grande il mio clitoride?... Senti... fammi le forbici... Così... infila per bene il pollice davanti e l'indice didietro... Ah! Che bello!... che bello!... Senti! Senti come gorgoglia di piacere il mio ventre?... Così, la tua mano sinistra sulla tetta di destra... Schiaccia bene la fragoletta... Godo... Bello!... Senti come mi muovo, senti che colpi di reni?... Vigliacco? Che bello... Vieni, prendimi. Dammi subito il tuo membro, fammelo succhiare perché si indurisca di nuovo, mettiamoci nella posizione del sessantanove, tu su di me... Ah! Che bell'erezione, sporcaccione, non ci è voluto tanto, e ora mettimelo... Aspetta, i peli si sono mischiati. Succhiami le tette... così, che bello!... Entra più in fondo, più in fondo... Ecco, così, non muoverti... Ti stringo... Stringo le chiappe... Sto bene... Muoio... Mony... mia sorella l'hai fatta godere anche lei così?... Spingi forte... Mi arriva fino in fondo all'anima... mi fai godere come se stessi morendo... non ne posso più... Mony, caro... partiamo insieme. Ah! Non ne posso più, è finita... vengo!...»
Mony ed Elena raggiunsero l'orgasmo contemporaneamente. Egli le ripulì poi il sesso con la sua lingua, e la donna fece lo stesso col suo membro.
Mentre Mony stava ricomponendosi e Elena rivestendosi, si udirono delle grida di dolore lanciate da una voce femminile.
«Non è niente» disse Elena, «stanno sculacciando Nadeja; è la cameriera di Wanda, figlia del generale e mia allieva.»
«Fammi vedere,» disse Mony.
Elena, vestita soltanto a metà, condusse Mony in una stanza buia e vuota, con una falsa finestra interna a vetri che dava su una camera di ragazza. Wanda, la figlia del generale, era una giovane molto graziosa sui diciassette anni. Brandiva una nagaika e frustava a tutta forza una bellissima ragazza bionda, messa a quattro zampe di fronte a lei, con le gonne sollevate. Era Nadeja. Il suo culo stupendo, enorme, sodo, si dondolava sotto un vitino incredibilmente sottile. Ogni colpo di nagaika la faceva sobbalzare, e sembrava che il culo le si gonfiasse. Era zebrato, a croce di Sant'Andrea, dalle tracce lasciate dalla terribile nagaika.
«Padrona, non lo farò più» gridava la frustata, e il culo le si rialzava mostrando un sesso ben aperto, ombreggiato da una foresta di peli biondo-stoppa.
«E adesso vattene,» gridò Wanda rifilando un calcione nel sesso di Nadeja che fuggì via urlando.
Poi la ragazza andò ad aprire una stanzetta dalla quale uscì una bambina di tredici o quattordici anni, snella e bruna, dall'aspetto vizioso.
«È Ida, la figlia del dragomanno dell'ambasciata d'Austria-Ungheria» mormorò Elena all'orecchio di Mony. «Se la fa con Wanda.»
Infatti, la bambina gettò Wanda sul letto, le tirò su le gonne e mise allo scoperto una foresta di peli, foresta ancora vergine, da cui emergeva un clitoride lungo come il dito mignolo, che la bimba cominciò a succhiare freneticamente.
«Succhia bene, Ida mia,» disse amorosamente Wanda, «sono eccitatissima, e devi esserlo anche tu. Non c'è niente di tanto eccitante come frustare un culo grosso come quello di Nadeja. Ma adesso basta, non succhiare più, voglio prenderti.»
La bambina si sdraiò, con le gonne sollevate, a fianco dell'amica più grande. Le robuste gambe di quella contrastavano singolarmente con le cosce sottili, brune e nervose, dell'altra.
«È strano,» disse Wanda, «che io ti abbia sverginata col mio clitoride, mentre io sono ancora vergine.»
Ma l'atto era cominciato. Wanda stringeva furiosamente a sé la sua amichetta che accarezzò per un attimo il suo piccolo sesso ancora imberbe. Ida diceva:
«Wandina mia, maritino mio, che bei peli hai, prendimi! »
E il clitoride non impiegò motto a penetrare la fessura di Ida. Il bel sedere rotondetto di Wanda si agitò furiosamente.
Mony, fuori di sé per lo spettacolo, passò una mano sotto le gonne di Elena e la palpeggiò sapientemente. Lo stesso fece la donna, afferrando a piena mano la sua grande asta, e lentamente, mentre le due piccole saffo si stringevano perdutamente, manovrava il gran membro dell'ufficiale, che, scappellato, sembrava fumasse. Mony tendeva i garretti e pizzicava nervosamente il bocciolo di Elena.
Improvvisamente Wanda, rossa e scarmigliata, si alzò da sopra l'amichetta che, afferrando una candela da un candeliere, completò l'opera cominciata dal clitoride ben sviluppato della figlia del generale. Wanda andò alla porta e chiamò Nadeja che arrivò tutta spaventata. La bella bionda, su ordine della padrona, si slacciò il corsetto e ne tirò fuori le grandi tette, poi si tirò su le gonne e presentò il sedere. Il clitoride in erezione di Wanda penetrò ben presto tra quelle chiappe, e lì si agitò avanti e indietro come se Wanda fosse un uomo. La piccola Ida, il cui sedere nudo era affascinante ma piatto, venne a continuare il gioco della candela e sedendosi tra le gambe di Nadeja, di cui succhiò il sesso con arte. Mony eiaculò proprio in quel momento per la pressione esercitata dalle dita di Elena, e lo sperma si schiacciò contro il vetro che li separava dalle ragazze. Temettero di venire scoperti, e abbandonarono la posizione. Abbracciati passarono in un corridoio:
«Cosa vuol dire» chiese Mony, «la frase che m'ha detto il portiere: Il generale sta intingendo il pane nell'ovetto mattutino?»
«Guarda,» rispose Elena, e attraverso una porta socchiusa che dava nel gabinetto di lavoro del generale, Mony poté osservare il suo capo, in piedi e nell'atto di inculare un affascinante ragazzino. Capelli castani e riccioluti gli ricadevano sulle spalle. Occhi azzurri ed angelici racchiudevano l'innocenza degli efebi che gli dei fanno morir giovani perché li amano. Il sedere bianco e sodo sembrava accettare solo con pudore il dono virile fattogli dal generale, abbastanza somigliante a Socrate.
«Il generale» disse Elena, «alleva il figlio da solo. Il ragazzo ha adesso dodici anni. La metafora del portiere era e poco esplicita, perché, piuttosto che nutrirsi da solo, il generale ha trovato questo sistema conveniente per nutrire e ornare lo spirito dell'erede maschio. Gli inculca dalle fondamenta una scienza che mi sembra molto solida, e il giovane principe potrà fare bella figura, senza vergogna, più in là con gli anni, nei consigli dell'Impero.»
«L'incesto, » disse Mony «fa miracoli.»
Il generale sembrava al colmo del godimento, e strabuzzava gli occhi bianchi striati di rosso.
«Sergio» esclamò con voce rotta, «senti bene lo strumento che, non contento di averti generato, si è assunto anche il compito di far di te un giovane perfetto? Ricordati, Sodoma è simbolo di civiltà. L'omosessualità avrebbe potuto rendere gli uomini simili a dei e tutte le disgrazie provengono dal desiderio che sessi diversi provano l'uno per l'altro. C'è un solo mezzo, oggi, per salvare la sventurata e santa Russia, ed è che, pedofili, gli uomini professino definitivamente l'amore socratico per i ragazzi dai bei sederi, mentre le donne si recheranno alla roccia di Leucade a imparare il saffismo.»
E, con un rantolo di voluttà, eiaculò nel bellissimo culo di suo figlio.


CAPITOLO VI

L'assedio di Port-Arthur era cominciato. Mony e la sua ordinanza Cornaboeux vi erano bloccati assieme alle truppe del bravo Stoessel.
Mentre i giapponesi tentavano di sfondare la cinta fortificata con cavalli di frisia, i difensori della piazza si consolavano delle cannonate che minacciavano di ucciderli ad ogni istante frequentando assiduamente i cafés‑chantants e i bordelli rimasti aperti.
Quella sera Mony aveva sontuosamente pranzato assieme a Cornaboeux e a qualche giornalista. Alla carta: filetto di cavallo, pesci pescati nel porto, ananas sciroppati. Il tutto annaffiato con eccellente Champagne.
Ma il dessert era stato interrotto dall'inopinato arrivo di un obice che scoppiò distruggendo una parte del ristorante e uccidendo qualcuno dei clienti. Mony si era tutto ringalluzzito per l'avventura e aveva dimostrato il suo sangue freddo accendendo il sigaro alla tovaglia che s'era incendiata. Ora stava dirigendosi con Cornaboeux verso un tabarin.
«Quel dannato generale Kokodryov,» disse strada facendo «era indubbiamente uno stratega notevole, aveva previsto l'assedio di Port-Arthur e mi ha certamente mandato qui per vendicarsi della mia scoperta delle relazioni incestuose tra lui e il figlio. Come già con Ovidio, mi si fa espiare il delitto compiuto dai miei occhi, ma non scriverà ne le Tristezze né le Epistole dal Ponto. Io preferisco goder del tempo che mi resta.»
Qualche palla di cannone passò fischiando sopra le loro teste; scavalcarono una donna che giaceva in terra tagliata a mezzo da una di esse e arrivarono infine davanti a Le Delizie del Piccolo Padre.
Era la taverna più chic di Port-Arthur. Vi entrarono. La sala era piena di fumo. Una cantante tedesca, dai capelli rossi e di carni straripanti, cantava con forte accento berlinese, applaudita freneticamente da quegli spettatori che sapevano il tedesco. Poi quattro girls inglesi, delle sisters qualsiasi, vennero a danzare un passo di giga, complicato con variazioni di cake-walk. Erano ragazze molto belle. Tiravano su le gonne fruscianti per mostrare le mutandine a mezza gamba guarnite di fronzoli, ma per fortuna aperte al punto giusto, in modo da lasciar vedere di tanto in tanto le grosse chiappe incorniciate dalla batista delle mutande o i peli che attenuavano la bianchezza dei loro ventri. Quando lanciavano in alto una gamba i loro sessi si aprivano, tutti muscosi. Cantavano:
My cosey corner girl
e vennero più applaudite della ridicola fraülein che le aveva precedute.
Certi ufficiali russi, probabilmente troppo poveri per pagarsi le donne, si masturbavano coscienziosamente, contemplando con gli occhi fuori dalle orbite lo spettacolo paradisiaco (in senso maomettano).
Di tanto in tanto un potente getto di sperma scaturiva da uno di quei membri per schiacciarsi su una divisa vicina, o perfino su una barba.
Dopo le girls, l'orchestra attaccò una marcetta fragorosa e si presentò sulla scena il numero più sensazionale. Era formato da una spagnola e da uno spagnolo. I loro costumi toreadoreschi produssero una forte impressione sugli spettatori, che intonarono un Bojé Tsaria Krany di circostanza.
La spagnola era una magnifica ragazza con ogni cosa al posto debito e proporzioni perfette.
Nel suo volto pallido, dall'ovale perfetto, brillavano occhi corvini. Le anche erano ben tornite e le pagliette del vestito abbaglianti.
Il torero, agile e robusto, dimenava anch'egli un sedere la cui mascolinità doveva presentare qualche vantaggio.
L'interessante coppia cominciò lanciando nella sala, con la mano destra, appoggiando la sinistra all'anca arcuata, un paio di baci che fecero furore. Poi danzarono lascivamente, alla moda del loro paese. Più tardi la spagnola si alzò le gonne fino all'ombelico e le aggiustò in modo che restassero legate alla vita. Le lunghe gambe erano inguainate in calze di seta rossa che salivano fino ai tre quarti della coscia. Erano allacciate al corsetto da giarrettiere dorate, alle quali erano altresì attaccati i lacci di una mascherina di velluto nero sistemata sulle natiche in modo da coprire il buco del culo. Il sesso era nascosto da un vello nero‑azzurro tutto riccioluto.
Il torero, cantando, estrasse dai pantaloni un membro molto lungo e molto duro. Danzarono così, ventre in avanti, come a cercarsi e a ritrarsi.
Il ventre della ragazza ondeggiava come un mare diventato improvvisamente solido, come pare che la schiuma del Mediterraneo si condensasse per dar vita al ventre di Venere.
Improvvisamente, e come per incantesimo, il membro e la vagina dei due istrioni si congiunsero, e tutti pensarono che avrebbero copulato in scena.
Ma non fu così.
Col suo arnese ben alloggiato, il torero sollevò la ragazza, che piegò le gambe e non toccò più terra, e passeggiò un po' in questo modo. I servi del teatro avevano intanto teso a tre metri sopra la testa degli spettatori un fil di ferro, e lo spagnolo vi salì portando a spasso l'amante in questo modo, funambolo osceno, sul capo degli spettatori congestionati, attraverso la sala. E poi tornò indietro a ritroso fino sul palco. Gli spettatori applaudirono freneticamente e ammirarono moltissimo le forme della spagnola, il cui sedere mascherato sembrava sorridere, perché vi occhieggiavano due fossette.
Fu allora il turno della donna. Il torero ripiegò le ginocchia e, saldamente inserito nel sesso della compagna, si lasciò portare a spasso su e giù per la corda rigida.
Mony era tutto eccitato da questa fantasia funambolesca.
«Andiamo al casino» disse a Cornaboeux.
Il lupanare alla moda durante l'assedio di Port-Arthur si chiamava col bel nome de Gli allegri samurai.
Era tenuto da due uomini, due ex‑poeti simbolisti che, dopo essersi sposati per amore a Parigi erano venuti a nascondere la loro felicità in Estremo Oriente. Esercitavano il molto remunerativo mestiere di tenutari di bordello e ci si trovavano a meraviglia. Si vestivano da donne, ma senza aver rinunciato né ai baffi né ai nomi maschili.
Il primo era Adolfo Terré. Era il più anziano. Il più giovane aveva avuto il suo quarto d'ora di celebrità a Parigi. Chi non ricorda il mantello grigio perla e il collo d'ermellino di Tristan de Vinaigre?
«Vogliamo donne» disse in francese Mony alla cassiera, che non era altri che Adolfo Terré. Questi rispose declamando una delle sue poesie:

Tra Versailles e Fontainebleau, nel meriggio,
Inseguivo una ninfa tra le fronde fruscianti,
Il mio membro si rizzò per la calva occasione:
Magra e dritta veniva, idilli‑demoniaca.
L'infilzai tre, m'ubbriacai venti giorni,
Me ne venne un piscione, ma gli dèi proteggevano
Il poeta. E i glicini mi coprirono i peli,
E Virgilio su me cacò distici dolci...

«Basta, basta,» disse Cornaboeux «vogliamo donne, perdio!»
«Ecco la sotto-maitresse!» disse rispettosamente Adolfo.
La sotto-maîtresse, cioè il biondo Tristan de Vinaigre, si fece graziosamente avanti e, lanciando occhiate assassine su Mony, declamò con voce modulata questa storica poesia:

Il mio membro è arrossito di vermiglia allegria
Nella primavera dell'età
E le mie palle si sono dondolate, come frutti pesanti
Che cercano il cesto.
Il vello sontuoso da cui nasce il mio membro
Si diffonde assai folto,
Dal sedere al pube, e di qui all'ombelico
(E insomma in ogni dove).
Proteggendo le mie fragili chiappe,
Immobili e contratte quando debbo cacare
Sul tavolo assai alto, con carta di satin,
Van gli stronzi infuocati dei miei ardenti pensieri.


«Ma insomma» disse Mony «siamo in un casino o in un gabinetto?»
«Le ragazze in sala! » Esclamò allora Tristan e, passò un asciugamano a Cornaboeux, aggiungendo:
«Uno per due, signori... Dovete capire, in tempi d'assedio...»
Adolfo riscosse i 360 rubli del prezzo delle puttane di Port‑Arthur, e i due entrarono nel salone. Li attendeva uno spettacolo stupendo.
Le puttane, vestite di vestaglie color ribes, scarlatte, blu scuro o chiaro, giocavano a bridge o fumavano sigarette bionde.
In quel preciso momento, vi fu un terribile fracasso: un obice forò il soffitto e cadde pesantemente al suolo, dove affondò come un bolide, proprio al centro del gruppo delle giocatrici di bridge. Ma, per fortuna, non scoppiò. Tutte le donne gridando come dannate, caddero all'indietro e con le gambe all'aria, mostrando l'asso di picche agli sguardi concupiscenti dei due militari. Fu un'ammirevole esposizione di sederi di tutte le nazionalità, perché quel casino modello possedeva puttane di tutte le razze. Il culo a pera delle frisone contrastava con quelli grassottelli delle parigine, le chiappe meravigliose delle inglesi, i posteriori quadrati delle scandinave e i culi cadenti delle catalane. Una negra mostrò una massa tormentata, somigliante piuttosto ad un cratere vulcanico che non a un culo di donna. Appena si fu rialzata, proclamò che la squadra avversaria al bridge aveva grande slam, tanto ci si abitua agli orrori della guerra!
«Prendo la negra» disse Cornaboeux, e la regina di Saba, sentendo che si parlava di lei, salutò il suo Salomone con queste amene parole:
«Volere svoragghiare la mia badadona, zignor generale?»
Cornaboeux la baciò gentilmente. Ma Mony non era ancora contento dell'esibizione internazionale cui aveva assistito:
«Dove sono le giapponesi?» chiese.
«Costano cinquanta rubli di più» dichiarò la sotto-maitresse accarezzandosi i baffoni, «voi capirete, sono nemiche!»
Mony pagò e furono introdotte una ventina di musmé nel loro costume nazionale.
Il principe ne scelse una davvero affascinante, e la sottomaitresse fece entrare le due coppie in una cameretta ammobiliata a scopi fottitori.
La negra, che si chiamava Cornelia, e la musmé, che aveva il delicato nome di Kiljemù, cioè «Bocciolo di fiore del nespolo del Giappone», si spogliarono cantando la prima un sabir tripolitano e la seconda in bitchlamar.
Anche Mony e Cornaboeux si spogliarono.
Il principe lasciò in un angolo il suo servitore e la negra, e si occupò solo di Kiljemù, la cui bellezza, severa e infantile insieme, lo incantava.
L'abbracciò teneramente. Di tanto in tanto, durante quella bella notte d'amore, si udiva il rumore del bombardamento. Obici scoppiavano dolcemente. Era come se un principe orientale offrisse un fuoco d'artificio in onore di qualche principessa georgiana e vergine.
Kiljemù era piccola, ma molto ben fatta, aveva il corpo giallo come una pesca, i seni piccoli e appuntiti, duri come palle di tennis. I peli della vulva erano raccolti in un piccolo ciuffo ruvido e scuro, che faceva pensare a un pennello bagnato.
Si sdraiò e, tirandosi le cosce sul ventre, le ginocchia piegate, aprì le gambe come un libro.
Questa posizione impossibile per una europea sorprese Mony.
Ne godette ben presto il fascino. Il suo membro affondò tutt'intero fino ai testicoli in una vagina elastica che, larga all'inizio, si restrinse ben presto in modo sorprendente.
E la ragazzina, che sembrava appena nubile, conosceva perfettamente l'arte dello schiaccianoci. Mony se ne accorse ben presto quando, dopo gli ultimi sussulti di voluttà, venne in una vagina che s'era follemente ristretta e che succhiava il membro fino all'ultima goccia...
«Raccontami la tua storia,» disse Mony a Kiljemù mentre si sentivano nell'angolo i cinici mugolii di Cornaboeux e della negra.
Kiljemù si sedette:
«Sono» ella disse, «la figlia di un suonatore di samisen, una specie di chitarra che si suona a teatro. Mio padre, suonando arie tristi, recitava storie liriche e cadenzate in un palchetto chiuso da una grata, situato sul proscenio.
«Mia madre, la bella Pesca‑di‑luglio, recitava i ruoli principali di quei lunghi lavori cari alla drammaturgia nipponica.
«Mi ricordo che si recitavano i Quarantasette Ronin, La bella Sighenai, oppure Talko.
«La nostra troupe andava di città in città, e la natura meravigliosa in seno alla quale io sono cresciuta si ripresenta continuamente alla mia memoria nei momenti di abbandono amoroso.
«Mi arrampicavo sui niatsù, conifere gigantesche; andavo a vedere bagnarsi nei fiumi i bei samurai nudi, il cui membro enorme non aveva per me, in quell'epoca, nessun significato, e ridevo assieme alle serve graziose e allegre che venivano ad asciugarli.
«Ah! Far l'amore nel mio paese sempre in fiore! Amare un lottatore tarchiato sotto i ciliegi rosa e scendere dalle colline baciandosi!
«Un marinaio in licenza della compagnia del Nippon Josen Kaisha, mi prese un giorno la verginità. Era mio cugino.
«Avevo allora tredici anni. Mio padre e mia madre recitavano Il grande ladro e la sala era piena. Mio cugino mi portò a passeggio. Aveva viaggiato in Europa e mi raccontava le meraviglie di un universo che ignoravo. Mi portò in un giardino deserto pieno di iris, di camelie rossoscure, di gigli gialli e di fior di loto simili alla mia lingua, tanto erano graziosamente rosei. Lì mi baciò e mi chiese se avessi mai fatto l'amore. Gli dissi di no. Allora mi slaccio il kimono, mi accarezzò i seni facendomi il solletico, per cui scoppiai a ridere, ma diventai molto seria quando mi ebbe messo in mano un membro duro, grande e lungo.
«'Cosa vuoi farne?'» gli chiedevo.
«Senza rispondermi, egli mi fece coricare, mi scoprì le gambe e, infilandomi la lingua in bocca, distrusse la mia verginità. Ebbi la forza di lanciare un grido che dovette turbare le graminacee e i bei crisantemi del grande giardino deserto, ma subito si svegliò in me il piacere.
«Più tardi fui rapita da un armaiolo, bello come Daibuk di Kamakura, e si deve parlare religiosamente della sua verga, che sembrava di bronzo dorato ed era inesauribile. Ogni sera prima dell'amore io mi credevo insaziabile, ma quando avevo sentito quindici volte la calda espansione nella mia vulva, dovevo offrirgli il mio stanco sedere perché potesse soddisfarsi, oppure quand'ero troppo stanca anche per questo, prendevo il suo membro in bocca e lo succhiavo fino a quando non mi avesse ordinato di smettere! Si uccise per ubbidire alle prescrizioni del Bushido, e compiendo quest'atto cavalleresco mi lasciò sola e sconsolata.
«Mi raccolse un inglese di Yokohama. Sapeva di cadavere come tutti gli europei, e per molto tempo non potei abituarmi a quest'odore. Così lo supplicavo di incularmi per non vedermi di fronte la sua faccia bestiale dai favoriti rossi. Eppure, alla fine, mi ci abituai, e poiché era del tutto sotto il mio dominio, gli ordinavo di leccarmi il sesso fino a quando non gli venivano i crampi alla lingua e non riusciva più a muoverla.
«Un'amica di cui avevo fatto conoscenza a Tokio e che amavo alla follia venne a consolarmi. «Era bella come la primavera. Sembrava che due api fossero perennemente posate sulle punte dei suoi seni. Ci soddisfacevamo con un pezzo di marmo giallo lavorato ai due capi a forma di membro. Eravamo insaziabili, l'una nelle braccia dell'altra, pazze, schiumanti, urlanti, ci agitavamo furiosamente come due cani che litigano per lo stesso osso. «Un giorno l'inglese impazzì; si credeva lo Shogun e voleva inculare il Mikado.
«Lo portarono via, e io feci la puttana in compagnia della mia amica fino al giorno in cui mi innamorai di un tedesco, grande, forte, imberbe, possessore di un gran membro instancabile. Mi picchiava e io lo abbracciavo piangendo. Infine, piena di botte, mi faceva l'elemosina del suo membro e io godevo come un'invasata stringendo il mio uomo con tutta la mia forza.
«Un giorno prendemmo la nave e mi condusse a Shanghai, dove mi vendette a una ruffiana. Poi se ne andò, il mio bell'Egon, senza voltare la testa, lasciandomi disperata, con le donne del casino che mi ridevano dietro. Esse mi hanno insegnato bene il mestiere, ma quando avrò molto denaro me ne andrò, da donna onesta, in giro per il mondo per ritrovare il mio Egon, e sentire di nuovo il suo membro nella mia vagina e morire pensando agli alberi rosa del Giappone.»
La giapponesina, eretta e seria, se ne andò come un'ombra, lasciando Mony che, con le lacrime agli occhi, rifletteva sulla fragilità delle umane passioni.
Sentì un russare sonoro e, voltando il capo, vide Cornaboeux e la negra castamente addormentati l'uno nelle braccia dell'altra. Erano entrambi mostruosi, il grosso culo di Cornelia posto in tutta evidenza, poiché rifletteva la luna, il cui chiarore entrava dalla finestra aperta. Mony tirò fuori la sciabola dal fodero e si mise a punzecchiare quel gran pezzo di carne.
Anche nella sala si stava gridando. Cornaboeux e Mony vi entrarono con la negra. La sala era piena di fumo. Era entrato qualche ufficiale russo ubriaco e volgare e, vomitando turpi ingiurie, si era precipitato sulle inglesi del bordello che, disgustate dall'aspetto ignobile di quegli ubriaconi, mormoravano una sfilza di Bloody e di Damned.
Cornaboeux e Mony contemplarono per qualche istante lo stupro delle puttane, poi se ne uscirono durante un'inculata collettiva e strabiliante, lasciando disperati Adolfo Terré e Tristan de Vinaigre, che cercavano di ristabilire l'ordine e si agitavano invano, ostacolati dalle gonne femminili.
Proprio nello stesso istante entrò il generale Stoessel e tutti dovettero rettificare la loro posizione, negra compresa.
I giapponesi stavano dando il primo assalto alla città assediata.
Mony ebbe quasi voglia di tornare sui suoi passi per vedere cosa avrebbe fatto il suo capo, ma, dalla parte dei bastioni, si sentivano urla selvagge.
Arrivarono dei soldati che portavano con loro un prigioniero. Era un bel giovanottone tedesco, trovato al confine dei lavori di difesa intento a depredare i cadaveri. Gridava, in tedesco:
«Non sono un ladro. Amo i russi, ho attraversato coraggiosamente le linee giapponesi per propormi come finocchio, puttana, culattone. Certamente avete poche donne, e non vi dispiacerà avermi con voi.»
«A morte» gridarono i soldati «a morte, è una spia, un ladro, uno spogliatore di cadaveri!»
Nessun ufficiale era tra i soldati. Mony si fece avanti e chiese spiegazioni:
«Voi v'ingannate,» disse allo straniero, «abbiamo donne in abbondanza, e il vostro delitto va punito. Sarete inculato, dato che ci tenete, dai soldati che vi hanno catturato, e in seguito sarete impalato. Morirete così come avete vissuto, e secondo i moralisti è questa la morte più bella. Il vostro nome?»
«Egon Muller,» dichiarò l'uomo tremando.
«Sta bene» disse seccamente Mony «voi venite da Yokohama e avete trafficato vergognosamente, da autentico magnaccia, la vostra donna, una giapponese di nome Kiljemu. Finocchio, spia, magnaccia e spogliatore di cadaveri, siete un essere completo. Si prepari il patibolo, e voi, soldati, inculatelo... Un'occasione del genere non vi capita tutti i giorni.»
Si spogliò nudo il bell'Egon, giovane di incomparabile bellezza dai seni come quelli di un ermafrodito. Di fronte a tanta avvenenza, i soldati estrassero i loro membri concupiscenti.
La visione del giovane nudo commosse Cornaboeux, che chiese al padrone di risparmiarlo, con le lacrime agli occhi. Ma Mony fu inflessibile e si limitò a permettere alla sua ordinanza di farsi succhiare il membro dall'affascinante efebo che, sedere in fuori, ricevette l'uno dopo l'altro nel suo ano dilatato i membri infuriati dei soldati che, da bravi bruti, cantavano inni religiosi felicitandosi per la loro cattura.
La spia, dopo aver ricevuto la terza scarica, cominciò a godere furiosamente e agitava il sedere succhiando il membro di Cornaboeux, come se avesse avuto ancora davanti a sé trent'anni di vita.
Intanto il palo di ferro che doveva servire da sedia per il tedesco era stato innalzato.
Quando tutti i soldati ebbero avuto il prigioniero, Mony disse qualche parola all'orecchio di Cornaboeux, ancora estasiato dal lavoretto che era stato fatto al suo piolo.
Cornaboeux andò fino al casino e ne tornò rapidamente accompagnato dalla giovane puttana giapponese Kiljemù, che si domandava i motivi di quell'invito.
A un tratto vide Egon, che era stato appena conficcato, imbavagliato, sul palo di ferro. Si contorceva tutto, e la picca gli si conficcava a poco a poco nel didietro. La sua picca anteriore, invece, era così rigida che si sarebbe detto che avrebbe finito per rompersi.
Mony indicò Kiljemù ai soldati: la povera piccola ragazza guardava il suo amante impalato con occhi in cui il terrore, l'amore, e la compassione si mescolavano in una suprema disperazione. I soldati la denudarono e issarono il suo povero corpo d'uccellino su quello dell'impalato.
Allargarono le gambe all'infelice e il membro eretto che ella tanto aveva desiderato la penetrò ancora una volta.
La povera semplice animuccia non capiva questa barbarie, ma il membro che la riempiva l'eccitava troppo alla voluttà. Divenne come pazza, e i suoi movimenti facevano scendere a poco a poco il corpo dell'amante lungo il palo. Egli spirò eiaculando.
Era uno strano stendardo, quello costituito da quell'uomo imbavagliato e dalla donna che si agitava stretta a lui...
Del sangue scuro formava una pozza ai piedi del palo.
«Soldati, salutate coloro che muoiono» gridò Mony, e rivolgendosi a Kiljemù: «Ho soddisfatto ai tuoi voti... In questo momento i ciliegi in Giappone sono tutti in fiore, e gli amanti sono nascosti dalla neve rosa dei petali che stanno sfogliando!»
Poi, afferrando la pistola, bruciò le cervella della piccola cortigiana, che schizzarono sul volto dell'ufficiale come se ella avesse voluto sputare in faccia al proprio boia.


CAPITOLO VII

Dopo l'esecuzione sommaria della spia Egon Muller e della puttana giapponese Kiljemù, il principe Vibescu era diventato molto popolare a Port‑Arthur.
Un giorno il generale Stoessel lo fece chiamare e gli consegnò un plico dicendogli:
«Principe Vibescu, pur non essendo russo, voi siete tuttavia uno dei migliori ufficiali della guarnigione... Stiamo aspettando soccorsi, bisogna che il generale Kuropatkin si affretti... Se ritarda ancora, dovremo capitolare.. Questi cani di giapponesi ci tengono in una morsa, e il loro fanatismo finirà con l'aver ragione della nostra resistenza. Bisogna che voi attraversiate le linee giapponesi per poter consegnare questo messaggio nelle mani del generalissimo.»
Venne preparato un aerostato. Per otto giorni, Mony e Cornaboeux si esercitarono alle manovre, e un bel mattino il pallone venne gonfiato.
I due passeggeri, salirono sulla navicella, pronunciarono il tradizionale: «Mollate gli ormeggi!» e ben presto, raggiunte le nuvole, la terra apparve ai loro occhi come una piccolezza insignificante. Il teatro della guerra era netto e chiaro, con gli eserciti, i navigli sul mare, e un fiammifero acceso per accendere una sigaretta lasciava una scia più luminosa di quella delle palle dei giganteschi cannoni di cui si servivano i belligeranti.
Un buon colpo d'aria ben utilizzato spinse il pallone nella direzione dell'esercito russo, e dopo qualche giorno atterrarono e furono ricevuti da un ufficiale superiore che diede loro il benvenuto. Era Fiodor, l'uomo dai tre testicoli, l'examante di Elena Verdier, la sorella di Culculina d'Ancona.
«Tenente» gli disse il principe saltando giù dalla navicella, «siete un degno soldato, e la vostra accoglienza ci compensa di molte fatiche. Permettetemi di richiedervi scusa per avervi fatto cornuto a San Pietroburgo con la vostra amata Elena, l'istitutrice francese della figlia del generale Kokodryov.»
«Avete fatto benissimo» rispose Fiodor, «ma pensate chi io ho trovato qui: sua sorella Culculina, una ragazza magnifica che fa la kellerina in una birreria di donne frequentata da noi ufficiali. Ha lasciato Parigi per far fortuna in Estremo Oriente. Guadagna molto, perché qui gli ufficiali non fanno che divertirsi, come fanno in genere quelli a cui resta poco da vivere. E con lei la sua amica, Alessina Mangiatutto.»
«Come?» esclamò Mony, «Culculina e Alessina sono qui!... Portatemi immediatamente dal generale Kuropatkin, prima di tutto devo portare a termine la mia missione... Poi mi condurrete alla birreria...»
Il generale Kuropatkin accolse amabilmente Mony nel suo palazzo, un vagone di treno molto ben equipaggiato.
Il generalissimo lesse il messaggio, poi disse:
«Faremo tutto il possibile per liberare Port-Arthur. Nell'attesa, principe Vibescu, io vi nomino cavaliere di San Giorgio...»
Mezz'ora dopo, il neo-decorato si trovava nella birreria del Cosacco addormentato insieme a Fiodor e a Cornaboeux. Due donne accorsero a servirli. Erano Culculina e Alessina, entrambe affascinanti. Erano vestite da soldati russi e portavano un grembiule merlettato sui gran pantaloni infilati in basso negli stivali: seni e sederi erano messi piacevolmente in risalto e arcuavano la linea della divisa. Un berrettino messo sui capelli per traverso dava un ultimo tocco piccante al loro curioso abbigliamento. Sembravano due piccole comparse d'operetta.
«Ma guarda, Mony» esclamò Culculina. Il principe baciò le due donne e si fece raccontare la loro storia.
«D'accordo» disse Culculina, «ma anche tu dovrai raccontarci cosa ti è capitato.
«Dopo la fatale notte in cui i ladri ci lasciarono mezze morte presso il cadavere di uno di loro al quale avevo strappato il membro coi miei denti in un istante di folle godimento, mi svegliai circondata dai medici. Ero stata ritrovata con un coltello piantato nelle natiche. Alessina fu curata a casa sua e di te non avemmo più notizie. Ma venimmo a sapere, quando ci fu possibile uscire di nuovo, che eri ripartito per la Serbia. Il fattaccio aveva suscitato uno scandalo enorme, il mio esploratore al suo ritorno mi abbandonò, e il senatore di Alessina si rifiutò di continuare a mantenerla.
«A Parigi, la nostra stella cominciava a declinare. Scoppiò la guerra tra la Russia e il Giappone. Il protettore di una nostra amica organizzava la spedizione di donne per servire nelle birrerie-bordello al seguito dell'esercito russo. Fummo assunte, ed eccoci qua.»
Mony raccontò quel che era capitato a lui, tralasciando i fatti dell'Orient‑Express. Presentò Cornaboeux alle due donne, non dicendo però che si trattava dello scassinatore che aveva piantato il coltello nelle natiche di Culculina.
Tutti questi racconti provocarono un gran consumo di bevande; la sala si era riempita di ufficiali in berretto che cantavano a squarciagola accarezzando le cameriere.
«Usciamo» disse Mony.
Culculina e Alessina li seguirono e i cinque militari lasciarono le trincee per dirigersi verso la tenda di Fiodor.
Era scesa, stellata, la notte. Passando davanti al vagone del generalissimo, a Mony venne una fantasia: fece abbassare calzoni e mutande ad Alessina, le cui grandi chiappe stavano a disagio nella divisa militare e, mentre gli altri continuavano il loro cammino, palpeggiò il magnifico sedere, simile a un volto pallido sotto la pallida luna, e poi, tirando fuori il membro feroce, lo strofinò per un poco nella striscia tra le chiappe, facendogli toccare ogni tanto il buco posteriore. All'improvviso, sentendo il suono asciutto di una tromba accompagnata da più rulli di tamburo, si decise. Il membro discese tra le natiche fresche ed avanzò per una valletta che finiva nella vulva. Le mani del giovane, dal davanti, cercavano nel vello e sollecitavano il clitoride. Andò avanti e indietro, scavando col vomere del suo aratro la fessura di Messina, che godeva agitando il culo lunare che la luna, lassù, sembrava ammirare sorridendo. All'improvviso incominciò l'appello monotono delle sentinelle; le loro grida si ripetevano attraverso la notte. Alessina e Mony godevano silenziosamente e quando raggiunsero l'orgasmo, quasi nello stesso istante e con un profondo sospiro, un obice lacerò l'aria e uccise dei soldati che dormivano in un fossato, e che morirono lamentandosi come bambini che chiamino la mamma. Mony e Alessina, dopo aver rapidamente ricomposto le vesti, corsero alla tenda di Fiodor.
Vi trovarono Cornaboeux senza brache, inginocchiato davanti al sedere di Culculina che se l'era denudato e glielo stava mostrando. Egli diceva:
«No, non si vede niente ed è impossibile credere che tu abbia mai ricevuto una coltellata proprio lì.»
Poi, alzatosi in piedi, l'inculò gridando certe frasi russe che aveva imparato.
Allora Fiodor si piazzò davanti alla donna e le introdusse il membro nella vagina. Culculina sembrava un bel ragazzo che si faceva inculare mentre introduceva il suo membro in una donna. Infatti, era vestita da uomo e il membro di Fiodor sembrava il suo. Ma le sue natiche erano troppo grosse perché questo pensiero potesse persistere a lungo, e inoltre, la vita sottile e il rilievo del seno smentivano assolutamente l'impressione che si trattasse di un gitone. Il trio si agitava ritmicamente e Alessina vi si avvicinò per accarezzare le tre palle di Fiodor.
In quell'istante, da fuori la tenda, un soldato chiese ad alta voce del principe Vibescu.
Mony uscì. Il militare era stato inviato in staffetta dal generale Munin, che voleva immediatamente Mony nella sua tenda.
Egli seguì il soldato e, attraverso l'accampamento, giurnsero fino a un furgone nel quale Mony salì solo, mentre il soldato annunciava:
«Il principe Vibescu!»
L'interno del furgone somigliava a un boudoir, ma un boudoir orientale. Vi regnava un lusso insensato e il generale Munin, un colosso di cinquant'anni, accolse Mony molto cortesemente.
Gli mostrò, mollemente sdraiata su un sofà, una bella donna sui vent'anni.
Era una circassa, sua moglie:
«Principe Vibescu» disse il generale, «oggi mia moglie ha sentito i particolari della vostra impresa, e vuole felicitarsi con voi. Inoltre è incinta da tre mesi, e una voglia da donna incinta la spinge irresistibilmente a volere far l'amore con voi. Eccovela! Fate il vostro dovere. Io mi soddisferò in altro modo.»
Senza neppure rispondere, Mony si spogliò nudo e cominciò a spogliare la bella Haidyn, che sembrava in un fantastico stato di eccitazione e che lo morse per tutto il tempo richiesto dall'operazione. Aveva un corpo bellissimo, e ancora non si vedeva che era incinta. I seni, modellati dalle Grazie, erano tondi e sodi come palle di cannone.
Il corpo era agile, formoso ma slanciato. E c'era una sproporzione così bella tra la grossezza del sedere e la sottigliezza della vita, che Mony si sentì erigere il membro come un pino di Norvegia.
Ella gliel'afferrò mentre Mony palpava le cosce, grosse in alto e più sottili verso il ginocchio.
Quando fu nuda, le montò sopra e la penetrò nitrendo come uno stallone, mentre la donna teneva gli occhi chiusi in immensa beatitudine.
Il generale Monin, intanto, aveva fatto entrare un ragazzino cinese, tanto grazioso quanto spaventato.
I suoi occhi a mandorla lampeggiavano rivolti verso la coppia amorosa.
Il generale lo spogliò e gli succhiò l'affaretto grande appena come una giuggiola.
Poi lo fece voltare e sculacciò il sedere magro e giallino. Prese la sciabola, e se la mise accanto.
Infine inculò il ragazzino, che doveva già conoscere questo mezzo di civilizzazione della Manciuria, perché agitava in modo sperimentato il corpo minuto di puttanella celeste.
Il generale diceva:
«Godi bene, Haidyn mia, sto per godere anch'io.»
E il suo membro usciva quasi per intero dal corpo del bambino cinese per rientrarvi rapidamente. Quando si sentì vicino all'eiaculazione, afferrò la sciabola e, stringendo i denti, senza fermare il movimento, tagliò la testa al cinesino, i cui ultimi spasmi gli procurarono un gran godimento mentre il sangue sprizzava dal collo come acqua da una fontana.
Poi il generale ritirò il membro e se lo asciugò con un fazzoletto. Ripulì la sciabola e, raccolta da terra la testa del piccolo decollato, la mostrò a Mony e a Haidyn, che adesso avevano cambiato posizione.
La circassa cavalcava Mony furiosamente. I suoi seni danzavano e il sedere si alzava e abbassava con frenesia. Le mani di Mony palpeggiavano le grandi chiappe meravigliose.
«Guardate» disse il generale, «come sorride gentilmente il cinesino.»
La testa aveva una smorfia orribile, ma la sua vista raddoppiò la furia erotica dei due fottitori, che si dimenarono con ardore ancora maggiore.
Il generale lasciò cadere la testa, e poi, afferrando la moglie per le anche, le introdusse il membro nel didietro. Il godimento di Mony ne fu ancora accresciuto. I due membri, appena separati da una sottile parete, si scontravano quasi frontalmente, aumentando il godimento della donna, che mordeva Mony e si agitava come una vipera. Il triplice orgasmo avvenne allo stesso tempo. Il trio si separò e il generale, immediatamente in piedi, afferrò la sciabola gridando:
«E adesso, principe Vibescu, dovete morire! Avete visto troppe cose!»
Ma Mony lo disarmò senza fatica. Lo legò per i piedi e per le mani, e lo trascinò per terra in un angolo del furgone, vicino al cadavere del piccolo cinese. Ciò fatto, continuò fino all'alba a godere fottendo la generalessa. Quando la lasciò, la donna era stanca e addormentata. Anche il generale dormiva, i piedi e le mani legati.
Mony si diresse alla tenda di Fiodor: anche lì si era continuato a fottere per tutta la notte. Alessina, Culculina, Fiodor e Cornaboeux dormivano nudi, distesi su dei mantelli.
Il pelo delle donne era intriso di sperma, e i membri degli uomini pendevano miseramente.
Mony li lasciò dormire e si mise a vagare per il campo. Si annunciava un combattimento con i giapponesi. I soldati stavano equipaggiandosi o erano intenti a mangiare il rancio. Alcuni soldati della cavalleria stavano curando i loro cavalli.
Un cosacco che aveva freddo alle mani se le stava riscaldando nel gran sesso della sua cavalla. La bestia nitriva dolcemente; a un tratto il cosacco, eccitatosi, montò su una sedia che aveva messo dietro alla sua bestia e estraendo un gran membro lungo come un manico di lancia, lo fece penetrare con molto godimento nella vagina dell'animale, il cui succo ippico doveva essere molto afrodisiaco perché il bruto umano eiaculò tre volte con grandi movimenti di sedere.
Un ufficiale che aveva visto questi atti di bestialità si avvicinò al soldato assieme a Mony, e gli rimproverò fortemente di essersi lasciato vincere dalla sua passione:
«Amico mio» gli disse, «la masturbazione è una qualità militare.
«Ogni buon soldato deve sapere che in tempo di guerra l'onanismo è il solo atto sessuale permesso. Masturbatevi quanto volete, ma non toccate né donne né bestie.
«Inoltre, la masturbazione è molto lodevole perché permette agli uomini e alle donne di abituarsi alla loro separazione prossima e definitiva. I costumi, lo spirito, le abitudini e i gusti dei due sessi diventano sempre più diversi tra loro. Se, come mi sembra necessario, si vuole dominare sulla terra, sarebbe ora di accorgersene e di tener conto di questa legge naturale che finirà ben presto con l'imporsi.»
L'ufficiale si allontanò lasciando solo Mony, che si diresse sovrappensiero verso la tenda di Fiodor.
All'improvviso il principe sentì un rumore bizzarro, come di piagnoni irlandesi che piangessero un morto sconosciuto.
Facendosi più vicino alla sorgente del rumore, quello si modificò, e parve ritmato da schiocchi secchi, come se un direttore d'orchestra impazzito battesse la bacchetta sul leggìo mentre l'orchestra suonava in sordina.
Il principe affrettò il passo, e uno strano spettacolo si presentò ai suoi occhi. Una squadra di soldati comandati da un ufficiale colpivano a turno con lunghe bacchette flessibili le spalle dei condannati, nudi fino alla cintola.
Mony, il cui grado era superiore a quello del comandante dei fustigatori, volle prendere il loro comando.
Venne portato un nuovo colpevole. Si trattava di un bel giovane tartaro che parlava a malapena il russo. Il principe lo fece denudare completamente, e lo fece fustigare dai soldati in questo stato, in modo che il freddo del mattino agisse su di lui assieme alle verghe che lo sferzavano.
Il giovane rimaneva impassibile. Questa calma irritò Mony, che disse una parola all'orecchio dell'ufficiale, il quale si allontanò per tornare quasi subito portando con sé una delle cameriere della birreria, una prosperosa kellerina il cui seno e il cui sedere riempivano in modo indecente l'uniforme che vestiva. La bella ragazzona arrivò impacciata dal costume, camminando a passi di anatra.
«Siete indecente, figlia mia» le disse Mony; «una donne come voi non deve vestirsi da uomo: cento vergate per insegnarvelo.»
L'infelice tremò tutta, ma a un gesto di Mony i soldati la spogliarono.
La sua nudità contrastava singolarmente con quella del tartaro.
L'uomo era alto con il volto scavato, gli occhi piccoli, furbi, calmi; le membra avevano la magrezza che solitamente si attribuisce a un Giovanni Battista dopo ch'ebbe vissuto per qualche tempo di cavallette. Le braccia, il torace e le gambe di airone erano pelosi; il pene circonciso si inturgidiva per via della fustigazione e il glande era di color porporino, del colore del vomito d'un ubriaco.
La kellerina, bell'esemplare di tedesca del Brunswick, aveva un gran sedere pesante; pareva una robusta cavalla lussemburghese lasciata in libertà tra tanti stalloni. I capelli biondo-stoppa la rendevano alquanto poetica. Le naiadi del Reno devono essere fatte allo stesso modo.
I capelli biondi chiarissimi le giungevano sino a metà delle cosce. Questa chioma copriva completamente un inguine ben rilevato. La donna godeva di robusta salute e tutti i soldati sentirono i loro membri mettersi da soli sull'attenti.
Mony chiese uno knut, che gli venne portato. Lo mise in mano al tartaro.
«Porco di una spia» gli gridò, «se vuoi risparmiare la tua pelle, non fare grazia a quella di questa puttana.»
Senza rispondere, il tartaro esaminò da intenditore lo strumento di tortura, composto di corregge di cuoio alle quali era unita della limatura di ferro.
La donna piangeva e chiedeva grazia in tedesco. Il suo corpo bianco e rosa tremava tutto. Mony la fece inginocchiare; poi, con un calcio, obbligò il suo grosso culo a sollevarsi. Il tartaro agitò dapprima lo knut in aria, poi, alzando il braccio molto in alto, stava per riabbassarlo con forza, quando l'infelice kellerina, che tremava tutta, si lasciò sfuggire un peto sonoro che fece ridere tutti i presenti, e lo knut ricadde. Mony, con una verga in mano, frustò l'uomo sul volto dicendogli: «Imbecille, ti ho detto di colpire, e non di ridere.»
Poi gli consegnò la verga dicendogli di fustigare la tedesca con quella, perché si abituasse. Il tartaro cominciò a colpire con regolarità. Il suo membro, che veniva a trovarsi dietro il sedere della paziente, s'era indurito e raddrizzato, ma, nonostante la sua concupiscenza, il braccio ricadeva ritmicamente, la verga era flessibilissima, il colpo fischiava in aria e ricadeva seccamente sulla pelle tesa che andava striandosi di rosso.
Il tartaro era un autentico artista, e i colpi che dava stavano componendo delle lettere.
Sul dorso, appena sopra le natiche, fu possibile leggere ben presto distintamente la parola puttana.
Si applaudì vigorosamente, mentre le grida della tedesca diventavano sempre più rauche. Il culo, ad ogni vergata, si agitava un poco, poi si sollevava; le natiche immediatamente chiuse si riallargavano; si poteva allora intravedere il buco più stretto e sotto di quello il sesso, umido e sbadigliante.
A poco a poco, la donna parve abituarsi. A ogni colpo di verga, il dorso si sollevava mollemente, il sedere si socchiudeva e il sesso sbadigliava a suo agio come per un godimento imprevisto.
Ben presto cadde a terra sopraffatta dal godimento e Mony fermò a questo punto la mano del tartaro.
Riconsegnò all'uomo lo knut e quello eccitatissimo, folle di desiderio, si mise a colpire con quest'arma crudele la schiena della tedesca. Ogni colpo lasciava più segni sanguinosi e profondi, perché, invece di sollevare lo knut dopo averlo lasciato cadere, il tartaro lo tirava a sé in modo che la limatura di ferro aderente alle corregge trascinasse con sé brandelli di pelle e di carne, che poi ricadevano in seguito da ogni lato, macchiando di goccioline di sangue le divise della soldatesca.
La tedesca non sentiva più dolore, si contorceva, si agitava, mugolava di godimento. Era rossa in volto e sbavava, e quando Mony ordinò al tartaro di smetterla, le tracce della parola puttana erano scomparse, perché il dorso ormai era tutto una piaga.
Il tartaro rimaneva in piedi, con lo knut insanguinato in mano. Sembrava aspettare un'approvazione, ma Mony lo guardò con disprezzo: «Avevi cominciato bene ma hai finito male. Hai fatto un pessimo lavoro, hai colpito come un ignorante. Soldati, portate indietro la donna e conducetemi una delle sue compagne nella tenda là dentro. E vuota. Mi ci intratterrò con questo miserabile tartaro.»
Mandò via i soldati, alcuni dei quali ricondussero la tedesca alla birreria, e si fece seguire dal suo condannato dentro la tenda, dove si mise a colpire con tutte le sue forze con due verghe contemporaneamente. Il tartaro, eccitato dallo spettacolo avuto sino ad allora sotto gli occhi e del quale era stato il protagonista, non trattenne a lungo lo sperma che ribolliva nei suoi testicoli. Il suo membro si eresse sotto i colpi di Mony e lo sperma che ne zampillo finì contro la tela della tenda.
In quel momento venne fatta entrare un'altra donna. Era in camicia, poiché era stata sorpresa a letto. Il suo volto esprimeva stupore e profondo terrore. Era muta e la sua gola poteva emettere solo suoni rauchi e inarticolati.
La ragazza era bella, originaria della Svezia. Figlia del direttore della birreria aveva sposato un danese, socio del padre. Aveva partorito quattro mesi prima e allattava essa stessa la figlioletta. Aveva circa ventiquattro anni. I seni gonfi di latte - perché era un'ottima puerpera - riempivano la camicetta.
Non appena Mony la vide mandò via i soldati che gliel'avevano portata e le tirò su la camicia. Le grandi cosce della svedese parevano fusti di colonne che sostenevano un edificio superbo. Di pelo era dorata e graziosamente ricciuta. Mony ordinò al tartaro di fustigarla, mentre egli le avrebbe accarezzato la vulva. Sulle braccia della bella muta piovevano i colpi, ma la bocca del principe raccoglieva in basso il succo amoroso distillato da quel sesso boreale.
Poi egli si sistemò nudo sul letto, dopo aver tolto la camicia alla donna, ormai eccitata. Essa gli si coricò sopra, e il membro penetrò a fondo tra le cosce di un candore accecante. Il culo massiccio e sodo si sollevava ritmicamente. Il principe portò la bocca su un seno e si mise a succhiarne un latte delizioso.
Il tartaro non rimaneva inattivo. Facendo fischiare la verga, dava colpi sanguinosi sul mappamondo della muta, stimolandone così il piacere. Picchiava come un invasato, segnando quel culo sublime, marchiando senza rispetto le belle spalle bianche e grasse, lasciando strisce rosse sulla schiena. Mony, che aveva già lavorato parecchio, fu duro a venire, e la muta, eccitata dalla verga, godette una quindicina di volte per una sola di Mony.
Allora egli si rialzò e, vedendo il tartaro in bello stato di erezione, gli ordinò di infilare da dietro la bella mammina, che sembrava ancora insoddisfatta. Egli stesso, afferrato lo knut, insanguinò la schiena del soldato, che godeva lanciando grida terribili.
Il tartaro però non abbandonava il suo posto. Sopportando stoicamente i colpi del terribile knut, scavava senza sosta nella grotta amorosa in cui s'era annidato. Vi depose cinque volte una calda offerta.
Poi rimase immobile, sulla donna ancora agitata da brividi di piacere.
Il principe lo insultò; aveva accesa una sigaretta e con essa bruciò in diverse zone le spalle del tartaro. Poi gli mise sotto i testicoli un fiammifero acceso, e la bruciatura ebbe l'effetto di rianimare il membro infaticabile. Il tartaro ripartì per una nuova galoppata. Mony riprese lo knut e picchiò con tutte le sue forze sui corpi allacciati del tartaro e della muta; il sangue sprizzava, i colpi piovevano e facevano «flac», Mony bestemmiava in francese, in romeno e in russo. Il tartaro godeva tremendamente, ma uno sguardo di odio per Mony gli attraversò gli occhi. Conosceva il linguaggio dei muti e, passando la mano di fronte al volto della compagna, le fece certi segni che lei capì a meraviglia.
Verso la fine della cavalcata, Mony ebbe una nuova fantasia: avvicinò la sigaretta accesa sulla punta umida del seno della muta. Il latte, di cui una gocciolina inumidiva il capezzolo, spense la sigaretta, ma la muta aveva lanciato un ruggito di terrore, in pieno orgasmo.
Fece un segno al tartaro, che tirò subito indietro il suo membro. Ed entrambi si precipitarono su Mony disarmandolo. La donna prese una verga e il tartaro lo knut. Con lo sguardo pieno d'odio, animati dalla speranza della vendetta, si misero a fustigare crudelmente l'ufficiale che li aveva fatti soffrire. Mony ebbe un bell'urlare e dibattersi, i colpi non risparmiarono nessuna parte del suo corpo. Ma poi il tartaro, temendo che la sua vendetta a danno di un ufficiale potesse provocare conseguenze per lui fatali, lasciò lo knut accontentandosi, come la donna, di una semplice verga. Mony saltellava sotto la fustigazione e la donna si accaniva a picchiare soprattutto sul ventre, sui testicoli e il membro del principe.
Durante tutti questi fatti, il danese, marito della muta, si era accorto della sua scomparsa perché la figlioletta reclamava il seno materno. La prese in braccio e si mise alla ricerca della moglie.
Un soldato gli indicò la tenda in cui si trovava, ma senza dirgli cosa vi stesse facendo. Pazzo di gelosia, il danese vi si precipitò, alzò la tela ed entrò nella tenda. Lo spettacolo non era certo comune: la moglie, nuda e insanguinata, assieme a un tartaro insanguinato e nudo, stava fustigando un giovanotto.
Lo knut era in terra; il danese mise giù la bambina, prese lo knut e colpì a tutta forza la moglie e il tartaro, che caddero a terra gridando di dolore.
Sotto i colpi, il membro di Mony si era eretto di nuovo, e in questo stato contemplò la scena coniugale.
A terra, la bambinetta piangeva. Mony la prese e, togliendole le vestine, baciò il culetto roseo e il sessolino glabro e tondo, poi, applicandoselo sul suo membro e tappandole la bocca con una mano, la violò. Il membro lacerò le carni infantili. Mony non ci mise molto a eiaculare. Stava venendo quando il padre e la madre, accorgendosi troppo tardi del delitto, si precipitarono su di lui.
La madre gli strappò la pargoletta. Il tartaro si rivestì in fretta e se la squagliò; ma il danese, con gli occhi iniettati di sangue, sollevò lo knut per assestare un colpo mortale sulla testa di Mony. Ma vide per terra la divisa da ufficiale. Il braccio gli ricadde, perché sapeva che l'ufficiale russo è sacro e può violentare e saccheggiare, mentre il mercante che avesse osato alzare la mano contro di lui sarebbe stato immediatamente impiccato.
Mony capì cosa stava passando nel cervello del danese, e ne approfitto per rialzarsi e prendere alla svelta la sua pistola. Con sguardo sprezzante ingiunse al danese di togliersi i pantaloni. Poi, la pistola sempre puntata, gli ordinò di sodomizzare la figlia. Tl danese supplicò e pianse, ma non servì a niente e dovette far entrare il suo membro meschino nel tenero culetto della lattante svenuta.
Nel frattempo Mony, con la verga nella destra e la pistola nella sinistra, faceva piovere i colpi sulle spalle della muta, che singhiozzava e si torceva per il dolore. La verga risvegliava una carne già gonfia per i colpi precedenti, e il dolore provato dalla povera donna era uno spettacolo orrendo. Mony lo sopportò con coraggio ammirevole, e il braccio gli restò ben saldo sino al momento in cui il misero padre non ebbe eiaculato nel sedere della sua figlioletta.
Allora Mony si rivestì e ordinò al danese di fare altrettanto. Poi aiutò gentilmente la coppia a rianimare la bambina.
«Madre senza visceri» disse alla muta «vostra figlia vuole il latte, non lo vedete?»
Il danese fece un gesto alla moglie e quella estrasse castamente dal corpetto un seno e allattò la bimbetta.
«Quanto a voi» disse Mony al danese «fate bene attenzione: avete violentato vostra figlia di fronte a me. Posso tradirvi. Siate dunque discreto, che la mia parola prevarrà sempre sulla vostra. Andate in pace. Il vostro commercio, d'ora in avanti, dipende dal mio buon volere. Se sarete discreto, vi proteggerò, ma se rivelerete cos'è accaduto qui, sarà la vostra fine.»
Il danese baciò la mano all'aitante ufficiale versando lacrime di riconoscenza, e portò rapidamente via la moglie e la bambina. Mony si diresse verso la tenda di Fiodor.
I dormienti si erano destati e, dopo la toilette, già rivestiti.
Per tutto il giorno ci si preparò alla battaglia, che cominciò verso sera. Mony, Cornaboeux e le due donne si erano rinchiusi nella tenda di Fiodor, che era andato a combattere sugli avamposti. Si sentirono presto i primi colpi di cannone, e i barellieri tornarono indietro portando i feriti.
La tenda venne adibita ad infermeria. Cornaboeux e le due donne vennero requisiti per raccogliere i cadaveri. Mony rimase solo con tre feriti russi che deliravano.
Arrivò una dama della Croce Rossa, vestita di un grazioso camice grezzo, col bracciale regolamentare al braccio destro.
Si trattava di una giovane e robusta nobile polacca. Aveva una voce soave come quella degli angeli: al sentirla, i feriti voltavano verso di lei gli occhi moribondi, credendo di vedere la Madonna.
Dava a Mony ordini secchi con voce dolce. Egli obbediva come un bambino, stupito dell'energia di quella ragazza e della strana luce che vedeva talvolta nei suoi occhi verdi.
Ogni tanto, il volto serafico si induriva, e una nube di vizi imperdonabili sembrava passarle sulla fronte. C'era da pensare che l'innocenza di questa donna avesse delle intermittenze criminali.
Mony l'osservò, e si accorse ben presto che le sue dita si soffermavano sulle piaghe più del necessario.
Fu portato un ferito orribile a vedersi. Il volto era tutto sangue, il torace tutto una ferita.
L'infermiera lo curò con voluttà. Aveva messo la mano destra nella ferita aperta e sembrava godesse del contatto con la carne palpitante.
Ad un tratto, la lasciva alzò gli occhi e vide di fronte a sé Mony, dall'altro lato della barella, che la osservava sorridendo sdegnosamente.
Arrossì, ma egli la tranquillizzò:
«Calmatevi, non abbiate paura; capisco meglio di chiunque altro la vostra voluttà. Anch'io ho le mani impure. Godete di questi feriti, ma non rifiutatevi ai miei abbracci.»
Ella abbassò gli occhi in silenzio. Mony le fu rapidamente alle spalle, le tirò su le gonne, e scoprì un sedere stupendo le cui natiche erano così strette che pareva avessero giurato di non doversi mai separare.
Ora ella stava lacerando febbrilmente, e con un sorriso angelico sulle labbra, l'orribile ferita del moribondo. Si chinò per permettere a Mony di goder meglio lo spettacolo del suo didietro.
Egli introdusse allora il suo dardo tra le labbra di seta della vulva, da dietro, e con la destra le accarezzava le natiche mentre la sinistra correva sotto le gonne a cercare il clitoride. L'infermiera godette in silenzio, contraendo le mani nella ferita del moribondo, che rantolava spaventosamente. Spirò nel momento stesso in cui Mony eiaculò. L'infermiera lo sloggiò dalla tana, e slacciando i pantaloni del morto, mise a nudo un membro dalla rigidezza di ferro, e se lo infilò nel sesso, godendo, sempre silenziosamente e con il viso più angelico che mai.
Mony dapprima sculacciò il bel sedere ondeggiante, sotto il quale le labbra del sesso vomitavano e reinghiottivano rapidamente la colonna cadaverica. Il suo membro riacquistò ben presto la primitiva durezza e, ponendosi dietro l'infermiera che stava godendo, egli la sodomizzò come un invasato.
Poi si ricomposero. Fu portato un bel giovanotto al quale le mitragliatrici aveva troncato braccia e gambe. Quel tronco umano possedeva ancora un bel membro dalla fermezza ideale. Non appena rimasta sola con Mony, l'infermiera si sedette sul membro del tronco rantolante e, durante una cavalcata indiavolata, succhiò la banana del principe, che eiaculò subito meglio di un frate. L'uomo-tronco non era ancora morto, e sanguinava abbondantemente dai monconi delle quattro membra. L'indemoniata gli prese il membro in bocca e lo fece morire sotto la carezza delle labbra. Lo sperma che risultò da quest'operazione, come ella confessò a Mony, era quasi freddo, ed ella sembrava talmente eccitata che Mony, che si sentiva sfinito, la pregò di slacciarsi il corpetto. Le succhiò le tette, poi la donna si mise in ginocchio e cercò di rianimare il membro principesco masturbandolo tra i suoi seni.
«E adesso dimmi» esclamò Mony, «donna crudele a cui Dio ha dato come missione quella di finire i feriti, chi sei, chi sei?»
«Io sono» ella disse, «la figlia di Giovanni Morneski, il principe rivoluzionario che l'infame Gurko inviò a morire a Tobolsk. Per vendicarmi e per vendicare la Polonia, mia madre, io do il colpo di grazia ai soldati russi. Vorrei uccidere Kuropatkin e auguro la morte a tutti i Romanov.
«Mio fratello, che è pure mio amante e che mi ha sverginata durante un pogrom a Varsavia per paura che la mia verginità cadesse preda di un cosacco, prova i miei stessi sentimenti. Ha fatto sperdere il reggimento che comandava e lo ha fatto annegare nel lago Baikal. Mi aveva annunciato questa sua intenzione prima di partire.
«E così che noi, polacchi, ci vendichiamo della tirannide moscovita.
«Questi furori patriottici hanno agito sui miei sensi, e le mie più nobili passioni hanno ceduto a quelle della crudeltà. Sono crudele, lo vedi, come Tamerlano, Attila e Ivan il Terribile. Una volta ero pia come una santa. Oggi di fronte a me Messalina e Caterina non sarebbero che miti pecorelle.»
Non fu senza un brivido che Mony ascoltò le dichiarazioni di quella magnifica puttana. Volle a ogni costo leccarle il culo in onore della Polonia e le raccontò come avesse indirettamente preso parte alla cospirazione che costò l'esistenza a Alessandro Obrenovic, a Belgrado.
La donna l'ascoltò con ammirazione.
«Possa vedere un giorno» esclamò, «lo zar infine defenestrato!»
Mony, che era un ufficiale leale, protestò contro la defenestrazione e dichiarò il suo attaccamento alla legittima autocrazia: «Io vi ammiro» disse alla polacca, «ma se fossi lo zar, distruggerei in blocco tutti i polacchi, inetti ubriaconi che continuano a fabbricare bombe e che rendono il pianeta inabitabile. Perfino a Parigi, questi sadici personaggi di competenza della corte d'assise come delle galere, turbano l'esistenza dei pacifici cittadini.»
«È vero» disse la polacca, «che i miei compatrioti sono persone poco allegre, ma si renda loro la patria, li si lasci parlare la loro lingua, e la Polonia tornerà a essere il paese dell'onore cavalleresco, del lusso e delle belle donne.»
«Hai ragione!» esclamò Mony, e spingendo l'infermiera su una barella, la prese tranquillamente, mentre, sempre fottendo, parlottavano di cose galanti e lontane. Si sarebbe detta una scena da Decamerone, e che fossero circondati dagli appestati.
«Donna conturbante» diceva Mony, «scambiamoci assieme alle anime la fede.»
«Sì» diceva lei, «dopo la guerra ci sposeremo e riempiremo il mondo della fama delle nostre crudeltà.»
«Lo voglio» disse Mony, «ma che si tratti di crudeltà legali.»
«Forse hai ragione» disse l'infermiera, «niente è così piacevole come fare ciò che è permesso.»
E su questo caddero in estasi, si spinsero, si morsero e godettero profondamente.
In quell'istante si sentirono grandi grida. L'esercito russo, in rotta, era sospinto indietro dalle truppe giapponesi.
Si sentivano le grida orribili dei feriti, il frastuono dell'artiglieria, il rullio sinistro dei cassoni e il crepitìo dei fucili.
La tenda fu aperta improvvisamente e un reparto di giapponesi l'invase. Mony e l'infermiera avevano avuto appena il tempo di aggiustarsi i vestiti.
Un ufficiale nipponico si fece avanti verso il principe Vibescu.
«Siete mio prigioniero!» gli disse, ma con un colpo di pistola Mony lo fece secco. Poi, di fronte ai giapponesi attoniti, spezzò la sua spada sulle ginocchia.
Un altro ufficiale giapponese si fece avanti, i soldati circondarono Mony che accettò la sua prigionia, e quando uscì dalla tenda in compagnia del piccolo ufficiale nipponico, poté vedere in lontananza, nella pianura, i fuggiaschi ritardatari che tentavano penosamente di raggiungere l'esercito russo in ritirata.


CAPITOLO VIII

Prigioniero sulla parola, Mony fu libero di andare e venire nel campo giapponese. Cercò invano Cornaboeux. Nei suoi andirivieni, si accorse di essere sorvegliato dall'ufficiale che l'aveva fatto prigioniero. Volle farselo amico, e riuscì infine a legarsi con lui. Era uno shintoista abbastanza godereccio che gli raccontò cose ammirevoli sulla donna che aveva lasciata in Giappone.
«È sempre sorridente e affascinante» diceva «e io l'adoro come adoro la trinità Ameno-Mino-Manussi-No-Kami. E feconda come Issaghi e Isanami, creatori della terra e generatori degli uomini, e bella come Amaterassu, figlia di questi dei e dea ella stessa. Mentre mi aspetta, ella pensa a me e fa vibrare le tredici corde del suo kó-tó in legna imperiale o suona il siô a diciassette canne.
«Ma voi» chiese Mony, «non avete mai avuto voglia di fottere da quando siete in guerra?»
«Io» disse l'ufficiale, «quando il desiderio è troppo forte mi masturbo guardando immagini oscene!» E mostrò a Mony dei libriccini pieni d'incisioni su legno di stupefacente oscenità. Uno di questi mostra donne che fanno l'amore con ogni sorta di bestie, gatti, uccelli, tigri, cani, pesci e perfino polipi che stringono orribilmente coi loro tentacoli a ventosa le isteriche musmé.
«Tutti i nostri ufficiali e tutti i nostri soldati» disse l'ufficiale, «hanno libri di questo genere. Possono fare a meno delle donne e si masturbano contemplando disegni priapici.»
Mony andava spesso a visitare i feriti russi. Un giorno rivide tra loro l'infermiera polacca che nella tenda di Fiodor gli aveva dato lezioni di crudeltà.
C'era tra i feriti un capitano originario di Archangel. La sua ferita non era molto grave e Mony si fermava spesso a chiacchierare con lui, seduto al suo capezzale.
Un giorno il ferito, che si chiamava Katasch, porse a Mony una lettera pregandolo di leggergliela. Vi si diceva che la moglie se la faceva con un mercante di pellicce.
«L'adoro» disse il capitano, «amo questa donna più di me stesso, e soffro terribilmente sapendola di un altro, ma sono felice, enormemente felice.»
«Come potete conciliare questi due sentimenti?» chiese Mony. «Sono del tutto contraddittori.»
«Essi in me si confondono» disse Katasch, «e non concepisco voluttà senza dolore.»
«Siete dunque masochista?» domandò Mony fortemente interessato.
«Se volete!» acconsentì l'ufficiale. «Il masochismo è comunque conforme ai precetti della religione cristiana. Ma, poiché dimostrate di interessarvi a me, voglio raccontarvi la mia storia.»
«Molto volentieri» disse immediatamente Many, «ma prima bevete questa limonata per rinfrescarvi la gola.»
Il capitano Katasch cominciò così:

Sono nato nel 1874 a Archangel, e sin dalla mia infanzia ho provato una gioia amara ogni volta che ero punito. Tutte le disgrazie che s'abbatterono sulla mia famiglia svilupparono in me la facoltà di godere della sventura e l'acuirono.
«Indubbiamente questo dipendeva da troppa tenerezza.
Mio padre fu assassinato, e ricordo che allora, avevo quindici anni, a causa di questa morte provai il mio primo godimento sessuale. La profonda emozione e lo spavento mi fecero eiaculare. Mia madre impazzì, e quando andavo a visitarla in manicomio, mi masturbavo sentendola divagare in maniera immonda, perché si credeva trasformata in una tazza di gabinetto, signore, e descriveva i sederi immaginari che defecavano su di lei. Si dovette rinchiuderla il giorno in cui immaginò che la fossa era piena. Diventò pericolosa e chiedeva a gran grida che gli operai andassero a svuotarla. La ascoltavo tristemente. Ella mi riconosceva.
«'Figlio mio' diceva, 'non ami più tua madre, tu vai in altri gabinetti. Siediti su di me e fai a tuo comodo. Dove puoi farla meglio che nel seno materno? E poi figlio mio, non lo scordare, la fossa è piena. Ieri un mercante di birra che è venuto a farla su di me aveva una colica. Io trabocco, non ne posso più. Bisogna far venire assolutamente gli operai a svuotarmi.' Lo credereste, signore, ero profondamente disgustato e insieme addolorato, perché adoravo mia madre, ma allo stesso tempo provavo un piacere indicibile a sentire quelle immonde parole. Sì, signore, godevo, e mi masturbavo. Mi misero nell'esercito e, grazie alle mie influenze, potei restare nel Nord. Frequentavo la famiglia di un pastore protestante stabilitosi a Archangel; era inglese e aveva una figlia così stupenda che tutte le mie descrizioni non ve la farebbero immaginare bella che per metà di quello che è in realtà. Un giorno che ballavamo durante una festicciola in famiglia, dopo il valzer Florence mi mise come per caso la mano tra le cosce chiedendomi: 'Siete in erezione?' Si accorse che effettivamente ero in uno stato d'erezione terribile, e sorrise dicendomi: 'E anch'io, sono tutta bagnata, ma non per voi. Ho goduto per Dyre.' E si diresse tutta moine verso Dyre Kissird, un commesso viaggiatore norvegese. Scherzarono tra loro per un istante, poi la musica iniziò una nuova danza e vi si gettarono allacciati, guardandosi amorosamente negli occhi. Soffrivo il martirio. La gelosia mi lacerava il cuore. E se Florence era desiderabile, la desideravo ancora di più dal giorno in cui seppi che ella non mi amava. Eiaculai vedendola ballare col mio rivale. Me li figurai l'uno nell'altra e dovetti voltarmi perché non si vedessero le mie lacrime. Spinto dal demone della concupiscenza e della gelosia, giurai a me stesso che sarebbe diventata mia moglie. È strana, Florence, parla quattro lingue: francese, tedesco, russo e inglese, ma non ne conosce realmente nessuna e il gergo che usa ha un che di selvaggio. Io stesso parlo benissimo il francese e conosco a fondo la letteratura francese, soprattutto i poeti della fine del XIX secolo. Componevo per Florence versi che dicevo simbolisti e che riflettevano semplicemente la mia tristezza.

Nel nome di Archangel, o anemoni, fiorite!
Mentre gli angeli piangono su per le loro sfere,
Di Florence il bel nome or sospira d'avere
Giuramenti sotto forma di scale delle note.
Voci bianche cantando nel nome di Archangel
Han modulato spesso le nenie di Florence,
I cui fiori, a lor volta, ricadevano in trance
I soffitti e le mura trasudanti al disgel.
O Florence/Archangel!
L'una baia d'alloro, ma l'altra d'erbe angeliche,
Fanciulle, volta a volta, si chinano al suo vel
Sommergendo i pozzi di fiori e di keliquie,
Di reliquie d'arcangelo e fiori d'Archangel.

La vita di guarnigione nel nord della Russia, in tempo di pace, è piena di tempo libero. La vita del militare si divide tra la caccia e i doveri mondani. La prima aveva per me ben poche attrattive, e le mie occupazioni mondane si potevano riassumere in queste poche parole: ottenere Florence che amavo e non m'amava. Fu una rude fatica. Soffrivo mille volte la morte, perché Florence mi odiava sempre di più, prendendomi in giro e flirtando con cacciatori di orsi bianchi e mercanti scandinavi, e perfino, un giorno che una miserabile compagnia francese d'operette era venuta a dare qualche rappresentazione nelle nostre lontane brume, sorpresi Florence, durante un'aurora boreale, che pattinava mano nella mano col tenore, uno schifoso caprone nato a Carcassonne. Ma io ero ricco, signore, e i miei tentativi non erano indifferenti al padre di Florence, e così riuscii finalmente a sposarla. Partimmo per la Francia, e per strada non mi permise mai nemmeno di baciarla. Giungemmo a Nizza in febbraio, durante il carnevale. Affittammo una villa e, un giorno di battaglia dei fiori, Florence mi comunicò che aveva deciso di perdere la verginità la sera stessa. Pensai che il mio amore sarebbe stato infine ricompensato. Ahimé! il mio calvario voluttuoso era appena cominciato. Florence aggiunse infatti che non ero io l'eletto per adempiere a questa funzione.
'Voi siete troppo ridicolo' mi disse, 'e non sapreste come fare. Voglio un francese, i francesi sono galanti e in fatto di amore ci sanno fare. Sceglierò io stessa il mio allargatore durante la festa.'
Chinai il capo, abituato all'obbedienza. Andammo alla battaglia dei fiori. Un giovane dall'accento nizzardo o monegasco guardò con insistenza Florence. Ella volse il capo sorridendo. Soffrivo più di quanto non si soffra in nessuno dei gironi danteschi.
Lo rivedemmo durante la battaglia dei fiori. Era solo, in una carrozza ornata da una grande quantità di fiori rari. Noi eravamo in una vettura in cui si soffocava per il profumo, poiché Florence aveva voluto che fosse interamente decorata di tuberose.
Quando la vettura del nizzardo incrociava la nostra, egli gettava dei fiori a Florence, che lo guardava amorosamente lanciando mazzetti di tuberose.
Ad una svolta, ormai stanca, ella lanciò con più forza il suo mazzetto, i cui fiori e gli steli, molli e vischiosi, lasciarono una macchia sul vestito di flanella del bellimbusto.
Immediatamente Florence si scusò e scendendo, senza educazione, salì nella vettura del giovanotto.
Era un tale di Nizza, arricchitosi col commercio dell'olio di oliva lasciatogli dal padre.
Prospero, così si chiamava, accolse mia moglie altrettanto senza educazione, e alla fine della battaglia la sua carrozza ebbe il primo premio e la mia il secondo. La musica suonava. Vidi mia moglie stringere lo stendardo vinto dal mio rivale, e baciarlo senza vergogna.
La sera volle assolutamente che cenassimo assieme a Prospero, e lo invitò a seguirci nella nostra villa. La notte era magnifica. Soffrivo.
Mia moglie ci fece entrare entrambi, in camera da letto, io triste fino alla morte e Prospero stupito e un po' a disagio per tanta buona sorte.
Mia moglie mi indicò una poltrona dicendomi: 'Assisterete a una lezione, cercate di approfittarne.'
Poi disse a Prospero di spogliarla: ed egli lo fece con una certa grazia. Florence era stupenda. Le carni sode, e più piene di quanto non si sarebbe sospettato, palpitavano sotto la carezza del giovanotto. Si spogliò anche lui. Il suo membro era eretto. Mi accorsi con piacere che non era più grande del mio, anzi più piccolo e puntuto. Erano entrambi bellissimi: mia moglie, ben pettinata, gli occhi scintillanti di desiderio, tutta rosa nella camicia di pizzo.
Prospero le succhiò i seni, aguzzi come colombe sospirose e, passando la mano sotto la sua camicia, la palpò per un poco mentre ella si divertiva ad abbassare il membro, per la testa, e a lasciarlo all'improvviso facendolo elasticamente tornare alla primitiva posizione si che sbattesse sul ventre del giovanotto. Nella mia poltrona, io piangevo. Tutt'a un tratto, Prospero prese mia moglie tra le braccia e le sollevò la camicia da dietro, scoprendo il suo bel sedere, grassottello, pieno di fossette.
Prospero la sculacciò mentre ella rideva, e su quel didietro le rose si mescolarono ai gigli. Ma ecco che mia moglie divenne seria e disse: 'Prendimi.'
La mise sul letto e sentii il grido di dolore che mia moglie lanciò quando l'imene lacerato ebbe concesso il passaggio al membro del suo vincitore.
Non mi prestavano nessuna attenzione, e io piangevo, tuttavia godendo del mio dolore; non riuscii a dominarmi, e tirai fuori il mio membro masturbandomi in loro onore.
Fecero l'amore una decina di volte. Poi mia moglie, come se si fosse accorta solo allora della mia presenza mi disse:
'Vieni a vedere, maritino caro, il bel lavoro fatto da Prospero.'
Mi avvicinai al letto, il membro in aria, e mia moglie, vedendo che il mio era più grande di quello di Prospero, ne concepì per quello il più grande disprezzo. Mi masturbò dicendo:
'Prospero, il vostro membro non vale niente, perché quello di mio marito, che è un cretino, è più grosso del vostro. Mi avete ingannata. Mio marito mi vendicherà. Andrea (sono io) frusta quest'uomo a sangue.'
Mi gettai su di lui e afferrando una frusta da cani sul tavolino da notte lo sentii con tutta la forza della mia gelosia. Frustai a lungo. Ero più forte di lui e infine mia moglie ne ebbe pietà. Lo fece rivestire e lo cacciò via con un addio definitivo.
Una volta partito credetti che le mie disgrazie fossero finite. Ahimè! ella mi disse: 'Andrea, presentatemi il vostro membro.'
Me lo titillò a lungo, ma senza permettermi di toccarla. Poi chiamò il suo cane, un bel danese che masturbò per qualche istante. Quando il suo membro aguzzo fu eretto, fece salire il cane su di sé, ordinandomi di aiutare la bestia, che stava a lingua in fuori, ansimante di piacere. Soffrivo tanto che svenni, eiaculando. Quando rinvenni Florence mi chiamava con gran grida. Il pene del cane, una volta entrato, non voleva più uscire. Tutti e due, la donna e il cane, facevano da circa mezz'ora inutili sforzi per distaccarsi. Una nodosità impediva al membro del danese di uscire dalla vagina ristretta di mia moglie. Ricorsi all'acqua fresca, e ben presto riebbero la loro libertà. Da quel giorno a mia moglie passò la voglia; non ebbe più voglia di fare l'amore coi cani. Per ricompensarmi mi masturbò, e poi mi mandò a dormire in camera mia.
La sera dopo, supplicai mia moglie di lasciarmi adempiere al mio dovere di sposo.
'Ti adoro' le dicevo 'nessuno ti ama come me, sono il tuo schiavo. Fa' di me ciò che vuoi.'
Era nuda e deliziosa. I capelli disciolti sul letto, le fragole del suo seno, mi attraevano e io piangevo. Ella mi estrasse il membro e lentamente, a piccoli colpetti, mi masturbò. Poi suonò, e una giovane cameriera che aveva assunta a Nizza si presentò in camicia da notte, perché era già a letto. Mia moglie mi fece riprender posto nella poltrona, e dovetti assistere alle battaglie delle due lesbiche che godettero febbrilmente, sbuffando e sbavando. Si leccarono a vicenda, si masturbarono l'una appoggiata alla coscia dell'altra, e vedevo il sedere della giovane Ninetta, grande e sodo, sollevarsi al disopra di mia moglie che aveva gli occhi languidi di voluttà.
Volli avvicinarmi, ma Florence e Ninetta mi derisero e mi masturbarono, per poi rigettarsi nelle loro voluttà contro natura.
Il giorno dopo, mia moglie non chiamò Ninetta ma un ufficiale dei cacciatori delle Alpi, che venne per farmi soffrire. Il suo membro era enorme e nerastro. Era volgare, mi insultava, mi colpiva.
Quando ebbe presa mia moglie, mi ordinò di recarmi vicino al letto e, prendendo la frusta da cane, mi frusto sul volto. Lanciai un grido di dolore. Ahimé! Uno scoppio di risa di mia moglie mi precipitò ancora in quella acre voluttà che già avevo provata.
Mi lasciai denudare dal crudele soldato, che per eccitàrsi aveva bisogno di frustare.
Quando fui nudo, l'alpino mi insultò, mi chiamò fesso, stronzo, bestia cornuta, e alzò il frustino abbattendomelo sul sedere. I primi colpi furono crudeli, ma vidi che mia moglie prendeva gusto alla mia sofferenza, e il suo piacere divenne il mio. Provai piacere a soffrire.
Ogni colpo ricadeva sulle mie natiche come una voluttà un po' violenta. Il primo bruciore si trasformò rapidamente in squisito solletichio, il membro mi si indurì. I colpi mi laceravano la pelle, il sangue che ne scaturiva mi eccitava in modo strano, accrescendo di molto il mio godimento. Il dito di mia moglie si agitava nel muschio del suo bel sesso, l'altra mano accarezzava il mio boia. I colpi, all'improvviso, raddoppiarono e sentii che si avvicinava per me il momento dello spasimo. Il mio cervello si esaltò; i martiri che la Chiesa onora debbono aver vissuto momenti simili a questo.
Mi alzai, insanguinato e in erezione, e mi precipitai su mia moglie.
Né lei né il suo amante poterono impedirmelo. Caddi nelle braccia della mia sposa, e il mio membro aveva appena toccato i peli dorati del suo pube che io eiaculai lanciando orribili grida.
Ma l'alpino mi strappò immediatamente dal mio posto; mia moglie, rossa di rabbia, disse che dovevo essere punito.
Prese delle spille e me le infilzò nel corpo, con voluttà, una dopo l'altra. Lanciavo grida di dolore spaventose. Qualsiasi persona avrebbe avuto pietà di me, ma la mia indegna consorte si coricò sul letto rosso e, a gambe larghe, attirò a sé l'amante afferrandolo per il suo enorme membro asinino, e poi, scostando i peli e le labbra della sua vulva, ve lo fece immergere sino ai testicoli, mentre l'ufficiale le mordeva i seni e io mi rotolavo per terra come un pazzo, affondando sempre più le spille dolorose nella carne coi miei movimenti.
Mi risvegliai tra le braccia della bella Ninetta, che, accoccolata su di me, mi tirava via le spille. Sentivo mia moglie, nella camera vicina, lanciare grida e oscenità godendo nelle braccia dell'ufficiale. Il dolore delle spille che Ninetta strappava e quello causatomi dall'orgasmo di mia moglie, mi provocarono una atroce erezione.
Ninetta, l'ho già detto, era accoccolata su di me. L'afferrai per la barba del sesso e sentii la fessura umida sotto il mio dito. Ma proprio in quel momento la porta si spalancò e un orribile bocia, cioè un manovale piemontese, entrò nella stanza.
Era l'amante di Ninetta e si arrabbio terribilmente. Tirò su le gonne all'amante e si mise a sculacciarla di fronte a me. Poi si tolse la cintura di cuoio e la frustò con quella. La ragazza gridava:
'Non ho fatto l'amore col padrone.'
'Chissà perché allora' disse il muratore, 'ti teneva per i peli del culo.'
Ninetta si difendeva invano. Il suo bel sedere di bruna trasaliva sotto i colpi della cintura, che fischiava e fendeva l'aria come un serpente lanciato contro la preda. Il sedere fu presto in fiamme. Ma questa punizione doveva piacerle, perché si voltò e, afferrando l'amante per i pantaloni, glieli tirò scoprendo un membro e dei testicoli che dovevano pesare tra tutto almeno tre chili e mezzo.
Il porco era eccitato come un maiale. Si coricò su Ninetta che incrociò le gambe fini e nervose sulle spalle dell'operaio. Vidi il gran membro entrare in una vulva vellutata che l'inghiotti come una pastiglia e lo risputò come un pistone. Ci misero parecchio prima di venire, e le loro grida si mischiavano con quelle di mia moglie.
Quando ebbero finito, il bocia, tutto rosso, si rialzò e vide che mi stavo masturbando. Mi insultò e riprese la cintura frustandomi da ogni parte. La correggia faceva un male terribile, perché ero debole e non avevo più forza sufficiente per poter avvertire qualche godimento. La fibbia mi penetrava crudelmente nelle carni. Gridavo: 'Pietà!.'
Ma in quell'istante, mia moglie entrò col suo amante e poiché un organo di Barberia suonava un valzer sotto le nostre finestre, le due coppie si misero, tutte sbracate, a ballare sul mio corpo, schiacciandomi i testicoli, il naso, e facendomi sanguinare da ogni parte.
Caddi malato. Fui però vendicato, perché il bocia cadde da un'impalcatura sfracellandosi il cranio, e l'ufficiale alpino, per aver insultato un suo collega, venne ucciso da quello in un duello.
Un ordine di Sua Maestà mi richiamò a servire in Estremo Oriente e così ho lasciato mia moglie, che continua a ingannarmi...»

Katasch terminò così il suo racconto. Mony ne era tutto eccitato, e come lui l'infermiera polacca, che era entrata verso la fine della storia e l'aveva ascoltata trattenendo i fremiti di voluttà.
Il principe e l'infermiera si precipitarono sul disgraziato ferito, lo scoprirono e, afferrando delle aste di bandiere russe prese nell'ultima battaglia che stavano lì per terra, si misero a picchiare l'infelice, il cui sedere sussultava a ogni colpo. Egli delirava:
«Ah, mia cara Florence, è ancora la tua mano divina a colpirmi? Ah, come mi ecciti... Ogni colpo mi fa godere... Non dimenticare di accarezzarmelo... Ah, che bello... Picchi troppo forte sulle spalle. Ah! Questo colpo mi ha fatto uscire sangue... E per te ch'esso scorre, sposa mia... tortorella mia... mia piccola mosca adorata...»
L'infermiera colpiva da puttana, come nessuno ha mai picchiato. Il sedere dello sventurato sobbalzava, livido, macchiato qua e là da un sangue pallido. Ma a Mony si strinse il cuore ed egli si rese conto della sua crudeltà. Così il suo furore si rivolse contro l'indegna infermiera. Le alzò le gonne e si mise a colpire lei. La donna cadde a terra agitando il didietro di vacca, adornato da un neo.
Picchiò con tutte le sue forze, lasciando che il sangue sgorgasse dalla carne di seta.
La donna riuscì a voltarsi, gridando come un'ossessa, e il bastone di Mony le si abbatte sul ventre, con rumore sordo.
Mony ebbe un'ispirazione geniale e, prendendo da terra l'altro bastone abbandonato dall'infermiera, cominciò a suonare il tamburo sul ventre nudo della polacca. I bam succedevano ai bum con rapidità vertiginosa. Il piccolo Bara, di gloriosa memoria, non suonò altrettanto bene la carica sul ponte di Arcole.
Infine il ventre si lacerò ma Mony continuava a battere e fuori dall'infermeria i soldati giapponesi, credendo a un'allarme, si riunivano tutt'intorno. Le trombe ripeterono l'allarme per tutto il campo. I reggimenti si erano fermati in ogni parte, e fecero bene, perché i russi stavano scatenando l'offensiva e avanzavano verso il campo giapponese. Senza la stamburinata del principe Mony Vibescu, il campo giapponese sarebbe stato preso. E questa fu la vittoria decisiva dei Nipponici. Essa è dovuta a un sadico romeno.
All'improvviso alcuni infermieri che stavano trasportando dei feriti entrarono nella sala e videro il principe che batteva sul ventre aperto della polacca, videro il ferito nudo e insanguinato sul letto.
Si precipitarono sul principe, lo legarono e lo portarono via.
Un consiglio di guerra lo condannò a morte per flagellazione e nulla poté commuovere i giudici giapponesi. Una domanda di grazia rivolta al Mikado non ebbe alcun successo.
Il principe Vibescu si rassegnò coraggiosamente e si preparò a morire da vero hospodar ereditario di Romania.


CAPITOLO IX

Venne il giorno dell'esecuzione. Il principe Vibescu si confessò e si comunicò, fece testamento e scrisse ai suoi parenti. Poi fu fatta entrare nella sua cella una ragazzina di dodici anni. Egli ne fu sorpreso, ma vedendo che li lasciavano soli cominciò subito a palpeggiarla.
Era deliziosa, e gli disse in romeno di venire da Bucarest e di essere stata catturata dai giapponesi nelle retrovie dell'esercito russo, dove i suoi genitori facevano i mercanti.
Le era stato chiesto se voleva lasciare la sua verginità a un condannato a morte romeno. Aveva accettato.
Mony le sollevò le gonne e le succhiò il piccolo sesso rigonfio su cui non era ancora spuntato un solo pelo, poi la sculacciò lievemente mentre ella lo masturbava. Mise la punta del suo membro tra le gambe infantili della piccola romena senza però riuscire a penetrarla. La bambina faceva del suo meglio per aiutarlo, spingendo il ventre in avanti, e offrendo ai baci del principe i suoi piccoli seni, tondi come mandarini. Mony fu preso da furia erotica e il membro penetrò infine nella fanciulla facendo scorrere sangue innocente.
Allora Mony si rialzò e, poiché non aveva più nulla da sperare dalla giustizia umana, strangolò la ragazzina dopo averle cavato gli occhi, mentre quella lanciava grida spaventevoli.
I soldati giapponesi entrarono nella cella e lo portarono fuori. Un araldo gli lesse la sentenza nel cortile della prigione, un tempo pagoda cinese dall'architettura meravigliosa.
La sentenza era breve: il condannato doveva ricevere una vergata da ogni componente dell'esercito giapponese di stanza in quel luogo. L'esercito era composto di undicimila unità.
E mentre l'araldo leggeva, il principe ripensò a tutta la sua vita lussuosa. Le donne di Bucarest, il vice‑console di Serbia, Parigi, l'assassinio in vagone letto, la piccola giapponese di Port‑Arthur, tutto questo gli danzò nella memoria.
Un episodio ebbe il sopravvento sugli altri. Ricordò Culculina in abito primaverile nel boulevard Malecherbes, che saltellava verso la Madeleine e lui, Mony, che le diceva:
«Se non faccio l'amore venti volte di seguito, che le undicimila vergini o undicimila verghe mi puniscano.»
Venti volte di seguito non l'aveva fatto; il giorno in cui undicimila verghe l'avrebbero castigato era arrivato.
Era a quel punto della sua fantasticheria quando i soldati lo scossero, e lo condussero davanti ai suoi carnefici.
Gli undicimila giapponesi erano disposti su due ranghi, uno di fronte all'altro. Ogni uomo aveva in mano una bacchetta flessibile. Mony fu spogliato, e dovette avviarsi per quel sentiero crudele fiancheggiato da carnefici. I primi colpi lo fecero soltanto trasalire. Si abbatterono su una pelle di seta e lasciarono segni rosso‑scuri. Sopportò stoicamente i primi mille, poi cadde nel suo stesso sangue, ma venne subito rialzato.
Lo distesero su una barella e la lugubre passeggiata riprese, scandita dai colpi secchi delle bacchette che picchiavano su una carne tumefatta e insanguinata. Il suo membro non poté più trattenere il lancio spermatico e, sollevandosi a più riprese, spruzzò il suo liquido biancastro in faccia ai soldati, che allora picchiarono con più violenza su quel brandello umano.
Al duemillesimo colpo Mony rese l'anima. Il sole era radioso. I canti degli uccelli manciù rendevano più allegro il pimpante mattino. La sentenza doveva essere eseguita per intero e gli ultimi soldati colpirono su una massa informe, una specie di carne da salsiccia in cui non si distingueva più nulla eccetto il volto che era stato accuratamente rispettato e in cui i grandi occhi vetrosi parevano contemplare la maestà divina dell'aldilà. In quell'istante, un convoglio di prigionieri passò vicino al luogo dell'esecuzione. Venne fatto fermare per impressionare i russi.
Ma un gridò risuonò, seguito immediatamente da due altri. Tre prigionieri si slanciarono sul corpo del suppliziato, che aveva appena ricevuto l'undicimillesimo colpo di verga. Si gettarono in ginocchio e abbracciarono, devotamente e versando lacrime, la testa insanguinata di Mony.
I soldati giapponesi, un attimo stupiti, osservarono che uno dei prigionieri era un uomo, anzi un colosso, i due altri due graziose donne travestite da soldati. Si trattava infatti di Cornaboeux, Culculina e Alessina, catturati dopo il disastro dell'esercito russo.
I giapponesi prima rispettarono il loro dolore, poi, eccitati alla vista delle due donne, si misero a stuzzicarle. Cornaboeux venne lasciato in ginocchio vicino al cadavere del suo padrone; a Culculina e Alessina, che si dibatterono invano, furono tolti i pantaloni.
Agli sguardi meravigliati dei soldati apparvero i loro bei deretani candidi e palpitanti di graziose parigine. I giapponesi si misero a frustare dolcemente e senza rabbia gli incantevoli posteriori che s'agitavano come lune ubriache; quando le belle donne cercavano di rialzarsi, si potevano intravedere anche i peli delle loro sbadiglianti passerine.
I colpi sibilavano per cadere a piatto, ma non troppo forte, segnando un po' i bei sederi sodi delle parigine. Però i segni scomparivano presto per riformarsi sul luogo in cui la verga veniva successivamente a colpire.
Quando le due donne furono eccitate a dovere, due ufficiali giapponesi le portarono sotto una tenda, e lì le fotterono una decina di volte, affamati com'erano per una lunghissima astinenza.
I due ufficiali giapponesi erano gentiluomini di grande famiglia. Avevano fatto lo spionaggio in Francia e conoscevano Parigi. Culculina e Alessina non fecero fatica a farsi promettere il corpo del principe Vibescu, che fecero passare per un loro cugino, presentando se stesse come due sorelle.
Tra i prigionieri c'era un giornalista francese, corrispondente di un giornale di provincia, che prima della guerra faceva lo scultore, non senza qualche merito. Si chiamava Genmolay. Culculina andò a fargli visita per pregarlo di scolpire un monumento degno della memoria del principe Vibescu.

 

La fustigazione era l'unica passione di Genmolay. Egli chiese come solo compenso che Culculina si lasciasse frustare. La donna accettò, e andò con Alessina e Cornaboeux all'appuntamento fissato. Le due donne e i due uomini si denudarono. Alessina e Culculina si misero su un letto, la testa in basso e il sedere in aria, e i due robusti francesi, armati di verghe cominciarono a picchiarle facendo in modo che la maggior parte dei colpi cadessero nelle fessure culine o sui sessi che grazie alla posizione, erano bene in vista. Le due donne soffrivano il martirio, ma l'idea che le loro sofferenze avrebbero fatto avere a Mony una sepoltura degna di lui, le sostenne fino in fondo a questa prova singolare. Poi Genmolay e Cornaboeux si sedettero e si fecero succhiare i grossi membri pieni di linfa, mentre le due verghe continuavano a colpire sui sederi tremanti delle belle fanciulle.
Il giorno dopo Genmolay si mise all'opera, e portò rapidamente a termine un monumento funebre stupefacente, sormontato dalla statua equestre del principe Mony.
Bassorilievi sul basamento rappresentavano le azioni eroiche del principe. Da un lato lo si vedeva mentre lasciava in pallone Port‑Arthur assediata. Dall'altro era mostrato come protettore delle arti, che era andato a studiare a Parigi.
Il viaggiatore che percorre la campagna manciù, tra Mukden e Dalny, vede all'improvviso, non lontano da un campo di battaglia ancora disseminato di ossa, una tomba monumentale in marmo bianco. I cinesi che lavorano li attorno la venerano, e la madre manciù, rispondendo alle domande del figlioletto, dice:
«È un cavaliere gigante che protesse la Manciuria contro i diavoli dell'occidente e contro quelli dell'oriente.»
Ma di solito il viaggiatore, si rivolge più volentieri al casellante transmanciù, un giapponese dagli occhi a mandorla vestito come un impiegato del P.L.M. Egli risponde con modestia:
«È un tamburo maggiore giapponese la cui azione fu decisiva per la vittoria di Mukden.»
Ma se, curioso di informarsi con più esattezza, il viaggiatore si avvicina alla statua, rimane a lungo perplesso dopo aver letto i versi che sono incisi sullo zoccolo:

QUI GIACE IL PRINCIPE VIBESCU
UNICO AMANTE DELLE UNDICIMILA VERGHE
È CERTO, O PASSANTE, CHE MEGLIO SAREBBE
SVERGINARE LE UNDICIMILA VERGINI!