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GIANNOTTO BASTIANELLI

RICCARDO STRAUSS
E I «CROMATICI» TEDESCHI

LA CRISI MUSICALE EUROPEA
Firenze, Vallecchi, 1976
pp. 93-116


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Ma qualunque sia la sincerità vitale di un passato che, quando nel ricordo s'avvicini al nostro presente, non potrà che far risaltar più tragica l'insincerità e la falsità anti-vitale di questo presente, non bisogna, ripeto, gettarsi in quello sconforto infecondo e amaro che volgarmente si chiama pessimismo. Pessimisti ci si può e ci si deve proclamare solo se con ciò vogliamo significarci consci dell'immensa probabilità di morte casuale o necessaria che minaccia la vita, e, nel nostro caso, se ci vogliamo opporre in nome della nostra rinascente sincerità all'insincerità generale del momento storico presente. I grandi secoli religiosi come il 200 e il 300 e, soltanto parzialmente, il 400 e il 500, sono ormai lontani da noi e l'ammirazione per essi, non deve degenerare in calmo quanto comodo rifugio di solitari. Di fronte al nostro presente dobbiamo esser pessimisti, perché nessuna (salvo pochissime eccezioni) delle posizioni vitali moderne ci par degna non della vita di questo o di quel secolo, ma della vita, della vera vita ossia dobbiamo riconoscere che esso non soddisfa a quelle ineffabili condizioni di vitalità cui soddisfano molto più pienamente altri secoli. Ma la vita si vive con la vita, non col ricordo della vita e atto unico di vita è continuamente il presente. Per quanto divenuto arido e sterile oggi il cuore dell'uomo non può esserlo a tal punto, che con una potenza di scavo addirittura eroica non se ne arrivi a trovare la particola palpitante di segreta vita ancor vergine. D'altronde, ripeto quello che già dissi nell'introduzione a proposito della ingigantita sensibilità degli artisti moderni: se è vero, cioè, che questa sensibilità poche volte com'oggi decadde in degenerazione e anormalità, è altresì vero che mai quant'oggi «la vigile coscienza umana se ne spaventò e se ne afflisse». La qualificazione non certo laudativa di decadente gratificata agli uomini più vivi del presente, se da una parte può spaventarci, da un'altra può anche rianimarci alla speranza. Uom che s'avvisa, per metà si salva.
Se dunque molti oggi compiono la metà del loro dovere verso la vita, ossia si avvisano che questa vita è in decadenza morale mi sembra che con irrefrenabile impeto, sia pure nel cuore di pochi, debba affermarsi la reazione, ossia l'altra metà del dovere consistente nel prender coscienza della pienezza della responsabilità, e cioè della totalità vitale. Ora io ripeto: non bisogna troppo temere, ed esser così di poca fede; non bisogna avvilire la rivolta della salute con una rinuncia troppo sdegnosa. Le reazioni per cui certi gruppi di volontà si pongono in recidende contrasto con il passato più prossimo, senza aver certezza del valore di continuità che il presente acquista per la sua coesione di legame con tale passato, sono, a mio parere, le più sterili, perché le più statiche. Non si vince una condizione dolorosa di vita, uscendone e ritirandosene con un suicidio più o meno parziale: ma si vince la vita con la vita, ossia non andando contro corrente, ma ponendovisi risolutamente a capo, per condurla dove non vogliamo arbitrariamente, sibbene dove dobbiamo. Ora tutto ciò, trasportato più particolarmente al caso nostro, significa che se la musicalità moderna in gran parte, anzi, specificando in ciò che non è più espressione di sensibilità naturalistica e passionale, ma religiosa affermazione dei valori vitali, è insincera, com'è insincera, oggi, la poeticità, la filosoficità, etc., ossia come sono insinceri tutti gli uomini che sviluppano tali modalità di coscienza; ciò non vuol dire che il problema di tale musicalità, sotto alcuni aspetti, infirmato nella sua risoluzione, non sia invece, sotto altri aspetti, giustamente risoluto. In poche parole la musicalità moderna è falsificata dalla decadenza del rispetto verso la vita, ma, nella sua stoffa, dirò così, non sarebbe falsa, ma sincera e, quindi bella e, quindi, nuova rispetto alla musicalità romantica e, soprattutto, non condannabile in vista di una prolungabile dominazione dell'espressione romantica.
La decadenza del senso morale; ossia del rispetto profondo verso la volontà integra, se ha portato i musicisti moderni (e, prima di essi, i poeti e i pittori etc. etc.) a rinunciare o a sfuggire obliquamente al problema centrale dell'esistere - che è, ho già detto, prender coscienza della volontà, ossia divenir responsabili -; se, cioè, impedisce a questi musicisti moderni l'unità perfetta d'una grande opera non idividualistica ed egoistica, ma cosmica e religiosa; tale decadenza di senso morale ha anche, ripeto, raffinata Paistbesis di questi musicisti, ossia la sensibilità nei problemi individuali egoistici e particolari. I romantici che, riconoscendo negativo e sterile lo scetticismo irridente dei loro predecessori, vollero una vita più calda, ma, che, al tempo stesso, com'ho già ampiamente dimostrato, furono primi a preparare la spaventevole degenerazione in cui oggi ci troviamo; i romantici, sebbene stillanti di nuova sensibilità erotica e naturalistica, non si sognarono mai di raggiungere neppur da lontano (se in parte se ne eccettuino il Beethoven della terza maniera, Schumann, Berlioz e Brahms) la delicatezza straordinaria delle possibilità d'introspezione offerteci oggi dalla musicalità che si viene per opera dei decadenti sviluppando. Ma e di quale specie è questa delicatezza? Qui, sta, mi pare tutto il nodo della questione.
Infatti contro questa delicatezza introspettiva si arrovellano i cosidetti rimasti sani. Ogni tanto qualche artista controrivoluzionario, per esempio Albéric Magnard, ci viene innanzi con piglio eroico e ci dice: «ma come mai non vi fanno schifo tante raffinatezze? Guardate ai più grandi: guardate come sono ferrei, compatti, duri, e negati ad inchinarsi a certe morbose languescenze. Se Dante o Eschilo leggessero oggi una poesia di Giovanni Pascoli o di Francis Jammes, che direbbero? o non tratterebbero tutti di infemminiti e di peggio?» - E va bene. Io son con l'artista che ha il coraggio di così parlare e apprezzerei anche la controrivoluzione del mentovato Magnard se sgorgasse, questa controrivoluzione, da un senso di vita veramente presente. Il male è che se poi io leggo la musica del Magnard e in generale l'arte dei controrivoluzionari, vedo che appunto in essa la vita presente non è combattuta con la vita ma col ricordo della vita. Il Magnard al presente errore non sa opporre in fondo che l'imitazione d'un passato che di questo errore, già l'ho spiegato, è la radice prima: il passato dei romantici. No: Debussy, Ravel, Dukas, non si combattono in nome d'una restaurazione di Brahms e di Beethoven: ciò a un occhio buono e chiaro risulta ridicolo come l'errore di chi riluttando alle conclusioni d'un problema mal posto, ne volesse mantenere e accettare le premesse erronee, astenendosi poi dalla conseguente risoluzione. Ci vuol altro oggi che confessare, con sincerità molto dubbia, anzi con bigotta sincerità di conservatore, la nostra dipendenza da Wagner per il non saper trovare un altro re cui servire. Sarebbe come se un poetucolo moderno si dichiarasse dannunziano a perpetuità, perché non gli riescisse di trovare un modello più nuovo. Ah sì!, meglio, cento mila volte meglio lo Strauss, che pur non riuscendo del tutto a liberarsi dal celebre «marchio rosso» di Wagner, spinge almeno il suo wagnerismo drammatico, sensuale, ritmico, armonico, melodico e contrappuntistico a quel limite disperato di conclusione quasi assurda, che se da un lato è l'eccesso della viltà straussiana, dall'altro pur conduce lo Strauss alla corruzione del wagnerismo e a una quasi aurora di musicalità rinnovata.
Ma, per tornare alla posa eroica dei moderni pseudo salvatori che poi per non altro si svelano che per pigri ed invidi conservatori, dirò che occorre anche togliere ogni ambiguità riguardo all'affermata, diciamo così, sgarbataggine e indelicatezza delle grandi volontà. Che Dante, Eschilo, Leopardi fossero delle coscienze veramente cosmiche e che nella loro interezza sdegnassero concentrare tutta la loro vitalità, come oggi fa il D'Annunzio, nella ricerca e nella rappresentazione di situazioni volitive troppo egoistiche e, come si dice, immorali, ciò è, per fortuna dell'umanità, abbastanza innegabile. Ma che quest'altezza morale impietrisse la loro sensibilità e la cangiasse in una sdegnosetta paura gesuitica di insudiciarsi a ficcar lo viso nei più ambigui meandri della volontà caduta in una contradizione vitale che sempre più la irretisce e la inflaccidisce, questo mi pare altrettanto, e sempre per fortuna dell'umanità, contestabile. Le grandi coscienze non le ebbero i puritani, ma se non propriamente i Villon, almeno tutti coloro che come l'Whitman giunsero perfino a sentire quale umanità terribile si rivela anche attraverso il tristo pallore dell'onanista. Le grandi coscienze, più furon grandi, più videro l'impossibilità di dar leggi astratte sul limite che separa l'errore da squillante eroico atto di vitalità. Una legge c'è, ma è ineffabile o non può adombrarsi che colle parole: vita o salute. E per essa un errore è tale che pur condannandolo o meglio pur sentendolo per quello che è - non si descriverà mai il ratto d'una monaca con l'espressione dell'atto eroico d'un santo - non toglie si possa comprendere e divinamente compatire, ossia averne lo stesso pathos; giacché, appunto, l'arte (o la conoscenza) è rivelazione d'identità di possibilità vitali. Dante dinanzi alla lussuria immensa di Francesca e di Paolo canta con immortale sapienza di compassione appassionata: ahi! lasso!, quanti dolci pensier, quanto disio... - E d'altronde, o miei rigidi puritani, io non ho affatto timore di affermare che soltanto in Dante e in Eschilo e in tutti i grandissimi io conosco dei versi di lascivia così profonda da potersi paragonare allo spasimo lascivo che torce la bellissima frase che lo Strauss e l'Wilde pongono in bocca al giovane centurione romano corrotto nella corte orientale: quanto è bella Salomè questa sera! -
La questione dunque per me non sta nel fatto che la musicalità moderna sia falsa in quanto che è straordinariamente atta a riflettere le più sinuose crisi della volontà umana sofferente di passioni infinite e ad esse soggiacente fino a prender godimento non solo della passione ma del soggiacervi; ripeto ancora una volta che sotto un certo aspetto tutta la più grande arte è stata e sarà decadente. Per chi crede che vincere il male coincida col non averne coscienza, è logico che faccia come tutti i fanatici, eroticamente abbacinati da una voluttà di purificazione, che è una specie di ascetica iconoclastia a rovescio. Dichiarare vizza e sfiorita la immensa selva lussureggiante della moderna sensibilità musicale, sol perché in essa non riusciamo a trovarci il tempio del Graal, significa essere impotenti a tal punto da non aver neppur l'idea semplicissima - di costruirvelo noi.
Poste queste necessarie premesse a capo di questi scorci di analisi sulla musicalità in fieri, e proponendomi, per meglio cogliere il calore vitale di tale musicalità, d'abbandonare, fin dove sia possibile, qualunque ripugnanza e preoccupazione per l'insincera coscienza dei modernissimi musicisti, ma anzi essendo voglioso di svelare quanta meravigliosa sensibilità trabocchi dall'opera per esempio d'uno Strauss, d'un Ravel, d'un D'Indy e di un Pizzetti; posso dunque ormai, col lettore più ardito, inoltrarmi nella selva ancor vergine della musicalità presente. E veramente somiglia alla sensazione del pioniere pronto a tutto ed aperto alla meraviglia accettante, non alla condanna reluttante, dinanzi agli incerti incontri di una tanto avventurosa esplorazione, il brivido giocondo di coraggio e di desiderio da me provato nell'accingermi all'impresa, almeno per ora, bella e promettente un'infinita, piena novità di vita: dolorosa forse più tardi, quando all'ingenuità dell'atto, succederà la riflessione del ricordo.
Cominciamo dallo Strauss.
Del muovermi da lui c'è una ragione musicalissima. Quest'uomo è vero che ancora regna, folgorandolo quasi come un Giove, sul nostro tempo. Ma chi ha l'orecchio esperto a sceverare nella presente uniformità di linguaggio musicale modernissimo ciò che dal senso musicale cinquecentesco-ottocentesco più s'allontana, vedrà facilmente che la musicalità straussiana è come il ponte di trapasso tra la musicalità romantica e la novissima musicalità dei francesi contemporanei, il quale ultimo tipo di sensibilità musicale dipende, sì, dal tipo straussiano, ma certo più di questo s'avanza nella completa liberazione d'ogni elemento sei-sette-ottocentesco (specialmente wagneriano). A riprova di ciò si ricordi quello che il Rolland diceva a proposito delle armonie aumentate del Debussy: che cioè esse non valevano a determinare la poeticissima personalità debussiana, giacché un altro musicista prima di lui le aveva scoperte: lo Strauss - il quale del resto le aveva trovate in Wagner: racconto e morte di Siegfried, (Crepuscolo degli Dei. Atto 3º) - La qual'osservazione è giustissima, per quanto il Rolland, dicendo ciò, non si accorga che la ragion tonale per cui lo Strauss adopra quelle armonie (per esempio nel Guntram) è ben diversa dalla ragion tonale cui obbedisce il Debussy, e che, anzi, la ragion tonale debussiana è molto più moderna di quella straussiana. Infatti lo Strauss non è un nuovo, ma un quasi nuovo, un supremamente corruttore del sistema antico per avere spinto questo sistema, all'assurdo estremo. Se il sistema tonale antico consisteva nell'interazione cromatico-diatonica delle tre generatrici d'un'unica scala, la scala cromatica, e se, a eccezion fatta dei miracolosi presalti in avanti per esempio in Frescobaldi, in Rossi, in Bach, si può dire che tale senso tonale, anzi tale grande linguaggio italiano-europeo si sia svolto senza interruzione di continuità, ma con una magnifica linea di svolgimento consistente nell'adoprar prima (ossia nello scoprire a poco a poco) gli armonici più prossimi alle dette generatrici, e poi, a poco a poco, i più lontani; il senso tonale dello Strauss non diverso nella generalità da quello settecentesco-romantico, consiste quasi tutto nell'adoprare e nello scoprire gli armonici più vagamente lontani delle succitate generatrici. Tuttavia se il fatto di gravitare ancora quasi tutto nell'orbita cromatica cinquecentesca-ottocentesca, spiega esaurientemente nello Strauss la ripresa di certi movimenti tonali, giudicati erroneamente dagli ultramoderni, inutili e anticromatici, da un'altra parte la scoperta accanita che tale musicista, desideroso di novità, compie delle più impreviste possibilità cromatiche - tutte del resto logicissime - lo ha fatto spesso sconfinare dall'orbita tonale cromatica propriamente detta, ed entrare in quella musicalità nuova che oggi inevitabilmente si va formando.
E tutto ciò se non depone precisamente per la definitiva immortalità dello Strauss - che nel futuro apparirà più musicista di transizione che vero rivoluzionario e meno ancora musicista d'acmè - è, storicamente, facilissimo a spiegarsi. Il grande linguaggio italiano-europeo; ossia la grande civiltà musicale durata per tanti secoli, e, verso l'800, trasmigrata dai popoli latini, divenuti scettici e conservatori per indifferente vitalità, ai popoli tedeschi mantenutisi, per ragioni che qui non ho il destro di indagare, più religiosi sinceri e vitali; il grande linguaggio italiano-europeo era giunto ormai, come abbiamo già descritto, alla sua piena maturità nei musicisti che vanno da Mozart Haydn Cherubini Spontini a Berlioz e a Wagner. Anche i popoli tedeschi, dopo l'immensa splendida fioritura di vita (o di rinnovante desiderio di vita) del romanticismo, erano, ormai esauriti. La crisis uccideva la fede. All'idealisino succedeva, figlio dello stesso comune padre Kant - il critico supremo - il positivismo materialista. Il mondo diventava commercialistico. Le questioni del presente si riassumevano in un utilitaristico desiderio di esoso e gretto benessere (ideale borghese procurante la reazione, del resto in gran parte anch'essa utilitaristica, del socialismo). La questione socialistica-capitalistica infuriava. Anche in Italia, a traverso e dopo l'incendio eroico del risorgimento, la condizione intellettuale dominata da interessi utilitaristici e materialistici era bassissima. Non pensatori né artisti veri e propri tanto in Germania che in Italia. Ma, in politica, o demagoghi o uomini politici sia pur sommi; in arte, o improvvisatori, o restauratori sia pur profondi. Così gli storici socialistoidi, e i Cavour; così i Verdi, e i Carducci. Allo stato d'anima carducciano romanticamente conservatore e restauratore del classicismo, corrisponde nei popoli tedeschi quello del musicista Brahms.
Vi era, è vero, in musica, chi cercava andare più in là, chi non voleva ancora cadere nella solitudine un po' retorica d'una restaurazione: ed ecco i Wolf e i Bruckner - Ma, ohimè: Wagner ha aperto, sì, un'immensa novità di via, ma l'ha egli stesso tirannicamente occlusa con l'enormità della sua opera. Consoliamoci col contrappunto e col credere che, per essere i primi romantici, come ho io stesso dichiarato, infinitamente ancor classici, occorra saltare indietro a Wagner ed essere romantici o nuovi, sì, ma il più settecentescamente possibile.
Questo in fondo pensava Brahms.
Comunque è ben certo che di quell'ambiguo momento dell'arte, tanto il Carducci quanto il Brahms furono le coscienze più significative, nell'uno e nell'altro la restaurazione delle forme classiche essendo resultata l'unica forma di aisthesis del tempo. Nell'uno e nell'altro la volontà, vitale sì, ma non plebea, a poco a poco diviene come isolata e sorpresa di sentirsi sola, nel mondo circostante, giacobino all'eccesso. Invano, non il Brahms, ma il Carducci crede di risolvere il dissidio, cercando di farsi, come il Verdi o il Berchet, un improvvisatore popolaresco. La parte essenziale dell'opera del Carducci, come quella tutta del Brahms, è pervasa da un autocriticismo stilistico antipopolare per eccellenza. E ciò non dipendeva dal fatto che gli artisti fossero di volontà antipopolare: ma che all'inverso la volontà popolare era inestetica per eccellenza. Altro che arte pura voleva il bell'antipatico popolo d'allora. Voleva «panem» democratico e «circenses» melodrammatico-coreografici.
E quello che colpisce di più nell'arte brahmsiana e in quella parte, dirò così, autentica dell'arte carducciana, è quella nostalgia non si sa quasi bene se della bellezza antica o della necessità di bellezza antica. - Spaventevolmente sole sono queste due grandi coscienze che troppo ricordano e poco vaticinano. Non so se è venuto ancora fatto di paragonare certi spunti poetici carducciani, come quelli contenuti nelle poesie maremmano-toscane, sconsolatissime e fiere (Nostalgia, San Martino, Idillio Maremmano, etc.), con il cupo abbandono in un ricordo di paesanità dolorosa e quasi ottusa, espresso per esempio nella nenia per piano (sui versi
Schlaf sanft, mein Kind, schlaf sanft und schön!
Mich dauert's sehr, dich weinen sehn.)
o nell'andante-scherzo della 2" sonata per violino del Brahms.
«La mia volontà, sembra dire quest'arte, aveva creduto nell'adolescenza ribelle, di palpitare con tutto il presente in un unisono immenso. Ma questo presente non ha capito che l'amavo. Io stesso non ho saputo amarlo: e ho dovuto rinchiudermi nella mia fucina di artifici, ed ecco, ora, la mia pianta è percossa e inaridita. La vita tutt'intorno diventa sempre più vile; tutto è demagogia tracotante. L'amore è l'unica azione bella che ci sia ancora permessa: ma anch'esso spenge lascivo le volontà più appassionate e più fervide. Oh le mie strane selvagge campagne! Oh i loro abitanti rudi e barbarici! Perché non ho più il potere di voler ciò che essi vogliono? Non è, la via che ho scelto, senza colpa mia, errata? Datemi dell'amore! Che esso faccia in me rifiorire il tristissimo ricordo di grandi cieli nuvolosi, di obliqui sprazzi di sole su campagne infinitamente cupe, ma così forti, ma così più pure di tutta questa marmaglia cittadina e civile!».
Natura magnificamente dotata, volontà che ha sempre potuto quanto ha voluto, lo Strauss, come ognun sa, fu da prima brahmsiano-beethoveniano, ottocentesco-prewagneriano. Più del Bruckner così poté formarsi una specie di base eclettica da cui egli poté poi nella sua successiva conversione al wagnerismo attingere se non proprio una originalità individuale che infondesse al suo wagnerismo una novissima potenza trasformatrice, almeno una specie di originalità altrui, che, pur fatta un po' come la veste d'arlecchino, impedisse a questa veste di tingersi dell'unico colore wagneriano. Lo Strauss non è completamente wagneriano; ha troppa vita in sé per non essere anche più che wagneriano; ma non è mai abbastanza sé, per risolvere il problema della personalità e della liberazione dal wagnerismo. A ciò supplisce con l'imbottire questo wagnerismo di mille, certo, ammirevoli risorse «altristilistiche», non con l'unico atto dì chi si possa davvero liberare da una volontà che lo domini: col non sostituirle una schiavitù diversa, sibbene con la creazione d'una volontà del tutto propria. Ma lo Strauss, sebbene così magnificamente musicista, era da tanto? poteva far ciò?
Certo la grande linea della musica moderna, se rispetta accanto e dopo l'esplosione tirannica della creatività wagneriana, la faticosa e, quasi direi, afona opera brahmsiana, molto meno sopporta la rotta e singultante opera del Wolf e del Bruckner. Altrove, in Francia e in Russia per esempio, una nuova vita si formava, sebbene per allora tutt'altro che chiara e conscia della propria novità di direzione. Ma nella stessa Germania-Austria, il dissidio, che già ho accennato, della nuova coscienza commercialistica e utilitaristica con le tradizioni estetico-religiose dei romantici, non poteva certo trovare una soluzione nella troppo idealistica e aristocratica arte del Brahms. Occorreva un'arte che, pigliando le mosse dalla volontà di stordimento tirannico insita nel tipo d'arte trovato da Wagner, (e preludiata da Weber) ** conducesse tale forza di stordimento a una popolarità quasi da fiera. Il popolo che pure non rimane insensibile a una pomposa festa in un grande giardino architettonico, più si diverte ancora quando alla pompa principesca si aggiungano i baracconi variopinti e i lazzi dei saltimbanchi. Lo Strauss, con mirabile intuito del proprio tempo, intuito che varrebbe da solo a testimoniar della sua ricchissima vitalità, ha capito più di tutti i suoi coetanei musicisti il tipo di musica che ci voleva: e ha regalato alla Germania capitalistica-socialistoide, moralmente utilitaristica e quindi fastosa e non corrotta per soverchio aristocraticismo, sibbene per posa di parvenue, il suo famoso barocchismo musicale, che, come ogni altro precedente barocchismo (per esempio il barocco berniniano e tiepolesco) quello che ha perso in purezza austera di coscienza religiosa, ha guadagnato in miracoli quasi funamboleschi d'equilibrio, equilibrio talvolta, certo, molto dubbio com'è dubbia la statica delle piramidi blandeggianti su per le magiche nuvole tiepolesche. Una vitalità immensa gonfia i grandi affreschi orchestrali straussiani: la vitalità immensa che nelle grandi corruzioni e transizioni civili totali, ossia più popolari che aristocratiche, fa riaffiorare negli uomini spaventosi istinti barbarici. Se il Brahms lo possiamo avvicinare al Carducci, lo Strauss non va, tra i poeti, affratellato, per parentela di direzione, a Gabriele D'Annunzio, che nel suo puro fastoso decadentismo, attraverso a crisi di stil barocco (il 1º e 2º libro delle Laudi, molta sua prosa, la Nave, la Fedra e in generale tutto il teatro dopo la Figlia d'Iorio) ha però sempre conservato per istintivo bisogno di maggior possanza di coscienza, una quasi non mai smentita coerenza e coesione stilistica. Il D'Annunzio, che di tutto si ride fuorché di apparire uno nell'arte, è più, come già fu visto da altri, vicino a Wagner.
Lo Strauss invece non cerca neppure la coerenza e la coesione dello stile; vuol solo la vitalità dello stile, il movimento, l'interesse, pure a costo di far sempre una parodia: si ride ancbe dello stile. Sotto sotto, infatti, tutto lo Strauss circola inesausta una grande corrente di riso. Anche nella sua stupenda sensibilità di barbaro degenerato e di uom civile imbarbarito (sensibiltà che l'ha fatto avvicinare al Kipling: Fausto Torrefranca gli consigliava un libretto estratto dalle novelle della jungla, dimenticando però, a parer mio, che la sensibilità del Kipling è tutt'altro che barocca ma virginea a volte quanto quella degli antichi Indiani che il Kipling rievoca attraverso i nuovi: - Purum Bagat) ; anche nella concezione della vita e nell'uso dei valori cosidetti intellettuali come, la forma, lo stile etc., lo Strauss è, sopratutto, un «barocco umorista» e caricaturista. Il carattere in lui, come in certi pittori spagnoli modernissimi, confina con la caricatura. Nel passato, sotto questo aspetto, non gli vedo veramente fraterno che il Rabelais. Come il Rabelais lo Strauss trova una giusta ragione del suo corrosivo eppur sintetico e coerente multistilismo, nel suo bisogno di gesto umoristico-enfatico e caricaturale. Il D'Annunzio ride, ma con una grazia sempre stilée; ossia non ha mai vera voglia di ridere per paura quasi di fare smorfie offensive a quella divinità di cui si proclama quasi parnassiano sacerdote: la Bellezza: in realtà, è molto più triste e tragico di quello che non abbia spesso voluto apparire.
Lo Strauss si precipita invece in vere gargantuesche orgie di umorismo e di caricaturalità. E nella sua musica, come nella prosa il Rabelais, egli mescola contraffazioni di pose eroiche, turbini d'imagini disparate e contradittorie, evocazioni classiche, formole scolastiche e popolari, incisive trivialità sfacciate, un'impudicità senza limiti, sempre aleggiante su tutto in un modo svergognato e strafottente, salvo in qualcuna delle più delicate e pure sue opere (la Salomè per esempio) dove si chiarisce in una incredibile dolcezza di rappresentazione del morboso. Chi può dimenticare la sinuosità fluida avvolgente odorosa suggestiva di quasi tutta la parte di Salomè? E il suo piccolo tema che somiglia a un lieve scatto di muscoli sotto la voluttuosa lisciezza di un ventre femminile?
Questi mostruosi umoristi delle più corrotte civiltà invano sono misurati con le misure dell'arte dei tempi eroici e migliori. Tutto in essi è caotico: il giudice non sa più a che santo votarsi. A poco a poco questo cataclismico parto di una fantasia enormemente riscaldata, questo drago centiteste e miriapode intento a giocare un suo mostruoso giuoco sulle sponde di un portentoso fiume tropicale, ed esalante dalla grande bocca miracolosa di colori e di dentature incoerenti, dal guizzo fulvido delle squamine versicolori alla gran luce del sole torrido, non so quale mistica suggestione di tutte le voluttà ridotte a dolore d'incubo e di tutti i dolori ridotti a voluttà d'incubo; a poco a poco, dico, questa spaventosa arte animalesca si vendica coi suoi maliardi occhi di rettile del timore misterioso che hanno gli occhi ferini a fissare gli occhi umani. Si vendica di tale divino potere dell'occhio spirituale dell'uomo a dominare la bestia - coll'abbacinarlo, coll'imbestialirlo. E così il povero giudice cade soggiogato, vinto, annichilito dal potere magico del drago - al modo stesso che certi santi rimanevano inebetiti dalle mostruose trasformazioni del demonio.
Un altro punto di contatto tra Rabelais e lo Strauss è la forma che non si può dire completamente prosastica (come quella di alcune pagine di altri moderni) ma certo ormai profondamente lontana dalla stroficità sia pur epica del Wagner. Brahms e Carducci ebbero la religione della strofe in senso classico-settecentesco. Il D'Annunzio e il Wagner, pur molto più liberi del Brahms e del Carducci, rimasero, a onta dei loro propositi di melodia continua, enormemente scanditi; cioè strofici. Giunsero alle soglie della nuova forma narrativa e commentatrice, ma non le varcarono. Lo Strauss è il primo grande prosatore musicale moderno. Per trovare qualche altro prosatore della sua forza bisogna, nel 600, risalire a Michelangelo Rossi e, nel 400 e 500, ai polifonisti e al Frescobaldi e al Palestrina. Ma la prosa dello Strauss però non risulta, come quella più coerente (sebben poeticissima) del Debussy, oppur quella più lirica del Ravel, oppur quella più compatta e precisa del Pizzetti, di una continuità perfettamente fusa e antistrofica. L'alternare che il Wagner, come lo Shakespeare, fanno della prosa narratrice e commentatrice (esplicativa, raziocinativa) con la lirica esclamativa, nello Strauss non è del tutto abolito, anche per quel suo caotismo strafottente che abbiamo già notato. In Strauss, accanto a piani di prosa musicale incredibilmente flessibile e duttile, dilaga improvvisamente e lussureggia un'oasi lirica, sempre, come tutte le espressioni più intime straussiane, di non fine lega. Si ricordi il duetto tra Oreste e Elettra, il duetto tra Ottavio e Sofia e mille altri brani negli stessi poemi sinfonici. Ma che importa allo Strauss? Il teatro musicale moderno e in generale la musica moderna non vuol essere lirica nel contenuto, né strofica nella forma; vuol essere realistica non in senso verista, ma nel senso di: più vicina alla storica, contingente realtà delle cose, cbe all'affiato misterioso della volontà panica che informa le cose stesse. Vuol essere, come assai imprecisamente si suol dire, descrittiva e io correggerei, prosastica, antilirica. Ma lo Strauss s'infischia anche di questa grande tendenza positivistica della musica come di tutta l'arte moderna, e se ne infischia non più di quello che al caos importi di esser più tenebre che luce, luce più che tenebre. È un prosatore sui generis, un prosatore umorista: e, come tutti gli umoristi, a volte è anche uno squisito poeta (si veda per esempio la fine del Così parlò Zaratbustra). E tutto ciò, a casaccio, senza una qualunque visione di zone.
Da questo impetuoso caotismo umorista dipendono tutte le altre qualità musicali che nello Strauss si possono rilevare a seconda dei vari punti di vista intellettualistici in cui ci possiamo porre. Come armonista lo Strauss ho già detto essere assai più antiquato dei francesi moderni. Esaminando più particolarmente il suo senso tonale, la struttura modale della sua musicalità, essa ci apparirà, come tutta la personalità straussiana, un misto quasi originale di elementi non originali. Ho già accennato come dall'essere stato, prima, prewagneriano, dopo, un wagneriano temperato dalle abitudini acquisite nelle sue precedenti esperienze, lo Strauss risulta in tutta la sua formazione estetica un ibrido.
Armonicamente, ritmicamente, e contrappuntisticamente ciò ha una ragione storica facilissima a scoprirsi da parte di chi abbia un poco di pratica cogli ultimi, se non gli ultimissimi, fatti musicali del 1800. Nel primo capitolo di questo libro, studiando il romanticismo rispetto a noi e al passato preottocentesco, mi è occorso di rilevare la tendenza generale romantica esser quella, com'ho detto, di voler divenire originali nuovi e diversi, sempre e fra tutti, il più possibile. Pure questa nevrastenica idiosincrasia dello stil personale è stata possibile finché l'anarchia, come sempre accade, non è degenerata in tirannia, ossia finché in tanto contrasto di voleri non è sorto il volere più volontario e più audace di tutti: il volere di Riccardo Wagner. Così la corrente della musicalità latino-tedesca dell'800, dopo aver continuato su per giù a ricercare l'individualismo stilistico in una direzione che io ho già dimostrata più vicina alla direzione settecentesca di quello che non appaia ai critici storici, frenetici di romanticofilia, venne poi a sdoppiarsi in due correnti una delle quali continuante la tradizione più aristocratica, ossia quella beethoveniana e schumanniana: ed appartengono a questa i musicisti più austeri dell'800 fino a noi: il Brahms primo di tutti, poi tutti coloro che ho chiamati gli umanisti del romanticismo. Nel mio saggio critico precedente su Pietro Mascagni, dimostrai già assai abbondantemente il valore che acquistava in questa corrente d'influenze lo Schumann sia come armonista e ritmicista sia come strumentatore (quartetto, piano solo, orchestra). Un'immensa parte della musica moderna desiderosa di liberarsi dalla tirannide wagneriana si è rifugiata volontariamente come già spontaneamente faceva il Brahms, in Schumann. L'altra parte dei musicisti, raccoglitori di frutti più ibridi e meno valorosi, si è mossa nella zona d'influenze emanata da Wagner. Gran parte dei russi degli italiani e dei compositori d'ogni altro paese si è wagnerizzata irreparabilmente. Si comprende la rivolta presente al wagnerismo, rivolta che giunge a quegli eccessi morbosi per i quali, come ho già notato a proposito delle idee del Pizzetti sul dramma, si viene a condannare ciò che sembra inutilmente lirico ed è bellezza ideale nel più grande poeta-musicista della Germania moderna, ma rivolta che ci vuole, giacché il processo di wagnerizzazione totale è qualcosa di sgomentante. Anche il Liszt, anche il Berlioz alimentarono e alimentano la corrente dominata specialmente dal Wagner e forsetrovansi l'uno e l'altro in una regione estetica (per ciò che riguarda l'opera) quasi più avanzata di quella scoperta da Wagner. Ma nature meno tirannicamente destinate all'imperio sono ben lontani dall'esercitare l'infinito disastroso fascino wagneriano.
Armonicamente ritmicamente e contrappuntisticamente, sebbene in un certo senso, rispetto alla musicalità oggi in fieri, il Wagner resti anch'esso nell'ambito settecentesco, pure egli è il più originale trasformatore romantico della musicalità del sei e settecento. Sarebbe uno studio bellissimo, (in parte già cominciato) quello per cui si dimostrasse quanto era chiara la coscienza che il maestro aveva della sua derivazione, per esempio, da Mozart. Come già è stato notato dalla critica, Wagner riunisce quasi le due tendenze nel concepir l'opera più come una grande cantata drammatica con accompagnamento, direbbe il Torrefranca con una sua geniale definizione, di gesti musicali; riunisce in sé quasi Mozart e Gluck. Ma, aggiungo io, da buon romantico idealista il Wagner segue più l'orma di Mozart, che il cammino di Gluck, cammino la cui direzione era determinata dall'intellettualismo razionalistico francese, noioso, come il fumo agli occhi, ai romantici, che di necessità dovevano sentir più la musica come rivelazione preverbale che come serva, dispensatrice di colore, alla poesia.
Lo Strauss se armonicamente e ritmicamente, com'ho detto, non raggiunge mai una personale differenza di musicalità, ma tutte le direzioni armoniche e ritmiche dei romantici prewagneriani e del Wagner stesso mischia nel suo colossale caotismo stilistico, è certo però che di tutte queste tendenze e direzioni quella a cui più obbedisce è la wagneriana. Anzi la sua originalità di sistema consiste proprio in questo: nell'accettare, sì, formole ritmiche e armoniche popolari e dotte, preromantiche e romantiche prewagneriane, ma nel wagnerizzarle tutte. Ogni buon musicista sa quanto sia facile, certo avendo quella che io direi la fantasia dell'epigone, tradurre nei termini del maestro le più disparate musicalità altrui. Fino a tutt'oggi questa tendenza al wagnerizzamento è stata semplicemente incredibile. Dalla tecnica pianistica, spesso derivazione assai comica delle riduzioni per piano delle partiture wagneriane, alla stessa tecnica della moffificazione e riduzione in istrumentale moderno di opere per esempio: del 500; dall'interpretazione di opere drammatiche o strumentali all'esecuzione strumentale ritoccata delle stesse sinfonie beethoveniane è stato un vero e proprio processo di panwagnerismo. Perfino la nostra buona opera italiano-verdiana ha gabellato i suoi semplici e onesti quasi-unisoni di pretese sinfoniche wagnèriane. E lo Strauss è certo il wagnerizzatore più squisito, più astuto di tutti. Egli ha spinto al parossismo le modalità ritmiche, armoniche e contrappuntistiche dello stile wagneriano fino a che gli ingenui hanno creduto a una trasformazione radicale del sistema. Ma bisogna, per creder ciò, esser proprio ingenui. Certo