Il mito di Elettra nei tre tragici

di Giacomo Benelli

La saga che sta alla base dell'Elettra tragica è tra le più importanti e note della mitologia greca; è presente, infatti, nell'Odissea, nei Nostoi, nell'Orestea di Stesicoro e in un passo della XI Pitica di Pindaro, ma soprattutto figura nella produzione dei tre grandi tragici. Eschilo trattò questo mito nelle Coefore, seconda opera della trilogia comprendente anche l'Agamennone e le Eumenidi. Protagonista delle Coefore è però Oreste, dato che Elettra esce di scena già al verso 584. Nella concezione eschilea del tragico, ancora legata a moduli arcaici, l'aspetto principale è quello rivestito dall'azione in sé, ossia a quanto accade sulla scena. Da questo punto di vista è giustificato il ruolo di protagonista di Oreste, il quale, compiendo di propria mano il matricidio, è il vero motore dell'azione drammatica. Nella figura di Elettra s'incarna, invece, un dolore profondo, un'intensa disperazione, un disarmante sconforto vissuti così femminilmente in disparte che sarà addirittura la Corifea ad istruirla sulla preghiera da rivolgere agli dèi. In Elettra si riversa l'angoscia di tutto il palazzo reale e di tutta la sua sciagurata stirpe. Questo dolore smisurato ed eccessivo per essere frutto di un'azione umana, è dovuto al suo procedere da una dimensione sovrumana: l'inesorabile legge del genos, che prescrive il principio tribale secondo il quale 'sangue chiama sangue', e così la Corifea esorta Elettra ad invocare gli dèi affinché mandino "uno che ricambi morte con morte", per poi affermare insieme al resto del Coro: "come incudine salda è Giustizia; sull'incudine batte il Destino e foggia sua spada! Ed il figlio [Oreste] sangue su sangue accumula, e nel sangue lava a suo tempo l'antica nefandezza l'inclita Erinni". (trad. M. Valgimigli)

Sulla casa dei Pelopidi, infatti, pesava già la tremenda colpa di Atreo a cui si assommava lo scellerato omicidio di Agamennone uccisore della figlia Ifigenia. Quest'ultimo delitto mette in moto l'inesorabile meccanismo che porterà alla rovina la casa degli Atridi: nell'Agamennone, infatti, si compie l'assassinio del re di Argo per mano della moglie Clitemestra profondamente sdegnata dall'empio crimine del marito. L'atto di Clitemestra scatena a sua volta la vendetta di Oreste, il quale in seguito dovrà sfuggire alla persecuzione delle Erinni. Elettra, compressa in questi ingranaggi, risulta quindi poco caratterizzata rispetto al Coro ed anche in una situazione come quella del 'riconoscimento' tra lei ed il fratello Oreste tornato in patria, in cui sarebbe stato possibile inserire un approfondimento psicologico, Eschilo non si affida ad un'elaborazione drammatica che mostri le reazioni emotive dei personaggi: quello che avvertiamo è il senso profondamente divino dell'evento piuttosto che il risvolto psicologico sugli uomini. Sofocle con la sua tragedia intitolata Elettra, ci pone subito un inquietante interrogativo: quale sia il suo rapporto con l'omonima tragedia di Euripide. Se possiamo affermare con certezza che l'Elettra euripidea fu rappresentata nel 413 a.C., per quella di Sofocle la datazione è incerta (tra il 418 e il 410 a.C.). Si pone quindi tra le due opere un problema di priorità, che allo stato attuale degli studi resta ancora insoluto, anche se la critica filologica propende a dare la precedenza alla tragedia di Euripide. Una delle innovazioni principali del dramma sofocleo consiste comunque nell'invertire la successione delle morti - prima quella di Clitemestra, poi quella di Egisto -, il che ovviamente attenua in modo deciso il tema del matricidio che aveva caratterizzato, seppure con esiti e concezioni diverse, i drammi di Eschilo e Euripide. Sofocle, inoltre, concentra tutta la sua attenzione su Elettra: l'eroina è animata da un odio viscerale per la madre e per l'amante di costei, ma il suo risentimento, che raggiunge uno stato di angosciosa follia, non è vissuto passivamente e con femminile sottomissione, bensì urlato con estrema violenza al Coro: "lasciatemi, vi prego, al mio delirio"; oppure: "Oh, la conosco bene la rabbia che ho qui dentro! (…) per me non ci sarà rimedio, mai; non ci sarà tregua, mai, per le mie pene e i miei lamenti, mai". Tra i due interlocutori, il Coro ed Elettra, s'instaura un dialogo fittizio: il Coro, infatti, caratterizzato dal senso della misura (metriòtes) non riesce a comunicare con la delirante protagonista: "Non c'è misura nella tua disperazione: sempre piangi e prepari così la tua rovina". Elettra, dice Knox, come tutti gli eroi sofoclei, è una 'grande lottatrice' ed il suo destino, fissato dal mito, non è semplicemente imposto da una divinità, ma dolorosamente assunto e faticosamente attuato. Elettra si consacra alla restaurazione dell'ordine di Dike e da ciò nasce l'essenza tragica della sua vicenda compresa tra la fede nella giustizia, l'amore per il suo sangue, la lotta contro l'iniquità. Tuttavia, il rapporto tra Sofocle e il matricidio è problematico: egli si appresta a portare delle giustificazioni, o meglio delle necessitanti premesse alla sua attuazione, quali, ad esempio, l'oracolo del dio di Delfi ed il sogno premonitore di Clitemestra che testimoniano l'adesione degli dèi al piano di Oreste; s'impegna nel togliere ogni traccia di umanità dalla vittima del matricidio, ossia Clitemestra, che emerge dal dramma come donna malvagia e scellerata, spietata assassina, moglie infedele, indegna del minimo sussulto di umana pietà. Sofocle nega addirittura a Clitemestra il suo status di madre, tramite la formula mhvthr ajmhvtwr ("madre non madre", v. 1154), liberando Oreste dal freno del vincolo materno, e avvicinando così il matricidio ad un semplice omicidio. E a questo proposito non sarà fuori luogo ricordare che il diritto attico prevedeva la rivalsa da parte del figlio sul genitore assassino del coniuge. D'altro canto, non si può dubitare che Sofocle concepisse l'atto di Oreste come un delitto orrendo. La religiosità sofoclea, profonda e sentita ("grande in cielo è Zeus, che tutto vede e domina", fa dire al Coro), non era disponibile per una critica al mito di tipo euripideo: il poeta accolse dunque la storia velando meglio che poté tutto ciò che gli parve più odioso e penoso, mettendo in ombra sia le responsabilità degli uomini che quelle degli dèi, e concentrando tutto il pathos sul lamento di Elettra, chiusa nel suo dolore. Euripide offrì una versione del mito tesa a scardinare la sacralità delle convenzioni tragiche. Elettra è presentata come una figura borghese, priva della nobiltà e magnificenza proprie del suo personaggio. Il poeta, infatti, la fa entrare in scena mentre sta svolgendo una mansione propria delle schiave: "Notte nera che nutri stelle d'oro, nell'ombra tua mi reco alle sorgenti del fiume, e reco in testa questa brocca (…) alle faccende di casa devo pensarci io". (trad. F.M. Pontani). Nel pubblico al quale si rivolge Euripide si trovano già i germi di una sensibilità affine a quella 'borghese' che sarà peculiare del periodo ellenistico. Il dolore di Elettra non rimane chiuso nella dimensione psicologica, come in Sofocle, ma si alimenta soprattutto dell'insoddisfazione dello status socio-economico che le deriva dal matrimonio con un semplice contadino e dall'amaro ricordo della originaria nobiltà. Rivolgendosi al Coro, infatti, così si lamenta: "No, a ballare non ci verrò con le vergini d'Argo il mio piede non ruoterà. Altro non faccio, altro non che piangere notte e giorno meschina! Chiome squallide, guardami, cenci d'abiti (...), guarda e dimmi se alla figlia s'addicono di Agamennone". Possiamo notare cambiamenti anche nella fisionomia di Clitemestra, il cui personaggio viene liberato dalla maschera di crudele sanguinaria per assumere tratti più umani improntati a una materna sollecitudine (ella accorre, ad esempio, all'umile dimora della figlia, non appena le viene annunciato, falsamente, che costei ha partorito). Quanto al problema del matricidio, in Euripide esso è finalizzato alla critica dell'assoluta bontà e giustizia del dio. Infatti, se Sofocle accetta con religiosa rassegnazione un ordine che lui stesso considera immorale, Euripide lo critica affermando che un dio che ordina ad un figlio di uccidere la madre non merita di chiamarsi "dio-saggio". L'atteggiamento critico nei confronti della divinità e del mito ritorna con insistenza nella scena del riconoscimento, dove il pedagogo ricalca da vicino le parole e le favolose argomentazioni del medesimo passo eschileo, che viene invece ridicolizzato dal corrosivo e lucido raziocinare di Elettra: un'analisi razionalistica che deriva dall'influenza che Euripide subì dai sofisti. Il movimento filosofico della sofistica, che caratterizzò profondamente la vita culturale dell'Atene del V secolo, infatti, perseguiva una critica serrata a tutto ciò che veniva ritenuto assoluto ed incontrovertibile, consacrato dalla tradizione. Possiamo pertanto affermare che la natura stessa del mito contrasta in maniera profonda e insanabile con la narrazione ed i personaggi di Euripide. I tre drammi ci presentano, quindi, tre donne profondamente diverse tra loro, non solo perché diverse sono le attitudini dei poeti, ma anche perché importanti cambiamenti sociali e politici investono Atene nel periodo di tempo in cui operano i tre tragici e fanno sentire il loro riflesso nella creazione del personaggio. L'Elettra di Eschilo è il frutto di quella fiera generazione di maratonomachi di cui Eschilo stesso faceva parte e che nella tradizione mitica e nella fede nelle divinità trovava il senso ed il limite della propria esistenza. Con l'Elettra di Sofocle assistiamo alla nascita di un religioso umanesimo: il poeta, orgoglioso erede di Eschilo, se ne fa rispettoso innovatore, rivendicando però per l'uomo uno spazio d'azione che lo coinvolga come soggetto attivo e responsabile di fronte al dio. La tendenza di Sofocle a rivalutare la dimensione dell'uomo nella dialettica tra umano e divino, attuata tramite l'analisi psicologica dei suoi personaggi, viene estremizzata da Euripide. Questi, profondamente segnato dalla lenta sconfitta di Atene nella guerra con Sparta, demolisce con forza il significato della divinità, toglie alla sua Elettra ogni alone di nobile tradizione letteraria e ne fa una donna dell'ellenismo, che vive nella limitatezza del quotidiano, senza porsi problemi di ordine religioso. Euripide segna il tramonto dell'età 'classica' e relega i suoi personaggi nelle loro labirintiche interiorità, in cui a regolare l'agire non c'è più il dio, ma umane pulsioni, opposte e contrastanti.  


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