I dizionari Baldini&Castoldi

Salome di Richard Strauss (1864-1949)
libretto di Hedwig Lachmann, dal poema omonimo di Oscar Wilde

Dramma in un atto

Prima:
Dresda, Königliches Opernhaus, 9 dicembre 1905

Personaggi:
Erode (T), Erodiade (Ms), Salome (S), Jochanaan (Bar), Narraboth (T), un paggio d’Erodiade (A), cinque giudei (T, T, T, T, B), due nazareni (T, B), due soldati (B), un cappadoce (B), uno schiavo (B); giudei



Dopo l’insuccesso di Guntram (1894) e il successo tiepido di Feuersnot (1901), definite dallo stesso Strauss opere di «apprendistato wagneriano», Salome rappresenta il più improvviso e al contempo discusso capolavoro della storia dell’opera tedesca post-wagneriana. Raccolse inoltre fin dalle sue prime apparizioni un successo tanto più straordinario e clamoroso, se si considera che l’opera ebbe battesimo in un’epoca in cui il pubblico di tutta Europa andava dividendosi tra fautori dell’avanguardia e della tradizione. O forse, proprio a causa di ciò, tale successo è giustificabile, essendo Salome opera ambivalente: un lavoro – per stare alle parole che Thomas Mann mette in bocca ad Adrian Leverkühn, il personaggio del suo Doktor Faustus – «in cui come non mai avanguardismo e sicurezza di successo sono uniti in esemplare confidenza», lavoro di un «rivoluzionario fortunato, audace e conciliante al tempo stesso!». Salome è a ogni modo una delle opere del Novecento più rappresentate al mondo, anche se nei primi decenni della sua storia la circolazione fu penalizzata, oltre che dalla scabrosità del soggetto, dalla censura nazista in Germania e da quella puritana in ambiente anglosassone.

L’idea di musicare la Salome di Wilde fu suggerita a Strauss dal poeta viennese Anton Lindner (un cui testo è presente nella raccolta straussiana dei Lieder op. 37) che, in seguito all’interessamento del compositore, si cimentò in una prova di riduzione del testo. Strauss, tuttavia, preferì la traduzione tedesca della scrittrice Hedwig Lachmann utilizzata per una rappresentazione in prosa della tragedia, protagonista la grande attrice Sarah Bernhardt, che ebbe luogo a Breslavia e alla quale egli assistette. Il testo del bellissimo libretto corrisponde dunque, se non per qualche taglio e qualche variante, alla fedele traduzione dell’originale francese di Oscar Wilde. All’epoca della composizione di Salome , che impegnò il musicista bavarese dai primi mesi del 1902 al settembre 1904 per la stesura dell’abbozzo, e fino al giugno 1905 per l’orchestrazione, risalgono anche le prime schermaglie del lungo e controverso rapporto che Strauss intrattenne con Hugo von Hofmannsthal, suo futuro librettista. Il letterato aveva sottoposto un suo soggetto al musicista e al rifiuto di questi, impegnato appunto con Salome , reagì facendo notare come la corretta pronuncia dell’accento del nome della sensuale fanciulla protagonista dell’opera non fosse né ‘Sàlome’ (alla tedesca) né ‘Salomé’ (alla francese, come compare in Wilde), bensì ‘Salòme’, alla greca; Strauss continuò tuttavia a intendere il nome secondo la pronuncia tedesca.

Oggetto di discussione è se debba essere considerata la ‘prima’ italiana la rappresentazione diretta dallo stesso Strauss al Regio di Torino (23 dicembre 1906), oppure la prova generale aperta al pubblico diretta da Toscanini alla Scala di Milano nel pomeriggio dello stesso giorno.

Scena prima . A Gerusalemme, nella reggia di Erode. È notte, la luna risplende luminosa e rischiara la sala dove Erode, tetrarca di Giudea, ha raccolto a banchetto i suoi cortigiani. A lato della sala, sorvegliata da due soldati, vi è un’antica cisterna nella quale è imprigionato Jochanaan, il Battista. Dialogando nei pressi della cisterna, il paggio di Erodiade tenta di convincere Narraboth, capitano dei soldati della guardia di Erode, a non lasciarsi ammaliare dalla lunare bellezza di Salome, figlia di Erodiade. Intanto dalla cisterna proviene la profetica voce di Jochanaan: «Dopo di me verrà uno ch’è ancor più forte di me...». I soldati discutono se egli sia un profeta o un pazzo ma, ligi all’ordine di Erode, impediscono l’accesso alla cisterna a un cappadoce che desidera vedere Jochanaan. Intanto si avvicina Salome, «simile a una colomba smarrita». Scena seconda . La figlia di Erodiade è stanca degli sguardi insistenti che le rivolge il patrigno Erode ed è uscita a guardare la luna, «bella come una vergine ch’è rimasta pura». Ode la voce di Jochanaan, che continua a gridare le sue profezie, e ne è incuriosita al punto di ignorare l’ordine di Erode, riferitole da uno schiavo, di fare immediato ritorno nella sala, e di esprimere piuttosto il desiderio di incontrare il prigioniero. I due soldati non vorrebbero trasgredire l’ordine del re ma Salome, forte del suo potere di seduzione, non fatica a convincere Narraboth di ordinare loro di far uscire il profeta dalla cisterna. Scena terza . Liberato dalla sua prigione, Jochanaan inveisce contro i peccati di Erode e soprattutto di Erodiade, ma ciò non impedisce a Salome di rimanere, contro il consiglio di Narraboth, in contemplazione dei suoi occhi, del suo corpo, della sua carne. Quando Jochanaan si accorge di essere osservato tanto voluttuosamente, respinge la fanciulla, inveendo di nuovo contro la madre che l’ha generata e il patrigno. Ma Salome ne è sempre più attratta, vorrebbe vederlo più da vicino, toccare il suo corpo, i suoi capelli, vorrebbe baciare la sua bocca, essere posseduta da lui. Narraboth la supplica invano di non guardare quell’uomo in modo tanto concupiscente, e non potendo più sopportare la violenza erotica di Salome, che ama perdutamente, si pugnala. Salome, che non si è nemmeno accorta del suicidio di Narraboth, continua a ripetere di voler baciare la bocca di Jochanaan, il quale, dopo aver maledetto la fanciulla, fa infine ritorno nella sua prigione. Scena quarta . Erode, Erodiade e il loro seguito sono usciti dalla sala del banchetto; il tetrarca sta cercando Salome e non ascolta le parole di Erodiade, che lo invita a rientrare. Quindi scivola sul sangue di Narraboth – avvenimento che interpreta come un triste presagio – e ordina di portare via il cadavere. Raggiunta infine Salome, le offre il miglior vino, le porge i frutti più maturi, la invita a sedersi al suo fianco, ma lei respinge le sue offerte, mentre Erodiade continua a inveire contro di lui, rinfacciandogli di temere l’uomo che è imprigionato nella cisterna, da dove continua a scagliare le sue tremende profezie. Erode, invece, timoroso e superstizioso, proclama che Jochanaan è un sant’uomo, «uno che ha visto Dio»; ma l’affermazione è confutata teologicamente da cinque giudei, la cui dotta disquisizione è interrotta da un ordine di Erodiade, che ne è infastidita. Due nazareni intervengono in difesa del Battista, testimoniando la verità delle sue affermazioni sulla venuta del Salvatore. Erodiade intanto ordina di nuovo di far tacere Jochanaan, che continua a insultarla. Erode, indifferente alla cosa, si rivolge di nuovo alla figliastra pregandola insistentemente di danzare per lui. Solo alla promessa di avere in cambio tutto quello che vorrà, Salome acconsente, nonostante l’esortazione della madre di non compiacere il patrigno. Ma Salome è ormai decisa a danzare e si fa togliere i sandali dalle schiave sopraggiunte a portarle i profumi e i sette veli. Sulla note di una musica selvaggia, Salome esegue una conturbante danza, con i veli che cadono a uno a uno, fino a lasciarla in terra ai piedi del tetrarca, estasiato. E quando Erode le domanda quale sia la ricompensa da lei desiderata, ella ordina che venga portata la testa di Jochanaan su un piatto d’argento. Erodiade si compiace della richiesta della figlia, mentre Erode ora vacilla, supplicandola di chiedere anche la metà del suo regno ma di rinunciare al terribile proposito. Salome, tuttavia, è irremovibile. E quando finalmente, dopo attimi di terribile attesa, il carnefice le consegna l’oggetto del suo desiderio, si lascia andare a un canto in cui esprime tutta la sua irrefrenabile passione: «Perché non mi guardasti? Se tu mi avessi guardata, mi avresti amata. Lo so bene, mi avresti amata. E il mistero della morte è più grande del mistero dell’amore». Il suo canto ha termine solo quando, afferrata al colmo dell’eccitazione la testa di Jochanaan, la fanciulla ne bacia la bocca sanguinante. Sulla reggia cala una tetra oscurità, rischiarata appena da una raggio di luna. Erode, sopraffatto dall’orrore del bacio necrofilo di Salome, ordina ai soldati di uccidere la figliastra.

Come la successiva Elektra , Salome è definita opera pre-espressionista poiché anticipa molti aspetti costitutivi della cultura che si affermò in Germania e nel Nord Europa nel secondo decennio del nostro secolo. Manca qui l’elemento della denuncia sociale e politica, che del teatro espressionista è una caratteristica ricorrente, ma la violenza espressiva, il senso di umana angoscia, il solipsismo di personaggi che nel loro agire hanno perduto ogni forma plausibile di ragionevolezza, la loro costituzionale incapacità di comunicare (si noti il singolare ‘girotondo’ dei personaggi, che non ascoltano mai il loro interlocutore: Erode non ascolta Erodiade, Salome Erode, Salome Narraboth, Jochanaan Salome, Narraboth il paggio): questi tratti della cultura espressionista, si diceva, Salome li descrive con una evidenza talmente lucida e precisa da rivelare paradossalmente tutta la sostanziale indifferenza dell’artista. Giustamente ha scritto Franco Serpa che «l’arte [di Strauss] considera irrilevante, e quindi esclude, ogni partecipazione etica, e perfino affettiva, da parte del soggetto, trattandosi di una musica che conosce appena l’ironia, e non conosce la pietà». Strauss si direbbe piuttosto preoccupato di esibire i ben ponderati aspetti della drammaturgia dell’opera, tra i quali non vanno tralasciati i condimenti ‘alla moda’ dell’erotismo, del vitalismo, dell’esotismo, dell’estetismo e dell’edonismo, che certo contribuirono a fargli ottenere il successo tanto desiderato. Parimenti esibisce il virtuosismo di una scrittura musicale che rispetto alla tradizione è altrettanto accidentata e frammentata, seppure controllatissima. Il linguaggio, in Salome , è forse l’aspetto che più degli altri sembra giustificare la citata e peraltro discutibile affermazione di Thomas Mann: avanguardia e sicurezza di successo si traducono in un’armonia dissociata e dissonante quant’altre mai, eppure tonalissima; in una ricchezza polifonica smisurata eppure fondata su pochissimi motivi dominanti (che, in epoca di esegesi wagnerianamente orientata, sono stati denominati come i Leitmotive ‘di Salome’, ‘di Jochanaan’ e ‘della loro relazione’); in una orchestrazione a dir poco lussureggiante (imponente l’organico orchestrale, che, oltre agli strumenti tradizionali, comprende numerose percussioni, organo, armonium e un particolare oboe baritono di recente costituzione, denominato Heckelphon), eppure non aliena da effettismi della più vieta tradizione; in un melodismo e in una vocalità, infine, di violento stile declamato eppure non scevra dalla plasticità, persino ‘volgare’ a tratti, del gesto verista. Quella di Salome è insomma una partitura costruita a regola d’arte da quel formidabile artigiano che fu Richard Strauss, né più né meno di tante opere successive, da Rosenkavalier a Capriccio , che appunto, nel loro originalissimo ‘rifarsi a’, come Salome ed Elektra si rifanno al loro tempo, dimostrano la continuità e l’uniformità di orizzonti dell’intero teatro straussiano, a dispetto dei presunti mutamenti di rotta (non conta se verso il meglio o il peggio) troppe volte registrati in sede critica.

Breve, fulminea, priva di ouverture, l’opera inizia in medias res e attanaglia a ogni modo l’ascoltatore, quale che sia il suo convincimento estetico sull’autenticità della drammaturgia straussiana, in un vortice, quando di inaudita violenza fonica e quando di tagliente leggerezza. È un fuoco che si consuma in un attimo, ma non senza aver prima evidenziato la necessaria varietà di modi d’essere, vocali e drammatici, dei personaggi: la vacuità tenorile dell’inconsistente e superstizioso Erode, la composta e quasi fatalistica tragicità di Erodiade, l’esterrefatta umanità di Narraboth, l’agghiacciante e stentoreo diatonismo di Jochanaan e la sensualità, la corporeità animalesca di Salome. Tale polifonia di modi d’essere si fonde in un magma musicale che non conosce soste, mancando ovviamente in Salome ogni forma di stroficità chiusa. L’unica eccezione, l’unico brano cioè ‘chiuso’, formalmente autonomo e dunque estrapolabile dal contesto, è la celebre, seducente danza orchestrale dei sette veli, l’ultima pagina che Strauss compose prima di licenziare alle stampe la partitura. Può comunque essere considerato brano a sé, non foss’altro per l’ampiezza del disegno musicale che lo informa, anche l’assolo di Salome (“Ah, du wolltest mich nicht deinem Mund küssen”), nella raccapricciante e tesissima scena di necrofilia che chiude l’opera: una sorta di Liebestod a rovescio, come è stato giustamente osservato, se è vero che Isotta canta il compimento trasfigurato di una inalienabile tensione d’amore che vince la morte, mentre Salome canta l’incompiutezza dell’amore mai conosciuto e impossibile a compiersi, seppur bramato anche attraverso la morte.

e.g.

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