Un
suo vastissimo oratorio la cui prima esecuzione risaliva al 1938, direttore
Osvald Kabasta, è stato di recente riproposto a Pisa Per un concorso della
Columbia discografica scrisse una sinfonia di spirito schubertiano Uomo assai
colto e strumentista provetto frequentava il circolo Wittgenstein Fu un tardoromantico
ma non un epigono secondo la definizione di un suo biografo Scarse le riprese
ma memorabile quella di Salisburgo del 1959 per fortuna registrata
MARIO BORTOLOTTO
UN compositore dimenticato, Franz Schmidt, è ora apparso sul nebbioso
orizzonte musicale nostrano, ottenendo persino una garbata accoglienza: l'
esecuzione del suo vastissimo oratorio, Das Buch mit sieben Siegeln, gioiello
centrale della rassegna pisana che, con giusta alterezza, s' intitola "Anima
mundi". L' opera era stata eseguita la prima volta a Vienna, nel Goldener
Saal del Musikverin, il 15 giugno 1938. Dirigeva Oswald Kabasta, vecchio
amico dell' autore e suo interprete d' elezione: entrambi venerando la memoria
di Anton Bruckner, di cui Schmidt era stato allievo. Scarse le riprese, ma
memorabile quella del Festival salisburghese 1959, con la guida di Dimitri
Mitropoulos, di esaltante entusiasmo: una registrazione fortunatamente ne
conserva l' intatto fuoco. Nato nel 1874 a Bratislava (che allora apparteneva
all' impero austro-ungarico col nome di Pressburg), Schmidt si sarebbe spento
un anno dopo la memoranda prima, ma giusto in tempo per evitare la catastrofe.
Nonostante l' Anschluss era rimasto in Austria: immerso nei problemi più
ardui del contrappunto come in una segreta, non se ne accorse quasi. Non
così l' amico che ebbe a soffrirne profondamente (quel nome ceco!), e finì
suicida nel 1946, portando nella tomba forse irrivelabili segreti. Ma appunto
Kabasta fu - pensiamo - il legame atto a distogliere un musicista dichiaratamente
conservatore dall' interrompere qualsiasi legame con la modernità che appunto
a Vienna aveva la sua difficile roccaforte. Si è detto del compositore che
la preferenza per la forma del tema variato sia lascito brahmsiano: come
per un altro maestro di quella pratica, Max Reger. Ma l' ostilità intercorsa
fra Brahms e Bruckner non va certo sottovalutata: il maestro severo di Schmidt
insegnava agli allievi anche Berlioz, che non esitava ad allineare vicino
a Beethoven e Wagner. Un' eredità dunque complessa, che del resto ritroviamo
pressoché identica in Arnold Schoenberg. è quindi esatta la formula critica
avanzata da un biografo, Norbert Tschulik: tardo romantico, ma non epigono.
E tale fu senz' altro l' opinione professata dal grande boss della musica
radicale, il celebrato dr Emil Hertzka, da cui notoriamente dipendeva la
pioggia e il bel tempo, regolati dalle stanzette della Universal-Edition;
e del pari di Alfred Kalmus: la gloriosa casa editrice si affrettò a pubblicare
quelle partiture, o almeno le più importanti, dopo il successo della prima
opera teatrale, ispirata dal romanzo Notre-Dame di Victor Hugo, ma anche
più sensibile al fascino esoterico della bellissima storia. Kabasta conosceva
Alban Berg: e diremmo che appunto attraverso quella fonte di informazione
Schmidt fosse indotto a talune asperità che, nel grande oratorio, sono in
chiarissima luce. Naturalmente, non vi fu per lui alcun riconoscimento: gli
adepti della seconda scuola viennese stavano, sentinelle di bronzo, a guardia
della loro provincia augusta. Intendere, in quegli anni, le scelte - anche
filosofiche ed etiche - di un tale integerrimo doveva, del resto, riuscire
pressoché impossibile: assai più facile l' accantonarlo. Strane possono essere
le parvenze di «ritardatario». Uomo assai colto, strumentista provetto (pianoforte,
organo, violoncello), Schmidt frequentava del resto il circolo Wittgenstein:
e per Paul, fratello del filosofo, amputato del braccio destro per ferita
di guerra, compose una serie di lavori per la sinistra sola (come Ravel,
Strauss, Prokofiev), compresi due concerti. Fra i non molti documenti superstiti
(almeno quelli finora noti) spiccano due fotografie, l' una nel giardino
della casa di Perchtoldsdorf: Schmidt veste alla tirolese: calzoncini sopra
il ginocchio, calzettoni, stivaletti alla caviglia, camicia con ampio colletto
aperto, a revers: gli manca la piuma sul cappello verde per somigliare alla
singolare mise di Heidegger, almeno del più vicino al «suolo», ed entrambi
paiono aspettare solo il ritrattino velenoso di Thomas Bernhard: il musicista
in ispecie quale campione dell' ordine vigente nell' Austria cattolico-forestale.
Se vi aggiungiamo il culto, in sé (inutile dirlo)
sacrosanto, per Schubert, eredità bruckneriana anch' essa, la sua vittoria
con una sinfonia di spirito schubertiano al concorso indetto dalla casa discografica
Columbia nel 1928 (e anzi la particolare propensione per gli scherzi con
trio popolare), e insieme la costante, devozionale pratica della polifonia,
manifestata in fughe d' impeccabile condotta, avremo quasi un ritratto di
compositore pompier. E sarebbe, naturalmente, un' immagine falsa, o almeno
assai sfocata. Agiva, in Schmidt, tutt' altra vena, e, soprattutto, un orecchio
irriducibile a premesse di folclorica facilità. Cautamente, sempre guardando
le debite distanze, veniva seguendo anche le strade che gli erano, per natura,
estranee. Così, fin dalla Prima Sinfonia, scritta fra 1896 e '99, vediamo
che il secondo tema del Sehr lebhaft (Molto allegro) iniziale è, quasi alla
lettera, il perforante razzo acustico che apre, spavaldamente, il Don Juan
di Richard Strauss, di dieci anni anteriore: una citazione, o piuttosto un
ricordo magari inconsapevole che aveva toccato, con il suo fuoco avvampante,
il timido cuore dell' organista devoto: non si possono sempre scrivere passacaglie
e corali. E non bastano, all' incontenibile ebrietudine di un temperamento
piuttosto propenso a Dioniso, i consueti, tradizionali tuffi nel melos magiaro
(tradizione ininterrotta nel sinfonismo austro-tedesco), anche se frequenti
intervengono tali abbandoni: basti citare l' Allegretto con variazioni della
Seconda Sinfonia, del 1913, o i soprassalti slavi che scuotono il rondò nel
Klarinetten-quintett del '32, e di cui qualche eco si avverte ancora nell'
ultimo lavoro, di analogo organico, composto subito dopo l' immane travaglio
dell' oratorio, a pochi mesi dalla dipartita. Parallelamente, intervenivano,
con la più decisa evidenza, elementi innovativi, che quasi si potrebbero
definire sperimentali. Con la Quarta Sinfonia (ultima e sorprendente) la
classica partizione in quattro movimenti è abbandonata per condensare ogni
impulso, formale e sentimentale, in un vastissimo movimento unico, che tocca
quasi i cinquanta minuti: il cuore di questo tempo (cuore si dice anche nel
consueto significato emozionale, davanti ad una meditazione risolta in marcia
funebre che ci informano esser legata alla precocissima scomparsa della figlia)
è saldamente difeso, come da usbergo di oggettività, dall' Allegro molto
moderato e, ben più, a concludere, dal Molto vivace anche se, l' autore stesso
dichiarò, contiene nel solo di tromba l' ultima musica che guidi nell' Aldilà.
L' oratorio aveva del resto dichiarato queste intenzioni, che, come accennavamo,
ci paiono palesi fin dai primi saggi compositivi: se umilmente passive ad
accogliere grazia, o forsennate d' ambizione si potrà sempre discettare.
Con il Buch la parità affermata è, nientemeno, con l' Apocalisse giovannea:
non scelta antologica, ma conservazione d' un sufficiente florilegio per
rendere il significato essenziale dell' opera fra tutte gremita di enigmi,
che la tradizione attribuisce al discepolo prediletto del Cristo. Ogni omissione
può generare dissenso: si potrebbe chiedere perché siano così trascurati
i messaggi affidati ai sette angeli, in primo luogo a quello di Laodicea
che turbò Dostoevskij, e tanti con lui. L' assunto di Schmidt è innodico:
l' opera conclude con un Alleluja di esaltazione frenetica. Nessuna dipendenza
formale dall' oratorio classico, nella linea che dal Seicento barocco giunge
ai due capolavori di Mendelssohn, e irraggia poi il cammino di Bruckner e
Brahms. Il Buch si costruisce con sezioni solistiche, strumentali, corali,
attorno all' essenziale rivelazione del veggente. Non vi sono numeri chiusi,
anche se l' inquietudine armonica richieda costantemente il ritorno, l' appoggio
su clausole cadenzali estremamente ortodosse. La struttura che ne risulta
può semmai essere accostata alla composizione a pannelli - fino alla cantata
di Bartok, e oltre - ed essi individuati con tagliente perspicuità dalla
formulazione ritmica. Sigle ritmiche di semplicità somma, e dunque di facilissima
percezione, si susseguono pressoché con la forza di ostinati: fra essi, i
ritmi, con punto diffondono un alter Duft: profumo antico in piena espansione,
ma rivissuto sorprendentemente come linguaggio possibile, spontaneamente
accolto, come in tutto il decorso. E' evidente che il lessico, i singoli
morfemi, non ambiscono mai a divenire i vettori obbligati del discorso musicale:
il linguaggio non ipoteca lo stile. E la distanza da Webern, dunque, non
potrebbe risultare più perentoria. Si nota, soprattutto nella prima parte
dell' oratorio, un melodiare di lirica bramosia, che certo lo accosta a Mendelssohn;
ma subito contraddetto (che qui vale contrastato emotivamente) da zone di
implacabile dignità secentesca: ci si aspetterebbe qualcosa come l' ouverture
francese, magari quale in Purcell o Handel. I rimandi sono continui, e innumerabili:
dopo un grandioso passo corale, verso la fine, la ripresa del coro simula
addirittura la romana cantilena. Certo, niente pare garantire la riuscita,
l' esito felice d' un percorso talmente, e organicamente, multiplo, polistilistico:
salva la appassionata devozione con cui il compositore accoglie, parificandoli,
e discretamente trasfigurandoli in lingua neutra, i successivi derivati.
A sostenere l' impossibile sintesi provvedono i luoghi che dicevamo alieni
dalle sussunzioni storiche. Come in Reger, se pure meno vistosamente, fra
i punti fermi delle cadenze inequivoche si allentano, fino a sospetti di
tonalità alle corde, contrappunti che sarebbe semplice giuoco spingere alla
dissoluzione dei principi medesimi su cui si fondano. E, fra essi, si insinuano
sprazzi che si potrebbero anche definire, un po' alla Berg, invenzioni su
un colore. Esempio splendido, decisamente oltranzista: il carillon che contrappone
a famiglie (ecco ancora Bruckner) archi e fiati, all' attacco: su quell'
imbambolato insistere su pochi gradi si leva, largamente cantabile, la voce
tenorile - Johannes, appunto - che annuncia la grazia a chiunque oda. Più
avanti, la stessa voce sarà trafitta dai due flauti, in registro acutissimo,
bloccati su due, tre note: una sorta di trapanazione del tessuto assai denso,
come i raggi che, nella pittura dei primitivi, toccano misteriosamente una
realtà in tutto umile e consueta. O ancora: la prevalenza schiacciante degli
archi, all' Alleluja, a riproporre, alle debite distanze, un' idea wagneriana.
All' inizio del Meistersinger, Wagner approfitta delle lunghe corone che
intervallano le singole frasi del corale per inserirvi una controscena di
ansia amorosa, una vera azione di commedia che s' oppone al canto sacro.
Schmidt introduce nei suoi silenzi un disegno ascensionale di violini e viole,
che ripetendosi a lungo, crea come un' altra possibilità d' eloquio, o diversa
prospettiva, fondata, anche qui, ben più che sulle singole note, sullo specifico
ritmo-colore-intensità: tagliente, sforzato, eccessivo, giubilante. Per tutta
l' opera (quasi due ore) la contrapposizione timbrica indica la direzione
del percorso, e anche più l' alternativa fra zone ad alta densità strumentale
e passaggi di nudità liturgica. Essi, naturalmente, esigerebbero un' analisi
minuta, una accuratissima, fin statistica calcolazione. Il cortese lettore
- sospettabile di musicofilia - non troverà nulla, peraltro, nelle storie
della musica più in uso, famose o famigerate che siano. Fra i grandi barbassori,
la Oxford History of Music, ritenuta così autorevole, ci assicura che Schmidt,
fu, nei confronti di Schreker, «più conservatore» e «ancora più lento nello
sviluppare la sua personalità creativa». E' tutto. Ricordiamo che l' opera
hugoliana fu intrapresa da un compositore ventottenne: assunto come primo
violoncello dai Wiener Philarmoniker, Mahler direttore: proprio l' orchestra
che avrebbe seguito il Buch con il supponibile splendore: con Kabasta, con
Mitropoulos.