Iakov Levi
 
 

DA GIACOBBE A ULISSE. UNA COAZIONE A RIPETERE.



Marzo 2002
 

Isacco prediligeva Esaù,
perché la cacciagione era di suo gusto,
mentre Rebecca prediligeva Giacobbe (Gn.25,28)
 

Giacobbe

La Bibbia ci racconta di due fratelli, Esaù che era “un uomo della steppa” e Giacobbe che “era un uomo tranquillo che dimorava sotto le tende” (Gn.25,27).
Dunque mentre Esaù cacciava e si occupava di cose virili, il fratello minore rimaneva nel campo, insieme alle donne.
La madre prediligeva quest’ultimo al fratello, e il carattere di Giacobbe, invece di temprarsi attraverso la caccia e la lotta, rischiava di indebolirsi, attraverso la continua vicinanza con le donne.
Oggi diremmo che la madre lo viziava.
E infatti, al momento cruciale, Rebecca gli dice:

Ora, figlio mio, obbedisci al mio ordine: Và subito al gregge e prendimi di là due bei capretti; io ne farò un piatto per tuo padre, secondo il suo gusto. Così tu lo porterai a tuo padre che ne mangerà, perché ti benedica prima della sua morte”. Rispose Giacobbe a Rebecca sua madre: “Sai che mio fratello è peloso, mentre io ho la pelle liscia. Forse mio padre mi palperà e si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione”. Ma la madre gli disse: “Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu obbedisci soltanto e vammi a prendere i capretti (Gn.27,8-13).
In seguito la storia ci racconta come Giacobbe fece quello che gli aveva detto la madre. Questa preparò il piatto preferito di Isacco, prese i vestiti migliori di Esaù, li diede al figlio prediletto e “con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e le parti lisce del collo” di modo che il padre, tastandolo, lo creda il figlio maggiore.
Quando Isacco lo tastò disse la famosa frase: “La voce è la voce di Giacobbe, ma le braccia sono le braccia di Esaù” (Gn.27,22).
Questa è una ben strana storia.
Possiamo immaginare cosa deve aver pensato Esaù della propria madre, dopo aver sentito come si erano svolte le cose!
Rebecca, che si era probabilmente immaginata che il figlio maggiore non avrebbe lasciato cadere la cosa come se niente fosse, disse: “Esaù tuo fratello vuol vendicarsi di te uccidendoti. Ebbene figlio mio, obbedisci alla mia voce: su fuggi a Carran da mio fratello Labano...” (Gn.27,42-44).
E per la seconda volta Giacobbe ubbidisce alla madre.
Come sappiamo, per superare il complesso di Edipo, la generazione dei giovani crescendo si staccano dalle madri per identificarsi con i padri.
Questo è sempre stato vero dall’inizio della storia dell’uomo e fino ai nostri giorni,
ma era ancora più impellente nelle tribù seminomadi e nomadi che mantengono ancora ai giorni nostri crudeli riti iniziatici, per assicurarsi che questo processo sia portato a compimento con successo.
Dove la turbolenza naturale, come nelle tribù selvagge, crea un ostacolo particolarmente potente al superamento del complesso di Edipo, viene il rito iniziatico a insegnare violentemente ai giovani qual è la strada giusta da prendere.
Per Giacobbe, che cresceva attaccato alle gonne della madre, prometteva molto male.
Non è un caso che il padre preferisse il figlio maggiore, in cui riponeva le sue speranze per la sopravvivenza della tribù.
Nell’habitat delle antiche tribù ebraiche che vagavano ai margini del seminato, e dovevano combattere una guerra giornaliera contro le città cananee fortificate da una parte e contro le tribù beduine che facevano incursioni dal deserto, dall’altra, essere “un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende”, per il figlio di un capo tribù come Isacco era la ricetta del disastro.
Possiamo immaginarci che se Rebecca avesse fatto la stessa proposta ad Esaù questi le avrebbe riso in faccia, e l’avrebbe invitata a ritornare nella tenda delle donne e ad occuparsi degli affari di queste.
Giacobbe invece, per ben due volte ubbidisce alla madre .
Quando questa gli dice: “Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio!”, questo era un ben magro alibi per Giacobbe. Non dobbiamo dimenticarci che qui stiamo trattando di una società strettamente patriarcale, dove le donne sono poco più di un oggetto di possesso, e la gravità della maledizione, data dal padre della tribù al figlio, non sarebbe stata smussata minimamente dall’intercessione della madre.
Quindi vediamo che tutto il comportamento di Giacobbe mostra il carattere di un ragazzo succube della madre, che non riusciva a staccarsi da questa per identificarsi con il padre e il fratello.
Stando così le cose, rischiava di non riuscire a superare il rito iniziatico che lo aspettava al varco, come per tutti i giovani cresciuti in una società tribale.
La sua stessa identità sessuale era a rischio.
Probabilmente la sua mancanza di virilità si rifletteva anche nel suo aspetto fisico, poiché come lui stesso ammette: “mio fratello Esaù è peloso, mentre io ho la pelle liscia”.
Possiamo vedere ora in una luce diversa tutto lo strano comportamento di Rebecca.
Ella aveva goduto della vicinanza del figlio prediletto, e forse si era creata quella condizione che Freud definisce “un complesso d’Edipo inverso”, ovvero quando la madre incoraggia inconsciamente le tendenze incestuose del figlio maschio, come compensazione alle frustrazioni della sua vita coniugale.
Rebecca, quando invita il figlio a fuggire, dice: “Perché dovrei venire privata di voi due in un sol giorno”  (Gn.27,45).
Ma Esaù non era in pericolo, l’unico che rischiava di rimanere ucciso era Giacobbe. Perché dunque la madre si esprime così?
Evidentemente considerava l’altro figlio come già perso, poiché era a caccia spesso e si accoppiava con molte donne. Come lei stessa dice: “Ho disgusto della mia vita a causa di queste donne hittite: se Giacobbe prende moglie tra le hittite come queste, tra le figlie del paese, a che mi giova la vita?” (Gn.27,46).
Questa frase suonerebbe bene anche in bocca di una di quelle madri, che anche al giorno d’oggi sviluppano un legame ombelicale con il figlio maschio e vedono, in ogni futura fidanzata di questi, una potenziale avversaria.
Quindi Rebecca nutriva una gelosia inconscia verso le potenziali future mogli del figlio, ma d’altra parte si rendeva conto della necessità di staccarsi da lui, per permettergli di crescere e d’identificarsi con gli altri uomini.
Alla soglia della pubertà del figlio, aveva capito che con il suo attaccamento gli aveva provocato più danno che beneficio: guardava con terrore alle prove iniziatiche che aspettavano il figlio imbelle a giorni o a mesi.
La soluzione che le si affacciò alla mente era quella giusta: allontanare il figlio, staccarsi da lui, e metterlo di colpo davanti alle vicende della vita, con le quali avrebbe dovuto misurarsi da solo.
Quattordici anni passarono e Giacobbe imparò, lontano dalla famiglia, a misurare la propria forza, come quando da solo riesce a far rotolare la pietra che otturava il pozzo, che solo tutti gli altri pastori insieme erano in grado di smuovere (Gn.29, 8-10); o come quando si misura con la malvagità di Labano suo zio, adoperando lo stratagemma delle greggi istriate (Gn.30, 35-43).
Una ben dura vita ebbe Giacobbe nei quattordici anni che era al servizio dello zio, lontano dalla tenerezza e dai vezzeggiamenti materni!
Ma, lontano dallo stimolo della presenza della madre, riuscì a spostare la sua libido e a canalizzarla verso un’altra meta che non sia quella incestuosa.
Il rito iniziatico, che era riuscito ad evitare in gioventù dandosi alla fuga, fu consumato, dopo vent’anni (1), quando l’angelo lo assale (2) , proprio all’entrata della Palestina, mentre stava per tornare a casa, sulla soglia della Terra Promessa.
L’angelo lo mutila e gli cambia nome (Gn.32, 23-33) (3) .
Un nuovo Giacobbe va incontro al fratello, una volta tornato a casa.
Il  giovane che durante la sua fuga da casa aveva dapprima sognato una scala che portava al Dio-Padre (Gn.28,12-16), interpretato da Reik come un sogno dalla chiara connotazione omosessuale (4), e la cui debole costituzione gli aveva impedito di staccarsi dalla figura materna, è ora un uomo fatto e come tale è pronto ad identificarsi con il fratello e con la figura del padre.
La Bibbia ci racconta dunque di una fissazione incestuosa e la sua soluzione.
L’esilio e l’allontanamento da casa erano stati gli strumenti di questa metamorfosi.
 

Giuseppe

La saga di Giuseppe, preferito del padre e figlio primogenito di Rachele, la moglie prediletta, presenta tratti comuni e tratti divergenti.
Anch’egli era sempre intorno ai genitori e vezzeggiato da questi, e mostra tratti comuni del bambino viziato, come era stato per Giacobbe.
Invece di seguire i fratelli ed identificarsi con loro, dalla sua posizione di “primo della classe” li snobbava, sicuro della protezione paterna.
Anche per lui, figlio di una tribù di pastori, sarebbe finita male quando, il giorno del rito iniziatico, i nodi sarebbero venuti al pettine.
Anche in lui, probabilmente, si era creata la stessa fissazione incestuosa verso il padre e la madre, e i sui sogni sono l’espressione di un narcisismo infantile non superato (Gn. 37, 5-10), al punto che il padre si irrita e si preoccupa per la sorte di questo adolescente ancora bambino. La vita del seminomade di una tribù di pastori non prende prigionieri e il padre, che aveva esperimentato sulla propria persona la minaccia dell’ira del fratello maggiore, temeva per la vita del suo figlio prediletto.
L’eterno ritorno di Nietzsche, o la coazione a ripetere di Freud , si rispecchiavano nell’impossibilità di Giacobbe di evitare di ripetere con il figlio amato gli stessi errori in cui la madre era incorsa nella sua educazione.
Salomone, il più saggio degli uomini, lancerà l’avvertimento, qualche centinaia di anni dopo: “Chi odia suo figlio, gli risparmia il bastone!” (Prov.13,24).
Giacobbe si era identificato con il figlio e, viziandolo, ripeteva così su sé stesso i vezzeggiamenti ricevuti dalla madre e riviveva, attraverso di lui, le proprie esperienze infantili rimosse.
Aveva fatto al proprio figlio lo stesso danno che la madre aveva fatto a lui.
Fino che si trattava di un bambino i nodi non erano venuti al pettine, ma adesso che si trattava di un adolescente l’ombra dell’invidia dei fratelli si faceva sempre più minacciosa.
Come Rebecca era corsa ai ripari all’ultimo momento, Giacobbe cerca di fare un ultimo patetico undoing, mandando il figlio a trovare i fratelli che pascolavano le greggi a centinaia di chilometri di distanza (Gn. 27,14), allontanandolo dai genitori, la meta delle sue fissazioni incestuose, per indurlo a crescere.
Ma qui subentrano delle componenti che esigono un chiarimento.
Rileggiamo insieme i passi che ci interessano:

Lo narrò dunque al padre [il secondo sogno] e ai fratelli e il padre lo rimproverò e gli disse: “Che sogno è questo che hai fatto! Dovremmo forse venire io e tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?” I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui, ma suo padre tenne in mente la cosa. I suoi fratelli andarono a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: “Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni ti voglio mandare da loro” (Gn.37, 10-12).
Giuseppe racconta al padre e ai fratelli i suoi sogni impudenti, rilevando una mancanza di pudore e d’istinto di conservazione, caratteristici di un bambino immaturo, che non ha ancora imparato a misurarsi con le realtà della vita, e che crede che tutti lo debbano amare per i suoi begli occhi (Gn.37 ,5-9).
E il testo ci tiene a specificare che si tratta già di un ragazzo di diciassette anni (Gn.37,2). Era quasi un uomo, e questo è doppiamente vero in quelle società semi-primitive, dove il ritmo di vita è accelerato dalle difficoltà esistenziali.
Ancora oggi, nel Medio Oriente, a dodici anni una ragazza è donna, a quindici un giovane è uomo, a quarantacinque sono vecchi entrambi.
Il padre aveva capito la gravità della situazione.
Il testo stesso dice: “ma suo padre tenne in mente la cosa”
Lui sapeva cosa significa un fratello maggiore invidioso!
Eppure manda l’agnello, da solo, nella tana del lupo.
Forse sperava che vivendo con loro si sarebbe identificato con questi, e avrebbe appreso, finalmente, le rozze vie di vita del pastore che vive lontano da casa.
Allontanando il figlio, come la madre aveva allontanato lui, gli proponeva la stessa soluzione che per lui aveva funzionato.
Ma quale imprudenza!
Rebecca lo aveva allontanato da lei e dal fratello, non lo aveva spinto verso Esaù.
I sogni di Giuseppe, l’ira paterna e l’allontanamento dai genitori verso le grinfie dei fratelli invidiosi appaiono, nei versetti biblici, in un’unica associazione.
Sembrerebbe proprio che il padre abbia intenzionalmente messo in pericolo il suo agnello preferito.
La coazione a ripetere, di cui parla Freud, aveva evidentemente ottenebrato la sua capacità di una valutazione oggettiva della situazione.
Da un lato sapeva che il figlio, ostentando il proprio narcisismo infantile si era messo in pericolo, dall’altro percepiva di essere lui stesso responsabile per la sua mancata educazione. Irritandosi, in realtà si stava autorimproverando.
Questo senso di colpa verso il figlio si condensava a quello per le sue proprie fissazioni incestuose infantili, poiché con questi si identificava. Attraverso il figlio aveva rivissuto il proprio ruolo di bambino viziato e vezzeggiato e adesso sentiva anche il bisogno di autopunirsi.
Ma poteva espiare solo attraverso la persona del figlio.
Solo così si può spiegare il suo strano comportamento.
Manda Giuseppe lontano, e così si autopunisce privandosi del figlio prediletto, ma lo manda dai fratelli, e in questa maniera, mettendolo in pericolo, si autopunisce nuovamente.
Probabilmente aveva razionalizzato le proprie azioni dicendosi che così avrebbe spinto il figlio a maturare e ad identificarsi con i fratelli maggiori. Ma il suo atteggiamento ha tutte le componenti dei sintomi di una nevrosi ossessiva.
Ma c’è qualcosa di più.
Come ci ha insegnato Freud , gli stessi giovani che si ribellano ai genitori, e sono riusciti a differenziare il proprio comportamento da quello di questi, una volta nel pieno della vita e diventati loro stessi padri e madri, si identificano, loro malgrado, con i propri genitori e ne assumono gli atteggiamenti (5).
Così Giacobbe, se mentre Giuseppe era bambino si identificava con il figlio vezzeggiato, una volta diventato padre di un giovane nell’età della pubertà, si identifica con il proprio padre, Isacco, che quando era stato lui stesso un giovane dell’età del figlio aveva offeso, e di cui sentiva di essersene meritato la maledizione.
Con le sue stesse parole: “...si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione” (p.1).
Dunque, dietro il paravento della razionalizzazione di insegnare a Giuseppe le vie degli uomini, lo mette intenzionalmente in pericolo.
Punendo Giuseppe, punisce se stesso per l’offesa recata al padre.
Mettendolo nelle mani dei fratelli maggiori soddisfa anche i bisogni di un altro senso di colpa, che premeva sempre di più per un riconoscimento: quello per l’insulto al fratello maggiore, Esaù, dalle mani del quale era riuscito, ingiustamente, a fuggire.
Mettendo il figlio nelle mani dei fratelli, mette se stesso nelle mani di Esaù, per ricevere il meritato castigo.
Chi può essere così insensibile da non piangere insieme a Giacobbe quando riconosce l’indumento del figlio macchiato di sangue e grida: “È la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato” (Gn.37,33).
Ma Giacobbe percepiva, inconsciamente, che il figlio non era stato sbranato da nessuna bestia feroce, poiché quando, più avanti, i figli tornano dall’Egitto e gli dicono che il viceré voleva che conducessero là anche Beniamino, il padre si lascia scappare: “Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c’è più, Simeone non c’è più e Beniamino me lo volete prendere” (Gn.42,36). Quindi accusa i figli di avergli preso Giuseppe, mentre invece era stato lui ad allontanare il suo prediletto. Se avesse creduto alla storia della bestia feroce, non avrebbe avuto nessun motivo di accusare i fratelli.
La coazione a ripetere e un senso di colpa rimasto in sospeso gli avevano portato la tragedia (6).
Ma il Libro, che fa sempre espiare le colpe ai figli d’Israele, si vanta anche, deus ex machina, a differenza della vita reale, di saperli consolare.
E da qui la storia di Giuseppe ricalca di nuovo, nelle sue linee principali, quella dell’allontanamento, ovvero della morte simbolica, poiché partire è un po’ morire, e del ritorno, ovvero della rinascita, di quella che era stata la saga del padre.
La discesa nella cisterna e la sua risalita, non una ma due volte, poiché come tale va interpretata anche la prigione dove venne messo in Egitto(7),  rappresenta la morte e la rinascita simbolica dei riti iniziatici puberali (8).
E anche per Giuseppe, l’esilio e le vicissitudini che lo incontrarono lontano da casa furono il suo rito iniziatico, come lo era stato per il padre.
Dopo essere stato immerso nella cisterna ed esserne rinato, dopo aver risolto l’enigma propostogli dal faraone, Giuseppe cambia nome e si sposa (Gn.41,45).
Il bambino viziato, prigioniero delle proprie fissazioni libidinose incestuose, diventa viceré d’Egitto.
Se fosse rimasto in casa, attaccato ai genitori, non sarebbe mai diventato uomo e le sue fissazioni libidiche non avrebbero trovato una soluzione.

Il mito greco

Abbiamo visto come, nella saga biblica, la soluzione delle fissazioni incestuose è l’esilio, e ci pare anche di averne capito il motivo.
Nel mito greco, una madre similmente attaccata al figlio come Rebecca a Giacobbe, deve essere stata Teti, la madre di Achille.
Per impedirgli di andare alla guerra di Troia lo aveva nascosto tra le donne e travestito come queste (Apollodoro 3.13.8).
Anche se il mito greco razionalizza le motivazioni della dea come il fato che incombeva su Achille di non tornare dalla guerra, dalla leggenda trapela, ciononostante, la forte componente omosessuale nel comportamento di Achille e la tendenza della madre di farne “la sua bambina”. Questi elementi si tradiscono nell’espediente escogitato da Teti, tra tutte le alternative possibili, di vestire il figlio da donna, ovvero, di farne un “travestito”.
Anche qui, come Giacobbe era emerso il più forte e Giuseppe diventò l’eroe principale della saga, anche Achille, una volta allontanato dalla madre e dalle donne, mandato in esilio a combattere una guerra non sua, diventa il primo tra gli eroi: l’Eroe par excellence. Lontano dalla madre diventa l’Eroe, sinonimo di virilità.
A questo punto, a questo primo stadio della saga si sovrappone l’altro elemento, che sarà quello dominante, ed è il parricidio che l’eroe compie, in nome di tutta l’orda achea, nella figura di Ettore, il primo tra i Troiani e il difensore della città e la donna tra le sue mura.
Anche il mito greco ci insegna che la conditio sine qua non per la virilità, è l’allontanamento dall’oggetto della fissazione incestuosa.
Come Eroe, diventerà l’interprete di un’altra istantanea della saga iniziatica greca.
Come parricida verrà punito con la morte e non potrà assistere all’incesto perpetrato dall’orda Achea sulla città.
L’incesto verrà perpetrato da Ulisse, attraverso il cavallo, simbolo fallico, e la sua astuzia, chiave all’apertura della città e al suo possesso.
Ulisse rappresenta l’incesto consumato.
Per questo peccato, che il mito greco traduce in hybris, arroganza verso dio-padre, viene condannato ad un lungo esilio (9).
L’esilio, che Giacobbe e Giuseppe avevano dovuto subire, come soluzione e mezzo apotropaico contro la fissazione incestuosa, in Ulisse si traduce in punizione post factum.
I contenuti sono gli stessi.
Dalla psicoanalisi abbiamo imparato che nella psiche non c’è differenza tra fatti e fantasie.
L’incesto di Giacobbe e di Giuseppe, perpetrati nella fantasia, equivalevano ad incesti reali, e la loro punizione fu l’esilio.
Nel mito greco l’incesto perpetrato, attraverso il cavallo, nel corpo della città di Troia, fu punito con un esilio equivalente.
Per poter tornare a casa, Ulisse dovette essere allontanato dall’oggetto della sua fissazione incestuosa, personificato dalla città di Troia. E per dieci lunghi anni vagò in un rito iniziatico, consumato attraverso le gesta del suo peregrinare: le sue lotte con i mostri, femminili e maschili, da Polifemo a Circe, la maga che voleva trattenerlo, come Rebecca la madre-amante di Giacobbe aveva trattenuto il figlio troppo lungamente nel suo grembo.
Da qui tutte queste figure femminili, che nell’Odissea tentano di trattenere l’eroe: Circe, Calipso, Nausica, le Sirene.
Il mito italico della leggenda di Enea ricalca alcuni degli stessi elementi: Didone tenta di legare a sé l’Eroe, che è sulla strada per la fondazione di un nuovo regno.
Vent’anni Giacobbe era stato tenuto lontano da casa, Giuseppe per un periodo equivalente, poiché quando ritrova la famiglia aveva lui stesso due figli dell’età che aveva avuto lui quando fu staccato dai genitori, Ulisse deve vagare dieci anni ed Enea, analogamente, un lungo periodo.
Nelle saghe di tutti questi eroi esistono delle donne che non vogliono lasciarli andare, vogliono legarli a sé e impedire loro di compiere la propria missione:
Giacobbe- la madre Rebecca.
Achille-Teti.
Giuseppe- la moglie di Potifar, al punto che per sottrarsi alle sue brame deve persino lasciarle nelle mani la veste (Gn.39, 12-15).
Ulisse-Circe, Calipso, Nausicaa, le Sirene.
Enea-Didone.
Tutti questi: Giacobbe, Giuseppe, Achille, Ulisse, Enea, sono i giovani la cui vita è un’epopea iniziatica, una lotta contro le proprie fissazioni incestuose, e alla fine una vittoria.
Solo dopo diventano capotribù, come Giacobbe, o re, come Giuseppe e Ulisse , o grandi eroi, come Achille, o fondatori di città come Enea: Padri nel vero senso della parola.
Vi è ancora un anello di connessione, che vogliamo provare ad esaminare.
Giacobbe, il giovane senza peli, viene coperto dalla pelle di due capretti per ingannare il padre.
Ulisse viene coperto da una pecora per poter ingannare Polifemo. E questi è il figlio-sostituto di Poseidone, il dio offeso dall’incesto di Odisseo.
È un parallelismo interessante.
Giacobbe, dalla fissazione incestuosa verso la madre, cerca d’ingannare il padre travestendosi da capro, che per gli Ebrei è l’antico totem, il montone simbolo del padre stesso (10). Per i Greci il capro è Dioniso, ugualmente un dio sbranato in un rito totemico cannibalistico (11).
Dunque entrambi per ingannare il padre o dio-Padre, che è equivalente, ne prendono le sembianze.
Questo è esattamente quello che avviene nei riti del pasto totemico in cui i figli si identificano con il padre ucciso e ne prendono le sembianze, divorandone il corpo e incorporando così le sue qualità, imitandone la voce e mimandone i movimenti (12).
Nei riti della pubertà questa identificazione dei figli con la generazione dei padri viene enfatizzata ed è lo scopo di tutto il rito iniziatico (13).
Quindi vediamo come sia l’eroe biblico che quello greco, come parte del rito iniziatico, soluzione delle proprie pulsioni incestuose, si identificano con il simbolo del padre: il capro.
Giacobbe però, non riesce ad imitarne la voce.
Con le parole di Isacco: “La voce è la voce di Giacobbe ma le braccia sono le braccia di Esau”.
Non era ancora maturo. La sua voce lo tradiva, non era quella giusta, non riusciva a mimare il padre-totem ucciso.
E quindi deve fuggire. Rimandare il rito iniziatico.
Aveva tentato, con una scorciatoia, attraverso l’inganno, di carpire il premio che spetta a chi riesce a superare i riti della pubertà, simboleggiato nel mito biblico dalla primogenitura: il risultato erano stati il senso di colpa e la fuga.
Anche Ulisse apparentemente riesce ad ingannare Polifemo travestendosi da capro,  mimetizzandosi tra il gregge.
Lo stesso inganno, lo stesso significato.
Ma vi è di più.
Nel mito greco Ulisse acceca Polifemo.
Il mito biblico ci racconta che Isacco era cieco.
Il mito greco, che è sempre più esplicito dell’ermetica condensazione delle saghe ebraiche, ci racconta che Ulisse accecò il gigante.
E, come ci insegna la psicoanalisi, ogni gigante nelle fantasie e nel prodotto onirico rappresenta la figura del Padre.
Quindi, possiamo portare avanti il parallelismo tra i due miti implicando che anche il racconto biblico celi un’intenzione aggressiva di Giacobbe verso il padre
L’occhio è il simbolo del genitale e guardare è un atto erotico aggressivo (14).
Interessante notare che anche nella saga di Noè “Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto” (Gn.9,22) e così facendo si attirò la maledizione paterna.
Rashi (15) aveva capito che un semplice peccato di voyerismo non sarebbe stato sufficiente ad attirarsi una maledizione così atroce, e infatti spiega, nel suo commento a questo versetto, che Cam aveva evirato il padre.
Quello che il mito greco ci racconta in maniera esplicita, nel mito ebraico viene sempre velato dalla censura, ma emerge ciononostante, attraverso il simbolismo che sintetizza la descrizione.
Dove il mito greco ci racconta di Crono che evira Urano, la cosmogonia ebraica ci descrive strane storie indecifrabili, dove l’atto d’evirazione è sempre celato e malamente rimosso.
La Bibbia non ci racconta esplicitamente come Isacco sia diventato cieco, ma associa la cecità del patriarca all’inganno di Giacobbe, e al terrore di quest’ultimo della maledizione paterna.
Come Cam era stato maledetto dal padre per il sacrilegio del membro genitale di questi.
La maledizione biblica è quasi sempre associata ad una connotazione genitale:
Come ci ha mostrato Reik , Adamo era stato maledetto da Dio per un atto di cannibalismo-evirazione verso il corpo di del Dio-Padre, personificato dall’albero (16).
Noè aveva maledetto il figlio per lo stesso sacrilegio (Gn. 9-22).
Giacobbe stesso maledirà Ruben poiché questi aveva profanato il talamo paterno (Gn.49,3-4), giacendo con la di lui concubina, e maledirà Simeone e Levi poiché avevano assassinato gli abitanti di Sichem, mentre questi stavano ancora soffrendo le pene della circoncisione (Gn.49,5-7).
Quindi il mito biblico, quando ci racconta che Isacco era cieco e Giacobbe tentò d’ingannarlo travestendosi da capro, ci racconta anche delle fantasie di evirazione del figlio verso il padre: a queste ben si addice il terrore di Giacobbe di venire maledetto.
Queste fantasie infantili di uccidere il padre, evirarlo e impossessarsi del suo grosso membro vengono superate dall’atto iniziatico riuscito.
Dopodiché il giovane si identifica con la generazione dei padri e viene accettato nella comunità degli adulti. E non deve più fuggire.
Giacobbe, alle soglie dei riti della pubertà, nella fantasia evira il padre e fugge.
Come Ulisse.
Diversi sono gli uomini, ma simili i loro bisogni.

Links:

Zoppi e altri mutilati

Uccidere Dio (Dall'assassinio di Mosè all'omicidio di Rabin)

Es e Io nello specchio di Apollo e di Dioniso

liviolev@zahav.net.il
 
 

NOTE




(1) Vent’anni Giacobbe era stato lontano da casa, come lui stesso dice allo zio che lo inseguiva (Gn.31,38).
Giacobbe era il figlio minore. A questo proposito è illuminante quello che ci dice Freud sui figli minori e il loro ruolo nel parricidio primordiale: ": “Eroe fu colui che da solo aveva ammazzato il padre il quale nel mito compariva come mostro totemico. Come il padre era stato il primo ideale del bimbo maschio, così ora nell’eroe, che vuole sostituire il padre, il poeta creò il primo ideale dell’Io. L’anello di congiunzione con l’eroe venne probabilmente fornito dal figlio ultimogenito, quello prediletto dalla madre, che da lei era stato protetto contro la gelosia paterna, e che ai tempi dell’orda primordiale era divenuto il successore del padre”( Sigmund Freud, “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921), in O.S.F, vol. 9, p. 323). Come evidenzia Reik (Cfr. nota 3), durante i riti della pubertà iniziatici il parricidio primordiale viene reattivato per essere catartizzato dal rito.

(2) Theodor Reik è stato il primo ad interpretare la lotta di Giacobbe con l’angelo, come un rito di iniziazione, poiché contiene tutti gli elementi di questi riti, vedi: Theodor Reik, “The Wrestling of Jacob”, in Dogma and Compulsion, International Universities Press, New York 1951, pp.229-251.
Inoltre è interessante notare come, quando egli fugge da Labano con la famiglia, lo zio lo insegue per sette giorni (Gn. 31,23). La  distanza tra Carran, dove si trovava, e Galaad, al nord della Palestina, è ben più di sette giorni di cammino. Il numero sette che, come abbiamo dimostrato in I Numeri sacri e il loro simbolismo è un numero legato ai riti della pubertà, tradisce la natura iniziatica della sua fuga da Labano, che si conclude con la lotta con l’angelo.

(3) Per tutti i vari stadi dei riti iniziatici vedi: T. Reik, “I Riti della Pubertà ”, in Il Rito Religioso, Boringhieri, Torino 1949 e 1969, pp.104 segg. (Trad. It. di “the Ritual”, Farrar Strauss & Co, New York  1946).
Per la circoncisione, come evirazione simbolica e cambiamento del nome agli iniziati, come conseguenza del rito, vedi  pp.133 segg.

(4) T.Reik, "The Wrestling of Jakob", in Dogma and Compulsion, op. cit. p. 245.

(5) Sigmund Freud, “L’Uomo Mosè ”, terzo saggio, in Opere, B. Boringhieri, Torino 1989, Vol. 11, pp. 398-9.

(6) Ibidem, pp. 442-3.

(7)  In ebraico la parola bor, pozzo, cisterna, significa anche prigione, poiché nei tempi antichi scavavano una cisterna nel suolo e vi mettevano i prigionieri affinché non potessero risalire e sfuggire.

(8) T. Reik, “ I Riti della Pubertà ”, in Il Rito Religioso, Boringhieri, Torino 1949., pp. 129-137.

(9) Anche se Ulisse era già re di Itaca prima di partire per la guerra di Troia, il vero senso del mito ci diviene chiaro solo se cominciamo la sua epopea da quando si trova sotto le mura della città.
Ogni storia, ovviamente, è tenuta insieme da elementi introdotti al fine di dare un filo logico al racconto. Per comprendere quale fosse il messaggio vero che il mito voleva tramandarci, quello latente, dobbiamo distillarlo da tutti questi elementi estranei. Inoltre ogni mito contiene anche delle sovrapposizioni, ovvero c’è sempre anche un’altra storia dentro la storia. Generalmente la parte manifesta ha una pretesa “storica”, come l’epopea di Ulisse, che comincia quando è padre e marito felice, prima della guerra di Troia, e la parte latente è quella i cui elementi vengono celati nella prima. Per quel che riguarda i miti e il loro significato latente, vd., Karl Abraham, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1975 e 1997, vol. 2, pp. 738-739.

(10) T. Reik, "Lo Shofar", in op. cit., pp.230 sgg.

(11) S. Freud, “Totem e Tabù ”, in op. cit., Vol. 7, pp. 156-7

(12) Ibidem, p.144.

(13) T. Reik, "I Riti della Pubertà" , in op. cit., pp.129-137 e 143-160.

(14) Karl Abraham, “Limitazione del piacere di guardare”, in Opere, B. Boringhieri, Torino 1997, Vol. II, pp. 577-80.

(15) Il più importante dei commentatori biblici. Visse in Francia nell’ XI sec. della nostra era.

(16) T. Reik, Myth and Guilt, George Braziller, New York 1957, pp. 130-155 e 161-7;
  T.Reik, “I Riti della Pubertà ”, in Il Rito Religioso, op. cit., pp. 134-5.
 
 


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