I dizionari Baldini&Castoldi

Schweigsame Frau, Die di Richard Strauss (1864-1949)
libretto di Stefan Zweig, dalla commedia Epicoene, or The Silent Woman di Ben Jonson

(La donna silenziosa) Opera comica in tre atti

Prima:
Dresda, Staatsoper, 24 giugno 1935

Personaggi:
Sir Morosus (B); la sua governante (A); il barbiere (Bar); Henry Morosus (T); Aminta, sua moglie (S); Isotta (S); Carlotta (Ms); Vanuzzi (B); Farfallo (B); Morbio (Bar); commedianti, vicini di casa



Tratta da una commedia di Ben Jonson, Die schweigsame Frau è l’unico frutto della collaborazione di Strauss con Stefan Zweig; altri progetti vennero recisi sul nascere dall’ostracismo decretato dal regime nazista allo scrittore ebreo, e la stessa Schweigsame Frau, incantevole per delicatezza e umorismo, fu accolta a teatro con una grandine di fischi. Strauss medesimo dovette venire in Italia per assistere a una rappresentazione della sua opera, approdata alla Scala di Milano nel marzo 1936 (direttore Gino Marinuzzi): precocemente esiliata dalle scene, infatti, l’opera pagava in terra tedesca il fio delle origini ebraiche del proprio librettista, che determinò un divieto al suo inserimento nelle programmazioni. Strauss raccoglie qui i risultati della distillazione di sonorità avviata con il Rosenkavalier : ritornando all’orchestra rarefatta di Intermezzo , agli improvvisi ripiegamenti cameristici, mentre il canto scioglie morbide linee, sospese in una sintesi perfetta fra la scorrevolezza della parola e la grazia della melodia.

Atto primo . Sir Morosus è un anziano lupo di mare con la fobia dei rumori; da quando un’esplosione gli ha lacerato i timpani, infatti, ogni suono troppo forte è per lui un tormento fisico. Il cicaleccio della domestica, inviperita contro il barbiere che si burla di lei e non vuol farle da mediatore per convincere Morosus a impalmarla, sveglia il burbero signore, che irrompe in scena scagliando invettive marinaresche. Rimasto solo con lui, il barbiere incomincia a dipingergli la vita coniugale con tinte molto accattivanti; ma proprio quando Morosus sembra dargli retta entra nella stanza un giovane, Henry, nipote carissimo del protagonista e da tempo creduto morto. Dimentico di ogni utopia coniugale, Morosus lo abbraccia come un figlio, ma resta allibito nell’apprendere che Henry, abbandonati gli studi, si è unito a una compagnia teatrale, sposando addirittura una giovane attrice, Aminta; furibondo per le frequentazioni ‘fracassone’ del nipote degenere, Morosus mette tutti alla porta e, prima di ritirarsi nella beata solitudo dei suoi appartamenti personali, ordina al barbiere di procurargli una sposina silenziosa e amorevole per l’indomani stesso, in modo da poter diseredare Henry. Il barbiere mette però gli attori al corrente della disgrazia occorsa a Morosus, giustificando così gli improperi con cui sono stati investiti; per distogliere l’anziano e buon signore dal temerario proposito di sposarsi non rimane che inscenare un finto matrimonio, che lo sconvolga a tal punto da indurlo a perdonare Henry.

Atto secondo . Vengono presentate a Morosus tre fanciulle (tutte attrici della compagnia): egli rimane incantato dalla grazia e dal pudico riserbo di Aminta, presentata a lui sotto il nome di Timidia; interpretati da altri attori complici della beffa, giungono il notaio e il prete, e ha luogo la funzione, intima e sbrigativa, con l’unico contrattempo di un’inopinata intrusione di concittadini e amici di Morosus, che lo festeggiano con rumorosa partecipazione, mandandolo su tutte le furie. Quando i due sposi rimangono soli, Aminta-Timidia deve respingere le prime tenere avances del gentiluomo ignaro, e prende a pretesto l’insistenza di lui (che in realtà è affettuosamente preoccupato per la tristezza che rabbuia il volto della sposina) per esplodere in una sfuriata isterica, con una metamorfosi che annichilisce Morosus. Arriva Henry, e promette allo zio di tenere a bada la vipera che ha preso in moglie; l’atto si conclude con il sommesso russare di Morosus, alla cui porta vegliano abbracciati Aminta e Henry.

Atto terzo . Il mattino seguente si presentano i legali, ossia gli amici di Henry, per svolgere le pratiche di separazione; ci sono però più difficoltà del previsto, e Morosus incomincia a disperarsi. Non basta aver sposato una donna che si credeva diversa da come poi si è rivelata, dice il falso giudice, perché questa è una disavventura comune a tutti gli uomini. Isotta e Carlotta intervengono a testimoniare che Timidia ha già avuto un amante; ma nessun codicillo del contratto matrimoniale prevedeva che dovesse essere virgo desponsa , come solennemente obietta l’avvocato Farfallo. A questo punto Morosus è veramente affranto, e il nipote smaschera la finzione; la disavventura si conclude con la risata omerica dello zio gabbato: Aminta e Henry non lo lasceranno più e si fermano a tavola con lui, che si accende la pipa con bonaria serenità, ormai riconciliato con la vita.

Rispetto all’originale di Jonson, Zweig inserì due sensibili modifiche: anzitutto la finta moglie di Morosus non è un giovanotto abile nei travestimenti, ma una donna in carne e ossa; inoltre questa donna sente pena e rimorso per la beffa architettata, pur con buone intenzioni, ai danni dell’anziano signore. Sono sufficienti questi misurati ritocchi a immettere nella vicenda una corrente di simpatia umana, in cui tenerezza e rabbuffi si mescolano, dissimulando l’ingranaggio dell’intrigo sotto l’affettuosità dei legami familiari; a queste sfumature si aggiunge la malinconica pensosità di Morosus, in cui vibra qualcosa di Hans Sachs nel momento in cui si sofferma a considerare, con una fitta di pena, la sproporzione di età che intercorre fra lui e la presunta sposina, quasi temendo di sacrificarla. Ogni impressione di artificio viene rimossa: il Seicento di Ben Jonson rivive senza alcuna forzatura, e le disavventure di Morosus sembrano uno spaccato di vita contemporanea, tanto sono calibrate le sfumature introspettive e le reazioni psicologiche. Deus ex machina del complotto è il barbiere, sorta di pronipote di Figaro e del barbiere di Bagdad, a loro accomunato dalla facondia suasiva e dalla lingua faceta. Per Schneidebart (vale a dire ‘Tagliabarba’) Strauss prevede invece molti melologhi, ribadendo un’intuizione ben sviluppata in Intermezzo ; questo espediente consente al personaggio di ottenere la massima scorrevolezza e intelligibilità di emissione, in frasi di valore eminentemente funzionale. Anche Die schweigsame Frau offre a Strauss la possibilità di infinite gradazioni nel rapporto fra musica e parola: dall’austerità salmodiante del falso prete nel secondo atto alla burbera cantillatio del notaio nel terzo, fino all’inserto neoclassico e belcantistico dell’aria di Monteverdi, trionfo canoro riservato ironicamente alle orecchie antimusicali di Morosus. Come la commedia è un gioco di schermi, accentuati dall’implicita allusione a certi momenti del Don Pasquale, così la partitura si intride spesso di duplicità ammiccanti: il caso più evidente è il finale del secondo atto, con il discorso di Henry costruito per ottenere opposto significato in rapporto ai due diversi destinatari, Morosus e Aminta; ma anche nel terzo atto l’ingresso di Henry è incorniciato dalla fittizia solennità dei tromboni, ma contrappuntato di sottecchi da un tema appassionato, già comparso nell’ouverture. Pur maneggiando una commedia a effetto, Strauss elude il più possibile ogni spettacolarità, complice la finezza poetica di Zweig: il finale del secondo atto sfuma nel russare indistinto di Morosus e nel sospiro estatico degli innamorati; il finale dell’ultimo si chiude in sordina sull’intimità dei tre protagonisti, riecheggiando nel ripensamento malinconico di Morosus le neiges d’antan del Rosenkavalier . Il frastuono irrompe invece nel secondo atto, con l’arrivo inopinato dei compaesani a suon di banda; e la patologia di Morosus, lungi dal limitarsi a piccinerie caricaturali e parodie dell’umana insofferenza, diventa occasione per insinuare un giudizio estetico di valore, presentando la Trivialmusik e la musica di intrattenimento nel loro aspetto più sgradevole, di irruente onnipresenza. La scena conclusiva del secondo atto è un magistrale embricarsi di sonorità sfacciate e finezze timbriche: lo scatto stridente degli ottoni, che segnano il prorompere acidulo della finzione di Aminta, dissipa d’un colpo la tenerezza sussurrata del quadretto precedente. L’ incipit del terzo atto si riconnette a questa bizzosa frenesia, e sfoga il suo nervosismo in staccati pungenti, come in ritmi dai profili acuminati; e in questa sorta di sfrenato balletto si percepisce un’eco strumentale, una filiazione dalla geometria incalzante della toccata barocca, con una parvenza di ossessione motoria quanto mai idonea alla circostanza drammaturgica. Queste unghiate di ebbrezza dinamica acquistano un rilievo ancor più incisivo dal fatto di essere inframmezzate a spunti di delicatezza quasi impalpabile, impensierimenti repentini, acerbe fitte di nostalgia; il sottobosco di emozioni trattenute fiorisce pudicamente nel riserbo di brevi episodi solistici, in una compagine orchestrale divenuta a tratti quasi cameristica. Die schweigsame Frau è veramente un lavoro nello spirito di Così fan tutte , leggero in apparenza, ma sempre pronto a sfiorare le corde più intime del sentimento, velando questa indagine emotiva sotto la maschera spensierata della burla; e lo spirito della commedia rivive anche nei couplets orecchiabili del barbiere, così come nei numerosi concertati, che confermano l’eleganza della scrittura straussiana.

e.f.

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