Francesco Degrada
Un apologo politico nella Vienna di Mozart

Tradizionalmente, l'attenzione per i melodrammi di Giambattista Casti fu limitata nell'ambito di una problematica squisitamente letteraria. Si trattava di un interesse alquanto superficiale e generico, sostanzialmente sganciato dalla concretezza e della scena e della musica. Di Casti si continuava ad apprezzare soprattutto la produzione non teatrale, in particolare Le novelle galanti, Gli animali parlanti o Il poema tartaro, opere alle quali era del resto legata la sua fama e la sua aura di poeta licenzioso e irregolare e di geniale avventuriero. La rivalutazione della sua attività di librettista e di uomo di teatro è relativamente recente ed è proceduta negli ultimi decenni sul doppio binario della ricerca letteraria e di quella musicologica; tesa la prima a meglio situare questa esperienza all'interno della sua formazione e della sua generale esperienza creativa, attenta l'altra a valutarne l'incidenza nel quadro complessivo del teatro del secondo Settecento, con particolare riferimento al quadro musicale e spettacolare della Vienna di Giuseppe II. Per quanto specificamente riguarda Il re Teodoro in Venezia, spetta rispettivamente a un grande musicologo, Alfred Einstein, il merito di averne per primo segnalato l'importanza [1] e a un insigne musicista contemporaneo, Hans Werner Henze, di averne propiziato la presenza sulle scene, grazie alla realizzazione di un suo libero adattamento moderno. [2] Al saggio pionieristico di Einstein hanno fatto seguito, negli ultimi anni, una serie di studi attenti in particolare ad indagare gli apporti musicali e drammaturgici dei cosiddetti "vicini di Mozart" (Salieri, Paisiello, Cimarosa, Sarti, Martin y Soler) e la realizzazione di un'edizione critica della partitura curata da Michael Robinson. [3]
Vediamo di ricostruire come nacque quest'opera singolare, la cui genesi è contrassegnata dal sommarsi di una serie di circostanze relativamente fortuite.

Fin dal primo di questo corrente mese che sono arrivato in Vienna, onde non voglio mancare di farne stare inteso L'Eccellenza Vostra, e insiemamente fargli sapere che siccome ho avuto l'onore di essere stato presentato a S. M. I. e l'Imperatore il quale mi ha ricevuto molto graziosamente, avendomi fatto l'onore di fare una conversazione di un'ora e più, ha voluto ancora ingaggiarmi a comporgli un'opera per il di Lui Imperial Teatro, sicché sono obligato di fermarmi qui almeno due mesi; le parole del libro le farà l'Abbate Casti... [4]

Con queste parole, Giovanni Paisiello, durante il trionfale viaggio di ritorno dalla Russia a Napoli, il 5 maggio 1784 annunciava da Vienna di avere ricevuto dall'imperatore Giuseppe II (che lo aveva incontrato in Russia nel 1779) la commissione di una nuova opera per il teatro di corte, il cui libretto sarebbe stato affidato a Giambattista Casti. Questi non era un poeta di teatro, anche se forse aveva già avuto modo di collaborare in Russia, nel 1778, con lo stesso Paisiello, per il quale aveva messo insieme il libretto di un pasticcio, Lo sposo burlato; ma la circostanza è pochissimo sicura e seriamente contestata. [5] La scelta cadde su Casti per la lunghissima amicizia (risalente ai lontani anni toscani) che lo legava al sovrintendente degli spettacoli di corte, il conte Rosenberg e per la stima personale che egli godeva presso Giuseppe II e al quale egli si apprestava a dedicare Il poema tartaro, una satira politica contro Caterina di Russia. Lo stesso giorno in cui Paisiello scriveva la lettera sopra citata, Casti informava negli stessi termini Joseph Kaunitz: [6]

È qui Paisiello che la riverisce. Egli è partito disgustato di Pietroburgo. Si tratterrà qui due o tre mesi, perché Sua Maestà gli vuol far mettere in musica un'opera buffa. E la bella è che Sua Maestà, il conte di Rosenberg e Paisiello mi sono addosso perché io faccia il libretto. Io mi sono schermito più che ho potuto, perché, non avendo mai fatto di tali opere, temo, e con ragione, di fare una coglioneria. Ma vedo che non v'è speranza da potersi liberare da questa potente congiura, onde può essere che io rischi la mia reputazione e mi metta a imbrogliar qualche cosa. M'è venuto in mente un tema tratto dal Candide di Voltaire: Il re Teodoro in Venezia. Tema suscettibilissimo di molte belle idee, quando a me riuscisse di ben trattarlo. Basta, se nulla farò, a suo tempo glielo communicherò.

Il 10 luglio dello stesso anno Casti scriveva allo stesso illustre corrispondente di avere terminato, in sei settimane di lavoro, il libretto del Re Teodoro; che Paisiello aveva già composto metà della partitura, e che si prevedeva la prima rappresentazione dell'opera entro un mese. [7] Un racconto più articolato e completo Casti ebbe modo di farlo più tardi a un suo corrispondente milanese, Paolo Greppi, il 20 aprile 1786: [8]

Dopo le traversie sofferte in Pietroburgo, il celebre maestro di cappella Paisiello, tornando a Napoli passò di qua ed ito a presentarsi a Sua Maestà gli fu dalla Maestà Sua proposto di comporre un'opera per questi (teatri). Al che egli rispose che se e sarebbe fatta una gloria, ma che per la più sicura riuscita dell'opera sarebbe necessario di far comporre le parole dall'abate Casti. "Più volte si è tentato", rispose sua Maestà, "ed egli non ha voluto mai adattarvisi, ma ci proveremo di nuovo". Allora la volontà dell'Imperatore, l'insistenza del Conte di Rosenberg, alla quale io avea fin allora resistito, e le istanze di Paisiello mi fecero finalmente risolvere a far una cosa che mai mi era provato a fare, e per cui conseguentemente io non credea che fosse prudente cosa di arrischiar qualche riputazione che, o bene o male, mi era fin allora scroccata nel mondo. Onde mi mossi a comporre il mio famoso Teodoro, che ha poi fatto tanto chiasso e che ha eccitato in Vienna un fanatismo insolito e cangiato in gran parte il gusto di tali spettacoli. La musica riuscì meravigliosa e l'esecuzione non potea desiderarsi più perfetta.

Uno dei motivi di innovazione del libretto del Re Teodoro era dato dalla scelta di un soggetto che prescindeva completamente dalle convenzionali trame dell'opera comica, ponendo al centro dell'azione un singolare e paradossale protagonista delle vicende politiche del Settecento: quel Theodor Neuhoff (Colonia 1694 - Londra 1756), che attraverso una serie di rocambolesche avventure e di brillanti quanto ciniche operazioni politico-finanziarie, riuscì a farsi nominare nel maggio del 1736 re della Corsica. Occupò il trono per pochi mesi, prima di esserne sbalzato a causa della vistosa non congruenza tra gli impegni assunti, il millantato sostegno internazionale e le sue reali possibilità. Dopo aver ritentato l'impresa nel 1738 e nel 1743 con l'aiuto dell'Olanda e dell'Inghilterra, finì tristemente i propri giorni a Londra, dopo una lunga prigionia.
Il profilo del protagonista è tratteggiato con precisione dal Casti nell'"Argomento" premesso all'edizione del libretto stampata a Vienna in occasione della prima rappresentazione [9] (qui riportato a p. 6). La fonte del libretto, citata in maniera ellittica dal Casti nell'"Argomento", che si rivolgeva a uno smaliziato pubblico aristocratico di cultura internazionale ("uno dei più ameni tratti sortiti dalla penna d'un celebre scrittore in una delle sue più leggiadre e bizzarre produzioni, generalmente conosciuta") è il capitolo XXVI del Candide di Voltaire (1759); in realtà dal racconto di Voltaire Casti trasse uno spunto generalissimo, che provvide poi ad elaborare originalmente.
Giustamente osservava il Foscolo a proposito del libretto di Casti: [10]

Il soggetto è pigliato dal Candido, ma il Casti seppe accrescere la bizzarria de' tratti originali introducendovi cose copiate dalla stessa natura, cioè da un monarca contemporaneo, più notabile per donchisciottismo che per potenza, il carattere del quale e, secondo il solito, egli aveva studiato con l'intenzione di volgerlo in burla quando gliene fosse venuta buona occasione.

L'esile spunto volterriano si arricchiva dunque nello svolgimento del "dramma eroicomico" di una ricca trama del tutto originale e - nel contempo - attualizzava gli elementi di satira politica, sovrapponendo alla figura (nel 1784 storicamente datata) del rocambolesco barone Theodor Neuhoff, quella contemporanea del re di Svezia Gustavo III, nipote di Federico II e inviso all'imperatore d'Austria: vivo e vegeto al tempo della rappresentazione del Re Teodoro (e spesso ferocemente messo in caricatura nell'epistolario tra Giuseppe II e Caterina di Russia), sarebbe tragicamente scomparso di lì a pochi anni (nel 1792) nel corso di quel fatale ballo in maschera destinato ad essere immortalato nella storia del teatro dal dramma di Eugène Scribe e dall'opera di Giuseppe Verdi. Nel Re Teodoro, accanto al protagonista, si muovono altri sei personaggi: Gafforio, sotto le mentite spoglie di Garbolino, "segretario e primo ministro di Teodoro", caricatura di un altro personaggio storico, forse il gentiluomo corso Luigi Giafferi, forse quel Barone di Riperda, già ministro in Spagna e complice delle avventure politiche del Neuhoff; Acmet terzo (già presente nel racconto di Voltaire), "Gran Sultano deposto in abito d'Armeno, sotto nome di Niceforo"; Belisa, "giovine venturiera" e personaggio di romanzo, che si scoprirà sorella di Teodoro. Infine tre caratteri più propriamente da opera buffa: Taddeo, "locandiere", sua figlia Lisetta e il mercante Sandrino, promesso sposo di quest'ultima. Al levar del sipario, in una locanda veneziana, Teodoro si presenta pateticamente mal ridotto. Senza il becco di un quattrino, oberato dai debiti, braccato dai Genovesi, che sono stati espropriati per le sue mene dal legittimo possesso della Corsica e hanno posto una taglia sulla sua testa, infelicemente invaghito della figlia dell'oste, Lisetta. Il suo ministro Gafforio, caratterizzato dal Casti a metà tra il profittatore e il tipo eterno dell'estremista fanatico, decide di rivelare al padrone della locanda, lo stolido Taddeo, la vera identità di Teodoro e di lusingarlo nominandolo generale e chiedendogli in sposa la figlia Lisetta per il re in incognito: con questo espediente si tenta di allontanare il pericolo più imminente, il pagamento del conto dell'albergo. Intanto arriva un altro strano ospite, il deposto sultano Acmet, travestito da armeno, sotto il falso nome di Niceforo. Il mercante Sandrino lo riconosce e gli presenta un'altra bella cliente della locanda, la disponibile Belisa, che accetta la corte del ruvido orientale, ben decisa tuttavia ad insegnargli il rispetto che in occidente è dovuto al gentil sesso. Lisetta ritiene, del tutto a torto, che l'amante di Belisa sia Sandrino e - seppure di malavoglia - è indotta ad accettare la proposta di matrimonio di Teodoro. Il motivo del travestimento e della dissimulazione ha un'improvvisa impennata quando si scopre - tra la meraviglia generale - che Belisa altri non è che la sorella di Teodoro, giunta a Venezia dopo una serie di infelici vicende sentimentali che l'hanno trasformata in una disinvolta profittatrice. Sbalordita a sua volta nell'incontrare il fratello nei panni di un re, Belisa, che è provvista di un senso pratico ben superiore a quello dello spericolato fratello, per il quale teme una fine ingloriosa, tenta sia pure con scarsi risultati di convincere il rude ma ricchissimo Acmet ad aiutare il povero Teodoro. Ma il destino di questi è ormai segnato. Il mercante Sandrino, infuriato per la perdita di Lisetta, si trova all'improvviso un'arma imprevista nelle mani: è stato incaricato di esigere uno degli innumerevoli debiti contratti dall'avventuriero e ricorre alla giustizia. Nel bel mezzo di un convito che dovrebbe festeggiare il matrimonio di Lisetta con Teodoro, irrompe il Messer Grande della Repubblica, che conduce quest'ultimo in carcere. Nel finale, che si svolge appunto nella prigione nella quale langue Teodoro, tutti prendono congedo da lui, augurandogli, senza astio o rancore, buona fortuna. Il suo asso nella manica è l'assoluta mancanza di quattrini; non potendo ottenere nulla da lui, è presumibile, che - presto o tardi - lo lasceranno libero. Infine la morale, che ricorda, almeno nel finale appello all'impassibilità del saggio, quella di Così fan tutte:

Come una ruota è il mondo,
Chi in cima sta, chi in fondo,
E chi era in fondo prima,
Poscia ritorna in cima,
Chi salta, chi precipita,
E chi va in su, chi in giù.

Ma se la ruota gira,
Lascisi pur girar:
Felice è chi tra i vortici
Tranquillo può restar.

La singolarità e il tratto del tutto progressivo del libretto del Casti consisteva anzitutto nel superamento delle convenzioni proprie dell'opera di ascendenza goldoniana rispetto alla rigida caratterizzazione dei personaggi. Casti, almeno per quanto concerne i protagonisti, prescinde dall'idea del "tipo" legato al "ruolo": tanto che la figura di Teodoro (e diremmo l'intera fabula) ha un'evoluzione del tutto imprevedibile dalle prime alle ultime scene, trasformandosi da una tonalità comica a un'atmosfera che tocca nel finale i confini del tragico; fermo restando che un senso profondo di amarezza e di disillusione circola in tutto il lavoro. Il superamento della consueta stilizzazione dei personaggi nelle "maschere" della tradizione porta, con quello dei registri stilistici ad essi pertinenti, in favore di una grande libertà espressiva che favorisce - come sarà poi in Da Ponte - l'innesto e la fusione dei più diversi livelli retorici. Quando molti anni dopo, nel 1796, il Casti spiegava all'amico Paolo Greppi le peculiarità della sua produzione drammatica, in vista di una sua pubblicazione completa, ne commentava lucidamente la novità (il "genere affatto nuovo") in questi termini: [11]

[...] trattandosi temi e soggetti seri, eroici, tragici, vi si traspongono dei tratti comici ove la circostanza della cosa o della persona lo richiede, seguendo in ciò la natura stessa. Si è procurato inserirvi ciò che di più importante e di più piacente può somministrare una fine critica del costume e una lunga esperienza e cognizione del mondo [...].

Inoltre sono rilevabili nel Re Teodoro le suggestioni di generi internazionali ben presenti a Vienna, dal Singspiel all'opéra comique francese, che suggeriscono soluzioni come quella del duetto d'amore tra Lisetta e Sandrino intercalati ai couplets del coro (I, 4, una scena sulla quale torneremo più avanti), il sogno di Teodoro (II, 12) che è già quasi una ballata romantica (così come schiettamente preromantica è l'ambientazione della scena finale in un carcere), il coro dei gondolieri, anch'esso intervallato da strofe solistiche, utilizzato come un'apertura paesaggistica su Venezia (II, 8).
Sul piano strutturale (ma qui determinante deve essere stato l'intervento di Paisiello) notevole appare la varietà metrica, la moltiplicazione dei brani d'assieme e soprattutto l'enorme sviluppo dei finali, comprendenti rispettivamente cinque e quattro scene, il che comportò il taglio dell'opera in due soli atti.
Ma assai interessante appare anche la ricchezza degli spunti del lavoro, che accoglie negli elegantissimi e frizzanti dialoghi una quantità di motivi. La satira dell'opera, per dirne uno, della quale farà tesoro Da Ponte, che serve quale elemento di oggettivazione e di straniamento ironico e introduce quel motivo di presa di distanza critica tra rappresentazione e spettatore che tanto affascinerà Mozart.
Si veda, per esempio, come Casti (I,3) può citare, parodiandola e stravolgendola, una delle più celebri arie di Metastasio (Didone abbandonata, I,5):

[Metastasio]
Son regina e sono amante
E l'impero io sola io voglio
Del mio soglio e del mio cor.

Darmi legge invan pretende
Chi l'arbitrio a me contende
Della gloria e dell'amor.

[Casti]
Io re sono e sono amante
Il mio amor è un brutto affanno;
Il mio regno è un bel malanno
Ma la taglia è peggio ancor.

Quando volgo il mio pensiero
Alla mia crudel Lisetta
Par che irato amor mi metta
Mille diavoli nel cor.

Ch'io son re poi mi rammento
E dai stimoli di gloria
Cose a far degne d'istoria
Infiammar mi sento allor.

Ma la solita paura
Smorza amor la gloria oscura,
E aver parmi sulla groppa
Il sicario che m'accoppa,
E con qualche botta ria
Mi risana in sempiterno
Dall'eroica pazzia
Della gloria e dell'amor.

Ovvero come il "dramma eroicomico" (II, 17, Finale II) si spinga a tratteggiare una divertente satira dell'opera seria in nome della verosimiglianza e della ragionevolezza (pochi anni dopo, nel 1786, Casti avrebbe ceduto al gusto della pièce metateatrale con Prima la musica e poi le parole, rappresentato con la musica di Salieri nella stessa serata nella quale venne eseguito lo Schauspieldirektor di Mozart):

Teo. Che nuove abbiam?
Lis. Dell'opera
Si parla molto.
Teo. Incontra?
Bel. Si e no.
Tad. Chi è pro, chi contra.
Teo. Domanda un po' a quel Trace
Se l'opera gli piace.
Lis. Vi foste voi?
(ad Acmet)
Acm. Vi fui.
Bel. Che ve ne par?
(ad Acmet)
Acm. Follie.
Lis. Come?
Tad. Perché signor?
Acm. Ove si vide e quando
Alcun morir cantando?
Tad. E quel vocin di Cesare?
(ad Acmet)
Acm. Pieno di tali eroi
Fu il mio serraglio ancor.
Bel. Gusto non è fra voi.
(ad Acmet)
Acm. Lo strano e inverisimile
(a Belisa)
Di vostro gusto è ognor.

O ancora la satira del linguaggio politico-diplomatico, sostenuto da argute citazioni letterarie, come questa che chiama in causa (paradossalmente) Samuel von Pufendorf e Ugo Grozio a sostegno della ragion di stato:

È sempre savio e giusto
Quand'utile è un negozio.
Come c'insegna il Puffendorf ed il Grozio. (I, 13)

Ovvero, sulla stessa linea, il gusto della citazione di toponimi stranieri (in questo caso sedi di celebri trattati di pace) che Teodoro snocciola per lusingare e confondere lo sprovveduto locandiere Taddeo:

D'alleanza fra noi v'è sul tappeto
Un trattato segreto: onde famosa
Sarà questa locanda al par di Breda,
Di Munster e d'Utrect e d'Osnabrucco.
(II, 4)

Si ha il sospetto che l'opera seria, con le sue convenzioni vuote, i suoi pennacchi, i suoi insopportabili (al Casti stesso e al suo protettore Giuseppe II) stereotipi, divenga nel Re Teodoro il simbolo di un assetto sociale (quello dell'alta aristocrazia e forse della monarchia assoluta) minato da un male oscuro e inesorabile. Essa appare omai come un guscio vuoto, simile alla "magnifica veste da camera" che Teodoro indossa ad apertura di scena nella triste stanza di una locanda veneziana ("Del mio regio splendor l'unico avanzo / Che in mirarlo talor sul dosso mio / Mi risovvengo ancor che re son io"), o all'uniforme da generale del quale il suo segretario Gafforio fa squallido commercio con l'oste Taddeo, o infine come "gli editti, gli ordini, / l'arme, il sigillo / le marche e i titoli / di maestà"; belle cose, ormai del tutto prive di senso e di contenuti. Mentre all'orizzonte si delinea una nuova classe montante, efficiente e inesorabile, che governa con tenacia e con mano ferrea l'unica forza che conta nella nuova società: il denaro. Una classe fatta di personaggi come "I fratelli Isac, Gionata e Abràm, / negozianti giudei d'Amsterdàm" o come "Cecchin Buono sensal livornese / cognitissimo in tutto il paese", o di mercanti come lo stesso Sandrino (che proprio dall'incarico di riscuotere il vecchio debito contratto da Teodoro si trasforma nella seconda parte dell'opera da "carattere" fittizio a figura umana a tutto tondo, dotato di una consistenza e di uno spessore realistici. In poche altre opere, l'ossessione del denaro (lo strumento del quale dispone il nuovo arcipelago della borghesia nascente) acquista la dimensione sinistra e grandiosa che viene man mano assumendo in quest'opera, sino a ghermire nelle sue spire sinistre il povero protagonista. Non a caso nell'incubo notturno di Teodoro (che Casti e Paisiello hanno delineato con mano maestra, forzando un topos letterario di antica matrice senechiana, assai diffuso in un filone noir della poesia italiana settecentesca, quello della "visione") ad apparirgli è lo spettro del "debito": [12]

Ed ecco apparvemi
Spettro terribile
Che smunto e pallido
Con occhi lividi,
Qual chi dimagrasi
Per gran digiuni,
Catene e funi
In man tenea,
E pallio ed abito,
Veste e calzoni
Tessuti avea
Di citazioni,
Di conti e d'obblighi,
E pagherò.

Parallelamente, agli atteggiamenti da re propri del palcoscenico (o meglio diremmo del dramma metastasiano) fa da contrappunto in Teodoro la consapevolezza di una realtà ben più temibile e più vera, quella sordida dell'intrigo e della violenza (la stessa che di lì a poco sarebbe stata fatale - ironia della storia - a uno degli ispiratori del personaggio di Teodoro, il re Gustavo III di Svezia):

In ciaschedun che incontro
Un assassin pavento,
A ogni passo un'insidia, un tradimento,
Un colpo d'archibuso o di pistola,
O un coltel nella gola;
Se desino, se ceno,
Temo ch'ogni boccon non sia veleno [...]. [13]

Ma come ha ben puntualizzato Gallarati - tutti questi elementi di carattere contenutistico, passano in second'ordine di fronte a una nuova consapevolezza di ordine formale e drammaturgico: anzitutto alla completa emancipazione del pezzo chiuso dai suoi schematismi e dalle sue astratte ragioni formali e alla trasformazione dell'aria "nella rappresentazione musicale di un discorso, diretto, alternativamente al pubblico o agli interlocutori presenti in scena". In questo, determinante fu - come nell'elaborazione dei magistrali pezzi d'assieme e dei pirotecnici concertati - il contributo di Paisiello. Alla fine del suo soggiorno russo, Paisiello era giunto - specie nell'ambito dell'opera comica - al culmine della propria esperienza creativa: dietro le spalle aveva alcuni capolavori che gli avevano dato fama in tutta Europa, quali La Frascatana, Le due contesse, Il Socrate immaginario, Il barbiere di Siviglia. In Russia aveva dovuto lamentare la mancanza di un librettista di talento, e spesso di un librettista tout-court: possiamo immaginare con quale gioia si sia posto al lavoro potendo disporre di un ingegno come quello di Casti. L'impegno profuso da Paisiello in questa partitura - che lo sottoponeva al giudizio di una delle maggiori corti d'Europa e di uno dei centri teatrali più raffinati del mondo - è evidente in ogni particolare. Poté disporre di un'ottima compagnia di canto, nella quale alcuni dei protagonisti sarebbero stati di lì a qualche anno celeberrimi cantanti mozartiani: Teodoro fu Stefano Mandini, poi "creatore" del ruolo del Conte, Gafforio fu Michael Kelly, poi "creatore" dei ruoli di Don Basilio e di Don Curzio, Acmet fu Francesco Bussani, poi "creatore" dei ruoli di Bartolo e Antonio nelle Nozze e in seguito anche di Masetto e del Commendatore nel Don Giovanni, Taddeo fu Francesco Benucci, "creatore" del ruolo di Figaro. Per loro Paisiello mise a frutto la sua straordinaria arte della caratterizzazione, facendo ricorso all'intera gamma dei suoi stili, dal farsesco al tragico, sfruttando in particolare quel registro di "mezzo carattere" che avrebbe così felicemente sviluppato nei suoi lavori successivi, in particolare nella Nina pazza per amore. Straordinaria è la cura che Paisiello dedicò all'orchestra, trattata con una maestria che si direbbe propriamente mozartiana se non gli fosse ancora sostanzialmente estraneo il nuovo pensiero sinfonico basato sulle grandi forme classiche. Ma in sensibilità e in raffinatezza coloristica nulla ha che invidiare a Mozart e spesso gli è addirittura superiore. Degli insiemi si è detto: il finale primo divenne giustamente una pagina famosa ed è un vero pezzo d'antologia.

* * *
Per concludere, possiamo solo accennare all'influenza che un'opera come il Re Teodoro ebbe su Mozart e Da Ponte. Quest'ultimo, che vedeva in Casti un rivale temibilissimo, sia per la sua perizia di poeta e di verseggiatore, sia soprattutto per le aderenze che aveva presso l'ambiente di corte (in particolare con il sovrintendente agli spettacoli, il Conte Rosenberg), tanto più preoccupanti in un momento nel quale il pressoché sconosciuto Da Ponte si apprestava a iniziare la difficile carriera di librettista a Vienna. Proprio l'improvviso arrivo di Paisiello nella capitale austriaca e la sua imprevedibile collaborazione con Casti provocarono il rinvio della prima opera di Da Ponte scritta per Vienna, quel Ricco di un giorno, musicato da Salieri, che cadde poi alla prima rappresentazione. Questi sentimenti contraddittori (legati a un momento critico della sua carriera di poeta teatrale, ma non privi di un fondo lucido di verità) emergono con molta chiarezza nel commento che egli riservò nelle Memorie al libretto del Re Teodoro (che egli lesse in anteprima) e alla sua prima rappresentazione:

Non vi mancava purità di lingua, non vaghezza di stile, non grazia e armonia di verso, non sali, non eleganza, non brio; le arie erano bellissime, i pezzi concertati deliziosi, i finali molto poetici; eppure il dramma non era né caldo né interessante, né comico, né teatrale. L'azione era languida, i caratteri insipidi, la catastrofe inverisimile e quasi tragica. Le parti insomma erano ottime, ma il tutto era un mostro. Mi parve di veder un gioielliere, che guasta l'effetto di molte pietre preziose per non saper bene legarle e disporle con ordine e simetria.... Conobbi allora che non bastava essere gran poeta (giacché in verità tale era Casti) per comporre un buon dramma; ma necessarissima cosa essere acquistar molte cognizioni, saper conoscere gli attori, saper bene vestirli, osservar sulla scena gli altrui falli ed i propri e dopo due o tremila fischiate, saper correggerli; le quali cose, quantunque utilissime, nulladimeno assai difficili sono ad eseguirsi, impedendolo ora il bisogno, ora l'avarizia ed or l'amor proprio. Non osai tuttavia dire ad alcuno il pensiero mio, essendo certissimo che, se fatto l'avessi, m'avrebbero lapidato o messo come farnetico a' pazzarelli. Casti era più infallibile a Vienna che il papa a Roma. Lasciai dunque che il tempo, giudice delle cose, ne decidesse.
Non andò guari che l'opera si rappresentò e che sopra ogni credere piacque. Poteva essere diversamente? I cantanti erano tutti eccellentissimi, la decorazione era superba, gli abiti magnifici, la musica da paradiso; e il signor poeta, con un sorriso d'approvazione, riceveva gli applausi de' cantanti, del pittore, del sarto e del maestro di cappella, come tutti suoi. Ma, mentre la casti-rosembergica famiglia gridava altamente: "Oh che bel libro! oh che bel libro!", soggiungevamo i pochi imparziali e il giusto Giuseppe alla loro testa: "Oh che bella musica! oh che bella musica!". [14]

In realtà Da Ponte fece tesoro della lezione del Casti, superando - grazie anche a Mozart - quel tanto di gratuito e di intellettualistico era in questo primo esperimento drammatico del rivale. Moltissimi sono gli spunti che dal Re Teodoro filtrarono nei successivi libretti di Da Ponte, in particolare in quelli della trilogia mozartiana. Clamorosa è l'analogia del taglio drammaturgico della scena della festa di nozze nella locanda interrotta dall'arrivo del Messer Grande con la scena della festa nel palazzo di Don Giovanni interrotta dall'arrivo del Commendatore. Ma esistono altresì corrispondenze puntuali, come la seguente, tra il duetto d'amore con coro tra Lisetta e Sandrino e la celeberrima canzonetta di Cherubino:

È fuor di dubbio che Da Ponte tenne sott'occhio il testo di Casti quando compose la celebre canzonetta di Cherubino (e non solo quella, in quanto le suggestioni documentabili sono molte altre); ma è altrettanto vero che superò di gran lunga l'originale, trasformando il quadro un po' manieristico, di sapore arcadico, ma soprattutto statico delineato dal Casti in una vera scena in divenire che disegna - nel corso dell'aria - lo sviluppo di un dramma interiore. D'altra parte a Lisetta, Sandrino e al "Coro di donzelle" Da Ponte e Mozart sostituirono quel Cherubino che è una delle più straordinarie invenzioni mai comparse sulle scene. Alfred Einstein scrisse che "fu Il re Teodoro a dare a Mozart e a Da Ponte il coraggio di ricorrere a Beaumarchais per un soggetto d'opera" e si spinse ad affermare: "si può dire che Casti - dopo tutto - abbia collaborato con Mozart". [15] La verità è forse, come sempre, più complessa. Senza l'improvvisa e invadente apparizione di Casti a Vienna Da Ponte non avrebbe probabilmente sollecitato la collaborazione di Mozart (e di altri musicisti) per assicurarsi un'affermazione personale come poeta di teatro, e il progetto delle Nozze di Figaro non si sarebbe realizzato. Inoltre è presumibile che fu proprio la calorosa accoglienza riservata dal pubblico viennese al Re Teodoro (Paisiello fu il compositore italiano di maggior successo sulle scene dei teatri imperiali nel decennio 1780-1790) ad indurre Mozart a gettare una sorta di guanto di sfida al collega italiano con la scelta di un soggetto direttamente legato alla sua opera più ammirata dal pubblico viennese, Il barbiere di Siviglia. Le relazioni personali tra Mozart e Paisiello erano peraltro ottime. La loro conoscenza risaliva a molti anni prima: si erano incontrati a Napoli nel 1770, a Torino nel 1771, a Milano nel 1773. A Vienna, nel 1784, Paisiello fu invitato da Mozart a un concerto durante il quale questi suonò con la sua allieva Barbara Ployer; Paisiello partecipò probabilmente anche a un'altra serata durante la quale Wolfgang eseguì la parte della viola in un quartetto d'archi. Mozart ascoltò sicuramente, secondo una lettera del padre, Il re Teodoro e d'altronde Paisiello era il musicista italiano che egli conosceva meglio in assoluto. Non stupisce che echi di quest'opera (e del Barbiere di Siviglia) si possano cogliere in particolare nelle Nozze di Figaro, come di recente hanno sottolineato Wolfgang Ruf e Daniel Heartz: il più scoperto (tanto che si deve pensare a una vera e propria citazione, voluta e sottolineata) è la ripresa del tema dell'aria di Acmet, "Se al mio fato terribile e fiero" (I, V) nel Finale I delle Nozze ("Non più andrai, farfallone amoroso"). Ma riconosciuto tutto questo e il ruolo che Il re Teodoro in Venezia di Casti e Paisiello svolse nell'elaborazione dello stile di Mozart (e di Da Ponte), occorre guardarsi dal ridurne il significato e le valenze espressive a questa funzione tutto sommato sussidiaria. La possibilità di gustarlo finalmente nella sua concretezza sonora e nella viva dimensione della scena, deve spingerci a porci nello stesso spirito del pubblico viennese nei confronti di un'opera che - come disse senza presunzione il Casti - "ha poi fatto tanto chiasso e che ha eccitato in Vienna un fanatismo insolito e cangiato in gran parte il gusto di tali spettacoli": al punto da sollecitare, attraverso la geniale assimilazione del suo messaggio da parte di Da Ponte e di Mozart, un nuovo corso del teatro musicale europeo.

Note

1 A. Einstein, A "King Theodor" Opera, in Essays on Music, New York, Norton, 1956, pp. 191-96.
2 G. Paisiello, Re Teodoro in Venezia: dramma eroicomico in due atti (1784) di Giovanbattista Casti; musica di Giovanni Paisiello; nuova orchestrazione e recitativi nuovi di Hans Werner Henze, (1991/92), Mainz - New York, Schott, 1992. La rielaborazione di Henze era stata preceduta da una edizione moderna a cura di Wolf Ebermann e Manfred Koerth (Leipzig, VEB Deutscher Verlag für Musik, 1971), andata in scena a Schwetzingen e a Monaco di Baviera nel 1971.
3 W. Ebermann, Die Poesie-nur "gehorsame Tochter"? Notizen zu Lorenzo da Ponte von G. B. Casti, aufgezeichnet anläßlich der Wiederentdeckung von Paisiellos "Il re Teodoro in Venezia", in "Jahrbuch der Komischen Oper", XI, 1971, pp. 127-36; M. F. Robinson, Paisiello, Mozart and Casti, in I. Fuchs (a cura di), Internationaler Musikwissenschaftlicher Kongreß zum Mozartjahr 1991, Baden-Wien, Tutzing: Schneider, 1993, pp. 71-79; F. P. Russo, Paisiello e l'"opera imperialregia". Note sulla genesi de "Il re Teodoro in Venezia" (Vienna, 1784) (relazione letta nell'ambito del Convegno Mozartiano organizzato dall'Istituto Storico Germanico, Roma nell'ottobre 1993, in corso di pubblicazione in "Analecta Musicologica", XXXI (ringrazio l'autore per avermi consentito la lettura del dattiloscritto); inoltre il XVI "Quaderno dell'I.R.T.E.M.", a cura di C. Marinelli e di P. Bernardi, Roma, 1995, al quale è allegato un CD con la registrazione dell'opera effettuata nel 1962 per la direzione di R. Fasano sulla base della revisione (non propriamente musicologica) curatane da Barbara Giuranna. A questi saggi occorre aggiungere W. Ruf, Die Rezeption von Mozart's "Le nozze di Figaro" bei den Zeitgenossen, Wiesbaden, Steiner, 1977, pp. 47-71; S. Henze-Döhring, Opera Seria, Opera Buffa und Mozarts "Don Giovanni": zur Gattungskonvergenz in der italienischen Oper des 18. Jahrhunderts, Laaber, Laaber Verlag, 1986 ("Analecta Musicologica", XXVI, pp. 110-120; P. Gallarati, Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, Torino, EdT, pp. 154-61; D. Heartz, Mozart's Operas, Berkeley, Los Angeles, Oxford, University of California Press, 1990, pp. 123-32; G. Knepler, Wolfgang Amadé Mozart: Annährungen. Berlin, 1991 (Trad. it.: Wolfgang Amadé Mozart: nuovi percorsi, Milano, 1995, pp. 152-55; 174; 416-17). L'edizione critica di Robinson è stata pubblicata dalla BMG Ricordi, Milano, 1996.
4 Lettera di Paisiello a un corrispondente non identificato, del 5 Maggio 1784, cit. da M. F. Robinson, Giovanni Paisiello. A Thematic Catalogue of His Works, Stuyvesant, N.Y., Pendragon Press, 1991, Vol. I, p. 346.
5 L'attribuzione è confutata da H. Van den Bergh, Giambattista Casti. L'homme et l'œuvre, Amsterdam Bruxelles, Elsevier, 1951, p. 132-35.
6 G. B. Casti, Epistolario, a cura di Antonio Fallico, Viterbo, s.d. [1984], pp. 392-93).
7 G. B. Casti, Epistolario, cit., p. 395
8 G. B. Casti, Epistolario, cit., pp. 411-12
9 Il Re Teodoro in Venezia. Dramma eroicomico. Da rappresentarsi nel Teatro di corte l'Anno 1784, in Vienna, Presso Giuseppe Nob. De Kurzbeck, Stampatore di S. M. I. R. [1784], pp. 5-11. Il libretto venne stampato in elegante veste tipografica con la traduzione tedesca (in prosa) a fronte.
10 Cit. in L. Pistorelli, I melodrammi giocosi di G. B. Casti, in "Rivista Musicale Italiana", V (1895), pp. 36-56-41.
11 G. B. Casti, Epistolario, cit., pp. 898-99.
12 Atto II, Scena XII.
13 Atto I, Scena III.
14 L. Da Ponte, Memorie. Libretti mozartiani, Milano, Garzanti, 1976, pp. 94-95.
15 A. Einstein, A "King Theodor" Opera, cit., p. 195.