Philipp Jarnach

IN MEMORIA Dl FERRUCCIO BUSONI

«La Rassegna Musicale»,
nº 1, anno 13º, gennaio 1940, pp. 59-62
All'arte di Ferruccio Busoni fu sempre di remora la sua fama di inaccessibilità spirituale. Anzitutto la musica del Maestro era incomprensibile perchè le sue originalità formali sonore apparivano nuove e inconsuete, e gli astrusi problemi ch'essa presentava all'esecuzione ne rendevano difficile l'intendimento a una mente ordinaria. Ma c'era dell'altro: c'era l'estremo volatilizzarsi di ogni realtà materiale, l'atmosfera enigmatica e irreale che da questa musica emana, e che turba e fa stare a disagio l'ascoltatore abitudinario e amante dei propri comodi. A misura che s'imponeva il riconoscimento dell'importanza e della portata dell'opera di Busoni, il contrasto si accentuava; solo chi ha vissuto la strana antitesi tra la celebrità mondiale del pianista e l'isolamento del creatore, sa quanto egli fosse avversato in vita, con quanta ingiustizia e arroganza lo trattasse la congrega dei pedanti. Se poi l'opera veniva a imporsi, ecco che se ne assaliva la tendenza che si sospettava esservi contenuta. Più curioso ancora si è che gli scritti estetici di Busoni venissero male interpretati quanto la sua musica. Essi erano di continuo pretesto a violente controversie, che in pubblico finivano spesso per assumere il carattere di attacchi personali. Questo interprete dei più sublimi misteri musicali del passato, questo annunziatore di un'espressione musicale nuova e più pura, appariva agli occhi degli uni come un pericoloso distruttore e un futurista, agli altri come un romantico travestito, mentre non era nè l'uno nè l'altro. Egli ne soffriva assai, non tanto per il fatto di sentirsi personalmente incompreso, quanto perchè l'ottusa inerzia dei contemporanei gli pareva ritardare o minacciare quelle possibilità superindividuali di sviluppo che il suo spirito ardentemente auspicava. Per lui, che viveva tutto per l'Idea, il destino personale era una questione secondaria. Mai egli avrebbe potuto comperare il plauso a prezzo della minima concessione, fosse pure esteriore. Il suo selvaggio spirito d'indipendenza, la sua intransigenza sulle questioni artlstiche, lo facevano a volte apparire duro e addirittura superbo, e si manifestavano talora con una asprezza che poteva stupire e disonentare chi era avvezzo ai suoi modi solitamente cortesi. Eppure, in fondo all'essere suo, egli era di una commovente umiltà davanti a tutto cio che è autentico, schietto, senza macchia. Quante volte l'abbiamo visto inchinarsi dinanzi al pensiero altrui, solo perchè ne sentiva la verità! Quest'uomo, nelle cui opere si son voluti vedere gli ingegnosi prodottl di una intelligente speculazione, ha sempre proclamato la vittoria del sentimento su qualunque concezione speculativa di stile e di forza, il trionfo finale della melodia sulla tecnica della composizione, per quanto raffinata.
Ma poichè la sua sensibilità, rasentante spesso il mistico, penetrava regioni inaccessibili a cio che è sensuale e reale, il suo linguaggio - nonostante la chiarezza armonica - doveva essere sulle prime incompreso. Una musica che, pur avendo radici nel sentimento, rifiuta tuttavia la forma della passione distruggitrice della misura, una musica la quale non vuol creare conflitti ma sintesi; un quadro sonoro che alleggerisce impressionisticamente le linee polifoniche, ma lascia trasparire nel colore, nell'ornamentazione e perfino nell'elemento virtuosistico uno sfondo spirituale, un'arte dall'orientamento così universale, e tuttavia severa, non è legata al presente. Essa non era soggetta ad alcuna scuola, e non farà scuola, né sarà mutilata da una scuola. Io credo che in alcune delle sue manifestazioni essa abbia raggiunto quell'espressione al di là del tempo che non invecchia mai più. Le tarde opere orchestrali: i Goethe-Lieder, le Sonatine per pianoforte, la «Fantasia Contrappuntistica», e sopra tutte il mistero musicale del «Doktor Faust», sono fra queste.
La giovane generazione artistica era più vicina a Ferruccio Busoni di quanto egli sapesse o volesse credere. Forse il lato spiritualistico del suo essere le era rimasto estraneo, ma aveva capito il Maestro nel punto per essa essenziale. Nella lotta per l'autonomia stilistica essa aveva gettato via i paludamenti del Neo-romanticismo e cercava di fare a meno del pathos, di cui sentiva il falso convenzionalismo. Sulla via di questa reazione, l'espressionismo si era rivelato un vicolo cieco. L'arte di Busoni invece portava davanti alla coscienza nuovi problemi e possibilità non risolvibili per mezzo di ricette. Qui non c'erano «tendenze» da trovare, maniere né formule da ricalcare; ma l'esempio - impossibile a perdersi - di una forza formativa che serviva unicamente all'espressione ed era insieme altissima disciplina dell'espressione. Se ne potevano bensì penetrare e sviscerare i segreti tecnici, ma non appropriarseli. Perchè ciò che noi chiamiamo «tecnica», non è - nell'opera d'arte - che l'equilibrio raggiunto fra materia e volontà creatrice, e i suoi mezzi mutano col compito che ci si impone. La tecnica per se stessa - cioè sciolta da originalità, temperamento e fantasia - o non esiste, o si chiama «mestiere», «routine». Scriveva Busoni in proposito: «Routine non significava altro che far proprie certe astuzie di mestiere ed estenderle indistintamente a tutti i casi che si presentano. Quindi in musica dovrebbero presentarsi «casi analoghi» in numero stupefacente! Invece la musica io la intendo così, che in essa ogni caso dovrebbe essere un 'caso nuovo', un'eccezione... Come rimarrebbe perplesso davanti a ciò l'esercito dei mestieranti! Sarebbe messo in fuga e scomparirebbe. Il mestiere trasforma il tempio in officina. Esso distrugge ogni creazione, poichè creare significa formare dal nulla. Invece il mestiere è l'officina degli esemplari in serie, a milioni. La 'poesia su misura'... Si è tentati di gridare: guardatevi dalla routine! Fate che tutto sia un principio, come se un principio non vi fosse mai stato. Non sappiate nulla, ma pensate e sentite, e imparate così a potere!...».
L'assolutismo di questa concezione, che ignorava intenzionalmente tutti i gradi intermedi delle capacità individuali e trasportava nella sfera della creazione anche i problemi tecnici, spiega a sufficienza l'intolleranza di Busoni per ogni sistema, per ogni retorica non indipendente. La libertà ch'egli pretendeva non era la licenza, ma il diritto alla interpretazione spregiudicata delle leggi che reggono un'opera d'arte fin dall'inizio. Le leggi son sempre le stesse, ma quanto più chiaramente noi veniamo a conoscerle, tanto più infinito appare il numero delle loro possibili conseguenze. Chi non vede le leggi, ancora meno può trovare se stesso, ed è indifferente allora se egli - come epigono o come contemporaneo - voglia ammirare o negare i capolavori del passato. Antico e moderno sono concetti relativi e assai incerti, da cui dobbiamo disavvezzarci. Busoni non si stancava di richiamare al mondo illimitato delle forme di Bach e di Mozart; egli mostrava come in esse la massima libertà di fantasia potesse inesauribilmente dare nuova vita a schemi in apparenza angusti, nel libero giuoco delle forze melodiche. E chi lo aveva capito, imparava a considerare la forma non più come un'impalcatura, ma come una cosa vissuta, a valutare come sentimento l'armonia della proporzione e l'economia dell'espressione. Compito dell'artista è: dall'idea del momento trarre i mezzi per modellare la forma visibile dell'idea stessa. Ciò conduce naturalmente a un più severo controllo dell'ispirazione; il nucleo dell'idea deve contenere in sè la forza di produrre temi, suoni e forme componenti un tutto complessivo. Gli organismi tradizionali della fuga e della sinfonia restano fecondi soltanto se li consideriamo non come schemi ma come simboli, e se li ricreiamo in noi stessi. Nessuna regola, nessuna limitazione esteriore, non la forma e non il genere possono determinare in precedenza un fatto artistico. Perchè in ognuno di questi generi artificiosamente creati - e perfino nell'opera (cui soltanto dopo Wagner si attribuiscono particolari leggi musicali) la musica rimane fedele soltanto a se stessa, come l'emanazione più immediata e allo stesso tempo più inoggettiva dell'umano sentire. Essa può e vuole condurre a perfezione soltanto se stessa. La sua sfera è abbastanza vasta per comprendere tutta la ridda di vicende della vita umana, senza che la sua essenza ne risulti mai offuscata.
Così riconobbe Busoni l'unità della musica, l'assolutezza della sua sfera superspirituale, non influenzata da legami individuali e temporali. Subordinando in tal modo il soggettivo, particolare e unico (e come tale egli considerava ogni vera opera d'arte) ad un principio immutabile, egli non cercava paragoni, ma misure; egli anzi coniò il concetto e il vocabolo di «nuovo classicismo». La parola caratterizza la sua attività e tutto ciò che egli sperava da una evoluzione futura. Ma qui purtroppo debbo dire ch'egli fu molto mal inteso. Il «nuovo classicismo» fu per un certo tempo la parola d'ordine, l'etichetta unica per tutti i possibili tentativi stilistici, finché a poco a poco non venne mutata in quella di «nuovo oggettivismo» (Neue Sachlichkeit). Ma quel che Busoni intendeva, non era la preferenza per un qualsiasi stile, bensì: riprendere la musica alla sua origine, che è la melodia, spiritualizzare l'arte, tendere all'oggettività, sforzarsi di raggiungere un'espressione purificata, capace di sopravvivere nel tempo. Attraverso tutti i contrasti egli sentiva innanzi tutto l'unità di una volontà spirituale. Soltanto là dove sentiva questa unità poteva trovarsi d'accordo, poichè quel ch'egli cercava neile singole opere non erano tanto le caratteristiche del tempo e della personalità quanto invece l'affinità con qualcosa di più alto e di immutabile, qualcosa che è ad un tempo l'origine e la mèta dell'istinto creativo.