Sergio Sablich

BUSONI E L'ITALIA

[nel vol. Busoni, EDT MUSICA, Torino, 1982, pp. 55-58]

Dopo l'attentato di Sarajevo la situazione politica europea era d'improvviso precipitata. Busoni, profondamente turbato, decise di chiedere a Bologna un anno di aspettativa e di accettare una nuova tournée in America. Inconsciamente questa scelta equivaleva forse a una fuga dai pericoli della guerra, nella segreta speranza che le cose in Europa si accomodassero al più presto. Rimase a Berlino fino alla fine del 1914, cercando conforto e rifugio nella famiglia e nel lavoro, com'era sua abitudine nei momenti di grave angoscia. Ricominciò a studiare con lena il pianoforte e a far progetti di nuove composizioni: fra Natale e Capodanno terminò il poema di una nuova opera per il teatro, Doktor Faust, destinata ad avere un ruolo di primo piano negli anni successivi. Il 5 gennaio 1915 si imbarcò con la moglie e i figli per l'America, oppresso da oscuri presagi. Scrisse a Egon Petri, il discepolo e amico più vicino al suo cuore:

Quando ci rivedremo? Questo stato di incertezza, dopo anni di lavoro sicuro e costruttivo, all'apogeo della mia forza vitale, è il colpo più duro da sostenere!

Un colpo quasi mortale. Con l'entrata in guerra dell'Italia, Busoni fu posto di fronte a un bivio: ritornare a Bologna, com'era sua intenzione dichiarata (ma quanto sincera?) avrebbe significato automaticamente aderire al nuovo corso della politica italiana e tagliare i ponti, chissà fino a quando, con la Germania e con Berlino. Di contro a Berlino aveva la sua casa, i suoi interessi, la sua víta, le sue radici; ma Berlino non garantiva più le condizioni di lavoro comode e sicure di un tempo. Se poi Busoni vi fosse ritornato, avrebbe dovuto motivare di fronte all'opinione pubblica le ragioni del suo rifiuto dell'Italia ed esporsi così alle accuse dei nazionalisti, se non all'anatema e al ripudio come nemico e traditore della patria. E Busoni amava troppo l'Italia per rischiare di trovarsi invischiato in una simile situazione.
Non possiamo esimerci a questo punto dal trattare, sia pur brevemente, un tema ricorrente nei riguardi della figura di Busoni: la questione della sua
italianità. Su ciò sono state scritte cose talmente ridicole e grottesche, bassamente interessate e false, che non varrebbe la pena di considerarle se non avessero concorso a deformare l'immagine di Busoni nel giudizio dei contemporanei e dei posteri. Il Busoni acceso patriota, artista del popolo e della grandezza d'Italia, è un'invenzione fasulla di avvocatelli interessati solo ad attrarre la sua figura nell'orbita della retorica fascista o semplicemente nazionalista, in anni bui della nostra cultura: come il Santelli e il Guerrini. E indubbio che Busoni «si sentisse» italiano. Non volle mai rinunciare alla cittadinanza italiana, che aveva desiderato assumesse anche la moglie, e si ostinò sempre a dichiararsi italiano all'estero, pur vivendo di fatto tutta la vita lontano dalla sua patria. In realtà, per cultura e formazione, abitudini e costumi, lingua e opere egli era diventato assai più tedesco che italiano. Come scrive Fedele D'Amico, «la mentalità di Busoni, le sue basi culturali, la sua concezione dell'arte in genere e della musica in ispecie, sono irrimediabilmente germaniche, italiani soltanto certi contenuti o pimenti delle sue opere, che egli assume come oggetto di nostalgia, o come polemici correttivi, ma appunto secondo quella Sehnsucht nach Italien che è sentimento germanico se mai ve ne fu.» In altre parole, l'Italia fu per Busoni un concetto più ideale che reale, legato più al passato che al presente, vissuto più emotivamente che pragmaticamente, nella proiezione dei ricordi dell'infanzia, dei paesaggi, dell'arte, insomma di tutto un patrimonio storico acquisito e ricostruito soggettivamente.
Italiano o tedesco, comunque, non sono termini di una antinomia, ma soltanto lo specchio di quel dissidio stesso latente nella natura di Busoni. Esso nasce dall'esser stato egli, secondo la mirabile intuizione di Paul Bekker, una «Grenznatur», «un'indole confinaria», sospesa non soltanto fra due popoli, due lingue e due tradizioni, ma anche fra due epoche e due civiltà, due modi di vivere la musica, uno reale (il pianista) e uno ideale (il teorico e il compositore): che egli peraltro non sentì mai come opposti o inconciliabili. Busoni si proclamava cittadino del mondo e, come musicista, continuatore di una tradizione universale e unitaria, indirizzata verso il nuovo e l'incognito. Urgeva in lui una vocazione europea partecipata e vissuta nello sforzo di riunire esperienze diverse sotto un denominatore comune: mèta utopica nella disgregazione politica e linguistica dell'Europa intorno al 1915 ma perseguita fino ad allora con tenacia. Soltanto con lo scoppio della guerra il dissidio si radicalizzò portando alla luce una vera, intima crisi di identità, di cui l'aspetto più evidente fu il ritrovarsi senza patria, o peggio con due patrie, senza sapere a quale interiormente appartenesse. E di questo momento cruciale una preziosa testimonianza di Stefan Zweig:

Un altro di questi uomini anfibi, posti fra due nazioni, era Ferruccio Busoni, italiano per nascita ed educazione, tedesco di elezione. Lo rivedevo ora ma i suoi capelli eran grigi e gli occhi velati di dolore. «A chi appartengo?» mi domandò una volta. «Quando la notte sogno, mi accorgo al destarmi di aver parlato in sogno in italiano. Ma se poi scrivo, penso parole tedesche.»

In quel frangente, la necessità di dover scegliere fu un'autentica tortura, l'inizio della peripezia che avrebbe mutato in tragedia il dramma della vita di Busoni: una tragedia senza altra catarsi che la fede nell'arte. Di fronte alla domanda: «che fare?», esitò a lungo, trattenendosi in America molti mesi più del previsto. In altri tempi non aveva desiderato altro che il momento della partenza. Alla fine, con un gioco di prestigio che avrebbe pagato amaramente sul piano esistenziale, tra due strade egualmente impossibili ne inventò una terza: la Svizzera, la neutralità.
Gran parte in questa decisione ebbe la totale apoliticità della sua indole, l'incapacità o meglio il rifiuto di vedere le cose in un'ottica politica. Busoni visse anni di radicali trasformazioni sociali ed economiche, viaggiò in ogni parte del mondo, dalle Americhe alla Russia, da Londra a Parigi a Roma: eppure dalla sua penna non uscì una sola considerazione di natura sociale o politica, non una parola che andasse oltre la generica condanna del danaro come mito dell'uomo moderno (l'America) o della burocrazia come nemica acerrima dell'arte (la Russia). «La scienza, lo Stato, la religione, la filosofia mi appaiono come forme artistiche e mi interessano solo in quanto tali», scrisse nella sua «Autorecensione»: di passaggio, ma quasi scandendo con forza ogni sillaba. Fu accanito antimilitarista, questo è vero; ma s'accorse della reale disumanità della guerra e del potere solo quando lo toccarono da vicino, come nel «caso di guerra» della tragica morte di Boccioni. E quando tentò di definire il socialismo, lo dipinse visto dall'artista»: una breve paginetta di ovvi luoghi comuni, che col socialismo ha poco a che vedere. E allora?
Difficile rispondere. Busoni sfugge alle etichette di comodo, e qui sta forse la ragione della sua inattualità. Nessuno potrà mai farne il paladino di un'ideologia, sia essa aristocratica o borghese, conservatrice o progressista; e se è vero che egli fu anzitutto un Kulturmensch, cittadino di una polis ideale e fautore di una repubblica di artisti, è anche vero che seppe tenere desto come pochi l'impegno verso se stesso e verso l'esterno, con senso di responsabilità, misura e tensione inesausta nella ricerca e nella critica. Niente meglio di questo brano di una lettera del tempo di guerra vale a illustrarne le ragioni:

Con maggiore partecipazione che in tutti gli ultimi quattro anni, seguo il corso degli avvenimenti in questo enorme manicomio e soffro perciò di un disturbo che prima non mi colpì! Un individuo può resistere difficilmente all'intensità del momento; però io mi difendo ancora sempre e mi rifugio come prima nel lavoro, forse un po' meno concentrato di un tempo. Il senso della responsabilità verso se stessi, se si sviluppasse al massimo grado in ogni singolo individuo, avrebbe come conseguenza che nessuno impiegherebbe né pensieri né tempo per le cose esterne. Questa situazione sarebbe quella di uno Stato ideale e della generale felicità. Ma i più hanno cosl pochi pensieri e così tanto tempo, e nessuna coscienza della propria importanza (in senso etico). Queste auspicate qualità si trovano anzitutto nell'artista (per artista io intendo colui che ambisce incessantemente a portare le sue capacità alla più alta perfezione e al più alto sviluppo), ed è ciò che coscientemente e istintivamente io cerco di raggiungere. [Lettera al Marchese di Casanova, 26 ottobre 1918]