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Occorre comprendere bene chi è davvero Giuseppe di Giacobbe. La sua personalità è la chiave di comprensione di tutta la sua storia, ed è perfino la base su cui Dio ha potuto compiere il miracolo di trarre il bene dal male. Non sempre infatti Dio può trarre il bene dal male: ciò si verifica solo quando l'uomo colpito dal male ha una personalità e un cuore come Giuseppe. Per questo è di estrema importanza il capire che genere di uomo sia il protagonista di questa storia dell'epoca patriarcale.
Nel cap. 37 di Genesi, col quale si apre la narrazione, si descrive in più punti l'ostilità che Giuseppe sente intorno a sé nell'ambito stesso della sua famiglia (cfr. vv. 4.8.10). Ma non è riportata nessuna parola di Giuseppe, né di autodifesa, né di rimostranza, né di ribellione. E' il primo indizio della sua personalità dall'animo grande e alieno da ristrettezze mentali e meschinità. Egli sembra accettare l'ostilità che lo circonda, senza cercare una rivalsa. Il testo dice solo che egli raccontò i suoi sogni al padre e ai fratelli, ma non riporta alcuna reazione di Giuseppe ai loro rimproveri: tra le righe si scorge una personalità mansueta e non bisognosa di farsi giustizia da sé. Il seguito della storia confermerà in pieno questi dati appena accennati al cap. 37.
Il cap. 37 narra inoltre del tentato omicidio e del rapimento da parte dei mercanti madianiti che lo portano in Egitto e lì lo vendono a un alto funzionario del regno, Potifar. Nella sua permanenza presso la casa di Potifar, cogliamo altri aspetti della personalità di Giuseppe: l'assoluta fedeltà ai propri doveri, la lealtà piena verso chi gli ha dato fiducia, il dominio delle proprie passioni.
La benedizione di Dio continua a seguire Giuseppe, uomo solo e abitante in terra straniera, e tutto ciò che fa ha un esito positivo. Potifar se ne rende conto e gli affida interamente l'amministrazione della propria casa con una fiducia pressoché illimitata. Purtroppo inciampa nella moglie di Potifar che a un certo momento mette gli occhi su di lui e, sentendosi respinta, si vendica accusandolo e facendolo gettare in carcere. Di nuovo il testo biblico non riporta da parte di Giuseppe alcun lamento, alcuna rimostranza, alcuna autogiustificazione. Giuseppe accoglie pacificamente tutto ciò che gli capita. In questo modo personifica l'ideale del saggio di Sir 2,4: "Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché con il fuoco si prova l'oro e gli uomini bene accetti nel crogiolo del dolore".
Così Giuseppe viene a trovarsi tra i detenuti del faraone. Pur in questa circostanza apparentemente disonorevole, ritorna a splendere la personalità limpida di Giuseppe. Grande insegnamento: in un ambiente di gente colpevole, risalta maggiormente l'innocenza di Giuseppe. Non abbiamo bisogno di qualcuno che parli bene di noi, al cristiano non servono avvocati difensori. L'innocenza della vita è una parola che risuona con potenza, anche negli ambienti più oscurati. Giuseppe continua a vivere in carcere, ma ci vive come un uomo libero: "il comandante della prigione affidò a Giuseppe tutti i carcerati e quanto c'era da fare là dentro, lo faceva lui" (Gen 39,22). Le circostanze non possono offuscare la nostra santità perché, quando c'è davvero, essa splende come un faro nella notte, e ci fa vivere da uomini liberi anche laddove gli altri vivono da schiavi. Solo chi si è consegnato volontariamente a Satana, resta totalmente indifferente alla santità, ma tutti gli altri, anche se non ne imitano le vie, percepiscono nondimeno che c'è qualcosa di diverso in quella persona.
Mentre Giuseppe si trova in carcere, però, il Signore aggiunge un altro grande segno allo splendore della sua innocenza: fa risorgere un dono di conoscenza che egli aveva sperimentato da ragazzo prima di essere espulso dalla sua famiglia. In una stessa notte, due detenuti fanno un sogno e si svegliano con l'animo turbato. Giuseppe sente che questi sogni sono portatori di una profezia e ne svela a entrambi il significato: entro tre giorni uno dei due sarà liberato e l'altro giustiziato. Il che si verifica puntualmente (cfr. Gen 40,1-23). A colui che viene liberato, Giuseppe chiede un ricordo presso il Faraone, essendo un suo funzionario. Ma quell'uomo non si ricordò di Giuseppe, che resta in carcere per altri due anni, senza avere alcuna colpa da scontare. Anche qui, il testo non registra alcuna forma di rimostranza da parte di Giuseppe, alcuna imprecazione al suo destino, né alcuna forma di incattivimento, come accade a chi soffre molto e soffre in modo insipiente. Giuseppe soffre molto, ma soffre da saggio. Per questo Dio potrà fare meraviglie nella sua storia tormentata. Quel coppiere, dunque, dopo essere stato liberato, non si ricordò di Giuseppe (cfr. Gen 40,23), fino a quando, due anni dopo, il Faraone fa due sogni che lo turbano e che i maghi di Egitto non sono capaci di comprendere (cfr. Gen 41,1-36). Solo allora l'ex detenuto, funzionario di corte, si ricorda di Giuseppe. Così esce dalla prigione e compare dinanzi al Faraone di Egitto. In quest'epoca Giuseppe ha l'età di trent'anni (cfr. Gen 41,46). La risposta di Giuseppe all'enigma del Faraone è immediata, dimostrando così una sapienza superiore a quella di tutti gli astrologi e i maghi del regno. Per questo il Faraone gli affida l'amministrazione di tutto il paese, in previsione della carestia predetta da Giuseppe (cfr. Gen 41,37-49).
Inizia una fase nuova della sua vita: assume un incarico di grande responsabilità, si sposa e gli nascono due figli maschi: Efraim e Manasse (cfr. Gen 41,50-57).
Il Signore non lascia in prigione Giuseppe, e muove le circostanze per farlo liberare, anche se agisce in tempi considerati molto lunghi dalla percezione umana del tempo. Dio però non delude i suoi servi, e li innalza persino al disopra dei potenti della terra, perché essi, per quanto politicamente grandi, sono sempre piccoli dinanzi agli enigmi fondamentali della vita, ai quali solo i servi di Dio possono rispondere adeguatamente.

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