GIOVANNI TEBALDINI

VERDI E WAGNER

Lettera di Giuseppe Verdi al suo editore
[Ricordi] per la morte di Richard Wagner

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[Giovanni Tebaldini, che nella sua estrema lealtà e competenza non poteva disconoscere la grandezza di Wagner e i meriti della scuola tedesca (con la quale era stato a contatto specialmente durante gli studi a Ratisbona), non perdeva occasione per esaltare le qualità di Verdi, lucidamente espresse nel lungo saggio che segue]

Verdi e Wagner! Due nomi, due civiltà, la latina e la germanica; due distinte concezioni delle finalità che il teatro può e deve raggiungere nella estrin-secazione di un ideale d’Arte: l’umanità nella realtà della vita vissuta, in uno; l’umanità attraverso il simbolo e la leggenda, nell’altro. Entrambi, pur proce-dendo per opposte vie, hanno occupato di sé, vittoriosamente, la parte più combattiva del secolo XIX arrivando, e l’uno e l’altro, alle più alte vette del fasti-gio che per il presente e per l’avvenire irradia sulla storia dei due popoli.
Ma le origini dei due Grandi, i loro primi passi sul sentiero della vita, tanto si differenziano da indurre alle più meditate riflessioni.
Geni entrambi: indubbiamente! Tuttavia di così diversa natura, e sì di-versamente preparati alla realizzazione delle proprie aspirazioni, da rendere illo-gico ed arbitrario fra di essi qualsiasi preteso accostamento. Ma pur se lontani l’uno dall’altro, sul loro cammino sono impressi segni così profondi: si disegnano caratteristiche tanto emergenti, da costringere chi osservi a chiedersi se, sin dal primo momento, non siano stati essi predestinati a raggiungere le alte mète cui sono arrivati, precisamente con la missione sublime di incidere sull’anima dei due popoli che li hanno generati e nelle pagine della storia, le orme indelebili del loro avvento.
"1813"! Wagner apre gli occhi alla luce del giorno nella città sassone celebre per le sue tradizioni culturali, artistiche e scientifiche: Lipsia!
Pochi mesi appresso, alle porte di quella città, si combatte la grande bat-taglia napoleonica, divenuta istorica, dalla quale l’idea del germanesimo risorge rigenerata e consolidata.
Verdi, figlio del popolo de’ campi, nel mese di ottobre di quel medesimo anno nasce nel mezzo di una pianura agreste, ubertosa, ma culturalmente limi-tata. Intorno a lui, ed in lui, le sole ricchezze prodigate da madre natura. Tradi-zioni familiari? Nessuna! Preparazione iniziale? Quasi nulla! Aiuto morale dall’ambiente in cui vive? Scarso! Tutto il suo mondo è racchiuso nel tratto che corre tra le Roncole e Busseto. Ed in siffatte condizioni, se pur sor-retto da precoce ingegno riflessivo, dalla fiducia de’ suoi conterranei e dalle premure di un maestro di coscienza, di sapere, ma modesto - Fernando Provesi - arriva stenta-tamente al diciannovesimo anno.
Nello stesso periodo di tem-po come progredisce la formazione artistica di Riccardo Wagner? Egli può rifugiarsi ogni giorno sotto le navate monumentali della Thomas-kirche di G. S. Bach; può entrare quotidianamente nella maggior sa-la della Gewandhaus ad ascoltare le possenti Ouvertures e le grandi Sinfonie di Beethoven; può godere del conforto e dell’ausilio grandis-simi procuratigli dagli affetti e dalle cure della propria famiglia dedita per tradizione agli studi. Orfano di padre si trasferisce a Dresda sotto la tutela amorevole di un patrigno - il comico e pittore Geyer - che lo ama e lo protegge curandone la formazione intellettuale, anzitutto col farlo assistere alle rappresentazioni teatrali dirette da Weber.
Ed è precisamente da quel momento che la concezione nordico-romantica del compositore di Silvana, del Freischütz, di Euryanthe e di Oberon, si affaccia all’anima fantasiosa del giovanetto, facendo apparire innanzi a lui le prime vi-sioni del mondo mitico e fantastico che egli già sogna di poter un giorno far rivivere attraverso la propria musica. E perciò dai 17 ai 19 anni si trova anche in grado - e le occasioni gli si offrono - di dettare e di far eseguire composizioni orchestrali proprie: Ouvertures, Sinfonie, Cantate, e sul teatro: Scene, Arie, Canzoni corali già meditando di poter dar vita alla sua prima opera: Le Fate.

Lettera di Giuseppe Verdi al suo editore
[Ricordi] per la morte di Richard Wagner

Verdi, nel medesimo periodo di tempo, cosa può fare di simile, obbligato a vivere entro la cerchia dell’esistenza che conduce a Busseto alla quale, per forza maggiore, si adatta confidando in un più sorridente domani? Si prepara nella speranza di farsi accogliere quale alunno del Conservatorio di Milano.
Alla prova le composizioni a tale scopo da lui presentate, nel rapporto del censore Basily, sono giudicate favorevolmente; al pianoforte invece la sua mano è trovata difettosa. Per questa ragione, e per altre d’ordine regolamentare, la domanda non viene accolta. Prima delusione! Malgrado siffatta ripulsa, il bussetano delle Roncole non si perde d’animo, e rimane a Milano (primi segni della sua forza di volontà) decidendo di studiare privatamente col napoletano mae-stro Lavigna, insegnante solfeggio nello stesso Conservatorio nel quale egli non è riuscito ad entrare. Ha poi occasione di frequentare qualche cenacolo artistico e di allargare alquanto le proprie vedute.
Un amico, il bresciano maestro Pietro Massini, gli cede la bacchetta per-ché all’Accademia dei Filodrammatici possa dirigere La Creazione di Haydn. Ecco tutto! È un passo, ma troppo limitato pei bisogni e per le aspirazioni del giovane tirocinante. Rimasto vacante il posto di maestro di Cappella al Duomo di Monza, chiede di ottenerlo, ma senza risultati.
A studi compiuti decide allora di tornare a Busseto per dedicare all’am-biente che lo ha allevato e sorretto a’ di lui primordi, le sue possibilità artistiche. Quindi sacrifici e rinunzie.
Intanto Wagner, pur fra molte difficoltà, cammina in ben altro modo; risolutamente, speditamente.
Da Magdeburg a Königsberg, a Riga, può dedicarsi alla direzione delle orchestre di quei teatri presentando al pubblico opere di Gluck, di Mozart, di Spontini, di Cherubini, ed ancora - in propria serata - la Norma di Bellini.
Il pensatore che riverserà poscia, con tanta prodigalità, scritti critico-filosofici discussi, discutibili, ma densi di idee - se pur confuse ed arruffate - già si manifesta arditamente.
Verdi, dopo un triennio di vita semiclaustrale trascorsa al suo paese, torna a Milano a fianco di una diletta compagna - Margherita Barezzi - e con due piccole creature. Tutto il suo mondo familiare irto di incognite.
Nella metropoli lombarda cerca di sistemarsi; cerca di riuscire a far con-vergere sopra di sé l’attenzione dell’ambiente musicale, ed in parte vi riesce, ma in modo quasi forzato. Soltanto le premure dei pochi che in lui hanno fede valgono a lusingare il suo amor proprio.
Alla “Scala,” nel carnevale del 1839, si rappresenta la sua prima opera - Oberto Conte di San Bonifacio - che ottiene bellissimo successo, seguìto da altri nelle diverse città ove l’opera stessa viene riprodotta. Ma quali tendenze si ri-scontrano in questo primo lavoro del giovane Maestro bussetano? Si può scor-gere in esso qualche segno rivelatore che lasci presagire il futuro? All’infuori di una tal quale maschia rudezza, di un virile incedere, nessun indizio di ciò che potrà realizzare domani il venticinquenne compositore.
Già esistono Guglielmo Tell, Puritani, Lucia di Lamermoor, alla luce delle quali opere il melodramma verdiano impallidisce fino a rimanere oscurato. Nondimeno nascosto, indeciso e latente, fra il groviglio spinoso di forme superate, qualche segno annunziatore traspare dall’Oberto del pari che la picciol vena di un prezioso metallo celata fra sabbie aurifere trascurate ed inosservate. Lo de-nota la stessa Sinfonia.
Ma Verdi in quel tempo è ancora ignaro a se stesso. Si rivelerà poi.
Wagner al contrario ha già tracciato innanzi a sé la propria vita. Medita e lavora attorno al Rienzi, attorno al Vascello Fantasma, nelle quali opere le sue tendenze ed il suo stile, a sprazzi, si palesano. Egli sa e sente dove vuol arrivare, quale edifizio si propone di costruire, mentre il bussetano non può che affidarsi all’estro, all’ispirazione ed alla fantasia. Sin dal primo momento Verdi intuisce il teatro, sente i personaggi scenici, si delineano innanzi a lui i caratteri, ma non cerca più oltre, perché nulla intorno gli si offre.

***
Qui non si vuol narrare la vita di Verdi né di Wagner, ben note per la ric-chissima letteratura che sul conto di entrambi è stata diffusa in tutta Europa. Si rivelano soltanto le fasi salienti nelle quali, contemporaneamente, le due emi-nenti figure si scolpiscono per le distinte caratteristiche della loro arte. Ed ap-pare strano il fatto - dopo la coincidenza della nascita - che, senza chiedersi né incontrarsi, i due procedano sempre su binari lontani l’un dall’altro, ma in senso parallelo.
Nel 1842, a ventinove anni, dopo un periodo familiare penoso e tragico, Verdi si riaffaccia all’agòne che lo attende a Milano con una nuova opera: Na-bucco. In essa la sua figura comincia a delinearsi sotto diversi dei suoi artistici aspetti. Non sarà che un periodo di preparazione e di formazione incipiente - trattandosi di Verdi, questo si può affermare - quello che si inizia col nuovo dramma lirico, accolto sin dal primo giorno entusiasticamente; un periodo che occupa sette anni di lavoro e che produce ben tredici opere. Lavoro di prepa-razione e di formazione incipiente, ripetiamo, da riguardarsi però quale pietra miliare atta a costituire il fondamento organico dell’arte verdiana. Si possono intravedere, attraverso questo periodo, accenni ed andamenti che risentono della maniera rossiniana, sorretti però da figurazioni ritmiche tutte proprie, energiche, vigorose, che a qualcuno appariranno magari anche violente e brutali, ma che sulla scena, in quel determinato drammatico momento, si palesano in tutta la loro efficacia. La linea melodica, la frase stessa si affaccia con ampiezza.
Pagine di fattura non improvvisata, ma pensata, meditata e tradotta in atto da esperta mano, in Nabucco possono riguardarsi il coro degli ebrei - agi-tatissimo - nel primo atto a forma di fugato: "Lo vedeste?... Fulminando egli irrompe nella folla" del pari che il coro dei Leviti nell’atto secondo sul tema già presentato nella Sinfonia ed alla chiusa di essa: "Il maledetto non ha fra-telli"; e tralasciamo dire dei celebratissimo coro degli Schiavi Ebrei "Va pen-siero sull’ali dorate" che da quasi un secolo risuona con tanto trasporto sulle labbra e nel cuore degli italiani, al pari dell’altro de I Lombardi alla prima Cro-ciata "O Signor che dal tetto natìo - ci chiamasti con santa promessa" cori che possono considerarsi derivazione dal Mosè rossiniano.
Senza dubbio requisito che in Verdi, sin dalle prime opere, emerge netta-mente, è il senso della teatralità, la giusta misura, il taglio - come si dice in lingua povera - di ogni scena. La elaborazione armonica, qua e là, potrà appa-rire meno accurata; lo stile incerto, specie rispetto a quello che al teatro già ave-vano dato altri nostri operisti dai quali il bussetano cerca di emanciparsi. Ma l’incisività scultorea dei personaggi verdiani, il loro carattere, sin dal primo momento in cui appaiono sulla scena, si disegnano sì vigorosamente da obbligare a dire di Lui: "Ecco l’Uomo di teatro" ma alla maniera latina di intendere il Teatro d’Opera.
Nel medesimo anno in cui Verdi presenta al pubblico della "Scala" Nabucco, Wagner a Dresda mette in iscena Rienzi. Una grande opera tragica di vaste proporzioni (cinque lunghi atti) dalle linee costruttive esorbitanti. Quel requi-sito che torna a vantaggio di Verdi, cioè a dire il senso della teatralità, la giusta misura, a Wagner nel Rienzi vien meno. Forse pel soggetto storico a lui non adatto e per la verbosità, de’ suoi personaggi? L’elaborazione tematica ed ar-monica appare accurata certamente, ma per quanto riguarda lo stile cade spesso in rimembranze le quali passano con frequenza da Donizetti a Meyerbeer ed a Schumann.
Non è men vero però che sin dal primo momento, in varî squarci - valga ad esempio il "Coro dei Messi di Pace" e l’"Invocazione di Rienzi a Roma redenta" - è facile presentire il non lontano cantore di Tannhäuser e di Lohengrin.
Nell’anno successivo alla rappresentazione del Rienzi, Wagner entra riso-luto nel mondo fantastico ed irreale della leggenda presentando allo stesso pubblico di Dresda il Vascello Fantasma opera già da tempo meditata e conclusa. Il passo che egli compie con questo nuovo lavoro appare della massima impor-tanza pur nel senso teatrale. La Sinfonia — che sembra preludere quasi alla "Cavalcata delle Walkirie", i cori battenti che si rispondono a vicenda dal-l’una all’altra nave, il "coro delle filatrici" così pieno di vaga poesia, l’"aria di Senta" che richiama all’Agata del Freischütz weberiano, ne portano d’un tratto nel mondo di quella leggenda innanzi alla quale Wagner ha ormai accesa la sua face. Ed è dello stesso anno ancora la Cantata "La Cena degli Apostoli" per voci d’uomini che, se non musicalmente, spiritualmente al certo, si ricongiungerà poscia alle voci mistiche dei "Cavalieri del Graal".
Ad undici mesi dal Nabucco e pochi giorni dopo la rappresentazione del Vascello Fantasma a Dresda, Verdi si ripresenta alla "Scala" con I Lombardi alla prima Crociata; l’anno seguente (1844) a Venezia con Ernani ed a Roma con I Due Foscari; opere nelle quali la forza, lo slancio e la virile cantabilità eccel-lono in modo quasi esuberante e che, all’Ernani specialmente, valsero una popolarità che sui teatri italiani ha durato per molti anni.
Ma in queste tre opere, come in quelle che si succedettero sino a Luisa Miller ed allo Stiffelio - divenuto in un secondo tempo Aroldo - forse il compo-sitore ha dato segno di voler percorrere vie nuove? No! Egli si è rinvigorito senza risparmio, ha prodigato i tesori della sua fervida fantasia, ma aggirandosi sempre nelle zone percorse fin dal giorno della sua prima affermazione. Qualche volta anzi può aver sembrato deflettere dalla stessa via dapprima intrapresa. Ma per breve tempo.
Da taluni si è voluto contestare che la produzione lirica del Grande Mae-stro italiano possa classificarsi in tre o quattro distinte maniere. Noi invece ab-biamo creduto e crediamo alla evoluzione progressiva della sua mente e del suo fervido spirito pur attraverso forme ed andamenti propri ad un determinato periodo. Il quale - a nostro avviso - va considerato non come periodo di sosta, bensì quale processo in se medesimo di rinnovazione delle proprie facoltà ed energie creative. E questo primo periodo nell’opera di Verdi va precisamente da I Lombardi a Luisa Miller; cioè dal 1843 al 1849.
Nel frattempo Wagner conduce a termine, portandola ancora sulle scene del teatro di Dresda Tannhäuser, opera nella quale, se non intieramente, la sua personalità si manifesta e si afferma in modo sempre più deciso. Il mondo fantastico e leggendario, ed il mondo storico, in Tannhäuser si accostano l’uno all’altro; la tentazione ad una seducente vita di ebbrezze sensuali, cede alla passione ed al trasporto ideale che accompagnano l’anima redenta verso le più elevate regioni dello spirito. Ne è pronuba interceditrice, Elisabetta di Turingia. Con Tannhäuser si vive in una atmosfera di redenzione ove gli uomini cercano affannosamente e rintracciano la pace del cuore per la vita immortale.
Romanticismo nordico che per Wagner chiuderà la luminosa parabola trenta anni più tardi con Parsifal.
La celebre Sinfonia, la Scena del Venusberg, la Marcia e la Lotta dei Bardi alla Wartburg di Turingia, il Coro dei pellegrini di ritorno da Roma, il Rac-conto drammatico di Tannhäuser sono pagine che vivificano di luce nuova l’opera wagneriana e che si distanziano assai - confessiamolo pure - dal punto in cui Verdi era arrivato in quel momento con Giovanna d’Arco e con Attila.
L’aspirazione di Wagner, rivelata in Tannhäuser, si idealizza poscia nel Lohengrin che è del 1850 - discusso e combattuto ovunque al suo primo appa-rire specie nei paesi latini - per l’inconsistenza, dal lato umano, dei simbolici personaggi del dramma, che se penetrano nella psicologia dei popoli nordici, non riescono ad entrare nell’anima latina la quale vive di passioni vere e di realtà concrete.
Ed eccoci innanzi al duplice quesito del teatro e del dramma lirico quale, nell’ora più fervida, lo concepirono e lo plasmarono Verdi e Wagner in contrasto l’uno all’altro.
Nel periodo che va da I Lombardi a Luisa Miller, come abbiamo detto, Verdi non ha veduto innanzi a sé che dei personaggi umani nell’atmosfera del romanticismo latino di quel tempo, più di esteriorità che di contenuto, e che nulla ha di comune col romanticismo germanico. I suoi personaggi cantano con sincerità i dolori e le passioni che vivono realmente. Forse si presentano con paludamenti vistosi e sotto forme talvolta enfatiche e convenzionali. Ma pre-ludono anche a più scultorea concretezza.
Nei primi mesi del 1850, a Weimar, il Cavaliere del Graal ha parlato col suo arcano misterioso linguaggio. Sette mesi appresso, a Venezia, è il povero buffone che ride e trascina gli altri al riso per bisogno di vita, ma che si esalta e piange ancora per amor paterno; è Gilda che ama sinceramente con tanta passione e che nella notte oscura e tempestosa si immola per salvare colui che la inganna.
Il simbolo leggendario in Lohengrin, la realtà vissuta in Rigoletto.
Da quel momento in Verdi si determina una prima meravigliosa e possente trasformazione; la più impressionante. Se fino a quell’ora la di Lui mente e la sua anima creatrice si erano fissate in un circolo chiuso d’un romanticismo di maniera, qualche volta eccessivamente ridondante, con Rigoletto si innalza alle più accese passioni, espresse col più vero, umano, rapidissimo accento della ve-rità. Né, soltanto; ché tale trasformazione, la quale occupa due anni di fecondo lavoro mentale e spirituale, si rinnova di volta in volta senza mai ripetersi, né negli andamenti melodici, né nelle vesti armoniche od in quelle strumentali.
Dalla vissuta intensa umanità di Rigoletto e di Gilda, Verdi passa un’altra volta al dramma romantico-latino in cui emergono Leonora, Man-rico ed Azucena... per abbandonarsi poscia con effusione alla passione romantico-verista, come si disse allora, di Violetta e di Alfredo. Tre aspetti ben distinti della grande lirica verdiana. Tre opere che potrebbero appartenere a tre diversi autori tanto si differenziano fra di esse. Ed è appunto dal trittico Rigoletto, Trovatore e Traviata che a parer nostro si determina la maggiore e più palese affermazione del genio di Giuseppe Verdi. Il suo evolversi spirituale e psi-cologico, la sua duttilità, la sua capacità a passare dall’uno all’altro dei perso-naggi - anche se fra di essi di diverso carattere - vivificandone i moti dell’anima, i pensieri e le azioni, mantenendoli in scena quando ciò si richieda dal-l’azione, come nel Quartetto del Rigoletto: esprimendo contemporaneamente i più diversi e contrastanti sentimenti, stanno ad attestare della potenza creatrice del Grande Maestro.
Si è narrato che Victor Hugo, il quale ebbe sempre ad opporsi all’idea di rappresentare Rigoletto a Parigi perché nell’opera di Verdi credeva falsato il carattere dei personaggi da lui creati, indotto a permetterne l’esecuzione, assi-stendo ad una rappresentazione dell’opera verdiana, giunto al celebre "Quar-tetto" dell’ultimo atto, a chi gli osservava: "questo è superbamente bello e vero", abbia risposto: "Anch’io avrei fatto altrettanto se avessi potuto far parlare e muovere assieme quattro persone". Ed in questa confessione del cele-bre drammaturgo francese è colto appunto il lato più alto e significativo della estetica dell’arte verdiana.
Al trittico - Rigoletto, Trovatore, Traviata - con tanta ricchezza di inspi-razione creato dal 1851 al 1853, due anni appresso il nostro Maestro fa seguire I vespri siciliani. Un’opera, pur questa, cosparsa di inspirate travolgenti pagine. Basterebbe la celebre Sinfonia a provarlo. Ma dettata per l’"Opéra" di Parigi, reca con sé i segni di una concezione legata a formule drammatiche fissate da una tradizione che al compositore ha conteso quella libertà di movimenti ai quali sembra tendere ad ogni passo. Nel Simon Boccanegra (1857) Verdi può in-vece raccogliersi e meditare sul carattere di un personaggio che più tardi for-merà oggetto di speciali sue cure. È rimasta in Lui come la nostalgia dell’amor paterno e dell’amor filiale, e questo amore esprime in nuovi accorati accenti.
Ma in breve eccolo ad Un ballo in maschera (1859). Con ansia amorosa Verdi segue il fatale cammino dei suoi personaggi - Amelia, Riccardo, Renato verso la sorte che li attende: il colpevole amore, il dolore, la ven-detta. In alcuni accenti ed in alcuni atteggiamenti di Riccardo - specie nei momenti in cui il dramma vero lascia posto alle scene d’ambiente - si può forse ravvisare la figura del Duca di Mantova ; l’amaro disinganno di Renato, può risentire dello straziante dolore di Rigoletto. Ma nel profondo e tormentoso senso di umanità che lo pervade e lo domina, anche Un ballo in maschera si avanza arditamente verso quella mèta che riceverà sempre maggior luce giunto che sia al quarto atto di Otello. Il cammino di Verdi non patisce soste.
Tre anni dopo Un ballo in Maschera, al Teatro Imperiale di Pietroburgo si rappresenta La Forza del Destino, opera romantica anch’essa, che da alcuni punti di vista può ritenersi proceda dal Trovatore. In quest’opera tutte le carat-teristiche dell’arte verdiana, già conosciute attraverso i precedenti melodrammi, si raccolgono e si fondono in una unità che trae i suoi elementi di vita precisa-mente dalla varietà di essi. Un tempo è stato asserito che La Forza del Destino appare come un emporio di idee, le più disparate e di stili tra di loro contrastanti. Certo si è che in mezzo a tanta profusione di musica si rimane conquisi, e che il contenuto spirituale dell’opera, attraverso una vicenda macchinosa e complessa, segna, pel bussetano, un punto luminoso. Gli accenti di Don Alvaro morente sembrano riportarci per un momento agli ultimi istanti di Riccardo in Un Ballo in Maschera, ma forse più per la situazione drammatica che per l’apporto della pagina musicale piena di fervore e di passione.
Il pubblico italiano ha amato ed ama con costante trasporto La Forza del Destino, che avrà prestato il fianco alla critica, ma le cui virtù psicologiche sono entrate e penetrate nel profondo della sua anima.
Con Don Carlos che è del 1867 - la parabola del dramma romantico si innalza e si approfondisce ad un tempo. Havvino, in quest’opera, momenti di vera e cupa tragicità. I varî personaggi, in una scala ascendente di valori, nei loro diversi caratteri e nei loro diversi atteggiamenti, come sempre, sono scolpiti vigorosamente. Un’aura di triste rassegnazione all’ineluttabile della vita – diremmo quasi un’aura leopardiana - si effonde nelle intime recondite latebre dello spirito di essi, del pari che nella massa del popolo oppresso. Se dai cinque atti del Don Carlos si volessero trarre significati simbolici, si dovrebbe concludere col dire che ogni personaggio cela in sé il senso ascoso della sua vera anima per una fina-lità etico-morale che trascende oltre lo stesso dramma. Don Carlos ed Elisabetta, i quali amandosi senza speranza di un possibile domani, accettano il sacrificio ed il distacco che si impongono; Filippo II dalla cui anima, sempre triste ed oppressa, nessuna voce di clemenza e di mitezza mai si parte; Don Rodrigo generoso, buono, leale amico, che incontra la morte quasi sorridendo; il Grande Inquisitore austero ed inflessibile: sin dal primo momento dell’azione, sono plasmati con tocchi precisi, vigorosi e sicuri, e là dove si richiede, fra i due protagonisti, con accenti di suadente tenerezza.
Coincidenza di qualche rilievo. Don Carlos ed Elisabetta portati sulle scene dell’"Opéra" di Parigi nel 1867, si incontrano, si amano e si rassegnano al loro destino staccandosi l’un dall’altro poco dopo l’apparizione, all’Hoftheater di Monaco di Baviera, di Tristano ed Isotta spasimanti disperatamente la propria passione sino alla morte. Due etiche dell’amore tutt’affatto contrastanti: in Verdi, nella contingente realtà della vita; in Wagner, nel sogno ideale; anzi ul-traideale.
Dalla data dell’apparizione di Lohengrin a quella di Tristano sono trascorsi quindici anni (1850-65) laboriosi per Wagner in modo fantasticamente tur-binoso. Oltre la grande opera che per il Tedesco sintetizza la concezione etica dell’amore nella sua più accesa passionale esplicazione, egli riesce a stendere la tela, ed in parte a musicare I Maestri Cantori. In pari tempo ascolta le voci delle Figlie del Reno: quelle delle Walkyrie, e quelle ancor più vibranti di Siegfried e di Brunilde echeggianti imperiose all’orecchio della sua anima. Meravigliosa opu-lenza spirituale ed intellettuale!
I Maestri Cantori, sulla scena, apparvero nel 1868. Per Wagner una paren-tesi grandiosa nel più limpido cielo delle sue concezioni sceniche. Un angolo festoso della vita tedesca attraverso il ‘500, nella più tedesca delle città di Ger-mania: Norimberga. Rivivono così le Corporazioni: gli usi ed i costumi di esse; risuonano per le strade i Canti Popolari e nelle Chiese luterane i Corali salmodici che il genio possente di Giovanni Sebastiano Bach doveva eternare poscia in pagine di musica immortali. Le guglie acute a squame policrome della Lorenzkirche, nel-l’ora vespertina, si accendono di abbaglianti vivide luci; la voce ammonitrice di Hans Sachs ricorda a Walther von Stolzing che anche il genio, se vuole che l’opera propria sopravviva, deve sottostare alla disciplina. Sulla spianata in riva al Pegnitz, fra il clangore degli oricalchi e gli inni entusiasti delle Corporazioni, Eva incorona il poeta amante. È tutto un mondo istorico che Wagner, con I Maestri Cantori, ha saputo far risorgere.
Ma la parentesi wagneriana, a venticinque anni di distanza, per forza di virtù nuove, avrà in Verdi un magico riflesso, il quale costituirà il punctum saliens, ed il coronamento di tutta una vita ingemmata di alte e vibranti inspirazioni generosamente prodigate per la gioia di tre generazioni di italiani: Falstaff!
Dopo il romantico Don Carlos una prima parentesi verdiana è rappresen-tata da Aida. Se il compositore de I Maestri Cantori con la sua opera ha saputo far risorgere un ambiente e tutta una vita secolare, Verdi con Aida ha creato l’ambiente e fecondata la vita immaginaria eppure reale: sì perché Aida, Amneris, Radames, anche se in un mondo tanto lontano, sono personaggi che vivono nella realtà.
Dal cammino ascensionale compiuto in un venticinquennio da Nabucco a Don Carlos, la parentesi luminosa rappresentata da Aida appare a noi quale terza reincarnazione della ferace fantasia del grande Maestro. Un’opera che nella vicenda drammatica, per la sua impostazione e per la portata estetica che la caratterizza, si stacca da tutto quello che il compositore avea creato in precedenza. In Aida il color locale - non attinto a temi raccattati fra canti egizi o nenie etiopiche, ma creati originalmente - da ben settanta anni guida spiritualmente gli spettatori in un’atmosfera di orientalismo che trae origine, appunto, dalla fervida ed incontenibile fantasia verdiana, oramai elevatasi verso un cielo percorso dai più abbaglianti fulgori.
All’Aida ha seguìto - tutti lo sanno - la Grande Messa da requiem per Man-zoni. Da principio discussa, e da taluni anche malamente giudicata, ha finito per tramutarsi in altra delle più salde colonne che sorreggono il tempio dell’arte verdiana. Quel "Tuba mirum" col "Rex tremendae majestatis", sì potenti che sem-brano echeggiare nell’immensa Valle del Giudizio Universale, sono pagine che pos-sono meritare di essere contrapposte ai dipinti dell’Orcagna nel Campo Santo di Pisa, del pari che a quelli di Luca Signorelli nel Duomo d’Orvieto, ed agli affreschi di Michelangelo nella Sistina.
Mentre Aida percorre trionfalmente il suo cammino e la Messa da requiem vien ripetuta in varie città d’Italia e dell’estero segnando nella storia dell’arte italiana un nuovo profondo solco, Wagner si accinge all’opera sua più vasta e complessa: il ciclo grandioso dell’Anello dei Nibelungi - la lotta dei Nani e dei Giganti - alle cui giornate già da anni va dedicando la sua potente fantasia. È il maestoso edificio costruito sulla mitologia scandinava dalla quale traggono la loro origine storico-leggendaria i primi popoli germanici; ed è impresa grandiosa.
Nel 1876 la Tetralogia viene rappresentata al Teatro di Bayreuth. Grande avvenimento che di sé ha occupato il mondo artistico europeo per anni ed anni. La fama di Wagner da allora diviene universale. Il "lamento doloroso delle Figlie del Reno"; la maestosa "Entrata degli Dei nel Walhalla"; la "Cavalcata delle Walkyrie"; la scena finale del dio Wotan e di Brunilde; l’"Inno alla Spada" di Siegfried; il magico "Idillio della Foresta"; il "duetto Siegfried - Brunilde" su l’alta montagna ove la Walkyria, per punizione del dio Wotan, giacque addor-mentata; la descrizione del "Viaggio di Siegfried sul Reno"; "la Marcia funebre" che accompagna la Salma dell’Eroe caduto; il lieto canto delle Figlie del Reno al ritorno dell’anello fatato alle onde da dove era stato involato, apparvero sin da allora pietre angolari di tale resistenza da lasciare orma profonda nella storia dell’arte del secolo XIX.
Sei anni dopo la rappresentazione integrale della Tetralogia, Wagner in modo ideale corona superbamente il ciclo mistico delle sue creazioni iniziato con Lohengrin, e dà al Teatro Parsifal... L’"Agape sacra" dei Cavalieri del Graal; la seduzione di Kundry e delle Blumenmädchen al Castello di Klingsor; la "scena del Venerdì Santo" nella primavera ed il "Finale della Consacrazione" appaiono come statue di marmo pario adornanti la fronte del santuario wagneriano. È giuocoforza riconoscerlo.
Chi di noi in quegli anni di giovanile ardore non è accorso - sicut cervus desiderat ad fontes aquarum - al tempio di Bayreuth? Era come una festa dello spirito soggiogato dalla mistica ed ideale passione che tutti ne avvinceva.
Taceva in noi, in quelle ore di tripudio wagneriano, il senso vero e profondo dell’Umanità quale Verdi l’aveva intesa e resa in ogni sua opera? Otello venne a ridestarci dal nostro estatico sogno, riportandoci nella commovente realtà. E rimanemmo conquisi dagli accenti amorosi di Otello e di Desdemona là sulla spia-nata di Cipro nella notte serena in cui "Venere splende... e canta"; turbati dalla perfidia di Jago che nel Credo, divenuto celebre, si rivela con tanto cinismo; scossi dall’ansia tragica di Otello; lagrimanti nell’ascoltare l’invocazione stra-ziante di Desdemona nel presentimento del suo fatale destino.
Tristano ed Isotta sì, ci avevano torturato con i loro tormentosi accenti espressi con magiche note, ma esasperanti sino al delirio. Otello e Desdemona ne ricondussero nella zona dolorosa della umanità vera, d’innanzi ad un vero dramma di anime, e ne permisero di riequilibrare il nostro spirito.
Ma venne pur l’ora in cui Verdi - ad ottanta anni - doveva presentarsi trasformato un’altra volta sotto un aspetto mai rivelato dopo l’insuccesso del 1840 con Un giorno di regno, creatore di una grande commedia musicale: Falstaff.
Wagner a cinquantacinque anni aveva offerto al suo pubblico I Maestri Cantori, opera concepita ed ultimata molto tempo innanzi; Verdi a questo si decideva… ad ottant’anni con una freschezza giovanile che incanta, con una preziosità di fattura che commuove e stordisce. Possiamo quindi pronunciare alto e solenne la parola che tutto compendia: Genio! Nessun Maestro composi-tore né italiano né straniero - né antico né moderno - è arrivato a tanto: cioè a sì tarda età creando un capolavoro che si stacca da tutto quello che l’autore stesso ha dettato in precedenza. Genio della razza di Leonardo, di Michelangelo, di Tiziano e di Tintoretto.

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È palese, ed oramai consacrato alla storia, che Verdi, nel primo periodo della sua vita artistica sì laboriosa e ferace, seppe e volle far vibrare la corda dell’amor patrio, deliberato a contribuire co’ suoi accesi e vibranti accenti, alla preparazione ed alla realizzazione dell’italo riscatto. Era il momento nel quale le forze spirituali degli italiani dovevano integrarsi l’un l’altra allo scopo di appro-fondire sempre più nell’anima della Nazione l’ideale della riscossa. Nabucco, I Lombardi alla prima Crociata, Ernani, Giovanna d’Arco, Attila, La battaglia di Legnano, I Vespri Siciliani, sono densi di questo senso di ribellione, di questo anelito alla indipendenza e di siffatta onda di patriottismo. E perciò noi ferma-mente crediamo che prendendo a soggetto delle opere sopra ricordate fatti che si legano alla storia d’Italia, Verdi, con animo ardente, abbia inteso dedicare l’impetuosa e irrefrenabile forza della sua fantasia alla causa altissima e santa della Patria. Quanto entro di Lui, in quell’ora, si andava significando, era né più né meno che il portato della sua condizione psicologica, e l’espressione genuina e sincera della sua Anima fiera e nobilissima.
Wagner - a sua volta - il culto della Patria lo aveva inteso e reso, ma in tutt’altro modo; rifacendosi cioè alle popolari tradizioni storiche ed alle leggende mistiche, poscia alle leggende mitologiche del popolo germanico. Ecco allora Tannhäuser e I Maestri Cantori, Lohengrin e Parsifal, infine I Nibelungi.
Ma in Verdi sono i caratteri umanamente veri - anche se avvolti da ampli-ficazioni romantiche - che appaiono plasmati e scolpiti magistralmente; non le ombre evanescenti ed i simboli della leggenda poetica, per Lui inconsistenti. Nelle sue opere il dramma si svolge sempre nelle realtà concrete per la potenza espressiva del discorso musicale sia melodico che declamato o recitato; contrap-posto al teatro di Wagner, simbolico ed allegorico e nel discorso, quantunque profondo, assai spesso prolisso e tortuoso.

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La certezza che il nostro Grande, nelle prime ore della sua ascesa, seppe e volle dedicare la forza del suo genio alla causa italiana, e che quanto Egli ha dettato in quel tempo ebbe ragione di vita non soltanto dall’intelletto, ma altresì dal cuore, ne porta ad altre considerazioni.
Se l’amor di Patria, espresso attraverso la sua Arte, era forza morale in Lui congenita, si può dedurre che pur la sua musica religiosa fosse espressione di una Fede sinceramente sentita e profonda.
In questi ultimi tempi si è molto parlato della religiosità o della miscreden-za di Giuseppe Verdi. Si è arrivati perfino a creare le prove, alquanto azzardate, del suo ateismo. Lui che venerava Manzoni al modo che sappiamo, Lui ateo? Che sotto l’assillo della creazione, durato sino all’84° anno, non abbia trovata la via delle pratiche religiose o ad esse sia rimasto indifferente; che gli eventi politici lo abbiamo scostato da una cerchia di persone e da elementi cui sentiva di non potersi amalgamare, non significa che nel suo animo si fosse spenta la fiaccola della fede nell’aldilà. Come non si sarebbero potute creare le melodie corali passional-mente nostalgiche del Nabucco e de’ I Lombardi senza una gran fede nei destini della Patria, altrettanto noi riteniamo non avrebbe Egli potuto tracciare un quadro sì grandioso e terribile quale il "Tuba mirum" ed il "Rex tremendae maje-statis" nel "Dies irae" della Messa da requiem: né, arrivato agli ultimi anni di vita, fermarsi a commentare in senso esegetico il Te Deum ambrosiano - come si rileva dalla lettera 1° marzo 1896 inviata a chi detta il presente scritto - senza aver sentita la sublime bellezza e provato il grande conforto della speranza nella vita futura. Wagner, luterano dalla nascita, un attimo innanzi la sua morte, nel chiudere in modo celestiale il mistico cammino del puro folle - Parsifal - che ricevette raggio di vita dall’idea cristiana, canta sublimemente: "Erlösung dem Erlöser!", "Redenzione al Redentore". Verdi, più accosto alla dottrina cattolica, alla chiusa del Te Deum - ultima sua fatica - si innalza ancora più cantando, dapprima su una sola nota cui risponde lo squillo della tromba dell’Apocalisse, e con una sola voce che tutte le altre raccoglie sulla soglia dell’Eternità: "In te Domine spe-ravi non confundar in aeternum!".
E per noi Verdi, checché ne dicano i dissenzienti, ha chiuso il ciclo del suo grande pellegrinaggio sulla terra da italiano e da cristiano!
In un certo momento innanzi che Falstaff sorgesse sulla scena a rivelare un nuovo aspetto del genio possente di Giuseppe Verdi, nel campo del decaden-tismo intellettuale e della critica spicciola, pur ammettendo la grande ascesa progressiva compiuta dal Bussetano, era diventato segno di raffinata comprensione e di acuta penetrazione affermare che ciò si dovesse all’influenza esercitata su di Lui dall’arte di Wagner. Questo criterio critico era abbastanza diffuso, allora; ma più infondato e superficiale non si sarebbe potuto concepire. L’arte di Verdi - in antitesi assoluta, tanto nel corpo che nell’anima, a quella di Wagner - avrebbe ricevuto soffio vivificatore da Lohengrin e da Tristano? Ridicolo asse-rirlo!
Wagner erige a sistema l’uso dei leitmotiven, cioè lo sviluppo frammentario dei temi che caratterizzano i personaggi e le diverse situazioni. Verdi invece si muove assai diversamente. I temi dati ai suoi personaggi ritornano nella loro compiutezza; difficilmente però si frazionano. E comincia Egli risolutamente la sua prima evoluzione col Trittico Rigoletto, Trovatore e Traviata quando è presu-mibile che di Wagner non conoscesse nulla, o ben poco.
Dopo il Don Carlos - che di wagneriano non risente minimamente, perché il modo di esprimersi dei suoi personaggi, rapido e conciso, è in assoluto con-trasto col declamato di Wagner assai sovente prolisso e verboso, - viene Aida.
Qui la figura di Verdi, rimanendo sempre la stessa, si trasforma radical-mente. Il modo di cantare, di armonizzare, di istrumentare? Personalissimo e lontano da ogni atteggiamento o procedimento che accenni alla maniera wagne-riana. Arrestiamoci a ricordare qualche particolare.
Rigoletto nell’ultimo atto, nell’ora della supposta vendetta, è lì, in riva al fiume con un cadavere innanzi a sé; quello che egli crede del Duca di Mantova. Come si esprime? Forse alla maniera di Telramondo? No! È ben più scultoreo, tragico e potente. "Egli è là morto! Ah sì vorrei vederlo! - Ma che importa! E ben d’esso. Ecco i suoi sproni! - Ora mai guarda o mondo. Quest’è un buffone ed un potente è questo!"
Il soliloquio di Otello: "Dio mi potevi scagliar tutti i mali della miseria, della vergogna"... e l’ultima finale solenne invocazione che assurge alle più alte sfere della lirica: "Niun mi tema se anche armato mi vede - Ecco la fine del mio cammin. - O Gloria, Otello fu" tutto questo, pur nei mezzi esteriori, ha nulla di comune certamente con quanto ha creato Wagner.
Nel "duetto" dell’incontro, ed in quello rassegnato dell’addio fra Elisabetta e Don Carlos, sì passionali; nel "duetto" dell’ultimo atto di Aida e Radames; nel primo "duetto" di Desdemona e di Otello tanto commovente, aleggia forse l’acuta e spasimante sovraeccitazione di Tristano ed Isotta? Neppur lontanamente! L’"Esultate" di Otello presenta punti di contatto col grido "Nothung! Nothung!" di Sigfried? E Falstaff, ne’ suoi svariati, grotteschi atteggiamenti si accosta mai a Beckmesser? Nannetta e Fenton, se pure si incontrano in scene quasi identiche, ne rammentano forse gli accenti amorosi di Eva e di Walther? No! Perché Verdi ha parlato sempre il proprio linguaggio senza bisogno di appoggiarsi ad altri. E lo ha parlato per le labbra de’ suoi personaggi, distinguendo sempre l’uno dall’altro.
Troppi nomi dovremmo qui ripetere onde corroborare il nostro asserto. Da Gilda a Violetta, da Manrico a Don Alvaro, da Alfredo a Don Carlos, da Elisa-betta a Desdemona... tutti diversi l’uno dall’altro. Si potrebbe ripetere questo per Wagner? Kundry - ad esempio - nella scena del giardino al Castello di Kling-sor, non parla talvolta al mondo di Isotta nel bosco che occulta la sua passione irre-frenabile e dalla quale - per virtù magica di un filtro - si sente come straziata? Né soltanto per quello che si riferisce all’eloquio amoroso, ma ancora per tutto ciò che - con torturanti armonie cromatiche - accompagna l’accendersi della colpevole passione, mentre lo strumentale, di fuoco anche quando si frena e si nasconde, tutto avvolge in una inebriante atmosfera di sogno.
Kundry tentatrice si trova d’innanzi a Parsifal forte contro ogni sedu-zione del senso. Risultano dalle grandi pagine wagneriane le profonde differenze psicologiche che intercedono fra l’anima del "puro folle" e quella di Tristano?
È facile accorgersi che non sempre. Ed è precisamente questo che per i personaggi principali dei drammi lirici verdiani non avviene, mantenendo essi sempre ben scolpite le proprie caratteristiche.
Ma procediamo oltre ed accenniamo ad un fatto storico nuovissimo nei dominii dell’arte quale è sorto da un quarantennio ad oggi e che - in ispecie dopo il diffondersi del wagnerismo e di tutti gli altri sistemi venuti poi - mai sarebbe stato possibile presagire. Vogliamo dire della reincarnazione e della rinascita, in un nuovo clima spirituale, dei personaggi verdiani.
È teoria da noi più volte enunciata, che un’opera d’arte possa essere riguar-data come un prismatico blocco di cristallo collocato innanzi ad una luce qualsiasi, che a seconda del punto di osservazione, può dare riflessi tra di essi i più contrastanti. Pei personaggi della prima e seconda maniera verdiana - da Nabucco a La Forza del Destino - è avvenuto appunto questo: che tutto intorno ad essi si è rinnovato. L’enorme popolarità da essi raggiunta avea traboccato in cento guise; dal teatro alle sale di divertimento; dalle osterie alle piazze. Di conseguenza era logico che le melodie audaci ed infiammate dettate dal Bussetano, ripetute dai personaggi da Lui creati, passando dai teatri, pur di secondo ordine, alle ribalte delle vie cittadine, e magari anche delle campagne, divenissero pane quotidiano delle folle desiderose di abbandonarsi voluttuosamente all’onda dei ritmi animati e violenti che loro si offrivano. Né soltanto ché pure pei chiassosi e sgargianti indumenti di cui tali melodie erano rivestite, il popolo si entusiasmava appassionatamente. Le famose cabalette fecero anzi le spese di quelle ore di popolari febbrili entusiasmi.., cui gli aristocratici del-l’arte sdegnarono di accostarsi.
Anche per le vesti esteriori di tante melodie, parvero costoro allontanarsi lasciando che la popolarità verdiana divenisse esponente di un’arte, a loro giu-dizio, inferiore. Ma come si ingannavano quei dissenzienti! Specie dopo la duplice rivelazione di Otello e di Falstaff, venne l’ora nella quale il punto di osservazione dell’arte medesima, attraverso il blocco di cristallo prismatico cui si è accennato, doveva variare.
Il processo di resurrezione e di reincarnazione dei personaggi del teatro di Verdi, per verità, data da parecchi anni. E fu giusta, spontanea reazione avverso una campagna stolidamente aggressiva contro la musica italiana dell’‘8oo in genere, e contro l’arte di Verdi in ispecie.
Se le innumerevoli rappresentazioni delle opere verdiane nei teatri popo-lari dell’Italia e dell’Estero avevano lasciato germogliare attorno ad esse arbusti spinosi e gramegne parassitarie, non è men vero che appunto questo mezzo appa-rentemente inferiore valse a tener viva nel cuore delle generazioni la fiaccola della fede nell’Arte del Grande di Busseto, dagli ortodossi refrattari giudicata quale arte limitata e... sorpassata.
Un interprete insigne, avanguardista dei più audaci, il cui nome è corso e corre sulle labbra di tutti così come il suo ricordo è vivo nel cuore di ognuno di noi, poté un giorno dal Teatro alla Scala far rivivere sotto nuova luce e reincarnare così nuovi aspetti e nuovi accenti passionali Trovatore e Traviata, Leonora e Manrico, Violetta ed Alfredo.
Ah! la scena del giuoco nella Traviata ed il successivo "duetto" e "con-certato" sotto la sua bacchetta, quale rivelazione! E da quel giorno pei ro-mantici personaggi verdiani, fino ad allora ritenuti da molti quali soggetti da museo etnografico, è cominciata la nuova vita realmente rivissuta. Il bagaglio delle superstrutture decorative veniva per tale modo castigato; le stesse forme esteriori proprie al periodo storico appena sorpassato, e che non facevano paura più neanche agli esteti puritani i quali dapprima non avrebbero tollerata al ri-guardo alcuna concessione, accettate e riammesse in pieno... al corso legale. Aveva vinto l’anima collettiva del popolo: l’anima della folla!
Gli è che si comprese come entro le ridondanti pagine verdiane si celassero delle anime e delle passioni vere, dei caratteri e dei sentimenti umanamente veri, trasformatisi nei mezzi di espressione, ma sostanzialmente integri. E si ebbe così la nuova estetica verdiana della quale entusiasticamente, come s’è potuto rilevare in queste ultime settimane, i giovanissimi (non diciamo i giovani di ieri, oramai vecchi convertiti per opportunità) si son fatti paladini e difensori ad oltranza. E salutiamoli questi giovani coraggiosi, col saluto romano!
Potrebbero i personaggi wagneriani trasformarsi come si sono trasformati i personaggi verdiani, adattandosi alla nuova estetica ed ai nuovi tempi? No! Essi rimangono là nel loro cielo sidereo quali li conoscemmo da oltre mezzo secolo, né potrebbero rinnovarsi o reincarnarsi perché su di loro incombe la fissità del mondo leggendario da cui sono sorti, così come pel fatto d’essere ormai avvolti nel nimbo crepuscolare che li circonda per il presente e per il futuro.
Mutare d’aspetto? Assurdo immaginarlo!

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Al principio di questo scritto, parlando di Wagner ai primi anni della sua luminosa ascesa, dicevamo: "Il pensatore che riverserà poscia con tanta prodi-galità scritti critico-filosofici discussi, discutibili, ma densi di idee - se pur con-fuse ed arruffate - già si manifesta arditamente".
Da quel momento le sue pubblicazioni su siffatti argomenti divengono numerosissime. Oltre un centinaio! Per mezzo di esse Egli si dà a propugnare arditamente i propri princìpi estetici cercando d’infirmare e di combattere contro tutto quello che poteva rappresentare l’opposto delle sue tendenze e delle sue vedute artistiche. E divenne polemista, non sempre imparziale e sereno, ma batta-gliero ed audace. Romantico per temperamento si levò in armi contro il romanticismo che non poteva corrispondere al suo "nuovo ideale drammatico". Da allora "comunicazioni pubbliche ai suoi amici", poscia opuscoli "intorno al modo di rappresentare le sue opere", infine quella trattazione vastissima in due volumi che porta per titolo: “Opera e dramma” nella quale le sue teorie estetico-filosofiche sono esposte e sostenute con un’ampiezza oltre ogni dire impressionante.
Verdi, cosa avrebbe potuto contrapporre di simile? Null’altro che la sua arte ed il suo modo di intendere il teatro. Non dettò opere di critica né di filo-sofia il nostro Maestro, ma poiché fu riccamente prodigo di importantissime epistole indirizzate per lo spazio di lunghi anni, a molte persone meritevoli delle sue confidenze, gli è ben certo che in esse si custodiscono tesori di osservazioni che potrebbero anche rappresentare patrimonio intellettuale e spirituale siffatto da meritare d’essere raccolto, meditato, studiato ed illustrato.
Dal ricco Copialettere di Alessandro Luzio e di Gaetano Cesari; dall’Epistolario pubblicato dall’Alberti; dalle lettere indirizzate agli amici senatori Piroli, Conti Arrivabene, Contessa Clara Maffei potrebbero risultare ed emergere consi-derazioni ed ammaestramenti tali da costituire una propria e vera antologia d’ordine storico, critico, estetico, morale. Poiché se Verdi ha sdegnato la vana retorica del saccente, non è detto che Egli non si sia interessato dei problemi riguardanti la vita dell’Arte, del pari che l’andamento politico-sociale d’Italia.

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Verdi e Wagner, artisti creatori di genio, sono stati qui studiati con qualche attenzione; messi di fronte questo a quello, per concludere che nessuna affinità li accosta, rappresentando essi due diverse tendenze di razza, di cultura, di edu-cazione.
Sorti e formatisi in modo affatto diverso l’uno dall’altro, nessun punto di contatto si potrebbe scorgere al certo nell’arte del latino in confronto a quella del germanico. Qualcuno ha voluto asserire che a condurre Verdi sulla via della mira-colosa evoluzione compiuta da Aida in poi, abbia contribuito l’affermarsi in Italia della riforma wagneriana. Noi siamo di diverso avviso; e cioè che Verdi si è elevato perché il suo genio, la sua spiritualità sempre desta, la sua stessa psicologia sempre fervida ed in azione lo hanno condotto là dove doveva arrivare ed è arrivato.
Ma sotto altri aspetti osserveremo ora i due più Grandi Musicisti lirici del secolo XIX. Sotto l’aspetto delle loro qualità morali di Uomini nella società e nella vita.
Anche in questo si presentano in antitesi l’un dall’altro. Megalomane, avventuroso, audace e talvolta cinicamente egoista, Riccardo Wagner, per arri-vare al suo precipuo intento, quello di vincere e di dominare dispoticamente, non badò a mezzi. Purché gli servissero e gli fossero utili, tutto mise in atto. E si sa di circostanze clamorose da cui, senza scrupoli e senza esitanze, trasse partito in proprio favore. La sua vita sta a provarlo. Rivoluzionario quando parvegli di non ottenere nelle alte sfere gli appoggi e gli aiuti che reclamava, allorché presso le Corti germaniche, reali o granducali, trovò largo favore - ed in questo Franz Liszt gli fu generoso amico e protettore - divenne aulico corti-giano senza riserve.
Giuseppe Verdi invece fu il rovescio della medaglia. Nobilmente austero fin dai primi momenti della sua incerta e tribolata esistenza, riservato e parco nelle abitudini, ordinato nei minimi ed intimi particolari della sua operosa giornata, capace di amministrare e di economizzare con avvedutezza i propri capitali, di disporre i lavori campestri, di regolare tutto ciò che poteva riguardare le sue aziende agricole, di presentarsi magari sui mercati per le contrattazioni di derrate o di bestiame, arrivò al punto di insegnare ad una certa categoria de’ suoi dipendenti, in qual modo si dovevano tenere e curare le stalle. Nel suo stesso testamento non mancò di disporre della durata dell’uso dell’acqua dei diversi canali irrigatori sui terreni di sua proprietà lasciati a legittimi eredi. Tutto questo cosa prova? Che l’uomo era sano di mente, perfettamente equilibrato ed ordinato; doti non facili a trovarsi al certo fra gli artisti di ogni tempo. Questo per noi.
Al contrario per altri la predilezione all’ordine ed alla disciplina che in Ver-di emergeva in modo assoluto, divenne segno di tirchieria, di deficienza e di... anormalità. Era invece la gran dote innata di cui va ricco il popolo delle nostre campagne: quella che a Lui, sul terreno pratico della realtà, permise, tra l’altro, dar vita a ragguardevoli istituzioni di beneficienza edificate precisamente sulle fon-damenta di un perfetto equilibrio mentale, spirituale, psicologico.
C’è traccia nella vita di Wagner di atti di generosità che possano uguagliare quelli compiuti da Verdi?
Secondo i postulati della moderna psichiatria ed antropologia il modo di comportarsi nella vita privata del Bussetano costituiva né più né meno che una anormalità. Sì perché il genio - secondo gli assiomi scientifici di Max Nordau, di Cesare Lombroso e di Enrico Ferri - inevitabilmente, deve accompagnarsi alla paz-zia. Provare che Wagner - uomo di genio da tutti ammesso - nella vita privata fu un anormale, è stato facile. Ma come provare questo sul conto di Verdi? La stes-sa rigida normalità degli atti amministrativi in Lui, costruttore d’una meravi-gliosa fecondità creativa, non veniva forse a costituire la prova palese della sua... anormalità, e se vogliamo anche... della sua pazzia?
Mentre dettava Falstaff Egli si occupava della potatura di un bosco in riva al Po, contrattando la vendita del legname che ne cavava. Ed ecco un’altra del-le pazzie... dell’uomo di genio!
Ci fu però chi rise, in quegli anni lontani, degli assiomi escogitati dagli scien-ziati di allora. Ferdinando Brunetière lanciò il grido abbastanza eloquente: la bancarotta della scienza!
Giulio Fara in un ben diffuso e circostanziato studio apparso sia dal 1912 ne La Cronaca Musicale di Pesaro "Genio e ingegno musicale: Wagner e Verdi" a questo proposito disse delle superbe verità. La scienza che tutto vorrebbe inquadrate ed incasellare in un determinato sistema, come potrebbe pretendere, nel campo dell’arte, di creare un assoluto intorno al quale tutto converga per po-sitiva legge biologica?
Ma la stessa virtù spirituale di ogni uomo di genio, per la forza imponderabile che lo regge, può variare dall’uno all’altro soggetto. Come mettere di fronte su un binario unico di deduzioni, ad esempio, anime sì dissimili quali Dante e Pe-trarca, oppure Leonardo e Michelangelo?
Noi adunque giudichiamo Verdi e Wagner genî entrambi, che in arte, pur differenziandosi, senza mai incontrarsi, si equivalgono. Nella vita privata essi rimangono altrettanto lontani l’un dall’altro, perché se Verdi ebbe il genio del-l’ordine, del metodo e della disciplina, frutto delle sue origini campagnole, Wa-gner, genio esuberante anch’esso, si formò e visse nelle più fantasiose irrealtà che gli permisero di arrivare ai fastigi della gloria cui ambiva, ma attraverso vie, metodi e sistemi su di cui il fiero Bussetano non pensò mai di appoggiarsi.
E come potranno mantenersi i pubblici italiani di fronte a Wagner, ed i pubblici tedeschi di fronte a Verdi? Con la più assoluta imparzialità, talvolta anzi con la febbre dell’entusiasmo; questo è assiomatico.
Già da molti anni tale fatto si verifica tanto sulle scene italiane che su quelle tedesche. Il genio si è imposto pur alle differenze di razza e di educazione, ed ha trionfato trascinando l’anima del popolo verso le regioni della gioia e del gaudio perenne, senza confini, immortali!
Verdi e Wagner, pronubi di siffatta elevazione spirituale, vegliano sull’ani-ma dei due popoli latino e germanico. Ed il domani risplenderà ancora e sempre sulla via radiosa che loro sta innanzi.

Giovanni Tebaldini

(da Verdi. Studie e memorie di AA.VV., a cura del Sindacato Nazionale Musicisti, nel XL anniversario della morte, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1941, pp. 157-175; ripubblicato in Idealità Convergenti – Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini, D’Auria Editrice, novembre 2001, pp. 224-234.

[Oltre ai due saggi di Tebaldini, nella pubblicazione del 1941 vi sono quelli di: G. Mulè – A Giuseppe Verdi gloria; C. Di Marzio – Verdi come esempio; R. Farinacci – Celebrazione di Verdi; M. Bontempelli – Spunti verdiani; E. Magni Dufflocq – Commento alla vita di Verdi; A. Della Corte – Ottocentista e fuori del suo tempo; R. Giraldi – Dall’"Oberto" a "La Battaglia di Legnano"; G. Gavazzeni – Dalla "Luisa Miller" al "Don Carlos"; M. Lessona – Dalla "Traviata" all’"Otello"; D. Alderighi – Falstaff; F. L. Lunghi – La Messa da Requiem di Verdi; G. Barblan – Il quartetto e la musica da camera; A. Toni – Note di tecnica verdiana; A. Parente – Intorno alla concezione drammatica di Verdi; Gaianus – Verdi uomo di teatro; G. Pannain – Umanità e stile nell’arte di Giuseppe Verdi; R. De Rensis – La collaborazione Boito-Verdi; U. Rolandi – Libretti e librettisti verdiani dal punto di vista storico-bibliografico; G. Adami – Librettisti e poeti verdiani; A. Lualdi - Verdi e i direttori d’orchestra; G. Adami – Dalle luci della gloria all’ombra della Casa di riposo; A. De Angelis – Scenografi e figurinisti verdiani; L. Ronga – Difficoltà della critica verdiana; F. Mompellio – Verdi e gli editori italiani e francesi; F.P. Mulè – Verdi, Cavour, Manzoni; F. Ghisi – Verdi popolaresco; L. Bonelli – Verdi uomo di teatro; O. Tiby – Verdi e il suo tempo; A. Damerini – Verdi e il nostro tempo; A. Bruers – La personalità di Verdi; R. Liguori – Giuseppe Verdi rurale; G. Guerrini – Verdi e le scuole di musica; E. Magni Dufflocq – La Casa di riposo; A. Aimi – Centro Nazionale Studi Verdiani; A. Sangiorgi – Visita alla mostra verdiana; G. Rossi-Doria – Le lettere; G. Nataletti e A. Pagani – Le medaglie di Giuseppe Verdi; C. Crispolti – Cronologia della vita di Giuseppe Verdi; R. Giraldi – Bibliografia essenziale)]