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CLAUDE MONET A PARIGI - DUE MOSTRE

a cura di Laureto Rodoni
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RECENSIONE DI LAURETO RODONI

Due sono le mostre parigine dedicate in questo periodo a Claude Monet (1840-1926): quella ufficiale e monumentale al Grand Palais (aperta fino al 24 gennaio) e quella per così dire più intima ma per molti aspetti più interessante e intensa al Musée Marmottan (Claude Monet, son musée, aperta fino al 20 febbraio).
Perché due mostre importanti dedicate allo stesso pittore nella stessa città? Due anni fa i Musei nazionali francesi e la Fondazione Marmottan non riuscirono a mettersi d’accordo per allestire una mostra unica che avrebbe raccolto in tutta la sua magnificenza e audacia il meglio dell’opera pittorica di Monet. Conseguenza inevitabile: la mostra principale al Grand Palais risulta per così dire monca, poiché dell’ultimo periodo creativo del pittore, tendente all’astrattismo, sono esposte poche tele e di certo non le più significative (che si trovano per l’appunto al Marmottan). Il consiglio è quindi di visitarle entrambe, recandosi prima al Grand Palais (occorre prenotare per evitare almeno 3 ore di coda) e poi al Marmottan (in un orario, dopo le 13.00, in cui l’affluenza è relativamente scarsa).
L’interesse della mostra al Grand Palais risiede nel fatto che si tratta della prima retrospettiva dedicata a Monet. Oltre 170 dipinti, collocati in 16 settori secondo un criterio cronologico oppure tematico, illustrano il suo percorso artistico che Octave Mirbeau definì “incessante, rude e doloroso”, dagli esordi come pittore en plein air della foresta di Fontainebleau fino alla serie delle ninfee.
Decisivi per la formazione pittorica di Monet furono l’influsso di Manet e di Courbet e l’amicizia fraterna con Renoir, Sisley, Bazille, ma soprattutto con Eugène Boudin e Johann B. Jongkind che lo avviarono al paesaggio sulle coste della Normandia: le “marine assordanti” esposte nel secondo settore della mostra illustrano questo fondamentale periodo, iniziato nel 1864.


LA PLAGE DE SAINT-ADRESSE, TEMPS GRIS (1867)


LE PORT DU HAVRE, EFFET DE NUIT (1873)

All’aperto Monet tentò, sull’esempio di Manet, una grande composizione di figure: Le déjeuner sur l’herbe (1865), quadro lasciato incompiuto: nella vasta sezione tematica “Figures et portraits” sono esposti lo schizzo,

due ampi frammenti e alcuni dipinti che riprendono i motivi del grande progetto, tra cui Femmes au Jardin, rifiutato al Salon del 1867. Questa profonda delusione e i giudizi negativi di Manet e di Courbet sul dipinto in fieri furono tra le cause del tentativo di suicidio l’anno successivo.
Trasferitosi sulle rive della Senna nel 1871, Monet vi rimase per una decina d’anni. Ad Argenteuil egli poté lavorare su un barcone che gli consentiva di percorrere il fiume e di dipingere da angoli visuali inusitati, come i quadri che hanno come soggetto la stazione di Saint-Lazare, dipinti, grazie a un permesso speciale, tra i binari.  



È durante questo periodo che la tavolozza di Monet si schiarisce (esemplari da questo punto di vista le tele Chemin dans les vignes e Le bassin d’Argenteuil): i colori sono da lui usati sempre più spesso puri e divisi, per rendere le ombre, le vibrazioni dell’acqua, la trasparenza della luce e dell’atmosfera.

Il rigidissimo inverno del 1880 gli consentì di approfondire le sue ricerche in questa direzione, dipingendo una serie di quadri ispirati al disgelo sulla Senna: grazie al ritmo frenetico del gesto pittorico e al tocco frammentato, Monet riusciva a catturare il cangiante pallore invernale e le tonalità fredde della natura, tanto care agli Impressionisti.

Qualche mese prima era morta di cancro la moglie Camille, ritratta in dipinti ispirati a Manet negli anni Sessanta, tra cui la celebre Femme à la robe verte. Il pittore espresse il suo strazio nella struggente tela Camille Monet sur son lit de mort che conclude la citata sezione “Figures et portraits”.



Nel 1883 Monet si stabilì definitivamente a Giverny, villaggio nell’Alta Normandia, che lasciò solo per viaggi sulla Costa Azzurra e all’estero (Londra, Venezia, Norvegia…).

Il fulcro della mostra del Grand Palais sono le serie (illustrate in una ventina di dipinti), attraverso le quali Monet continuava la sua incessante e ossessiva esplorazione della luce nei suoi aspetti tecnici ed emozionali. A partire da soggetti semplici come i covoni, i pioppi, lo stagno delle ninfee, Monet riusciva a tradurre sulla tela le variazioni cromatiche nei vari momenti della giornata o dell’anno.

Stesso discorso per la serie sulla cattedrale di Rouen: la massa imponente e slanciata dell’edificio è come scolpita dalla luce stessa che anima il rilievo dell’architettura.

Dopo la guerra del 1914 Monet si consacrò quasi interamente al grande ciclo delle ninfee, che aveva preparato con numerosi studi fin dal 1898. È a questo punto che la mostra del Grand Palais appare lacunosa: essa si completa, come detto, con la collezione della Fondazione Marmottan che possiede il più ricco tesoro di opere di Monet al mondo (110 tele, gli 8 quaderni di disegni e le caricature, oltre a molte lettere e ai carnets de comptes), gran parte delle quali donate dal figlio Michel. Si tratta di lavori a cui il pittore era molto legato e di cui non voleva privarsi. Si può quindi facilmente comprendere la pregnanza artistica di questa collezione, che per la prima volta viene esposta integralmente.
Nel piano inferiore del Museo campeggiano gli ultimi quadri che rappresentano scorci del suo giardino a Giverny, oltre agli schizzi e agli abbozzi che servirono come preparazione alla sua opera maggiore, la serie delle Ninfee, esposta all’Orangerie.
Si tratta di opere struggenti (Monet era quasi cieco), di una modernità sconcertante, in cui le forme del visibile si dissolvono nell’indefinito, nell’impalpabile, nell’astrazione, come se un fuoco interiore bruciasse la materia stessa della pittura.









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