ARNOLD HAUSER: L'OPERETTA
Il prodotto artistico più originale - e per molti aspetti il più espressivo - del Secondo Impero è l'operetta. Neppur essa veramente è un'assoluta novità - cosa impensabile, del resto, ad uno stadio così avanzato della storia teatrale - ma continua due generi più antichi, l'opera buffa e il vaudeville. In quest'epoca priva di grazia e di umorismo essa porta un riflesso dello spirito settecentesco, leggero, gaio, antiromantico. È l'unica forma giocosa di questi anni, danzante, agile e leggiadra. Fra il conformismo delle tendenze che si adattano al prosaico gusto borghese e l'anticonformismo dei naturalisti, essa costituisce un mondo a sé, un limbo. È molto più attraente del dramma borghese o del romanzo in voga, più socialmente rappresentativa del naturalismo e, come tale, è il solo genere che dia luogo ad opere popolari, adatte al gran pubblico e non prive di valore artistico.
Il carattere più saliente dell'operetta - e il più singolare dal punto di vista del naturalismo - è l'assoluta inverosimiglianza, il carattere irreale, fantastico, fiabesco delle sue scene fuggevoli e vorticose. Essa è per l'Ottocento quel che per i secoli precedenti era stato il dramma pastorale. Il suo contenuto artificioso, gli intrecci e gli scioglimenti convenzionali sono un gioco, privo ormai di ogni rapporto con la realtà. Al tono falso dell'invenzione s'accompagna il meccanismo marionettistico dei personaggi e l'esecuzione apparentemente improvvisata. Già Sarcey nota la somiglianza fra operetta e commedia dell'arte e sottolinea l'impressione d'irrealtà, di sogno, che gli viene dalle composizioni di Offenbach; ma con ciò egli vuol dire soltanto che esse hanno di caratteristico una vena stranamente fantastica. Solo un moderno ammiratore di Offenbach, il viennese Karl Kraus, ha tentato di interpretare in un senso più profondo questo loro carattere, sottolineando che nell'operetta di Offenbach la vita è inverosimile e assurda, grottesca e inquietante com'è appunto in realtà, se guardata da una certa distanza. Naturalmente Sarcey era lontanissimo da una simile interpretazione, che forse sarebbe stata inconcepibile, prima che l'espressionismo e il surrealismo facessero risaltare l'aspetto irreale e allucinante della vita. Soltanto un occhio affinato attraverso queste esperienze artistiche era in grado di constatare che l'operetta non era unicamente un'immagine della frivola e cinica società del Secondo Impero, ma anche un'autoderisione, ch'essa esprimeva non soltanto la realtà, ma anche l'irrealtà di quel mondo; che, insomma, era nata dall'aspetto operettistico della vita stessa, se si può dir così di un tempo come quello, tanto serio, posato e critico.
I contadini all'aratro, gli operai nelle fabbriche, i commercianti in ufficio, i pittori a Barbizon, Flaubert a Croisset, erano quel che erano; ma la classe dirigente, la corte alle Tuileries, il mondo dei banchieri crapuloni degli aristocratici dissipati, dei giornalisti risaliti e delle raffinate cocottes aveva in sé qualcosa d'inverosimile, di spettrale e caduco: era un paese da operetta, un palcoscenico dove le quinte minacciavano di crollare ogni momento.
L'operetta era il prodotto di un generale laissez faire, laissez aller, cioè del liberalismo economico, sociale, morale: un mondo in cui ciascuno poteva far quel che voleva fuor che discutere il sistema. Questa condizione significava ampia indulgenza da un lato, dall'altro il più stretto rigore. Lo stesso governo che citava in giudizio Flaubert e Baudelaire, tollerava in Offenbach la più sfrontata satira sociale, la più insolente canzonatura del regime autoritario, della corte, dell'esercito, della burocrazia. Ma si sopportavano le beffe soltanto perché non erano o non parevano pericolose, perché le accoglieva un pubblico la cui fedeltà era indubbia, e che bastava la valvola di sicurezza di quell'innocua canzonatura ad appagare. Solo a noi quello spasso appare spettrale; i contemporanei erano sordi alla vibrazione sinistra che noi cogliamo nel folle ritmo del galoppo e del cancan di Offenbach.
Ma il divertimento non era del tutto innocuo, perché vi si cercava l'ebrezza da cui si voleva esser trascinati. L'operetta corrompeva la gente, non perché dileggiasse ogni cosa «rispettabile», non perché la derisione dell'antichità, della tragedia classica, dell'opera romantica celasse una sua critica sociale, ma perché scoteva la fiducia nelle autorità, senza negarne le basi. L'immoralismo dell'operetta consisteva nella frivola tolleranza con cui essa esercitava la sua critica verso la corruzione del sistema politico e della società contemporanea, nell'apparenza innocente ch'essa dava alla futilità delle piccole prostitute, dei galanti scapestrati e degli amabili vecchi gaudenti. La sua critica fiacca ed esitante non faceva che incoraggiare la corruzione.
D'altronde da artisti che godevano di uno straordinario successo, e che il successo amavano sopra ogni cosa, un successo legato al perdurare di quella società indolente e avida di piaceri, non ci si poteva attendere che questo ambiguo atteggiamento. Offenbach era un ebreo tedesco, un esule, un musicista nomade, un artista doppiamente minacciato nella sua esistenza; nella capitale francese, in quel mondo corrotto e pur tanto seducente, egli doveva sentirsi doppiamente straniero, spostato, spettatore indifferente. Più della maggior parte dei suoi colleghi egli doveva sentire la posizione problematica dell'artista nella società moderna, la contraddizione tra le sue ambizioni e il suo risentimento, il suo orgoglio di accattone che pur s'affanna a conquistare il favore del pubblico. Non era un ribelle, e neppure un clemocratico, anzi ben volentieri accettava il governo della «mano forte» e con animo tranquillissimo godeva i vantaggi, che il sistema politico del Secondo Impero gli offriva; ma considerava tutto quell'agitarsi intorno a lui con lo sguardo distaccato, acuto, freddo di un escluso e, senza volerlo, affrettava il declino della società a cui doveva l'esistenza.
L'operetta significa in fondo l'ingresso del giornalismo nella musica. Dopo il romanzo, il dramma e l'arte grafica, ora anche il teatro musicale commenta i fatti del giorno. Ma qui il giornalismo non si limita alle strofette e alle battute comiche su fatti di attualità, tutto il genere è come una rubrica permanente degli scandali mondani. Con ragione Heine è stato chiamato il precursore di Offenbach. L'origine, il temperamento, la posizione sociale dei due sono su per giù gli stessi; entrambi sono giornalisti nati, nature critiche e positive, che non vogliono vivere ai margini della società, ma in essa, con essa, benché, certo, non sempre d'accordo con i suoi fini e i suoi mezzi.
Nella Parigi cosmopolita della monarchia di luglio e del Secondo Impero, Heine aveva le stesse probabilità di successo di Meyerbeer e di Offenbach; ma per esprimersi non disponeva di un linguaggio universale come i suoi più fortunati compatrioti. La sua fama rimase limitata a una cerchia relativamente angusta, mentre Meyerbeer e Offenbach conquistarono Parigi e con essa tutto il mondo civile. Non solo essi crearono due fra i generi più caratteristici dell'arte francese, ma con più fedeltà e larghezza dei colleghi francesi seppero essere interpreti del gusto parigino del tempo. Anzi, Offentach può considerarsi come un vero e proprio compendio del suo tempo; l'opera sua contiene molti di quelli che sono i suoi tratti più peculiari e originali. Già ai contemporanei parve così rappresentativo, ch'essi lo identificarono con lo spirito di Parigi e videro nella sua arte il perpetuarsi della tradizione classica francese. In Offenbach tutto l'Occidente sentì la gioia e il rigoglio della vita. La granduchessa di Gerolstein si rivelò la più grande e duratura attrattiva dell'esposizione universale del I867; i numerosi sovrani e principi in visita a Parigi furono entusiasti dello spettacolo e dell'irresistibile Hortense Schneider nella parte della protagonista, non meno dei roués [gli smaliziati] della capitale e dei borghesucci di provincia.
Lo zar di Russia, tre ore dopo il suo arrivo, era già in un palco delle Variétés; e Bismarck, benché apparentemente sapesse dominare meglio la sua impazienza, era estasiato quanto le teste coronate. Rossini chiamava Offenbach il «Mozart dei Champs Élysées» e Wagner confermò quel giudizio, ma solo dopo la morte dell'invidiato rivale.
L'operetta fiorì per tutto il periodo fra le due esposizioni universali del 1855 e del 1867. Dopo le traversie politiche sulla fine del sesto decennio le venne meno il pubblico adatto, un pubblico spensierato o che si cullava nell'illusione di una spensierata sicurezza. I tempi migliori dell'operetta finirono in una con il Secondo Impero; le generazioni successive l'amarono, non più come espressione viva, spontanea, immediata del presente, ma perché richiamava, come nessun'altra forma d'arte, «i bei tempi andati». Grazie a questa associazione d'idee, l'operetta sopravvisse ai rivolgimenti sullo scorcio del secolo, e in una città intellettualmente così volubile come Vienna rimase fino alla seconda guerra mondiale la forma più diffusa d'idealizzazione sentimentale del passato. Ci vollero le esperienze degli ultimi vent'anni perché ci si decidesse a rivedere il concetto dei «bei tempi andati», che una parte d'Europa associava con Napoleone III e Offenbach, l'altra con l'imperatore Francesco Giuseppe e Johann Strauss.
La lotta di classe, che fra il 1848 e il 1870 era stata dovunque repressa, tornò a divampare dopo il '70 minacciando il potere di quella borghesia che più di tutti aveva tratto profitto dalla reazione. E l'operetta apparve come l'immagine di un'esistenza sicura, tranquilla, felice: un idillio che nella realtà non era mai esistito.
Ebbero ragione i Goncourt con la loro profezia che il circo, il varietà e la rivista avrebbero soppiantato il teatro. Il film, che si può annoverare fra questi tipi per le sue qualità spettacolari, ne è un'ulteriore conferma. Vicinissima al varietà e alla rivista, l'operetta non è tuttavia la forma più antica in cui lo spettacolo trionfi sul dramma. La vera svolta era avvenuta prima, con l'affermarsi del grand-opéra, durante la monarchia di luglio, benché l'elemento spettacolare fosse sempre stato parte integrante del teatro e avesse sempre finito per prevalere sull'elemento drammatico e lirico.
Arnold HAUSER, Storia sociale dell'arte, vol. II, Torino, Einaudi, 1956 pp. 328-333]