DA GIACOBBE A ULISSE. UNA COAZIONE A RIPETERE.
Marzo 2002
Isacco prediligeva Esaù,
perché la cacciagione era di suo gusto,
mentre Rebecca prediligeva Giacobbe (Gn.25,28)
Giacobbe
La Bibbia ci racconta di due fratelli, Esaù che
era “un uomo della steppa” e Giacobbe che “era un uomo tranquillo che dimorava
sotto le tende” (Gn.25,27).
Dunque mentre Esaù cacciava e si occupava di cose
virili, il fratello minore rimaneva nel campo, insieme alle donne.
La madre prediligeva quest’ultimo al fratello, e il carattere
di Giacobbe, invece di temprarsi attraverso la caccia e la lotta, rischiava
di indebolirsi, attraverso la continua vicinanza con le donne.
Oggi diremmo che la madre lo viziava.
E infatti, al momento cruciale, Rebecca gli dice:
Ora, figlio mio, obbedisci al mio ordine: Và subito al gregge e prendimi di là due bei capretti; io ne farò un piatto per tuo padre, secondo il suo gusto. Così tu lo porterai a tuo padre che ne mangerà, perché ti benedica prima della sua morte”. Rispose Giacobbe a Rebecca sua madre: “Sai che mio fratello è peloso, mentre io ho la pelle liscia. Forse mio padre mi palperà e si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione”. Ma la madre gli disse: “Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu obbedisci soltanto e vammi a prendere i capretti (Gn.27,8-13).In seguito la storia ci racconta come Giacobbe fece quello che gli aveva detto la madre. Questa preparò il piatto preferito di Isacco, prese i vestiti migliori di Esaù, li diede al figlio prediletto e “con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e le parti lisce del collo” di modo che il padre, tastandolo, lo creda il figlio maggiore.
Giuseppe
La saga di Giuseppe, preferito del padre e figlio primogenito
di Rachele, la moglie prediletta, presenta tratti comuni e tratti divergenti.
Anch’egli era sempre intorno ai genitori e vezzeggiato
da questi, e mostra tratti comuni del bambino viziato, come era stato per
Giacobbe.
Invece di seguire i fratelli ed identificarsi con loro,
dalla sua posizione di “primo della classe” li snobbava, sicuro della protezione
paterna.
Anche per lui, figlio di una tribù di pastori,
sarebbe finita male quando, il giorno del rito iniziatico, i nodi sarebbero
venuti al pettine.
Anche in lui, probabilmente, si era creata la stessa
fissazione incestuosa verso il padre e la madre, e i sui sogni sono l’espressione
di un narcisismo infantile non superato (Gn. 37, 5-10), al punto che il
padre si irrita e si preoccupa per la sorte di questo adolescente ancora
bambino. La vita del seminomade di una tribù di pastori non prende
prigionieri e il padre, che aveva esperimentato sulla propria persona la
minaccia dell’ira del fratello maggiore, temeva per la vita del suo figlio
prediletto.
L’eterno ritorno di Nietzsche, o la coazione a ripetere
di Freud , si rispecchiavano nell’impossibilità di Giacobbe di evitare
di ripetere con il figlio amato gli stessi errori in cui la madre era incorsa
nella sua educazione.
Salomone, il più saggio degli uomini, lancerà
l’avvertimento, qualche centinaia di anni dopo: “Chi odia suo figlio, gli
risparmia il bastone!” (Prov.13,24).
Giacobbe si era identificato con il figlio e, viziandolo,
ripeteva così su sé stesso i vezzeggiamenti ricevuti dalla
madre e riviveva, attraverso di lui, le proprie esperienze infantili rimosse.
Aveva fatto al proprio figlio lo stesso danno che la
madre aveva fatto a lui.
Fino che si trattava di un bambino i nodi non erano venuti
al pettine, ma adesso che si trattava di un adolescente l’ombra dell’invidia
dei fratelli si faceva sempre più minacciosa.
Come Rebecca era corsa ai ripari all’ultimo momento,
Giacobbe cerca di fare un ultimo patetico undoing, mandando il figlio
a trovare i fratelli che pascolavano le greggi a centinaia di chilometri
di distanza (Gn. 27,14), allontanandolo dai genitori, la meta delle sue
fissazioni incestuose, per indurlo a crescere.
Ma qui subentrano delle componenti che esigono un chiarimento.
Rileggiamo insieme i passi che ci interessano:
Lo narrò dunque al padre [il secondo sogno] e ai fratelli e il padre lo rimproverò e gli disse: “Che sogno è questo che hai fatto! Dovremmo forse venire io e tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?” I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui, ma suo padre tenne in mente la cosa. I suoi fratelli andarono a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: “Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni ti voglio mandare da loro” (Gn.37, 10-12).Giuseppe racconta al padre e ai fratelli i suoi sogni impudenti, rilevando una mancanza di pudore e d’istinto di conservazione, caratteristici di un bambino immaturo, che non ha ancora imparato a misurarsi con le realtà della vita, e che crede che tutti lo debbano amare per i suoi begli occhi (Gn.37 ,5-9).
Il mito greco
Abbiamo visto come, nella saga biblica, la soluzione delle
fissazioni incestuose è l’esilio, e ci pare anche di averne capito
il motivo.
Nel mito greco, una madre similmente attaccata al figlio
come Rebecca a Giacobbe, deve essere stata Teti, la madre di Achille.
Per impedirgli di andare alla guerra di Troia lo aveva
nascosto tra le donne e travestito come queste (Apollodoro 3.13.8).
Anche se il mito greco razionalizza le motivazioni della
dea come il fato che incombeva su Achille di non tornare dalla guerra,
dalla leggenda trapela, ciononostante, la forte componente omosessuale
nel comportamento di Achille e la tendenza della madre di farne “la sua
bambina”. Questi elementi si tradiscono nell’espediente escogitato da Teti,
tra tutte le alternative possibili, di vestire il figlio da donna, ovvero,
di farne un “travestito”.
Anche qui, come Giacobbe era emerso il più forte
e Giuseppe diventò l’eroe principale della saga, anche Achille,
una volta allontanato dalla madre e dalle donne, mandato in esilio a combattere
una guerra non sua, diventa il primo tra gli eroi: l’Eroe par excellence.
Lontano dalla madre diventa l’Eroe, sinonimo di virilità.
A questo punto, a questo primo stadio della saga si sovrappone
l’altro elemento, che sarà quello dominante, ed è il parricidio
che l’eroe compie, in nome di tutta l’orda achea, nella figura di Ettore,
il primo tra i Troiani e il difensore della città e la donna tra
le sue mura.
Anche il mito greco ci insegna che la conditio sine
qua non per la virilità, è l’allontanamento dall’oggetto
della fissazione incestuosa.
Come Eroe, diventerà l’interprete di un’altra
istantanea della saga iniziatica greca.
Come parricida verrà punito con la morte e non
potrà assistere all’incesto perpetrato dall’orda Achea sulla città.
L’incesto verrà perpetrato da Ulisse, attraverso
il cavallo, simbolo fallico, e la sua astuzia, chiave all’apertura della
città e al suo possesso.
Ulisse rappresenta l’incesto consumato.
Per questo peccato, che il mito greco traduce in hybris,
arroganza verso dio-padre, viene condannato ad un lungo esilio (9).
L’esilio, che Giacobbe e Giuseppe avevano dovuto subire,
come soluzione e mezzo apotropaico contro la fissazione incestuosa, in
Ulisse si traduce in punizione post factum.
I contenuti sono gli stessi.
Dalla psicoanalisi abbiamo imparato che nella psiche
non c’è differenza tra fatti e fantasie.
L’incesto di Giacobbe e di Giuseppe, perpetrati nella
fantasia, equivalevano ad incesti reali, e la loro punizione fu l’esilio.
Nel mito greco l’incesto perpetrato, attraverso il cavallo,
nel corpo della città di Troia, fu punito con un esilio equivalente.
Per poter tornare a casa, Ulisse dovette essere allontanato
dall’oggetto della sua fissazione incestuosa, personificato dalla città
di Troia. E per dieci lunghi anni vagò in un rito iniziatico, consumato
attraverso le gesta del suo peregrinare: le sue lotte con i mostri, femminili
e maschili, da Polifemo a Circe, la maga che voleva trattenerlo, come Rebecca
la madre-amante di Giacobbe aveva trattenuto il figlio troppo lungamente
nel suo grembo.
Da qui tutte queste figure femminili, che nell’Odissea
tentano di trattenere l’eroe: Circe, Calipso, Nausica, le Sirene.
Il mito italico della leggenda di Enea ricalca alcuni
degli stessi elementi: Didone tenta di legare a sé l’Eroe, che è
sulla strada per la fondazione di un nuovo regno.
Vent’anni Giacobbe era stato tenuto lontano da casa,
Giuseppe per un periodo equivalente, poiché quando ritrova la famiglia
aveva lui stesso due figli dell’età che aveva avuto lui quando fu
staccato dai genitori, Ulisse deve vagare dieci anni ed Enea, analogamente,
un lungo periodo.
Nelle saghe di tutti questi eroi esistono delle donne
che non vogliono lasciarli andare, vogliono legarli a sé e impedire
loro di compiere la propria missione:
Giacobbe- la madre Rebecca.
Achille-Teti.
Giuseppe- la moglie di Potifar, al punto che per sottrarsi
alle sue brame deve persino lasciarle nelle mani la veste (Gn.39, 12-15).
Ulisse-Circe, Calipso, Nausicaa, le Sirene.
Enea-Didone.
Tutti questi: Giacobbe, Giuseppe, Achille, Ulisse, Enea,
sono i giovani la cui vita è un’epopea iniziatica, una lotta contro
le proprie fissazioni incestuose, e alla fine una vittoria.
Solo dopo diventano capotribù, come Giacobbe,
o re, come Giuseppe e Ulisse , o grandi eroi, come Achille, o fondatori
di città come Enea: Padri nel vero senso della parola.
Vi è ancora un anello di connessione, che vogliamo
provare ad esaminare.
Giacobbe, il giovane senza peli, viene coperto dalla
pelle di due capretti per ingannare il padre.
Ulisse viene coperto da una pecora per poter ingannare
Polifemo. E questi è il figlio-sostituto di Poseidone, il dio offeso
dall’incesto di Odisseo.
È un parallelismo interessante.
Giacobbe, dalla fissazione incestuosa verso la madre,
cerca d’ingannare il padre travestendosi da capro, che per gli Ebrei è
l’antico totem, il montone simbolo del padre stesso (10). Per i Greci il
capro è Dioniso, ugualmente un dio sbranato in un rito totemico
cannibalistico (11).
Dunque entrambi per ingannare il padre o dio-Padre, che
è equivalente, ne prendono le sembianze.
Questo è esattamente quello che avviene nei riti
del pasto totemico in cui i figli si identificano con il padre ucciso e
ne prendono le sembianze, divorandone il corpo e incorporando così
le sue qualità, imitandone la voce e mimandone i movimenti (12).
Nei riti della pubertà questa identificazione
dei figli con la generazione dei padri viene enfatizzata ed è lo
scopo di tutto il rito iniziatico (13).
Quindi vediamo come sia l’eroe biblico che quello greco,
come parte del rito iniziatico, soluzione delle proprie pulsioni incestuose,
si identificano con il simbolo del padre: il capro.
Giacobbe però, non riesce ad imitarne la voce.
Con le parole di Isacco: “La voce è la voce di
Giacobbe ma le braccia sono le braccia di Esau”.
Non era ancora maturo. La sua voce lo tradiva, non era
quella giusta, non riusciva a mimare il padre-totem ucciso.
E quindi deve fuggire. Rimandare il rito iniziatico.
Aveva tentato, con una scorciatoia, attraverso l’inganno,
di carpire il premio che spetta a chi riesce a superare i riti della pubertà,
simboleggiato nel mito biblico dalla primogenitura: il risultato erano
stati il senso di colpa e la fuga.
Anche Ulisse apparentemente riesce ad ingannare Polifemo
travestendosi da capro, mimetizzandosi tra il gregge.
Lo stesso inganno, lo stesso significato.
Ma vi è di più.
Nel mito greco Ulisse acceca Polifemo.
Il mito biblico ci racconta che Isacco era cieco.
Il mito greco, che è sempre più esplicito
dell’ermetica condensazione delle saghe ebraiche, ci racconta che Ulisse
accecò il gigante.
E, come ci insegna la psicoanalisi, ogni gigante nelle
fantasie e nel prodotto onirico rappresenta la figura del Padre.
Quindi, possiamo portare avanti il parallelismo tra i
due miti implicando che anche il racconto biblico celi un’intenzione aggressiva
di Giacobbe verso il padre
L’occhio è il simbolo del genitale e guardare
è un atto erotico aggressivo (14).
Interessante notare che anche nella saga di Noè
“Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto” (Gn.9,22) e così
facendo si attirò la maledizione paterna.
Rashi (15) aveva capito che un semplice peccato di voyerismo
non sarebbe stato sufficiente ad attirarsi una maledizione così
atroce, e infatti spiega, nel suo commento a questo versetto, che Cam aveva
evirato il padre.
Quello che il mito greco ci racconta in maniera esplicita,
nel mito ebraico viene sempre velato dalla censura, ma emerge ciononostante,
attraverso il simbolismo che sintetizza la descrizione.
Dove il mito greco ci racconta di Crono che evira Urano,
la cosmogonia ebraica ci descrive strane storie indecifrabili, dove l’atto
d’evirazione è sempre celato e malamente rimosso.
La Bibbia non ci racconta esplicitamente come Isacco
sia diventato cieco, ma associa la cecità del patriarca all’inganno
di Giacobbe, e al terrore di quest’ultimo della maledizione paterna.
Come Cam era stato maledetto dal padre per il sacrilegio
del membro genitale di questi.
La maledizione biblica è quasi sempre associata
ad una connotazione genitale:
Come ci ha mostrato Reik , Adamo era stato maledetto
da Dio per un atto di cannibalismo-evirazione verso il corpo di del Dio-Padre,
personificato dall’albero (16).
Noè aveva maledetto il figlio per lo stesso sacrilegio
(Gn. 9-22).
Giacobbe stesso maledirà Ruben poiché questi
aveva profanato il talamo paterno (Gn.49,3-4), giacendo con la di lui concubina,
e maledirà Simeone e Levi poiché avevano assassinato gli
abitanti di Sichem, mentre questi stavano ancora soffrendo le pene della
circoncisione (Gn.49,5-7).
Quindi il mito biblico, quando ci racconta che Isacco
era cieco e Giacobbe tentò d’ingannarlo travestendosi da capro,
ci racconta anche delle fantasie di evirazione del figlio verso il padre:
a queste ben si addice il terrore di Giacobbe di venire maledetto.
Queste fantasie infantili di uccidere il padre, evirarlo
e impossessarsi del suo grosso membro vengono superate dall’atto iniziatico
riuscito.
Dopodiché il giovane si identifica con la generazione
dei padri e viene accettato nella comunità degli adulti. E non deve
più fuggire.
Giacobbe, alle soglie dei riti della pubertà,
nella fantasia evira il padre e fugge.
Come Ulisse.
Diversi sono gli uomini, ma simili i loro bisogni.
Links:
Uccidere Dio (Dall'assassinio di Mosè all'omicidio di Rabin)
Es e Io nello specchio di Apollo e di Dioniso
NOTE
(1) Vent’anni Giacobbe era stato lontano da casa, come
lui stesso dice allo zio che lo inseguiva (Gn.31,38).
Giacobbe era il figlio minore. A questo proposito è
illuminante quello che ci dice Freud sui figli minori e il loro ruolo nel
parricidio primordiale: ": “Eroe fu colui che da solo aveva ammazzato
il padre il quale nel mito compariva come mostro totemico. Come il padre
era stato il primo ideale del bimbo maschio, così ora nell’eroe,
che vuole sostituire il padre, il poeta creò il primo ideale dell’Io.
L’anello di congiunzione con l’eroe venne probabilmente fornito dal figlio
ultimogenito, quello prediletto dalla madre, che da lei era stato protetto
contro la gelosia paterna, e che ai tempi dell’orda primordiale era divenuto
il successore del padre”( Sigmund Freud, “Psicologia delle masse e
analisi dell’Io” (1921), in O.S.F, vol. 9, p. 323). Come evidenzia Reik
(Cfr. nota 3), durante i riti della pubertà iniziatici il parricidio
primordiale viene reattivato per essere catartizzato dal rito.
(2) Theodor Reik è stato il primo ad interpretare
la lotta di Giacobbe con l’angelo, come un rito di iniziazione, poiché
contiene tutti gli elementi di questi riti, vedi: Theodor Reik, “The Wrestling
of Jacob”, in Dogma and Compulsion, International Universities Press,
New York 1951, pp.229-251.
Inoltre è interessante notare come, quando egli
fugge da Labano con la famiglia, lo zio lo insegue per sette giorni (Gn.
31,23). La distanza tra Carran, dove si trovava, e Galaad, al nord
della Palestina, è ben più di sette giorni di cammino. Il
numero sette che, come abbiamo dimostrato in I
Numeri sacri e il loro simbolismo è un numero legato ai riti
della pubertà, tradisce la natura iniziatica della sua fuga da Labano,
che si conclude con la lotta con l’angelo.
(3) Per tutti i vari stadi dei riti iniziatici vedi: T.
Reik, “I Riti della Pubertà ”, in Il Rito Religioso, Boringhieri,
Torino 1949 e 1969, pp.104 segg. (Trad. It. di “the Ritual”, Farrar Strauss
& Co, New York 1946).
Per la circoncisione, come evirazione simbolica e cambiamento
del nome agli iniziati, come conseguenza del rito, vedi pp.133 segg.
(4) T.Reik, "The Wrestling of Jakob", in Dogma and Compulsion, op. cit. p. 245.
(5) Sigmund Freud, “L’Uomo Mosè ”, terzo saggio, in Opere, B. Boringhieri, Torino 1989, Vol. 11, pp. 398-9.
(6) Ibidem, pp. 442-3.
(7) In ebraico la parola bor, pozzo, cisterna, significa anche prigione, poiché nei tempi antichi scavavano una cisterna nel suolo e vi mettevano i prigionieri affinché non potessero risalire e sfuggire.
(8) T. Reik, “ I Riti della Pubertà ”, in Il Rito Religioso, Boringhieri, Torino 1949., pp. 129-137.
(9) Anche se Ulisse era già re di Itaca prima di
partire per la guerra di Troia, il vero senso del mito ci diviene chiaro
solo se cominciamo la sua epopea da quando si trova sotto le mura della
città.
Ogni storia, ovviamente, è tenuta insieme da elementi
introdotti al fine di dare un filo logico al racconto. Per comprendere
quale fosse il messaggio vero che il mito voleva tramandarci, quello latente,
dobbiamo distillarlo da tutti questi elementi estranei. Inoltre ogni mito
contiene anche delle sovrapposizioni, ovvero c’è sempre anche un’altra
storia dentro la storia. Generalmente la parte manifesta ha una pretesa
“storica”, come l’epopea di Ulisse, che comincia quando è padre
e marito felice, prima della guerra di Troia, e la parte latente è
quella i cui elementi vengono celati nella prima. Per quel che riguarda
i miti e il loro significato latente, vd., Karl Abraham, in Opere, Bollati
Boringhieri, Torino 1975 e 1997, vol. 2, pp. 738-739.
(10) T. Reik, "Lo Shofar", in op. cit., pp.230 sgg.
(11) S. Freud, “Totem e Tabù ”, in op. cit., Vol. 7, pp. 156-7
(12) Ibidem, p.144.
(13) T. Reik, "I Riti della Pubertà" , in op. cit., pp.129-137 e 143-160.
(14) Karl Abraham, “Limitazione del piacere di guardare”, in Opere, B. Boringhieri, Torino 1997, Vol. II, pp. 577-80.
(15) Il più importante dei commentatori biblici. Visse in Francia nell’ XI sec. della nostra era.
(16) T. Reik, Myth and Guilt, George Braziller,
New York 1957, pp. 130-155 e 161-7;
T.Reik, “I Riti della Pubertà ”, in
Il
Rito Religioso, op. cit., pp. 134-5.