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GIORGIO VIGOLO

ROSENKAVALIER

ROMA - 28 dicembre 1954

MILLE E UNA SERA ALL'OPERA E AL CONCERTO

SANSONI 1971
pp. 263-265

Una assai soddisfacente edizione in lingua originale del Rosenkavalier di Richard Strauss può considerarsi quella che l'Opera di Roma ha ospitato nel suo palcoscenico, pur essendo quasi intieramente da ascrivere allo stile e alla preparazione perfetta di interpreti, quali Maria Reining, Rita Streich, Sena Jurinac, Hilde Rössel Majdan, per non nominare che le donne, davvero bravissime. La sintesi degli elementi orchestrali e vocali è stata poi retta con braccio fermo e impeccabile dal direttore Rudolf Moralt, la cui concertazione - anche senza librarsi sulle ali di un'alta ispirazione interpretativa - può essere citata ad esempio di autenticità stilistica e di misura, nella riproduzione perfetta della difficile partitura. Lo spettacolo si è così sollevato a un livello insolitamente nobile per questa scena; è stato improntato a una responsabile dignità di arte, che può suonare severo ammaestramento ed esempio; ed ha creato le condizioni più favorevoli per riprendere contatto con un'opera in musica, fra le poche che, dal primo Novecento, abbiano doppiato la metà del secolo, confermando una piena vitalità, che il giudizio ormai storico ha ratificato.
Ma vorremmo anzitutto ricordare la fedele, mai interrotta collaborazione del poeta Hofmannsthal col musicista. Nel caso del Rosenkavalier ci troviamo di fronte ad opera letteraria e di teatro che potrebbe da sola fare spettacolo, con la sua musica di parole e di verso, con quella lingua screziata di francese e d'italiano, ma soprattutto di viennese. Ma Strauss, ha creato l'equivalente armonico di quel linguaggio, senza per questo ardirsi di togliere una sola parola al testo del suo poeta. Anzi i suoi amici dicevan scherzando che nel raptus compositivo, aveva delle volte investito e rivestito di note anche qualche didascalia.
Ciò che mi sembra, poi, meno compreso e posto nella sua giusta luce, è il rapporto di Strauss con Wagner. Non era ancora cominciata la generazione degli edipìni o dei camìti che ingiuriano i padri o ne scoprono con turpe irrisione le pudende. Strauss ha il culto dei suoi grandi predecessori, di Mozart e dei Romantici, in seguito anche di Wagner di cui raccoglie, per così dire, lo scettro musicale meritandosi l'epiteto di «Richard, der Zweite», di Riccardo II. Ma non ha fatto mai dell'epigonismo; non è da confondersi con i tanti epigoni wagneriani che accettavano ciecamente da Wagner i suoi dogmi, come oggi l'epigonismo schönberghiano fa con il suo profeta. Invece Strauss è l'esempio della forte personalità che, per essere se stessa, trova l'esatto punto di congiuntura storica dove inserirsi, restando ugualmente lontana tanto dal complesso d'Edipo, quanto dal complesso d'autorità.
Non è parricida, ma non è nemmeno il pavido continuatore, legato alla sottana della mamma tradizione. Strauss non può infatti dirsi un «wagneriano»: la sua vita e la sua arte sono state lunghe. Nato nel 1864, cominciò a pubblicare musica nell'81 e propriamente «musica da camera», ché in questo genere egli fece il suo ben proficuo tirocinio; nel cóté de chez Brahms, dunque. Tutt'altro che wagneriano, Strauss giovanissimo aveva i suoi numi in Mendelssohn, in Schumann, militava cioè in campo avverso al cosiddetto Neudeutschtum, al «neoteutonismo» dei «Giovani Tedeschi», capeggiati da Liszt e da Wagner. Ma il suo destino di musicista doveva attirare sulla sua strada ciò di cui egli aveva bisogno per inoltrare e divenire se stesso nel presente attuale del suo proprio tempo; - e fargli incontrare in Alexander Ritter l'uomo che doveva convertirlo a Berlioz, Liszt, Brahms, e fare del musicista da camera Strauss, l'autore dei poemi sinfonici e delle opere. Dopo essere rimasto lungamente come Oreste, o come Achille in vesti femminee, lontano dal cielo della patria e del suo effettuale presente - egli vi tornò con armi lucide e possenti, rivelando la straordinaria energia di urto, e la sève di una barbarica iridescente salute del suono, che prima era rimasta legata e magata nel pentacolo incantatorio di un romanticismo classicístico.
Così Strauss attraverso Wagner si rivelò a se stesso. Ma il suo originario non-wagnerismo continuò ad essere operante; e per questo egli, come nel suo fondamentale istinto di salute, di sana e forte borghesia, di poesia domestica - rimase opposto al decadentismo e all'erotica wagneriana, - così nello stile non fu mai soggiogato o paralizzato dal dogma del cromatismo o del leitmotiv a orologeria: conservò bensì vigoroso il senso della forma, della architettura musicale in cui poté versare e arginare le incandescenti colate della sua orchestra.
La sua stessa natura lo portava peraltro a consuonare più che con altro col Wagner dei Maestri Cantori. È vero che Strauss si riposò nel Cavaliere della Rosa dalle furie isteriche di Salomè e di Elektra, come Wagner si era riposato nella Norimberga di Hans Sachs da quelle di Isotta. Ma in Wagner funzionava una tensione dialettica fra i due poli, altrettanto carichi di elettrico: mentre questa dialettica in Strauss non c'è. Il suo non-wagnerismo era anche un non-erotismo. La hybris di Salomè e più di Elektra è già espressionismo, non decadentismo tristànico. Invece nel Rosenkavalier c'è un terreno comune con i Maestri Cantori, anche se la Norimberga cinquecentesca vi si è trasformata nella Vienna di Maria Teresa e Hans Sachs nella Marescialla.
Meglio si potrebbe dire che Strauss abbia intuito l'anima femminile e materna di Hans Sachs e con la sua costola abbia plasmato la più umana delle sue eroine. Il finale del primo atto (del Rosenkavalier) trova un accento inconfondibile di squisita patetica tenerezza nel tono di morente splendore e di rinuncia all'amore, della donna matura; un tono dove il «sigfrididilliaco» si mescola, per così dire, al «viennesismo», in un alone perlaceo di ricordo mozartiano. Ecco i tre elementi da cui il Cavaliere della Rosa ha fiorito sul terreno del walzer viennese, che è poi la sua concretezza di linguaggio ben radicata nel «popolare».
Ma mentre l'autunno della Marescialla annega nello specchio della sua toletta fra nuvole di cipria, come il tramonto stesso della musica fine di secolo e dell'ultimo tardo romanticismo decadente, la scena della «presentazione della rosa» nel secondo atto riporta nella partitura qualche cosa di albeggiante, di argenteo come il rinascere di una sensibilità vergine nell'amore dei due giovani: e qui si deve cercare la più pura vibrazione del più autentico Strauss nella sua genuina forza di salute e di gioventù.
Qualche cosa di sacro e di puro si esprime in quel miracoloso fa diesis maggiore, vestito anch'esso d'argento, negli accordi della celesta, come la livrea dell'angelico cavaliere con la sua rosa in mano.
La musica di ogni tempo non conosce molte altre situazioni più magiche e affascinanti di questa, una luce di più assoluta felicità, nel fremito dell'amore nascente. Strauss vi ha creata un'atmosfera di rapimento, di estasi lieve, dove quasi balena il ricordo della Annunciazione, quando il giovane cavaliere, fulgente come un arcangelo, presenta la rosa alla giovane Sofia. E c'è insieme la magia di Lohengrin quando arriva sulla Schelda, c'è lo stesso bagliore: qui di un appena suggerito misticismo, come nel rococò di una chiesa di Vienna, ove sia entrato il sole dall'alto. E come regge questa musica anche nello spartito, e che grande piacere è rileggersi lo stupendo terzetto finale, o il Preludio del terzo atto con la sua pantomima, o il Madrigale italiano «Di rigori armato il seno...»! Musica che resterà viva finché vivrà il piacere di «far musica».