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VINENZO DE VIVO

SALIERI TRA PARIGI E VIENNA

DAL BOOKLET DEL COFANETTO

AXUR, RE D'ORMUS

NUOVA ERA

Habent sua fata nomina: all'abate veneto, poeta dei Teatri imperiali, era riservato il destino di far «da ponte» tra un commediografo di successo - Pierre Augustin Caron de Beaumarchais - ed i due compositori che la tradizione romantica avrebbe dipinto come i più illustri contendenti del mondo musicale giuseppino: Mozart e Salieri. In verità, Lorenzo Da Ponte non può ascrivere tra i suoi meriti quello di aver indicato ai due musicisti i testi letterari del poeta francese: s'accontenta, infatti, di certificare nelle sue Memorie, che la richiesta di «ridurre a dramma» i lavori di Beumarchais sia pervenuta direttamente da Mozart per il Figaro, e da Salieri per la versione italiana del Tarare. «Quanto al primo, io concepii facilmente che la immensità del suo genio domandava un soggetto esteso, multiforme, sublime. Conversando un giorno con lui su questa materia, mi chiese se potrei facilmente ridurre a dramma la commedia di Beaumarchais, intitolata Le nozze di Figaro. Mi piacque assai la proposizione e gliela promisi.» A un anno dall'andata in scena del Figaro mozartiano fu Salieri a rivolgersi all'abate cenedese:

«Salieri non mi domandava un dramma originale. Aveva scritto a Parigi la musica all'opera del Tarare, voleva ridurla al carattere di dramma e musica italiana, e me ne domandava quindi una libera traduzione.» La scelta di Da Ponte era quasi obbligata per Salieri, in quanto l'altro suo librettista - l'abate Giovanni Battista Casti - era da poco stato licenziato dalla corte giuseppina, in quanto colpevole d'un «poema tartaro» che metteva alla berlina Caterina II, Zarina di tutte le Russie: non la familiarità col Beaumarchais delle Nozze, ma la necessità di ricorrere al poeta teatrale determinò con ogni probabilità - il secondo incontro tra Da Ponte ed il poeta francese. Il Tarare era andato in scena l'8 giugno 1787 a Parigi, con strepitoso successo: Da Ponte cominciò ad occuparsene nell'autunno dello stesso anno, in contemporanea con il Don Giovanni e L'Arbore di Diana rispettivamente per Mozart e per Martin y Soler. Nelle Memorie, il poeta ha cura di documentare la sua eccezionale fecondità: «La prima giornata frattanto... ho scritte le due prime scene del Don Giovanni, altre due dell'Arbore di Diana è più di metà del primo atto del Tarare, titolo da me cambiato in Assur.» Andata in scena l'opera di Martin y Soler - il 1 ottobre - l'abate si recava ii 9 a Praga per la messa in scena del dramma mozartiano, la cui 'prima' era prevista per il 14 dello stesso mese, il rinvio dell'andata in scena del Don Giovanni (fino al 29 ottobre) non consentì a Da Ponte di assistere al debutto del suo capolavoro: richiamato a Vienna da «una lettera di foco» del Salieri, l'abate si precipitò nella capitale austriaca, poiché «l'Assur doveva rappresentarsi immediatamente per le nozze di Francesco». A Vienna Da Ponte avrebbe tempestivamente recuperato il tempo perduto: «in due giorni l'Assur era all'ordine». Ma, nella testimonianza di lgnaz Franz von Mosel - allievo e biografo ufficiale di Salieri -, i giorni diventano tre o addirittura quattro: poeta e maestro lavorarono insieme «ma con poca voglia, perché non erano affatto convinti del buon successo delle loro fatiche». Entrambi, infatti, maturarono la decisione di abbandonare il progetto di una semplice traduzione del libretto di Beaumarchais e di impegnarsi nella creazione -letteraria e musicale - di un'opera in gran parte nuova. Il cambiamento di rotta è descritto dal Mosel attraverso una testimonianza di prima mano del compositore: «La musica - dice Salieri - scritta per i francesi che sono più attori che cantanti, è invece sempre troppo povera di canto per gli italiani, che sono più cantanti che attori; inoltre, quando il poeta era contento dei suoi versi, la musica - per parlare con Gluck - sapeva troppo di traduzione, e quando era contento il mio orecchio, Da Ponte non era soddisfatto della sua poesia. Temendo perciò di lavorare inutilmente, mi decisi a rifare del tutto la musica. Chiesi dunque al poeta di scrivere, sulla base dell'originale francese, un libretto adatto per essere eseguito dalla Compagnia italiana dell'opera.» Nel rielaborare un dramma destinato alle imperial-regie nozze dell'Arciduca Francesco con la principessa Elisabetta di Wüttenberg, Da Ponte si preoccupò innanzitutto di emendare il testo da «tutte quelle perniciose teorie che pochi anni dopo suscitavano le alte e distruggitrici fiamme della Rivoluzione, che in Francia covava allora sotto la cenere». Allo stesso modo, un anno prima, l'abate veneto aveva rassicurato l'Imperatore rispetto alla convenienza di porre in musica il Mariage, che la censura aveva escluso dalle scene austriache: «Ho omesso e raccordato quello che poteva offendere la delicatezza e decenza d'uno spettacolo, a cui la Maestà sovrana presiede.» L'intervento dapontiano appare oggi assai opportuno: sfrondato dalla pomposa retorica delle «idées philosophiques» che animano il Tarare, il libretto italiano rinuncia ad ogni pretesa d'impegno sociale. Preoccupato di delineare la varietà delle situazioni presenti in un dramma tragicomico, Da Ponte intinge la penna nel più sapido inchiostro dell'ironia, addolcendo le frecciate dirette al trono ed all'altare. Non che l'abate rinneghi la sua indole ribelle - che negli anni giovanili gli era valsa l'interdizione dall'insegnamento o che lasci estinguere la sua sottile vena anticlericale: piuttosto egli rinuncia a sbandierare agli occhi di una nobiltà che «ha dipinta negli occhi l'onestà» concetti pericolosi quali l'autorità del popolo sovrano (che depone Axur per offrire la corona ad Atar), o gli inganni di un potere religioso - instrumentum regni - che tenta di falsificare gli oracoli della divinità. Accade quindi che in Axur le crudeltà del tiranno vengano rappresentate con minor veemenza che nell'originale francese, sottolineandone il più veniale risvolto erotico e libertino. Persino il temperamento marziale dell'eroe positivo si stempera in un'atmosfera sentimentale che trasforma il guerriero nell'amante che vagheggia la «soave luce di Paradiso» del volto della perduta Aspasia. Più originale si dimostra il poeta in quegli squarci corali in cui l'ispirazione attinge ad autentico fervore:
O tu che tutto puoi
Nume possente, e grande,
difendi i figli tuoi col tuo divin favor.
Tu fa che l'oste cada, fa che furente, esangue,
nuoti tra polvere, e sangue,
e le spumanti labbia
morda nel suo dolor.
Versi questi che, se ricordano l'autentica commozione dei Salmi volgarizzati da Da Ponte, anticipano il linguaggio del melodramma ottocentesco. Altrettanto felici sono le parti-comiche, soprattutto nella scena del Serraglio, dove alla deliziosa Arlecchinata segue l'irresistibile aria dell'eunuco Biscroma «Nato io son nello stato romano», oppure nell'improbabile travestimento di Atar che - sotto le mentite spoglie di schiavo negro - viene così apostrofato dal collerico Axur:
Misero, abbietto Negro,
perché Atar non sei,
cagion dei torti miei,
cagion del mio dolor?
E come non sentire la farsesca comicità dell'apertura del second'atto del Don Giovanni («Ehi, via, buffone, non mi seccar!».) nel concitato duettare di Axur e Biscroma nella scena d'apertura del second'atto di Axur. Bis. Ah mio signore parmi... Ax. Biscroma non seccarmi...
Bis. Fategli grazia, o sire.
Ax. E non la vuoi finire?
In conclusione, al poeta sono più congeniali i languorosi assalti di Axur alla virtù di Aspasia, che i casti affetti della coppia di protagonisti, uniti dal più metastasiano degli amori coniugali; allo stesso modo la femminile civetteria di Fiammetta ha colori più vivi del doloroso riserbo dell'eroina rapita. Per attingere alle vette dello stile tragico, Da Ponte deve ricorrere alla verità poetica di un sentimento religioso che si esprime nella fiducia in un
«Dio sublime nella calma,
Grande, e altier nella tempesta»
fiducia che al poeta non verrà mai meno, nel corso della sua più che ottuagenaria esistenza. Nella prefazione a Tarare, Beaumarchais trovava modo per elogiare Salieri, dandogli atto di aver acconsentito per compiacergli, di «rinunciare... ad una folla d'idee musicali di cui scintillava la partitura, solo perché allungavano la scena, rallentavano l'azione». E invero Salieri aveva operato in soggezione del suo più celebre collaboratore, aderendo totalmente al testo ed alle intenzioni del poeta: estraneo affatto alle istanze politiche di Beaumarchais egli - come osserva Carli Ballola - «si guardò bene dal contrastarne la vanità intellettuale... né avvertì quanto di ovvio, di convenzionale, di trito sussisteva sotto tanto spolvero d'illuminismo da 'boudoir'; o forse, lo avverti tanto bene dal tradurlo puntualmente in immagini musicali del più scontato formulano 'serio' o 'buffo' di tipo corrente».
Rispetto a Da Ponte non sembra che Salieri provasse soggezioni o fosse costretto a rinunzie: committente prima d'una libera traduzione, il musicista deve aver seguito da vicino il librettista nell'elaborazione della nuova struttura drammatica. Per Mosel il confronto tra le due opere (qui riportato in appendice al n. 1) mostra come Salieri «abbia saputo riconoscere e apprezzare lo spirito delle due lingue, e come abbia saputo creare per ognuna la musica adatta, senza sacrificare però al gusto italiano il carattere profondo, meditato, fondato sulla ragione e sulla natura, che rende l'opera francese degna dell'immortalità». In realtà l'intervento si concretava nella trasposizione drammaturgica e musicale da una dimensione vicina alla 'tragedie-lyrique' di stampo gluckiano ad una struttura più definita nelle forme consuete dell'opera italiana, secondo il gusto della corte viennese e le esigenze dei cantanti del teatro imperiale.
Si trattava di privilegiare la forma chiusa dell'aria al declamato dei recitativi strumentali (come nel caso di Altamor che - a fronte di un recitativo nel Tarare canta l'aria «Verso l'alba in grossa nave»), di provvedere all'inserimento di pezzi di bravura (come il rondò di Aspasia «Son queste le speranze»), di sostituire i balli d'obbligo a Parigi, nell'Académie Royale de Musique - con una gustosa scena comica, quell'Arlecchinata che - tolta dal contesto originario - visse d'autonoma vita nei secoli seguenti. Aggiunte e tagli entrano nel bilancio d'una struttura drammaturgica più snella: il materiale musicale di Tarare è utilizzato nella massima parte, a volte trasposto in altra tonalità, a volte limitato nella sola esposizione tematica e sottoposto a diversi sviluppi. Ciò corrisponde alla testimonianza del Mosel: «se il compositore lo poteva, utilizzava un'idea musicale dell'opera francese, se no componeva musica nuova. Nel rendere il suo personale parere sopra la musica di quest'opera» (che si riporta in appendice al n. II), Salieri dichiara che i «colori» che «regnano» nella sua partitura sono «barbaro, eroico e lamentevole». A questa terna di «colori» egli affida la variegatezza del genere eroicomico cui Axur, come Tarare, appartiene. L'etichetta di «barbaro» va al personaggio del protagonista, scolpito a tutto tondo nella sua tirannica crudeltà, che lo apparenta al gluckiano Toante o al sanguinano padre delle Danaïdes. Il «colore eroico» ben s'addice alla parte d'Atar, per la quale Salieri richiede una «voce di tenore dolce-energica»: al guerriero d'umili origini cui è destinata la corona per volontà del popolo il compositore riserva le pagine più vibranti della partitura. L'invocazione «Dio difensor de' miseri» (Atto IV, sc. VI), la cavatina «Morir posso una sol volta» (Atto V sc. II) delineano con forza la nobiltà di un personaggio guerriero, cui tuttavia non sono estranei la dimensione sentimentale ed il tono elegiaco (l'aria «Soave luce di Paradiso», Atto II sc. IV). Quanto all'aspetto «lamentevole», Salieri attinge allo stile larmoyant, alla confluenza tra la tradizione francese e quella napoletana: Aspasia, tenera sorella di Hypermnestre - figlia infelice del crudele Danaus -, non trova tra le mura d'un serraglio la forza d'animo di Konstanze s'abbandona a piccinniane malinconie. Sul versante comico si muove Biscroma, col consueto bagaglio del buffo, cui non viene negato un aspetto nobile nel sentimento di gratitudine verso Atar la bilancia comunque - pende verso l'aspetto caricaturale, e l'allievo di «Don Rasoio» diviene satira palese dei «canori elefanti». Anche Fiammetta adombra la consueta caricatura della virtuosa di musica e, sotto i veli d'un improbabile oriente, cela i capricci d'una Ferrarese o d'una Coltellini. Ultimo aspetto della varietà di «colori» è la solennità dei ceriminiali del terz'atto, dove il canto del Fanciullo degli Auguri - che ripete la formula di Arteneo - trova accenti di commovente purezza, cui fa eco la vibrante invocazione del coro, sul ritmo di marcia scandito dal «tamburo grande».
Axur andava in scena l'8 gennaio 1789 davanti all'imperatore ed agli Arciduchi uniti in matrimonio due giorni prima: l'allestimento era consono alla circostanza. Il conte Johann Karl von Zizendorff protagonista della vita politica dell'Impero quanto di quella culturale della capitale annota nei suoi diari: «Le scene nuove, in parte belle, il quarto atto comincia con un giardino illuminato, con cascate digradanti. Un salone illuminato a lampioni, più un lampadario. La pièce assai piatta.» Alla riserva di piattezza Mosel osserva che «nelle opere italiane non si era abituati a queste forme naturali maturate dalla filosofia dell'arte e la distanza incommensurabile di questa tragedia musicale da quella che fino ad allora si era chiamata opera seria, lasciò un po' perplessi, la prima sera, gli spettatori».
L'opinione del pubblico viennese mutò nel corso di quaranta repliche cui arrise un crescente successo: mutò anche quella di Zizendorff che il 23 gennaio - assistendo per la terza volta all'Axur riuscì finalmente a guadagnare un posto più favorevole per godersi la pièce, e rimase affascinato dalla recitazione di Atar che «somiglia ai re della più antica stirpe». Il capolavoro di Salieri divenne l'opera preferita dei viennesi, e dell'imperatore: il 12 febbraio Giuseppe il nominava il compositore legnaghese Maestro di Cappella di corte, in sostituzione di Giuseppe Bonno. La fortuna di Axur fu immediata oltre che a Vienna (29 rappresentazioni nel corso dell'anno di creazione, contro le 15 del Don Giovanni mozartiano) a Praga, a Lipsia e a Pressburg. Negli anni seguenti l'opera appare in diversi teatri europei, da Lisbona (1790) a Milano (1792) - in quel Teatro alla Scala che Salieri aveva inaugurato con l'Europa riconosciuta - da Varsavia (1792) ad Amsterdam (1794). Anche l'Ottocento vede numerose rappresentazioni di Axur, che rimane nel repertorio di alcuni teatri tedeschi per tutta la prima metà del secolo. A Parigi l'opera appare nel 1813, al Théatre Italien, diretta da Ferdinando Paer; appare a Rio de Janeiro nel 1814, a Mosca nel 1817, a Londra nel 1825.
L'ultima rappresentazione ottocentesca risulta a Stoccarda nel 1863. II nostro secolo ha dimenticato l'Axur fino al 20 giugno 1987 quando - forse sotto la spinta del successo di Amadeus, il film di Forman che ha guadagnato a Salieri la notorietà presso il grande pubblico - il Festival di Vienna ne ha affidato l'esecuzione in forma di concerto alla bacchetta di Gianandrea Gavazzeni. Alla rappresentazione - la prima in forma scenica, nel nostro secolo - sul palcoscenico del Teatro dei Rinnovati è affidato il compito di restituire alla partitura il fascino di un «genere» dimenticato e di somministrare al pubblico quel «contravveleno» necessario per dimenticare la fola puskiniana dell'avvelenamento del «divin Fanciullo».