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JACQUES CHAILLEY

LA QUERELLE
TRA MUSICA FRANCESE E ITALIANA


STORIA DELL'OPERA UTET II, 1

pp. 31-34

I successori di Lully, come abbiamo visto, non si erano discostati molto dagli schemi generali che questi aveva loro tramandato. Tutt'al più si permettevano piccole innovazioni, l'introduzione di qualche elemento desunto dall'opera italiana e qualche ricerca nel campo orchestrale. I librettisti, anche i migliori, non avevano altra ambizione che quella di eguagliare il grande Quinault. Quanto al teatro, in senso tecnico, continuava a funzionare secondo l'impulso che la rigida, ma efficace direzione di Lully gli aveva impresso. Più che altro si era giudicato opportumo affidare a Destouches la redazione del suo regolamento. Dopo più di mezzo secolo però, verso il 1750, si cominciavano a rilevare chiari segni di decadenza. La vivacità del recitativo, il ritmo inesorabile dei tempi veloci, che Lully esigeva, si erano imbastarditi al punto che le rappresentazioni di uno stesso lavoro duravano un'ora buona in più rispetto al tempo delle prime rappresentazioni. Le attrici cominciavano a permettersi capricci che mai sarebbero stati tollerati durante la vita del grande musicista. La qualità e la disciplina dell'orchestra andava deteriorandosi; questo gruppo compatto, che era stato il migliore complesso europeo e che l'élite del pubblico straniero veniva ad ascoltare espressamente, era diventato nulla più che un insieme di funzionari, che J.-J. Rousseau canzona ferocemente, facendo scrivere ad un immaginario symphoniste dell'Opéra:
«Ho visto il momento che, infrangendo senza pudore i nostri antichi e rispettabili privilegi, quasi si stava per imporre agli officiers du roi di saper la musica e di suonare per davvero lo strumento per cui sono pagati...
Ora, chiunque ritiene impudentemente di poter venire a controllare le nostre esecuzioni; e siccome non suoniamo molto bene, e non c'è quasi mai accordo tra i nostri strumenti, ci trattano sgarbatamente da raschiabudella e ci scaccierebbero volentieri dallo spettacolo, se le sentinelle... non mantenessero un po' l'ordine e il rispetto».
Tuttavia i parigini, con un po' di sciovinismo, si ostinavano a considerare con ammirazione la loro Académie Royale de Musique, anche se viaggiatori e critici bene informati, come l'abate Raguenet, con un libro pubblicato nel 1702, Lecerf de la Viéville nel 1704-1705, e ancora numerosi altri, la giudicavano molto inferiore ai teatri italiani. Il confronto, temibile, ma poi fruttuoso per l'Opéra di Parigi, doveva avvenire inevitabilmente; giunse assai tardi perché il gran pubblico, male informato, si interessava poco al problema e si riteneva soddisfatto della sola musica che conosceva. Per circa mezzo secolo la discussione rimase quasi esclusivamente nell'ambito dei salotti d'élite. Solo verso il 1752 cominciò ad assumere dimensioni più consistenti, ma in modo eccessivo, tanto da sembrare quasi una questione di Stato.
Al principio dell'anno il barone tedesco Melchior Grimm aveva pubblicato a Parigi, in occasione della replica all'Opéra dell'Omphale, lavoro di Destouches già noto da tempo, un piccolo saggio, la celebre Lettre sur Omphale. Con questo scritto protestava contro la routine dell'Opéra, contrapponendovi la bellezza ardita dell'arte lirica italiana, pur essendo favorevole alle ultime composizioni di Rameau (di cui parleremo in seguito). Prendendo a pretesto quest'opuscolo e una specie di risposta che aveva suscitato, Jean-Jacques Rousseau pubblicò, come scritta da anonimo, la sua Lettre à Monsieur Grimm au suiet des remarques ajoutées à la lettre sur Omphale: qui condivideva senza riserve gli elogi del suo amico per l'opera italiana, ma non esitava a criticare l'opera lirica di Rameau. La cosa sarebbe forse rimasta a questo punto, se contemporaneamente uno strano incidente amministrativo non avesse obbligato una compagnia di commedianti italiani, che avevano stipulato un contratto con un teatro di Rouen, a venire a cantare a Parigi. Effettivamente, secondo i termini del privilegio accordato all'Opéra, nessun teatro di Francia o di Navarra era autorizzato a rappresentare opere liriche.
La compagnia italiana, il cui contratto era quindi ipso facto senza valore, fu autorizzata, per una transazione concordata da ambo le parti, ad esibirsi all'Opéra di Parigi. Il 10 agosto 1752 quindi degli Italiani cantarono all'Académie Royale de Musique La serva padrona di Pergolesi nella loro lingua madre; era sicuramente necessaria una certa audacia per confrontare questi due brevi atti comici con tre interpreti (di cui uno non cantava) con le grandi opere nello stile di Lully. Tuttavia tutta una parte del pubblico, di cui i futuri enciclopedisti costituivano l'ala marciante, conquistata dalla vivacità di questa piccola opera, dalla concretezza dei caratteri sottolineati da una musica trepidante, non esitò, a proclamare la sua superiorità sul repertorio abituale dell'Opéra. Ci si dimenticò che questa musica era già stata eseguita a Parigi sei anni prima, e non aveva ottenuto che un successo di stima, e si formarono, detto fatto, due «partiti», uno conservatore e lullista, detto di «quelli dell'angolo del Re» a causa della parte della sala dove si riunivano abitualmente, l'altro progressista e «italiano», detto di «quelli dell'angolo della Regina». Queste due denominazioni non implicavano, almeno all'origine, nessun intervento da parte delle loro Maestà: erano semplicemente l'equivalente delle nostre espressioni che distinguono tra 'cóté cour' e 'cóté jardin'. Vennero scambiati libelli e persino sfide, ma non è sicuro che l'arte ne traesse vantaggio.
Voltaire si lamentava:

«Je vais chercher la paix au temple des chansons,
J'entends crier Lully, Campra, Rameau, Bouffons,
Êtes vous pour la France ou bien pour l'Italie?».

E rispondeva:

«Je suis pour mon piaisir, messieurs...»
Passò un anno, si cominciò a parlare d'altro e i commedianti, da cui il pubblico aveva distolto la sua attenzione, fecero i bagagli. Poco tempo prima, quando già la loro partenza era stata decisa, Rousseau, che fino a quel momento si era accontentato di manifestare rumorosamente la propria ammirazione per Pergolesi (giungendo fino al punto di pagare di tasca sua l'edizione della Serva padrona), accese nuovamente il dibattito. Cominciò col pubblicare la finta Lettre d'un simphoniste de L'Académie Royale de Musique.... di cui abbiamo già parlato; contemporaneamente Grimm, da parte sua, in collaborazione con Diderot aveva diffuso un Pamphlet alla maniera dei racconti popolari tedeschi: Le petit Prophète de Boehmischbroda. Questo scritto, non firmato, come molti altri relativi a questa querelle, valse ai suoi autori, tra i quali si credette riconoscere Rousseau, un successo notevole per la critica e per lo spirito che vi si manifestava.
Ma Rousseau si preoccupava ben poco, in questa occasione, della gloria letteraria: cercava solamente di dare il colpo decisivo a «quelli dell'angolo del Re». E, senza alcun dubbio, nessuna delle pubblicazioni comparse a causa della rivalità, un po' ridicola, delle due musiche (per musica si intende esclusivamente quella lirica) ebbe nella storia del teatro lirico, un'importanza simile a quella della Lettre sur la musique frangaise che stava scrivendo allora. Il suo effetto fu straordinario, «degno della penna di Tacito», egli scrisse. Quando fu pubblicata, ogni altra questione fu dimenticata: «non si pensò più a nient'altro che al pericolo della musica francese... alla Corte non si esitava che tra la Bastiglia e l'esilio...». Approfittando del fermento, i musicisti dell'Opéra, che non gli avevano perdonato la Lettre d'un symphoniste, meditarono forse di assassinarlo, limitandosi di fatto a bruciare un suo ritratto nel cortile del teatro.
La Lettre sur la musique française superò di molto per la sua critica pungente, tutti gli scritti prodotti da «quelli dell'angolo della regina». Riprese e trattò ad uno ad uno tutti gli elementi del problema, e pur senza riuscire a definire sempre perfettamente i termini e le questioni che dilettanti ed eruditi avevano confuso a piacere, realizzò un saggio che nessun artista dell'Opéra francese avrebbe, anche in seguito, potuto ignorare; Rousseau in tal modo apriva bruscamente una prospettiva così ampia che un secolo e mezzo più tardi Romain Rolland definì espressamente questo testo «critiche di un debussista ante litteram» (R. Rolland, Musiciens d'autrelois; cfr. il capitolo Notes sur Lully, Parigi 4 a ediz. 1914, p. 157).
Delle numerosissime risposte che vennero un po' da tutte le parti (Cazotte, Laugier, Baton e anche Rameau) va detto che si limitarono a difendere la tradizione lullista o tutt'al più a suggerire minime modificazioni armoniche sotto il recitativo, senza che alcuna recasse elementi positivi il cui rilievo fosse paragonabile a quelli del saggio di Rousseau.
Questo scritto inizia affermando che la «musica» francese (e qui bisogna intendere che con questo termine si riferiva esclusivamente all'opera, o per lo meno alla lirica) è un genere artificiale, a rigore inesistente. Prosegue poi confrontando le due lingue, con questo discorso, fondamentale per la sua argomentazione:
«Se mi si chiedesse quale, tra tutte le lingue, deve avere la grammatica migliore, risponderei che è quella del popolo che ragiona meglio, ma la lingua italiana che è dolce, sonora, e armoniosa e accettata più di qualsiasi altra è quella più adatta al canto.»
Altrove, dice ancora, alludendo ai compositori francesi, e in particolare a Rameau, senza nominarlo: «Poiché non hanno la possibilità di inventare dei canti gradevoli [sono] obbligati a curare esclusivamente il lato armonico...» Prende ancora ad esaltare un illusoria «unità melodica» di cui gratifica generosamente l'opera italiana di quell'epoca, che sappiamo invece volta soprattutto al virtuosismo vocale. Ammette gli interventi sinfonici in una forma che verrà realizzata da Gluck, ma vorrebbe che il compositore si astenesse completamente dall'uso di «fughe, imitazioni, doppi disegni e altri abbellimenti arbitrari, che quasi altro pregio non hanno se non quello della difficoltà superata...» Di sfuggita scarta come artificiali e contrari al «sentimento della natura» il duo e l'insieme vocale, e consacra l'ultima parte del suo scritto ad un'analisi magistrale del recitativo «Enfin il est dans ma puissance». Vi nota qualche controsenso, alcune mancanze nella declamazione, che a distanza di tempo ci appaiono, piuttosto che veri errori, il frutto della differenza di sensibilità tra due generazioni di musicisti e di pubblico. Condanna quindi il principio stesso del recitativo di Lully, di cui abbiamo precedentemente esaminato la genesi, sempre dignitoso e solenne («... un'oca grassa non può certo volare...») e contrappone ad esso la sua concezione ideale di questo elemento essenziale del dramma lirico. Qualche anno più tardi Gluck trarrà profitto magistralmente da questo commento critico.
La Lettre sur la musique française racchiudeva quindi indiscutibilmente un contenuto positivo. Anche se aveva terminato con la frase famosa (e volontariamente aggressiva quanto ingiusta) che «i Francesi non hanno musica, non possono averne, e se mai ne avessero una, tanto peggio per loro!» Rousseau si era dato nello stesso tempo la smentita più chiara. Infatti, anche lui musicista, più dotato e più istruito di quanto molti critici non abbiano detto di lui, aveva scritto nel 1752 un piccolo «intermezzo d'opera» (in senso stretto, un atto giocoso che doveva essere rappresentato tra due atti di un'opera di ampie dimensioni e di ispirazione drammatica), Le Devin du village, che l'amministrazione dell'Académie Royale de Musique trasformò in un vero spettacolo d'opera, grazie all'aggiunta di un'ouverture e di un divertimento finale. Rousseau credeva ingenuamente di dare, con questa piccola partitura, un esempio di arte lirica italiana in lingua francese. Di fatto la sua opera fu recepita dal pubblico parigino come esclusivamente e autenticamente francese, e il suo successo assai considerevole, durò ancora tre quarti di secolo.
Uno sforzo considerevole per ridar vita alla tradizione dell'opera lullista fa intrapreso al compositore Jean-Joseph Cassanéa de Mondonville, soprattutto nel campo dell'orchestrazione, con la sua opera Titon et l'Aurore (1753). Nonostante un suo innegabile successo, questo tentativo non ebbe seguito. Le idee lanciate da Rousseau e dagli enciclopedisti finirono per sconvolgere la concezione tradizionale dell'opera francese; nel frattempo, J.-Ph. Rameau con le sue innovazioni armoniche ed orchestrali stava impostando in un modo tutto nuovo i vecchi schemi di Lully e di Quinault.