LASIGNORADELLECAMELIEdiAlexandreDumas
LA SIGNORA DELLE CAMELIE di Alexandre Dumas.
INDICE.
Capitolo 1: pagina 4.
Capitolo 2: pagina 13.
Capitolo 3: pagina 22.
Capitolo 4: pagina 31.
Capitolo 5: pagina 43.
Capitolo 6: pagina 54.
Capitolo 7: pagina 65.
Capitolo 8: pagina 79.
Capitolo 9: pagina 90.
Capitolo 10: pagina 103.
Capitolo 11: pagina 118.
Capitolo 12: pagina 133.
Capitolo 13: pagina 144.
Capitolo 14: pagina 157.
Capitolo 15: pagina 171.
Capitolo 16: pagina 180.
Capitolo 17: pagina 193.
Capitolo 18: pagina 203.
Capitolo 19: pagina 214.
Capitolo 20: pagina 223.
Capitolo 21: pagina 231.
Capitolo 22: pagina 242.
Capitolo 23: pagina 253.
Capitolo 24: pagina 265.
Capitolo 25: pagina 280.
Capitolo 26: pagina 291.
Capitolo 27: pagina 309.
Penso che non si possano creare dei personaggi senza aver studiato a
fondo gli uomini, come non si può parlare una lingua che a patto di
averla imparata seriamente.
Non avendo ancora raggiunto l'età nella quale s'inventa, mi accontento
di riferire.
Invito pertanto il lettore a convincersi della realtà di questa
storia, di cui tutti i personaggi, tranne la protagonista, sono ancora
vivi.
Del resto, a Parigi molti potrebbero testimoniare la maggior parte dei
fatti che qui descriverò, e potrebbero confermarli, se la mia sola
testimonianza non fosse sufficiente, ma, per una particolare
circostanza, soltanto io posso narrarli, perché solo a me furono
confidati gli ultimi particolari, senza i quali sarebbe stato
impossibile fornire un racconto interessante e compiuto.
Ecco in che modo mi furono resi noti quei fatti. Il 12 marzo 1847, in
rue Laffitte, potei leggere un grande manifesto giallo che annunciava
una vendita all'asta di mobili e di rare curiosità. La vendita
avveniva in seguito alla morte del proprietario, sull'avviso non era
scritto il nome del defunto, ma si diceva che la vendita si sarebbe
tenuta il giorno 16, da mezzogiorno alle cinque, al numero 9 di rue
d'Antin.
Il manifesto annunciava inoltre che il 13 e il 14 si sarebbe potuto
visitare l'appartamento con i mobili.
Sono sempre stato un amatore di oggetti rari, e mi riproposi perciò di
non perdere l'occasione di vedere questi, e forse anche di
acquistarli.
L'indomani, mi recai al numero 9 di rue d'Antin. Nonostante fosse
ancora mattina presto, l'appartamento era già invaso dai visitatori e
anche da visitatrici che per quanto vestite di velluto, avvolte in
cachemire e attese alla porta dalle loro eleganti carrozze,
contemplavano con stupore, e anche con ammirazione, quel lusso che si
offriva ai loro occhi. Quell'ammirazione e quello stupore mi furono
chiari più tardi, quando, guardandomi intorno, potei accorgermi di
essere nell'abitazione di una mantenuta.
Ora, se c'è una cosa che le signore della buona società desiderano
conoscere - e infatti quelle visitatrici appartenevano appunto alla
buona società - è proprio la casa di quelle donne il cui guardaroba
quotidiano supera per fasto il loro, e che hanno, come loro e accanto
a loro, palchi riservati all'Opéra e al Théâtre des Italiens, e che
sfoggiano, per le strade di Parigi, l'insolente abbondanza della loro
bellezza, dei loro gioielli, dei loro scandali.
Colei che viveva nell'appartamento mi trovavo era morta: e dunque le
signore più virtuose potevano finalmente entrare fino nella sua stanza
da letto.
La morte aveva purificato l'aria di quella splendida fogna; e
d'altronde le visitatrici avevano come scusa, qualora ce ne fosse
stato bisogno, il fatto di essere venute per una vendita all'asta
senza conoscere il nome della padrona di casa.
Avevano letto un manifesto, e ora volevano vedere e scegliere gli
oggetti che quel manifesto prometteva: nulla di più semplice, il che
tuttavia, non impediva loro di cercare, in mezzo a tutte quelle
meraviglie, le tracce di quella vita dissoluta sulla quale, certo,
avevano udito tanti strani racconti.
Ma purtroppo i misteri erano morti con la loro dea; e malgrado la loro
buona volontà, quelle dame riuscirono a scoprire solo ciò che era in
vendita dopo la morte, e non ciò che si vedeva quando la padrona di
casa era ancora viva.
Del resto, c'era davvero di che acquistare. L'arredamento era
splendido. Mobili di Boule e in legno di rosa, vasi cinesi e di
Sèvres, statuette di Sassonia, stoffe di raso, velluti, merletti, non
mancava niente.
Io mi aggiravo nell'appartamento, seguendo le nobili curiose che mi
avevano preceduto. Esse entrarono in una stanza tappezzata di stoffe
persiane, e anch'io stavo per entrarvi, quando ne uscirono quasi a
precipizio, sorridendo come vergognose di quella nuova intrusione.
Il mio desiderio di entrare in quella stanza ne fu aumentato.
Era lo spogliatoio, fornito di ogni specie di strumenti nei quali
pareva essersi espressa al massimo la prodigalità della defunta.
Su un grande tavolo accostato al muro, grande tre piedi per sei,
splendevano tutti i tesori di Ancoe e di Odiot. Era proprio una
magnifica collezione, e fra tutti quegli oggetti, così indispensabili
a una donna come quella presso la quale ci trovavamo, non ce n'era uno
che non fosse d'oro o d'argento.
Tuttavia quella raccolta non poteva essere stata fatta che poco alla
volta, e non era certo stato un solo amore a completarla.
Io, che non mi scandalizzavo certo alla vista dello spogliatoio di una
mantenuta, mi divertivo a osservarne i particolari, di qualsiasi tipo,
e mi accorsi che tutti quegli utensili mirabilmente cesellati
portavano monogrammi vari e corone diverse.
Guardavo tutti quegli oggetti, ognuno dei quali significava ai miei
occhi un passo avanti della poverina sulla strada della prostituzione,
e mi andavo dicendo che Dio era stato misericordioso verso di lei
poiché non aveva permesso che giungesse al solito castigo,
consentendole di morire nel pieno del suo lusso e della sua bellezza,
prima di conoscere la vecchiaia, che è la prima morte delle
cortigiane.
Che c'è infatti di più triste della vecchiaia del vizio, specialmente
nella donna? Essa non ha in sé nessuna dignità e non ispira interesse.
Quel continuo pentirsi, non di avere percorso una cattiva strada, ma
di avere sbagliato i propri calcoli e di avere mal impiegato il
proprio denaro, è una delle cose più tristi che si possano immaginare.
Ho conosciuto un'antica prostituta alla quale non restava del passato
che una figlia bella quasi quanto lo era stata lei, a detta dei
contemporanei. Quella povera fanciulla, alla quale la madre non aveva
mai detto: “Sei mia figlia” se non per ordinarle di sfamare la sua
vecchiaia come lei aveva sfamato la sua infanzia, quella povera
creatura si chiamava Louise, e, obbedendo a sua madre, si concedeva
senza volontà, senza passione, senza piacere, come avrebbe fatto
qualsiasi mestiere che avessero pensato di insegnarle.
Il continuo spettacolo della corruzione, della corruzione precoce,
alimentata dalla salute sempre precaria della ragazza, aveva soffocato
in lei quella conoscenza del bene e del male che forse Dio le aveva
dato ma che nessuno aveva pensato a sviluppare.
Ricorderò sempre quella ragazza, che passava sui viali quasi tutti i
giorni alla stessa ora.
Sua madre l'accompagnava sempre, con un'assiduità di una vera madre
che accompagnasse la propria vera figlia.
Ero molto giovane, a quel tempo, e pronto ad accettare per me stesso
la facile morale del mio secolo; mi ricordo però che la vista di
quella scandalosa sorveglianza mi ispirava disprezzo e disgusto.
Si aggiunga che nessun viso di vergine avrebbe potuto riflettere lo
stesso sentimento di innocenza, una simile espressione di malinconica
sofferenza. La si sarebbe detta un'immagine della Rassegnazione. Un
giorno, il volto di quella fanciulla si rischiarò. In mezzo alla
corruzione di cui sua madre reggeva le fila, sembrò alla peccatrice
che Dio volesse concederle la felicità.
E perché, dopo tutto, Dio che l'aveva creata senza forza avrebbe
dovuto lasciarla senza conforto, sotto il peso doloroso della sua
vita? Un giorno, dunque, si accorse di essere incinta, e quella parte
di lei che era rimasta incontaminata trasalì di gioia. L'anima umana
ha una strana capacità di evasione.
Louise corse ad annunciare alla madre quella notizia che la rendeva
così felice. E' vergognoso dirlo, ma, d'altra parte, noi non facciamo
qui sfoggio di immoralità, raccontiamo un fatto vero che sarebbe forse
meglio tacere, se non fossimo convinti che è necessario, a volte,
rendere noto il martirio di quegli esseri che vengono condannati senza
ascoltarli, disprezzati senza giudicarli; è vergognoso, ripetiamo, ma
la madre rispose a sua figlia che quello che avevano era appena
sufficiente per due e che non sarebbe certo bastato per tre; che certi
bambini sono inutili e che una gravidanza è tempo perso.
Il giorno dopo, una levatrice, che indichiamo qui solamente come amica
della madre, visitò Louise, che rimase qualche giorno a letto, per
rialzarsene più pallida e debole che mai.
Tre mesi dopo, un uomo ebbe pietà di lei e tentò di guarirla
moralmente e fisicamente; ma l'ultimo colpo era stato troppo grave, e
Louise morì per le conseguenze dell'aborto.
La madre è ancora viva: come? Solo Dio lo sa.
Questa storia mi era tornata in mente mentre guardavo i servizi da
toletta in argento, e avevo passato un po' di tempo in queste
riflessioni, a quanto pareva, perché nell'appartamento non eravamo
rimasti che io e un custode che, sulla porta, vigilava con attenzione
che non rubassi niente.
Mi avvicinai allora al brav'uomo a cui ispiravo timori così gravi.
“Signore”, gli chiesi, "potreste dirmi il nome della persona che
abitava qui?".
“Era mademoiselle Marguerite Gautier”.
Conoscevo quella ragazza di nome e di vista.
“Come!”, esclamai, “Marguerite Gautier è morta?”.
“Sì, signore”.
“Quando?”.
“Da tre settimane, credo”.
“E come mai permettono che si visiti l'appartamento?”.
"I creditori pensano che sia un modo per far salire il prezzo di
vendita. La gente può vedere in anticipo quale effetto fanno le stoffe
e i mobili; voi capite, questo incoraggia all'acquisto".
“Aveva dunque debiti?”.
“Oh, signore, una quantità!”.
“Ma la vendita riuscirà a coprirli?”.
“Ce ne sarà d'avanzo”.
“A chi andrà il di più, dunque?”.
“Alla famiglia”.
“Aveva dunque una famiglia?”.
“Sì”.
“Grazie, signore”.
Il custode, rassicurato circa le mie intenzioni, mi salutò e io me ne
andai.
“Poverina” dicevo tra me e me rincasando, "dev'essere morta molto
tristemente, perché nel suo ambiente si hanno amici solo a patto di
star bene in salute", e mio malgrado mi impietosivo sulla sorte di
Marguerite Gautier.
Questo sembrerà ridicolo a molti, ma io ho una immensa compassione per
le cortigiane, e non mi sogno neppure di metterla in discussione.
Un giorno, mentre andavo alla prefettura per ritirare il mio
passaporto, vidi in una delle strade adiacenti una ragazza trascinata
da due gendarmi. Non conosco la colpa di quella ragazza, ma posso dire
soltanto che piangeva a calde lacrime stringendo a sé un bambino di
qualche mese dal quale l'arresto la separava.
Da quel giorno, non ho mai più disprezzato una donna alla prima
impressione.
La vendita era fissata per il 16.
Era stato lasciato un giorno d'intervallo tra quello destinato alle
visite e quello dell'asta, perché i tappezzieri avessero il tempo di
staccare i parati e le tende.
Ero appena tornato da un viaggio. Era abbastanza naturale che non
avessi saputo della morte di Marguerite come di una di quelle grandi
notizie che gli amici si affrettano a comunicare a chi fa ritorno
nella capitale delle novità.
Marguerite era bella, ma se così tanto scalpore suscita la vita
stravagante di quelle donne, altrettanto poco ne suscita la loro
morte.
Sono stelle che tramontano così come sorsero, senza fulgore.
Quando muoiono in età giovane, la notizia della loro morte viene
saputa contemporaneamente da tutti i loro amanti, perché a Parigi
quasi tutti coloro che sono stati intimi con una donna nota sono amici
tra di loro; essi si scambiano allora qualche ricordo su di lei, e la
vita di tutti continua senza che l'avvenimento la turbi, fosse pure
con una sola lacrima.
Al giorno d'oggi, quando si hanno venticinque anni, le lacrime sono
diventate una cosa tanto preziosa da non poter essere concessa alla
prima venuta.
E' già molto se i genitori, che pagano per essere pianti, lo sono in
ragione della somma spesa.
Quanto a me, benché il mio monogramma non si trovasse su nessuno degli
oggetti di Marguerite, quell'istintiva indulgenza, quella naturale
compassione che poco fa ho confessato, mi faceva riflettere sulla sua
morte più a lungo, forse, che di quanto non meritasse.
Mi ricordavo di aver incontrato spesso Marguerite lungo gli Champs-
Elysées, dove andava ogni giorno, assiduamente, in un calessino
azzurro, tirato da due splendidi cavalli bai; avevo notato in lei un
portamento poco comune alle sue pari, che faceva risplendere
maggiormente una bellezza già fuori dell'ordinario.
Quelle sciagurate creature, quando escono di casa, sono sempre
accompagnate non si sa da chi.
Dato nessun uomo acconsente a mostrare pubblicamente l'amore notturno
che ha per loro, e siccome esse odiano la solitudine, si portano
dietro o quelle che, meno fortunate, non possiedono una carrozza, o
qualcuna di quelle vecchie elegantone di cui niente giustifica
l'eleganza e alle quali ci si può rivolgere senza scrupoli, quando si
desidera avere qualche notizia su coloro che accompagnano.
Ma non era così per Marguerite. Arrivava agli Champs-Elysées sempre da
sola, cercando di nascondersi il più possibile nella sua carrozza,
d'inverno avvolta in un gran cachemire, d'estate vestita con assoluta
sobrietà; e benché lungo la sua passeggiata abituale si trovassero
persone che conosceva, quando per caso sorrideva loro, quel sorriso
era visibile solo a queste: una duchessa non avrebbe sorriso in un
altro modo.
Non passeggiava mai dal rond-point fino all'imbocco degli Champs-
Elysées, come le sue colleghe di allora e di oggi; i suoi cavalli la
portavano rapidamente al Bois e lì scendeva dalla carrozza,
passeggiava per un'ora, risaliva nella sua vettura, e tornava a casa
al gran trotto.
Tutti questi particolari, di cui qualche volta ero stato testimone,
sfilavano davanti alla mia mente, e rimpiangevo la morte di quella
donna come si può rimpiangere la totale distruzione di un'opera
d'arte.
Era, insomma, impossibile trovare una bellezza più affascinante di
quella di Marguerite.
Alta e snella, fin troppo, aveva al massimo grado l'arte di far
scomparire quel difetto della natura con una sapiente maniera di
vestirsi.
Il suo cachemire, lungo fino a terra, lasciava sfuggire qua e là i
larghi “volants” di un vestito di seta, e l'ampio manicotto, in cui
nascondeva la mani stringendolo al petto, era circondato da pieghe
così abilmente disposte, che l'occhio più esigente non avrebbe trovato
niente da ridire sul contorno di quelle forme.
La splendida testa era fatta oggetto di una speciale civetteria.
Era molto minuta, e sua madre, come avrebbe detto De Musset, sembrava
averla fatta così per poterla fare con maggior cura. Mettete in un
ovale di indicibile grazia due occhi neri ornati da sopracciglia
dall'arco così puro da sembrare disegnato; velate quegli occhi di
lunghe ciglia che, abbassandosi, ombreggino le guance rosate;
tracciate un naso sottile, dritto, spirituale, con le narici
leggermente dilatate da un anelito di vita sensuale; disegnate una
bocca regolare, le cui labbra si schiudano dolcemente su denti bianchi
come il latte; colorite la pelle col tono vellutato che avvolge le
pesche non ancora sfiorate da alcuna mano, e avrete l'immagine di
quella testa deliziosa.
I capelli neri come il carbone, ondulati naturalmente, o forse no, si
dividevano sulla fronte in due larghe bande, e si perdevano dietro la
testa, mostrando i lobi delle orecchie sui quali brillavano due
diamanti di quattro o cinquemila franchi ciascuno.
Come potesse quella vita intensa lasciare intatta sul viso di
Marguerite quell'espressione verginale, quasi infantile, che lo
caratterizzava, è una cosa che dobbiamo accontentarci di constatare,
senza poterla comprendere.
Marguerite aveva un magnifico ritratto fattole da Vidal, il solo uomo
il cui pennello fosse stato in grado di riprodurne l'aspetto. Dopo la
sua morte, ebbi per qualche giorno a casa mia quel ritratto, di una
somiglianza così stupefacente, che mi è servito a descrivere ciò per
cui forse la sola memoria non mi sarebbe bastata.
Alcuni particolari li ho conosciuti soltanto più tardi, ma li
riferisco subito per non doverci tornare su, quando inizierò il
racconto aneddotico della vita di questa donna.
Marguerite assisteva a tutte le prime rappresentazioni, e trascorreva
le sue serate al teatro o ai balli.
Ogni volta che si recitava una nuova commedia, si poteva essere sicuri
di incontrarla, con tre cose che non la lasciavano mai, e che
occupavano sempre il parapetto del suo palco di prima fila: il
binocolo, un sacchetto di dolci e un mazzo di camelie.
Per venticinque giorni del mese le camelie erano bianche, e per cinque
erano rosse; non si è mai conosciuta la ragione di questo cambiamento
di colore, che io racconto senza saperlo spiegare, e che era stato
notato anche dai suoi amici e dai frequentatori abituali dei teatri
dove si recava più spesso.
Marguerite non era mai stata vista con altri fiori che camelie, tanto
che dalla sua fioraia, madame Barjou, avevano finito col chiamarla "La
signora dalle camelie", e il soprannome le era rimasto.
Sapevo inoltre, come del resto tutti quelli che a Parigi frequentano
un certo ambiente, che Marguerite era stata l'amante dei giovani più
eleganti, che lei lo proclamava con orgoglio e che essi se ne
vantavano, il che significava che gli uni e l'altra erano
reciprocamente soddisfatti.
Tuttavia da circa tre anni, dopo un viaggio a Bagnères, lei viveva
soltanto, si diceva, con un vecchio duca straniero, enormemente ricco,
che aveva cercato di allontanarla il più possibile dalla sua vita
passata, cosa che del resto lei sembrava avergli permesso di buon
grado.
Ecco quello che mi fu raccontato a tale proposito.
Nella primavera del 1842, Marguerite era così debole, così diversa dal
solito, che i medici le ordinarono una cura di acque, e lei partì per
Bagnères.
Là, tra i malati, c'era la figlia di quel duca, la quale non solo
soffriva della stessa malattia, ma aveva anche lo stesso viso di
Marguerite, al punto che si sarebbe potuto prenderle per due sorelle.
Ma la duchessina era ormai alla terza fase della tisi, e morì pochi
giorni dopo l'arrivo di Marguerite.
Una mattina il duca, rimasto a Bagnères come si rimane nella terra
nella quale abbiamo sepolto una parte di noi stessi, vide Marguerite
all'angolo di un viale.
Gli sembrò allora di veder passare l'ombra di sua figlia e, andatole
incontro, le prese le mani, la baciò piangendo e, senza neppure
domandarle chi fosse, supplicò che gli fosse permesso di vederla e di
amare in lei la viva immagine della figlia morta.
Marguerite, sola a Bagnères con la cameriera, non temendo affatto,
d'altra parte, di compromettersi, accordò al duca quanto le chiedeva.
A Bagnères, c'erano persone che la conoscevano e che andarono a
informare ufficialmente il duca della vera posizione di mademoiselle
Gautier. Fu un grave colpo per quel vecchio, perché la rassomiglianza
con sua figlia finiva, ma era troppo tardi. La giovane donna era
diventata indispensabile al suo cuore, e il solo pretesto, la sola
ragione per la quale continuava a vivere.
Non le rivolse alcun rimprovero, perché non ne aveva il diritto, ma le
chiese se si sentisse capace di cambiare la sua vita, offrendole in
cambio di quel sacrificio tutti i compensi che poteva desiderare. Lei
promise.
Bisogna dire che a quell'epoca Marguerite, natura generosa, era
ammalata. Il passato le sembrava come una delle principali cause della
sua malattia, e una specie di superstizione la indusse a sperare che
Dio le avrebbe lasciato la bellezza e la salute in cambio del suo
pentimento e della sua conversione.
In effetti, la cura delle acque, le passeggiate, il sonno che la
ristorava dalla stanchezza naturale, l'avevano, alla fine dell'estate,
quasi ristabilita in salute.
Il duca la accompagnò a Parigi, dove continuò a visitarla come a
Bagnères.
Questo legame, di cui nessuno poteva conoscere né la vera origine né
il vero motivo, suscitò una grande sensazione, perché il duca, noto
per le sue grandi ricchezze, si faceva ora conoscere per la sua
prodigalità. Si credette di ravvisare la causa di questo attaccamento
del vecchio duca alla giovane donna in una passione senile di
libertino, comune a molti vecchi danarosi.
A tutto si pensò, tranne che alla verità. Tuttavia il sentimento di
quel padre per Marguerite era di natura così casta, che gli sarebbe
sembrato incestuoso ogni altro rapporto con lei che non fosse
esclusivamente d'affetto, e mai le rivolse una sola parola che una
figlia non avrebbe potuto ascoltare.
Lontana da noi l'idea di fare della nostra protagonista una persona
diversa da quella che fu in realtà; diremo dunque che fino a quando
rimase a Bagnères, non le fu difficile mantenere la promessa fatta al
duca, e la mantenne; ma appena fu tornata a Parigi, sembrò a quella
donna, abituata alla vita dissoluta, ai balli, perfino alle orge, che
la solitudine, interrotta solo di tanto in tanto dalle visite del
duca, l'avrebbe fatta morire di noia, e gli ardenti ricordi della sua
vita di prima le avvamparono insieme la testa e il cuore.
Aggiungete a questo che Marguerite era tornata dal suo viaggio più
bella che mai, che aveva vent'anni, e che la malattia, assopita ma non
vinta, continuava a suscitarle desideri febbrili, quasi sempre legati
alle malattie di petto.
Il duca provò quindi un gran dolore quando i suoi amici, sempre in
agguato per sorprendere uno scandalo nella vita della donna con la
quale, secondo loro, si andava compromettendo, gli rivelarono e gli
provarono che quando era sicura che egli non sarebbe andato da lei
riceveva visite, e che tali visite si protraevano spesso fino alla
mattina dopo. Interrogata, Marguerite confessò ogni cosa al duca,
consigliandogli, senza riserve mentali, di smettere di occuparsi di
lei, perché non si sentiva così forte da mantenere gli impegni presi,
e non voleva accettare più la generosità di un uomo che lei ingannava.
Il duca rimase otto giorni senza farsi vedere, ma non poté fare di
più, e, l'ottavo giorno, venne a supplicare Marguerite di riceverlo
ancora, promettendole che l'avrebbe accettata così com'era, purché gli
fosse concesso di frequentarla, e giurandole che, a costo di morirne,
non le avrebbe mai rivolto un solo rimprovero. Ecco a che punto
stavano le cose tre mesi dopo il ritorno di Marguerite, cioè nel
novembre o dicembre 1842.
Il 16, all'una, andai in rue d'Antin.
Già dal portone si sentivano gridare i banditori. L'appartamento era
pieno di curiosi.
C'erano tutte le più eleganti celebrità del mondo del vizio, sbirciate
di sottecchi da alcune grandi dame che avevano colto ancora una volta
il pretesto di quella vendita per poter vedere da vicino donne che
altrimenti non avrebbero mai avuto occasione di incontrare, e che
forse invidiavano in segreto per i loro facili piaceri.
La duchessa de F. stava gomito a gomito con mademoiselle de A., uno
dei più malinconici esempi di moderna cortigiana; la marchesa de T.
esitava nel contendere l'acquisto di un mobile a madame D., l'adultera
più elegante e più nota della nostra epoca; il duca d'Y., che a Madrid
credevano si rovinasse a Parigi e che a Parigi credevano si rovinasse
a Madrid, e che, alla fine dei conti, non dava neppure fondo alle sue
rendite, chiacchierando con madame M., una delle nostre più spiritose
narratrici, che si degna di tanto in tanto di scrivere ciò che dice e
di firmare ciò che scrive, scambiava occhiate confidenziali con madame
de N., la bella peripatetica degli Champs-Elysées, quasi sempre
vestita di rosa o di azzurro, la cui carrozza è tirata da due grandi
cavalli neri che Tony le ha venduto per diecimila franchi e che lei ha
pagato; mademoiselle A., infine, alla quale il solo ingegno frutta il
doppio di quanto frutti alle signore della buona società la dote, e il
triplo di quel che frutta alle altre l'amore, era venuta, nonostante
il freddo, a fare qualche acquisto, e non era certo la meno osservata.
Potremmo continuare a indicare le iniziali di molte persone riunite in
quel salone, peraltro assai stupite di trovarsi insieme; ma avremmo
timore di annoiare il lettore.
Diciamo solo che tutti erano in preda a un'allegria sfrenata, e che
fra tutte quelle donne che si trovavano là, molte avevano conosciuto
la morta, ma non sembravano ricordarsene. Si rideva forte; i banditori
gridavano a squarciagola; i mercanti che avevano occupato i banchi
disposti di fronte ai tavoli di vendita, cercavano invano di imporre
il silenzio, per concludere in pace i propri affari. Mai riunione fu
più varia e più rumorosa. Mi insinuai con discrezione in mezzo a quel
tumulto, e mi rattristava il pensiero che avveniva accanto alla camera
dove era morta la sventurata, i cui mobili venivano posti in vendita
per pagarne i debiti. Venuto per osservare piuttosto che per
acquistare, guardavo le facce dei fornitori che avevano voluto l'asta,
e i cui volti si illuminavano ogni volta che un oggetto saliva a un
prezzo che essi non avrebbero sperato. Persone dabbene che avevano
speculato sulla prostituzione di quella donna, che avevano guadagnato
su di lei il cento per cento, che avevano perseguitato con la carta
bollata gli ultimi istanti della sua vita, e che venivano, dopo la sua
morte, a raccogliere il frutto dei loro onesti calcoli insieme con gli
interessi dei loro vergognosi crediti. Come avevano ragione gli
antichi, che attribuivano lo stesso Dio ai mercanti e ai ladri! Vesti,
pellicce, gioielli, erano venduti con incredibile rapidità. Non
trovavo niente che mi interessasse, e aspettavo ancora. A un tratto,
udii gridare: "Un volume, perfettamente rilegato, col taglio dorato,
dal titolo Manon Lescaut. Vi sono alcune parole scritte sulla prima
pagina. Dieci franchi“. ”Dodici", disse una voce dopo un silenzio
piuttosto lungo. “Quindici”, replicai io. Perché mai? Non lo sapevo.
Certo per quelle “parole scritte”. “Quindici”, ripeté il banditore.
“Trenta”, disse il primo offerente con un tono che sembrava voler
scoraggiare ogni offerta successiva.
L'asta diventava una lotta.
“Trentacinque!”, esclamai con lo stesso tono.
“Quaranta”.
“Cinquanta”.
“Sessanta”.
“Cento”.
Confesso che se avessi voluto fare impressione ci sarei pienamente
riuscito, perché a questa mia offerta si fece un gran silenzio, e
tutti mi guardarono per cercare di capire chi fosse quel signore che
sembrava così deciso a entrare in possesso di quel volume.
Pareva che il tono dato alla mia ultima offerta avesse convinto il mio
antagonista, il quale preferì abbandonare una lotta che sarebbe
servita solo a farmi pagare quel volume dieci volte il suo prezzo, e,
inchinandosi, mi disse molto cortesemente, anche se un po' in ritardo:
“Non insisto, signore”.
Nessun altro parlò, e il libro mi fu aggiudicato.
Dato che temevo una nuova ostinazione alla quale il mio orgoglio non
avrebbe forse ceduto, ma che certo avrebbe messo la mia borsa a mal
partito, feci registrare il mio nome e mettere da parte il libro; poi
me ne andai. Dovetti certo dare molto da pensare a chi era stato
testimone di quella scena e si domandava senza dubbio a quale scopo
avevo finito col pagare cento franchi un libro che avrei potuto avere
dovunque per dieci o quindici franchi al massimo.
Un'ora dopo mandai a ritirare il mio acquisto.
Sulla prima pagina era scritta a penna, con grafia elegante, la dedica
del donatore del libro. La dedica consisteva in queste sole parole:
MANON A MARGUERITE.
UMILTA'.
Era firmato: Armand Duval.
Che significava la parola: Umiltà?
Manon, seguendo l'opinione di quel signor Armand Duval riconosceva in
Marguerite una superiorità di corruzione o di sentimento?
La seconda interpretazione era certo la più verosimile, perché la
prima non sarebbe stata altro che l'espressione di un'impertinente
franchezza che Marguerite non avrebbe mai accettata qualunque fosse la
sua opinione su se stessa.
Uscii di nuovo, e non mi occupai più del libro se non la sera quando
tornai a casa.
Certo, quella di Manon Lescaut è una storia commovente di cui conosco
ogni particolare, eppure quel volume, ogni volta che mi capita sotto
mano, suscita in me nuova simpatia; allora lo apro per rivivere per la
centesima volta la storia dell'eroina dell'abbé Prévost. Quella
protagonista tanto vera, che mi sembra di averla conosciuta. In quelle
nuove circostanze, il tipo di confronto fatto tra lei e Marguerite
forniva a quella lettura un'attrattiva inattesa, e alla mia indulgenza
si aggiunse pietà, quasi amore, per la povera ragazza dalla quale
avevo ereditato il volume. Manon era morta in un deserto, è vero, ma
pur sempre tra le braccia di un uomo che l'amava con tutte le forze
dell'anima e che, dopo morta, le scavò la fossa, la cosparse di
lacrime e vi seppellì il proprio cuore; mentre Marguerite, peccatrice
come Manon, come lei forse pentita, era morta in mezzo a un lusso
fastoso, a voler credere a ciò che avevo visto, e nel letto del suo
passato, ma anche in mezzo al deserto del cuore, molto più arido e
sconfinato, molto più spietato di quello nel quale Manon aveva trovato
sepoltura.
Infatti Marguerite, come seppi da alcuni amici che conoscevano gli
ultimi avvenimenti della sua vita, non aveva avuto al suo capezzale
nessun conforto durante i due mesi della sua lenta e dolorosa agonia.
Poi, da Manon e da Marguerite il mio pensiero si soffermava su quelle
che conoscevo e che vedevo incamminarsi, cantando, verso una morte
sempre uguale.
Povere creature! Se amarle è male, il meno che si possa fare è certo
compiangerle. Si compiange il cieco che non ha mai visto la luce del
sole, il sordo che non ha mai udito gli accordi della natura, il muto
che non ha mai espresso la voce dei suoi sentimenti, e sotto un falso
pretesto di pudore, non si vuol compiangere quella cecità del cuore,
quella sordità dell'anima, quel mutismo della coscienza che rendono
folle la povera afflitta e che la rendono, suo malgrado, incapace di
vedere il bene, di udire il Signore e di parlare il linguaggio puro
dell'amore e della fede.
Hugo ha creato “Marion Delorme”, Musset “Bernerette”, Alexandre Dumas
“Fernande”, i pensatori e i poeti di tutti i tempi hanno offerto alle
cortigiane la loro pietà, e qualche volta un uomo generoso le ha
riabilitate col suo amore e anche col suo nome. Se insisto tanto su
questo punto è perché, tra quelli che mi leggeranno, forse molti sono
già pronti a gettare via questo libro, nel quale temono di trovare
soltanto un'apologia del vizio e della prostituzione, e certo l'età
dell'autore contribuisce a motivare un simile timore. Quelli che
pensano così si ricredano, e continuino pure a leggere, se è solo
questo timore a trattenerli.
Sono semplicemente convinto di questo principio: per la donna che non
è stata educata a distinguere dove sia il bene, Dio apre quasi sempre
due vie che possono ricondurcela; queste vie sono il dolore e l'amore.
Sono vie ardue, quelle che vi si avventurano si insanguinano i piedi,
si lacerano le mani, ma al tempo stesso lasciano sui rovi della strada
gli ornamenti del vizio, e arrivano in cima vestite di quella nudità
della quale non si arrossisce davanti al Signore.
Coloro che incontrano queste coraggiose viandanti, devono aiutarle e
dire a tutti che le hanno incontrate, perché rivelandolo indicano loro
la strada giusta.
Non basta mettere semplicemente all'imbocco della via due cartelli,
uno con l'iscrizione “Via del bene”, l'altro con l'avvertimento "Via
del male“, e dire a coloro che si presentano: ”Scegliete"; bisogna,
come Cristo, mostrare i sentieri che riconducono dalla seconda alla
prima quelli che si erano lasciati tentare dalle lusinghe, e
soprattutto non bisogna che gli inizi di quel cammino siano troppo
dolorosi o appaiano troppo impenetrabili.
Il cristianesimo è presente, con la sua meravigliosa parabola del
figliol prodigo, per spronarci all'indulgenza e al perdono.
Gesù era pieno d'amore per le anime ferite dalle passioni umane, e
amava curarne le ferite estraendo dalle ferite stesse l'unguento che
doveva guarirle.
Così Egli disse a Maddalena: "Molto ti sarà perdonato perché molto hai
amato". Sublime perdono che doveva suscitare una fede sublime.
Perché dunque dovremmo noi essere più severi di Cristo?
Perché, tenendoci ostinatamente attaccati ai pregiudizi di questo
mondo che si fa spietato perché lo si creda forte, dovremmo
respingere, come lui, delle anime che spesso sanguinano per ferite
dalle quali, come dal sangue infetto di un malato, si spande tutto il
maie del loro passato e che non invocano che una mano amica che le
curi e restituisca loro la convalescenza del cuore?
E' alla mia generazione che mi rivolgo, a quelli per i quali
fortunatamente le teorie di Voltaire non esistono più, a quelli che,
come me, si rendono conto come l'umanità sia impegnata da quindici
anni in uno dei suoi più audaci balzi in avanti. La conoscenza del
bene e del male è acquisita per sempre; si ricostituisce la fede, ci è
restituito il rispetto delle cose sacre, e se il mondo non è diventato
del tutto buono è diventato perlomeno migliore. Gli sforzi di tutti
gli uomini intelligenti mirano allo stesso scopo, e tutte le grandi
volontà si riallacciano allo stesso principio: siamo buoni, siamo
giovani, siamo veri! Il male è solo vanità, abbiamo dunque la fierezza
del bene, e soprattutto non disperiamo. Non disprezziamo la donna che
non è madre, né figlia, né moglie; non riduciamoci ad apprezzare solo
la famiglia, a essere indulgenti solo verso l'egoismo.
Poiché in cielo si fa più festa per un peccatore pentito che per cento
giusti senza peccato, cerchiamo dunque di dare gioia al cielo, che ci
verrà resa maggiorata. Spargiamo sulla nostra strada l'elemosina del
nostro perdono per quelli che i piaceri terreni hanno perduto e che
forse saranno salvati solo da una speranza divina, e, come dicono le
vecchiette che consigliano uno dei loro rimedi, se questo non farà
bene, non nuocerà di certo.
Senza dubbio devo sembrare molto ambizioso quando pretendo di far
scaturire risultati così grandi dalla tenue vicenda che sto
raccontando, ma io sono di quelli che credono che il tutto stia nel
poco. Il bambino è piccolo, ma racchiude l'uomo; il cervello è
limitato, ma ospita il pensiero, l'occhio non è che un tutto, ma copre
le miglia.
Due giorni dopo, la vendita era finita. Aveva fruttato
centocinquantamila franchi.
I creditori avevano diviso fra loro i due terzi, e il resto era andato
alla famiglia, composta da una sorella e da un nipotino.
La sorella aveva spalancato tanto d'occhi quando il notaio le aveva
scritto per annunciarle un'eredità di cinquantamila franchi. Non
vedeva ormai sua sorella da sei o sette anni, dal giorno in cui questa
era sparita senza che si fosse mai potuto conoscere, né da lei stessa
né da nessun altro, il più piccolo particolare della sua vita
successiva all'allontanamento.
Si era dunque precipitata a Parigi, e grande fu lo sbalordimento di
quelli che conoscevano Marguerite, quando seppero che la sua unica
erede era una bella ragazzona di campagna che prima di allora non
aveva mai lasciato il paese.
Trovò un patrimonio fatto, d'improvviso, senza neppure sapere da quale
fonte le venisse quella fortuna insperata.
Tornò, mi dissero in seguito, al suo paese, ricordando la sorella
morta con grande tristezza, confortata tuttavia dall'impiego del
capitale al quattro e mezzo per cento.
Tutti questi avvenimenti, riferiti a Parigi, città madre dello
scandalo, stavano già per essere dimenticati, e io stesso non
ricordavo quasi più la parte che avevo avuto in quei fatti, quando un
nuovo caso mi fece conoscere tutta la vita di Marguerite e mi rese
noti particolari così commoventi da invogliarmi a scrivere questo
libro che, infatti, scrivo.
Da tre o quattro giorni l'appartamento, svuotato di tutti i mobili,
che erano stati venduti, era stato posto in affitto, quando una
mattina qualcuno suonò alla mia porta.
Il mio domestico, o meglio il portiere che mi faceva da domestico,
andò ad aprire e mi portò un biglietto di visita, dicendomi che la
persona che gliel'aveva dato desiderava parlarmi.
Diedi un'occhiata al biglietto e vi lessi queste due parole: Armand
Duval.
Cercai di ricordarmi dove avevo visto quel nome, e mi venne in mente
la prima pagina di Manon Lescaut.
Che cosa poteva desiderare da me la persona che aveva regalato quel
libro a Marguerite? Dissi di far entrare immediatamente il signore che
aspettava.
Vidi allora un giovane biondo, alto, pallido, con un abito da viaggio
che sembrava avere indosso da qualche giorno e che egli non si era
dato la pena di spazzolare arrivando a Parigi, perché era coperto di
polvere.
Monsieur Duval, molto commosso, non fece nessuno sforzo per nascondere
la sua emozione, e con le lacrime agli occhi, la voce tremante, mi
disse:
"Vi prego, signore, vogliate scusare la mia visita e il mio
abbigliamento; ma a parte il fatto che tra persone giovani non è il
caso di fare complimenti, desideravo tanto vedervi oggi stesso, che
non mi sono neppure concesso il tempo di scendere all'albergo al quale
ho spedito il mio bagaglio, per correre subito da voi, temendo
tuttavia, per quanto sia presto, di non trovarvi in casa".
Pregai monsieur Duval di sedersi davanti al fuoco, il che egli fece
tirando fuori di tasca il fazzoletto col quale nascose per un attimo
il viso.
“Voi non potete capire”, riprese sospirando tristemente, "che cosa
voglia questo visitatore sconosciuto, a quest'ora, in un simile
abbigliamento, piangendo in questo modo. Vengo soltanto, signore, a
chiedervi un grande favore".
“Parlate, signore, sono a vostra disposizione”.
“Voi avete assistito all'asta di Marguerite Gautier?”. A questa
parola, l'emozione che il giovane era riuscito per un istante a
dominare fu più forte di lui, ed egli fu obbligato a coprirsi gli
occhi con le mani.
“Devo sembrarvi ben ridicolo”, aggiunse, "scusatemi ancora per questo,
e credete che non dimenticherò mai la pazienza con la quale vi degnate
di ascoltarmi".
“Signore”, risposi, "se il favore che, a quanto sembra, io sono in
grado di farvi può in qualche modo placare il vostro dolore, ditemi
subito in che cosa posso esservi utile, e troverete in me un uomo
felice di servirvi".
Il dolore di monsieur Duval mi ispirava simpatia, e a ogni costo avrei
voluto fargli cosa gradita.
Egli mi disse allora:
“Voi avete comperato qualcosa alla vendita di Marguerite?”.
“Sì, signore, un libro”.
“Manon Lescaut?”.
“Appunto”.
“Lo avete ancora?”.
“E' nella mia stanza da letto”.
Armand Duval, a questa notizia, sembrò sollevato da un gran peso e mi
ringraziò come se avessi cominciato a fargli un favore soltanto
conservando quel libro.
Allora mi alzai, andai a prendere il libro nella mia stanza e glielo
consegnai.
“E' proprio questo”, disse guardando la dedica sul frontespizio e
sfogliando qua e là, “è proprio questo”.
E due grosse lacrime caddero sulle pagine.
“Ebbene, signore”, disse alzando lo sguardo verso di me e non cercando
più neppure di nascondermi che aveva pianto e che stava per piangere
di nuovo, “tenete molto a questo libro?”.
“Perché, signore?”.
“Perché sono venuto a pregarvi di cedermelo”.
“Perdonate la mia curiosità”, gli risposi, "ma siete dunque voi che
l'avete regalato a Marguerite Gautier?".
“Io stesso”.
"Allora questo libro è vostro, signore, riprendetelo, sono ben felice
di potervelo restituire".
“Ma”, riprese Duval, imbarazzato, "lasciate almeno che vi restituisca
la somma che avete pagato per averlo".
"Permettetemi di offrirvelo. Il prezzo di un solo volume in una
vendita del genere è un'inezia, e io non mi ricordo neanche più quanto
l'ho pagato".
“L'avete pagato cento franchi”.
“E vero”, risposi imbarazzato a mia volta, “come fate a saperlo?”.
"E presto detto, io speravo di poter arrivare a Parigi in tempo per la
vendita di Marguerite, ma non sono arrivato che stamattina. Volevo
assolutamente avere un oggetto che le fosse appartenuto, e mi sono
precipitato dal commissario estimatore a chiedergli il permesso di
esaminare la lista degli oggetti venduti e dei nomi degli acquirenti.
Ho visto che questo libro era stato comperato da voi, e ho pensato di
pregarvi di cedermelo, per quanto la somma che avete pagato mi abbia
fatto temere che voi stesso siate legato a quel libro da qualche
ricordo personale".
Così parlando, si vedeva chiaramente come Armand temesse che anch'io
avessi conosciuto Marguerite come l'aveva conosciuta lui.
Mi affrettai perciò a rassicurarlo.
“Non ho conosciuto mademoiselle Gautier che di vista”, gli dissi, "la
sua morte ha prodotto su di me l'impressione che sempre la morte di
una bella donna produce su un uomo a cui faceva piacere incontrarla.
Ho voluto comperare qualcosa all'asta della sua roba e mi sono
ostinato a far alzare il prezzo di questo libro, non so neanch'io
perché, forse per il piacere di far inquietare un signore che vi si
accaniva e sembrava sfidarmi a comprarlo. Ve lo ripeto dunque,
signore, questo libro è vostro, e io vi prego ancora di accettarlo
perché non l'abbiate da me come io l'ho avuto da un banditore, e
perché costituisca tra noi il pegno di una più lunga conoscenza e di
una più intima amicizia".
“Bene, signore”, disse Armand tendendomi la mano e stringendo la mia,
“accetto, e per tutta la vita vi sarò riconoscente”.
Avevo una gran voglia di interrogare Armand su Marguerite, perché la
dedica del libro, il viaggio del giovane, il suo desiderio di
possedere quel volume stimolavano la mia curiosità; ma temevo che se
avessi interrogato il mio ospite avrei avuto l'aria di aver rifiutato
il suo denaro per conservarmi il diritto di immischiarmi nei fatti
suoi.
Si sarebbe detto che egli mi avesse letto nel pensiero, perché mi
disse:
“Avete letto questo libro?”.
“Da cima a fondo”.
“Che cosa pensate della mia dedica?”.
"Ho capito subito che ai vostri occhi la sventurata ragazza alla quale
dedicavate il volume non apparteneva a una categoria comune; non
volevo infatti vedere in quelle righe un complimento banale".
“E avete ragione, signore. Quella fanciulla era un angelo”. Prendete",
mi disse, “leggete questa lettera”.
E mi tese un foglio che sembrava essere stato letto e riletto molte
volte. Lo aprii, ed ecco quello che vi era scritto:
"Mio caro Armand, ho ricevuto la vostra lettera, vi siete conservato
buono e ne ringrazio Iddio. Sì, amico mio, sono ammalata, di una di
quelle malattie che non perdonano; ma l'interessamento che volete
ancora dimostrarmi diminuisce di molto le mie sofferenze. Certo non
vivrò tanto a lungo da poter avere il bene di stringere la mano che ha
scritto la generosa lettera che ho appena ricevuto e le cui parole
potrebbero guarirmi, se qualcosa ancora potesse guarirmi. Non vi vedrò
più, perché sono molto vicina alla morte, e centinaia di miglia ci
separano. Povero amico! la vostra Marguerite di una volta è molto
cambiata, ed è forse meglio che voi non la rivediate più piuttosto che
la vediate com'è adesso. Mi chiedete se vi perdono; oh! di tutto
cuore, amico mio, perché il male che mi avete fatto non era che una
prova del vostro amore. E' un mese che sono a letto, e tengo tanto
alla vostra stima che ogni giorno scrivo il diario della mia vita, da
quando ci siamo lasciati fino a quando non avrò più la forza di
scrivere.
"Armand, se l'interesse che mi dimostrate è sincero, al vostro ritorno
andate da Julie Duprat. Vi consegnerà quel diario. Vi troverete la
ragione e la scusa di quanto è accaduto tra noi. Julie è molto buona
con me; insieme parliamo spesso di voi, e quando è arrivata la vostra
lettera, abbiamo pianto insieme, leggendola.
"Nel caso in cui non mi aveste dato vostre notizie, era incaricata di
consegnarvi quei fogli al vostro arrivo in Francia.
"Non me ne siate grato. Rievocare ogni giorno i soli istanti felici
della mia vita mi fa un gran bene, e come voi troverete nella lettura
di quel diario la giustificazione del passato, così io trovo nello
scriverlo un quotidiano sollievo.
"Vorrei lasciarvi qualcosa che mi ricordasse sempre al vostro cuore,
ma qui tutto è sotto sequestro, e più niente mi appartiene.
"Capite, amico mio? io sto per morire, e dalla mia stanza da letto
sento nel salone i passi del custode che i miei creditori hanno
installato qui perché niente sia portato via e perché non mi resti
niente nel caso che io sopravviva. Speriamo che per vendere aspettino
almeno la mia fine.
"Oh! come sono spietati gli uomini! o piuttosto, mi sbaglio: è Dio che
è giusto e inflessibile.
"Ebbene, amore caro, venite alla vendita della mia roba, e comprate
qualche cosa, perché se mai io nascondessi per voi il più piccolo
oggetto e lo si scoprisse, sarebbero capaci di accusarvi di
sottrazione di beni pignorati.
"Com'è triste la vita che lascio!
"Come sarebbe buono il Signore, se mi permettesse di rivedervi prima
di morire! Con tutta probabilità, addio, amico mio; perdonatemi se non
vi scrivo più a lungo, ma coloro che sostengono di potermi guarire mi
sfiniscono coi salassi, e la mia mano si rifiuta di scrivere oltre.
Marguerite Gautier".
Le ultime parole erano, infatti, appena leggibili.
Restituii la lettera ad Armand, che certo l'aveva riletta nella sua
mente come io l'avevo letta sulla carta, perché riprendendola disse:
"Chi potrebbe mai credere che è stata una mantenuta a scrivere queste
cose!".
Commosso dai suoi ricordi, contemplò per qualche istante la scrittura
di quella lettera, che infine portò alle labbra.
“Quando penso”, riprese, "che questa donna è morta senza che io abbia
potuto rivederla, e che non la vedrò mai più; quando penso che ha
fatto per me cose che neppure una sorella avrebbe fatto, non so
perdonarmi di averla lasciata morire così. Morta! morta! e pensando a
me, scrivendo e pronunciando il mio nome, mia povera, cara
Marguerite".
E Armand, dando libero sfogo ai pensieri e alle lacrime, mi strinse la
mano e proseguì:
"Mi giudicherebbero un bambino, se mi vedessero piangere così una
morta come quella; perché non sapranno mai quanto ho fatto soffrire
quella donna, come sono stato crudele, e come lei è stata buona e
rassegnata. Credevo che spettasse a me perdonarla, e oggi mi ritrovo
indegno del perdono che mi accorda. Oh! darei dieci anni della mia
vita per potere piangere un'ora ai suoi piedi".
E' sempre difficile consolare un dolore che non si conosce, e tuttavia
io ero preso da una così viva simpatia per quel giovane, che mi
confidava la sua pena con tanta franchezza, che pensai che le mie
parole non gli sarebbero state indifferenti e gli dissi:
"Non avete parenti, amici? Sperate, cercate la loro compagnia, ed essi
vi consoleranno, perché io non posso che compiangervi".
“E' giusto”, rispose alzandosi e mettendosi a passeggiare a grandi
passi per la stanza, "io vi annoio. Scusatemi, non ho pensato che il
mio dolore può importarvi assai poco, e che vi sto importunando con
una cosa che non può e non deve interessarvi per niente".
"Avete frainteso il senso delle mie parole, io sono a vostra
disposizione; mi dispiace solo di non essere in grado di consolarvi.
Se la mia compagnia e quella dei miei amici possono distrarvi, se,
insomma, avete bisogno di me per qualunque cosa, sappiate bene che
avrò molto piacere di potervi fare cosa gradita“. ”Scusatemi,
scusatemi“, disse, ”il dolore esagera le sensazioni. Lasciatemi
rimanere qui ancora per qualche minuto, giusto il tempo di asciugarmi
gli occhi perché i curiosi della strada non guardino come una rarità
questo giovanottone che piange. Voi mi avete reso veramente felice
dandomi questo libro; non saprò mai come mostrarvi la mia riconoscenza
per quanto vi devo".
“Accordandomi un po' della vostra amicizia”, gli risposi, "e
raccontandomi la causa del vostro dolore. A parlare di ciò che si
soffre si è consolati".
"Avete ragione; ma oggi ho troppo bisogno di piangere, e non vi direi
che parole senza senso. Un giorno, vi renderò partecipe della mia
storia, e vedrete se ho ragione a rimpiangere quella sventurata. E
adesso", aggiunse asciugandosi ancora una volta gli occhi e
guardandosi in uno specchio, "ditemi che non mi considerate troppo
sciocco, e permettetemi di tornare a trovarvi". Lo sguardo di quel
giovane era buono e dolce, e io fui lì sul punto di abbracciarlo.
Quanto a lui, i suoi occhi ricominciavano a velarsi di lacrime; ma
vide che me n'ero accorto, e distolse lo sguardo.
“Su”, gli dissi, “coraggio!”.
“Addio”, mi rispose.
E facendo uno sforzo inaudito per non piangere, scappò, più che
uscire, da casa mia.
Alzai la tenda della finestra, e lo vidi risalire nella carrozza
che l'attendeva alla porta; ma appena vi entrò, si sciolse in lacrime
e nascose il viso nel fazzoletto.
Per qualche tempo non sentii più parlare di Armand, ma in compenso ci
furono molte occasioni per parlare di Marguerite.
Non so se l'abbiate mai notato, ma basta che si pronunci una volta
davanti a voi il nome di una persona che sembrava dovervi restare
sconosciuta o quanto meno indifferente, perché una quantità di
particolari prendano corpo a poco a poco intorno a quel nome, e perché
sentiate allora tutti i vostri amici parlarvi di cose sulle quali non
vi avevano mai trattenuto prima.
Scoprite allora che quella persona quasi vi toccava, vi accorgete che
è passata molte volte nella vostra vita senza essere notata, trovate
negli avvenimenti che vi vengono raccontati una coincidenza,
un'affinità reale con certi casi della vostra vita.
Non era proprio questo il caso di Marguerite, perché io l'avevo vista,
incontrata e conoscevo il suo aspetto e le sue abitudini; tuttavia,
dopo la vendita il suo nome mi era spesso giunto all'orecchio e, nella
circostanza che ho raccontato nel capitolo precedente, questo nome era
legato a un dolore così profondo, che il mio stupore ne era stato
accresciuto, aumentando la mia curiosità.
Risultato di tutto ciò fu che non avvicinavo più i miei amici, ai
quali non avevo mai parlato di Marguerite, senza chiedere loro:
“Avete conosciuto una certa Marguerite Gautier?”.
“La signora dalle camelie?”.
“Appunto”.
“Eccome!”.
Questi “eccome!” si accompagnavano a volte a sorrisi sul cui
significato sarebbe stato impossibile avere dubbi.
“Ebbene, che tipo di donna era?”, continuavo.
“Una buona figliuola”.
“Tutto qui?”.
"Dio mio! sì, un po' più di spirito e forse un po più di cuore delle
altre".
“Non sapete niente di preciso su di lei?”.
“Ha rovinato il barone de G...”.
“Soltanto?” .
“E' stata l'amante del vecchio duca de...”.
“Era la sua amante?”.
“Così si dice: comunque, le dava molto denaro”.
Sempre le stesse indicazioni generiche.
Sarei stato tuttavia curioso di sapere qualcosa sulla relazione tra
Marguerite e Armand.
Un giorno incontrai uno di quei tali che vivono sempre nell'intimità
di quelle donne, e lo interrogai.
“Conoscevate Marguerite Gautier?”.
Mi fu risposto col solito “eccome!”.
“Che tipo di donna era?”.
“Una bella e buona ragazza. La sua morte mi ha dato un gran dolore”.
“Non aveva un amante che si chiamava Armand Duval?”.
“Uno alto e biondo?”.
“Sì”.
“E' vero”.
“Chi era questo Armand?”.
"Un ragazzo che ha dissipato con lei il poco che aveva, credo, e che
fu obbligato a lasciarla. Si dice che ne fosse pazzamente innamorato".
“E lei?”.
"Anche lei lo amava molto, sempre a quanto si dice, ma come possono
amare quelle ragazze lì. Non bisogna chiedere loro più dl quello che
possono dare".
“Che ne è di Armand?”.
"Lo ignoro. Lo abbiamo conosciuto assai poco. E' rimasto cinque o sei
mesi con Marguerite, ma in campagna. Quando lei è tornata, lui è
partito"
“E non l'avete più rivisto?”.
“Mai più”.
Neppure io avevo rivisto Armand. Cominciavo a chiedermi se, quando si
era presentato a me, la recente notizia della morte di Marguerite non
avesse esagerato il suo amore di un tempo e quindi il suo dolore, e mi
dicevo che forse egli aveva già dimenticato, insieme con la morte, la
sua promessa di tornare a trovarmi.
Questa ipotesi sarebbe stata abbastanza verosimile nei confronti di un
altro uomo, ma nella disperazione di Armand c'erano stati accenti così
sinceri che io, passando da un estremo all'altro, immaginai che il
dolore fosse diventato malattia, e che se non avevo sue notizie era
perché era malato e forse anche morto.
Mio malgrado pensavo molto a quel giovane.
Forse con questo interesse aveva a che fare anche un certo egoismo;
forse avevo intravisto sotto quel dolore una commovente storia
d'amore, e forse il mio desiderio di conoscerla aveva una gran parte
nella preoccupazione causatami dal silenzio di Armand.
Poiché Duval non tornava da me, mi decisi ad andare da lui. Non era
difficile trovare un pretesto, ma sfortunatamente non conoscevo il suo
indirizzo, e nessuno di quelli che avevo interrogato era stato in
grado di indicarmelo.
Mi recai in rue d'Antin. Forse il portiere di Marguerite sapeva dove
abitasse Armand.
Ma il portiere era un altro, e lo ignorava quanto me.
Chiesi allora in quale cimitero fosse stata sepolta mademoiselle
Gautier.
Era il cimitero di Montmartre.
L'aprile era tornato, il tempo era bello, le tombe non avevano più
quell'aspetto doloroso e desolato che dà loro l'inverno; e infine
faceva già abbastanza caldo perché i vivi si ricordassero dei morti e
li andassero a trovare.
Mi recai al cimitero, dicendomi: "Mi basterà guardare la tomba di
Marguerite per accorgermi se il dolore di Armand dura ancora, e forse
saprò cosa ne è stato di lui".
Entrai nel padiglione del custode, e gli chiesi se il 22 febbraio
fosse stata sepolta in quel cimitero una donna di nome Marguerite
Gautier.
Quello sfogliò il librone dove sono segnati e numerati i nomi di tutti
coloro che entrano in quell'ultimo rifugio, e mi rispose che, infatti,
il 22 febbraio, a mezzogiorno, era stata sepolta una donna di quel
nome.
Lo pregai allora di farmi accompagnare alla tomba, perché è difficile
orizzontarsi senza guida in quella città di morti, che ha le sue
strade come la città dei vivi.
Il custode chiamò un giardiniere al quale diede le opportune
indicazioni. ma questi l'interruppe dicendo:
“Lo so, lo so... oh! la tomba è facilmente riconoscibile”, proseguì
rivolto verso di me.
“Perché?”, gli chiesi.
“Perché ha dei fiori molto diversi dalle altre tombe”.
“Siete voi a occuparvene?”.
"Sì, signore, e vorrei proprio che tutti i parenti avessero cura dei
loro morti come il giovane che mi ha raccomandato quella tomba".
Dopo qualche svolta il giardiniere si fermò e mi disse:
“Eccoci”
Avevo infatti sotto gli occhi un'aiuola fiorita, che non si sarebbe
mai detta una tomba, se non fosse stato per una lapide di marmo bianco
con un nome inciso.
La lapide era sistemata dritta e una ringhiera di ferro delimitava il
terreno ricoperto di camelie bianche.
“Che ne dite?”, chiese il giardiniere.
“E' bellissimo”.
“E ogni volta che una camelia appassisce ho l'ordine di cambiarla”.
“Chi vi ha dato quest'ordine?”.
"Un giovanotto che ha pianto molto la prima volta che è venuto; uno
che doveva aver avuto a che fare con la morta senza dubbio, perché
pare che fosse una svelta quella lì. Dicono che fosse molta bella. Il
signore l'ha conosciuta?".
“Si”.
“Come quell'altro”, mi disse il giardiniere con un sorrisetto
malizioso.
“No, non le ho neppure mai parlato”.
"E venite a trovarla qui; è molto gentile da parte vostra, perché il
cimitero non è certo affollato di gente che viene a trovare quella
poveretta".
“Non viene dunque mai nessuno?”.
“Nessuno, tranne quel giovanotto che è venuto una volta”
“Una volta sola?”.
“Sissignore”.
“E non è più tornato?”.
“No, ma verrà al suo ritorno”.
“E' dunque partito?”.
“Sì”.
“Sapete per dove?”.
“E' andato, credo, dalla sorella di mademoiselle Gautier”
“E che cosa è andato a fare?”.
"E' andato a chiedere il permesso di far riesumare la morta per
portarla altrove".
“Perché non la lascia qui?”.
"Sapete, signore, ognuno ha le sue idee sui morti. Noialtri lo vediamo
tutti i giorni. Questo terreno è stato comprato solo per cinque anni,
e quel giovane vuole una concessione perpetua e un terreno più grande;
nella zona nuova sarà più semplice".
“Che cos'è la zona nuova?”.
"I nuovi terreni che sono in vendita adesso a sinistra. Se il cimitero
fosse stato sempre tenuto come lo è adesso, non ce ne sarebbe un altro
uguale al mondo; ma c'è ancora molto da fare prima che sia
perfettamente come deve essere. E poi la gente è così buffa".
“Che volete dire?”.
"Voglio dire che l'orgoglio di alcuni dura anche qui. Così questa
mademoiselle Gautier sembra che abbia fatto una vita un po' allegra,
se mi passate l'espressione. Ora la poverina è morta, e resta di lei
esattamente ciò che resta di quelle sulle quali non si ha niente da
ridire e che noi annaffiamo tutti i giorni, ebbene, quando i parenti
di quelli che sono seppelliti accanto a lei hanno saputo di chi si
trattava, non si sono messi in testa di dire che si sarebbero opposti
a che fosse messa qui, e che ci dovrebbero essere dei terreni separati
per le donne di quella specie, così come per i poveri? Si è mai vista
una cosa simile? Li ho squadrati per bene, io; ricconi che non vengono
a visitare i loro morti nemmeno quattro volte l'anno, portandosi i
fiori da loro, e guardate che fiori! Risparmiano sulla tomba di quelli
che dicono di piangere, scrivono sulle lapidi lacrime che non hanno
mai versato, e poi fanno i difficili in materia di vicinato. Mi
crederete, signore, io non conoscevo quella signorina, non so
cos'abbia fatto; ma le voglio bene, a quella povera piccola, e ho cura
di lei, e le camelie gliele metto al giusto prezzo. E' la mia morta
preferita. Noialtri, signore, dobbiamo ben amarli i nostri morti,
perché siamo così occupati che non abbiamo quasi il tempo di amare
qualcos'altro".
Guardai quell'uomo, e qualcuno dei miei lettori capirà, senza bisogno
di spiegazioni, quale commozione provai a quelle parole.
Egli se ne accorse di certo perché continuò:
"Dicono che c'è stato chi si è rovinato per quella ragazza e che aveva
degli amanti che l'adoravano; ebbene, quando penso che non ce n'è uno
che venga a portarle un fiore, questo mi sembra strano e doloroso. E
ancora questa non ha di che lamentarsi, perché ha la sua tomba, e se
non c'è che una persona che si ricorda di lei, questa lo fa per tutti
gli altri. Ma ci sono qui delle povere ragazze della stessa specie e
della stessa età, che vengono gettate nella fossa comune, e mi si
spezza il cuore a sentir cadere i loro poveri corpi nella terra. E
nessuno che si occupi di loro, una volta morte! Non è sempre allegro
il nostro mestiere, soprattutto finché ci resta un briciolo di
sentimento. Che volete? è più forte di me. Io ho una bella figliuola
di vent'anni, e quando portano qui una morta della sua età penso a lei
e, si tratti di una gran signora o di una vagabonda, non posso
impedirmi di essere commosso. Ma certo vi sto annoiando con queste
storie, e non è certo per ascoltarle che siete venuto. Mi è stato
detto di condurvi alla tomba di mademoiselle Gautier, e ci siete;
posso esservi utile in qualche altra cosa?".
“Conoscete l'indirizzo di monsieur Armand Duval?” gli domandai.
"Sì, abita in rue..., almeno è lì che sono andato a riscuotere il
prezzo di tutti i fiori che vedete".
“Grazie, amico”.
Gettai un ultimo sguardo su quella tomba fiorita, della quale mio
malgrado, avrei voluto penetrare la profondità per vedere come la
terra avesse ridotto la bella creatura che vi era stata gettata
dentro, e mi allontanai tristemente.
“Allora volete vedere monsieur Duval?”, riprese il giardiniere che mi
camminava accanto.
“Sì”.
"Il fatto è che sono sicuro che non è ancora tornato, altrimenti
l'avrei già visto qui".
“Siete dunque convinto che egli non ha dimenticato Marguerite?”.
"Non solo ne sono convinto, ma scommetterei che il suo desiderio di
cambiarle tomba è il desiderio di rivederla"
“Come?” .
"La prima cosa che mi ha detto venendo al cimitero è stata: 'Come fare
per rivederla?'. Questo si può fare solo cambiando la tomba, e io gli
ho spiegato tutte le formalità da osservare per ottenere il
cambiamento, perché dovete sapere che per trasferire i morti da una
tomba all'altra bisogna riconoscerli, e solo la famiglia può
autorizzare questa operazione, alla quale deve assistere un
commissario di polizia. È per ottenere questa autorizzazione che
monsieur Duval è andato dalla sorella di mademoiselle Gautier, e la
sua prima visita sarà certamente per noi".
Eravamo giunti all'ingresso del cimitero; ringraziai di nuovo il
giardiniere mettendogli in mano alcune monete, e mi recai
all'indirizzo che mi aveva dato.
Armand non era ancora tornato.
Gli lasciai un biglietto, pregandolo di venirmi a trovare appena fosse
arrivato, o di farmi sapere dove avrei potuto trovarlo.
L'indomani mattina ricevetti una lettera di Duval, che mi informava
del suo ritorno e mi pregava di passare da casa sua aggiungendo che
era stanchissimo e perciò gli sarebbe stato impossibile uscire.
Trovai Armand a letto.
Vedendomi, mi tese una mano che scottava. “Avete la febbre”, gli
dissi.
“Non è niente, la stanchezza di un viaggio precipitoso, ecco tutto”.
“Sicché siete stato dalla sorella di Marguerite?”.
“Sì, chi ve l'ha detto?”.
“Lo so. Avete ottenuto ciò che desideravate?”.
“Sì; ma chi vi ha informato del mio viaggio e del suo scopo?”.
“Il giardiniere del cimitero”.
“Avete visto la tomba?”.
Osai appena rispondere, perché il tono di quella frase mi provò che
colui che l'aveva pronunciata era sempre in preda all'emozione di cui
ero stato testimonio, e che per molto tempo ancora quell'emozione
sarebbe stata più forte della volontà, ogni volta che il suo pensiero
e le parole di qualcuno lo avessero ricondotto su quel doloroso
argomento.
Mi limitai quindi a rispondere con un cenno del capo.
“Ne ha avuto cura?”, continuò Armand.
Due grosse lacrime rotolarono sulle guance del malato, che girò la
testa per nasconderlo. Finsi di non vederle e cercai di cambiare
discorso.
“Sono già tre settimane che siete partito”, gli dissi.
Armand si passò una mano sugli occhi e mi rispose:
“Tre settimane esatte”.
“E' stato un viaggio lungo”.
"Oh! Non ho sempre viaggiato. Sono stato ammalato per quindici giorni,
altrimenti sarei tornato da tempo; ma appena sono arrivato laggiù,
sono stato colto dalla febbre e sono stato obbligato a restarmene a
letto".
“E siete ripartito prima di essere guarito del tutto”.
“Se fossi restato ancora otto giorni in quel paese, ne sarei morto”.
"Ma ora che siete tornato, dovete aver cura di voi; i vostri amici
verranno a trovarvi, io per primo, se me lo permettete".
“Tra due ore sarò alzato”.
“Che imprudenza!”.
“Devo farlo”.
“Che cosa avete dunque di così urgente?”.
“Devo andare dal commissario di polizia”.
"Perché non incaricate qualcuno di quest'incombenza che potrebbe farvi
ammalare più gravemente?".
"E' la sola cosa che può guarirmi. Bisogna che io la veda. Da quando
ho saputo della sua morte, e soprattutto da quando ho visto la sua
tomba, ho perso il sonno. Non riesco a rendermi conto che quella donna
che ho lasciato così giovane e bella è morta. Bisogna che me ne
accerti io stesso. Bisogna che io veda quel che Dio ha fatto di quella
creatura che ho tanto amato, e forse l'orrore di quella vista
sostituirà la disperazione del ricordo; voi mi accompagnerete,
no?...".
“Se non vi sarà di peso”.
“Che cosa vi ha detto la sorella?”.
"Nulla. E' rimasta molto stupita che un forestiero voglia acquistare
un terreno e far costruire una tomba per Marguerite, e ha firmato
subito l'autorizzazione che le chiedevo".
"Datemi retta, aspettate di essere ben guarito prima di fare la
traslazione".
"Oh, sarò forte, state tranquillo. Del resto impazzirei, se non
mettessi in opera al più presto questa decisione, il cui compimento è
divenuto una necessità per il mio dolore. Vi giuro che non potrò
trovare la pace finché non avrò rivisto Marguerite. E' forse l'arsura
della febbre che mi brucia, un sogno della mia insonnia, un frutto del
mio delirio; ma dovessi, dopo aver visto, farmi trappista come
monsieur de Rancé, io la vedrò".
“Capisco”, dissi ad Armand, "e sono a vostra disposizione. Avete visto
Julie Duprat?".
“Sì. L'ho vista il giorno stesso del mio ritorno”.
“Vi ha consegnato le carte che Marguerite le aveva affidate per voi?”.
“Eccole”.
Armand estrasse di sotto il cuscino un rotolo, e ve lo rimise
immediatamente.
“Conosco a memoria quanto è scritto su questi fogli”, mi disse. "Da
tre settimane li rileggo dieci volte al giorno. Li leggerete anche
voi, ma più in là, quando sarò più calmo e potrò farvi capire quanto
cuore e quanto amore siano contenuti in questa confessione. Per ora,
ho un favore da chiedervi".
“Quale?”.
“Avete una carrozza ad attendervi?”.
“Sì”.
"Bene, volete prendere il mio passaporto e andare a vedere se al fermo
posta ci sono lettere per me? Mio padre e mia sorella devono avermi
scritto a Parigi, e io sono partito così di fretta che non ho avuto il
tempo di informarmene prima della partenza. Quando sarete tornato,
andremo insieme ad avvertire il commissario di polizia della cerimonia
di domani".
Armand mi consegnò il passaporto, e io mi recai in rue Jean-Jacques
Rousseau.
C'erano due lettere indirizzate a Duval; le presi e tornai indietro.
Quando rientrai, trovai Armand completamente vestito e pronto a
uscire.
“Grazie”, mi disse prendendo le lettere. “Sì”, soggiunse dopo aver
guardato gli indirizzi, "sì, sono mio padre e mia sorella. Credo che
non abbiano capito la ragione del mio silenzio".
Aprì le lettere, le intuì più che leggerle, perché erano lunghe
quattro pagine ciascuna, e in un istante le aveva già ripiegate.
“Andiamo”, disse, “risponderò domani”.
Andammo dal commissario di polizia, al quale Armand consegnò la
procura della sorella di Marguerite.
Il commissario gli diede a sua volta un avviso per il custode del
cimitero; fu convenuto che la traslazione avrebbe avuto luogo
l'indomani mattina alle dieci, e che io sarei passato a prenderlo
un'ora prima, per andare insieme al cimitero.
Anch'io ero curioso di assistere a quello spettacolo, e confesso che
la notte non chiusi occhio.
A giudicare dai pensieri che mi assalirono, dovette essere una ben
lunga notte per Armand.
L'indomani alle nove, quando entrai in casa sua, era terribilmente
pallido, ma sembrava calmo.
Mi sorrise tendendomi la mano.
Le candele erano consumate fino in fondo e, prima di uscire, Armand
prese una lettera molto voluminosa, indirizzata a suo padre, nella
quale certo gli confidava l'ansia della nottata.
Mezz'ora dopo arrivammo a Montmartre, dove il commissario era ad
attenderci.
Ci incamminammo lentamente verso la tomba di Marguerite.
Il commissario ci precedeva, Armand e io lo seguivamo a qualche passo
di distanza.
"Di tanto in tanto sentivo tremare convulsamente il braccio del mio
compagno, come se brividi improvvisi lo percorressero.
Allora lo guardavo; egli capiva il mio sguardo e mi sorrideva, ma da
quando eravamo usciti da casa sua non avevamo più scambiato una
parola.
Un po' prima della tomba, Armand si fermò per asciugarsi il viso
madido di sudore.
Approfittai di quella sosta per riprendere fiato, perché avevo anch'io
il cuore stretto come in una morsa.
Da dove viene il doloroso piacere che si prova davanti a simili
spettacoli? Quando arrivammo alla tomba, vedemmo che il giardiniere
aveva tolto tutti i vasi di fiori, che la ringhiera di ferro era stata
divelta e che due uomini scavavano il terreno.
Armand si appoggiò a un albero e guardò.
Tutta la sua vita sembrava concentrata negli occhi.
A un tratto una delle due vanghe sfregò contro un sasso. A quel rumore
Armand indietreggiò come colpito da una scossa elettrica, e mi strinse
la mano con tanta forza da farmi male.
Un becchino prese una larga pala e vuotò a poco a poco la fossa; poi,
quando non vi furono più che le pietre con le quali si ricoprono le
bare, le gettò fuori a una a una.
Io tenevo d'occhio Armand, perché temevo che le emozioni che
visibilmente si accavallavano in lui lo schiantassero da un momento
all'altro; ma egli guardava sempre, con gli occhi fissi e spalancati
come nella pazzia, mentre solo un leggero tremito delle guance e delle
labbra mostrava come egli fosse in preda a una violenta crisi nervosa.
Quanto a me, posso dire una cosa sola, e cioè che mi pentivo di essere
venuto.
Quando la bara fu scoperta del tutto, il commissario disse ai
becchini:
“Apritela”.
Quelli obbedirono, come se si trattasse della cosa più naturale del
mondo.
La bara era di quercia, ed essi si misero a svitare il coperchio.
L'umidità della terra aveva fatto arrugginire le viti, e ci volle un
certo sforzo per scoprire la bara. Ne uscì un vivo fetore, malgrado le
erbe aromatiche che vi erano state poste.
“Dio mio! Dio mio!”, mormorò Armand, sempre più pallido.
Gli stessi becchini indietreggiarono.
Un gran lenzuolo bianco ricopriva il cadavere, del quale lasciava
intravedere le forme. Il lenzuolo aveva un lembo quasi completamente
corroso, e lasciava scoperto un piede della morta.
Provavo un senso di malessere, e mentre scrivo queste righe il ricordo
di quella scena mi appare in tutta la sua imponente realtà.
“Svelti”, disse il commissario.
Allora uno dei due uomini allungò la mano, cominciò a scucire il
lenzuolo e, tirandolo per un lembo, scoprì bruscamente il volto di
Marguerite.
Tremendo da vedere, orribile a descriversi.
Gli occhi non erano più che due buchi, le labbra erano scomparse e i
denti biancheggiavano in due file serrate. I lunghi capelli neri e
aridi erano incollati alle tempie e nascondevano le cavità verdastre
delle gote; eppure riconobbi quel viso, quel viso bianco, roseo e
felice che avevo visto tanto spesso.
Armand, senza poter distogliere lo sguardo da quel volto, aveva
portato il fazzoletto alla bocca e lo stringeva tra i denti.
Provai l'impressione di un cerchio di ferro che mi stringesse la
testa, gli occhi mi si velarono, le orecchie mi ronzavano; infine,
aprii un flacone di sali che avevo preso per ogni evenienza e ne
respirai profondamente il vapore.
Nello stordimento, sentii il commissario dire a Duval:
“La riconoscete?”.
“Sì”, rispose il giovane con voce sorda.
“Allora, chiudete e portate via”, ordinò il commissario.
I becchini lasciarono cadere di nuovo il lenzuolo sul viso della
morta, richiusero la bara, la presero ciascuno da un lato e si
diressero verso il luogo che era stato loro indicato.
Armand non si muoveva. I suoi occhi erano inchiodati a quella fossa
vuota; era pallido come il cadavere che avevamo visto allora... pareva
pietrificato.
Capii quello che sarebbe accaduto quando il dolore, diminuito con lo
svanire dell'impressione di quella scena, non lo avrebbe più sorretto.
Mi avvicinai al commissario.
“E' ancora necessaria la presenza di questo signore?”, gli chiesi
indicando Armand.
“No”, mi rispose, "e vi consiglio di condurlo via, perché sembra
malato".
“Venite”, dissi allora ad Armand prendendolo per un braccio.
“Come?”, disse lui guardandomi come se non mi riconoscesse.
“E' finito”, soggiunsi, "dobbiamo andarcene, amico mio, voi siete
pallido, avete freddo, finirete con l'uccidervi con queste emozioni".
“Avete ragione, andiamocene”, rispose meccanicamente, ma senza
muoversi. Allora lo presi per un braccio e lo trascinai via.
Si lasciò condurre come un bambino, mormorando solo ogni tanto:
“Avete visto i suoi occhi?”.
E si voltava come se quella visione lo richiamasse indietro.
Tuttavia, il suo passo si fece più marcato, sembrava non riuscisse a
camminare che a sbalzi; i denti gli battevano, aveva le mani gelate,
mentre una violenta agitazione nervosa si andava impadronendo di tutta
la sua persona.
Cercai di farlo parlare, ma non mi rispose.
Era irrigidito, si faceva trascinare.
Alla porta trovammo la carrozza. Finalmente!
Appena vi si fu accomodato, i brividi aumentarono, ed ebbe un vero e
proprio attacco di nervi, durante il quale, per timore di spaventarmi,
mormorava stringendomi la mano:
“Non è niente, non è niente, ho voglia di piangere”.
Sentivo il suo petto gonfiarsi, il sangue gli saliva agli occhi, ma le
lacrime non uscivano.
Gli feci respirare i sali di cui mi ero servito prima, e, quando fummo
arrivati a casa sua, soltanto i brividi continuavano.
Con l'aiuto di un domestico lo misi a letto, feci accendere un gran
fuoco nella stanza, e corsi a chiamare il mio medico al quale
raccontai ciò che era successo. Egli accorse.
Armand era violaceo, delirava, balbettava parole senza senso,
attraverso le quali si distingueva chiaramente solo il nome di
Marguerite.
“Ebbene?”, chiesi al dottore dopo che ebbe esaminato il malato.
"Ebbene, ha semplicemente una febbre cerebrale, ed è ben fortunato,
perché credo, Dio mi perdoni, che sarebbe impazzito. La malattia
fisica ucciderà felicemente la malattia morale, e forse tra un mese
egli sarà guarito dall'una e dall'altra".
Le malattie come quella che aveva colpito Armand hanno il vantaggio di
uccidere sul colpo o di lasciarsi vincere rapidamente.
Quindici giorni dopo gli avvenimenti che ho descritto, Armand era in
piena convalescenza, e ci eravamo legati con una stretta amicizia.
Io non avevo quasi mai abbandonato la sua stanza per tutta la durata
della sua malattia.
La primavera aveva diffuso dovunque i suoi fiori, le sue foglie, i
suoi uccelli, le sue canzoni, e la finestra del mio amico si apriva
allegramente sul giardino, le cui salubri esalazioni salivano fino a
lui.
Il medico gli aveva permesso di alzarsi, e restavamo spesso a
chiacchierare seduti accanto alla finestra aperta, nell'ora in cui il
sole è più caldo, da mezzogiorno alle due.
Evitavo accuratamente di parlargli di Marguerite, sempre temendo che
quel nome potesse risvegliare un triste ricordo sopito sotto la calma
apparente del malato; ma Armand, invece, sembrava parlare di lei con
piacere, non più come prima, con le lacrime agli occhi, ma con un
dolce sorriso che mi rassicurava sul suo stato d'animo.
Avevo notato che, dopo la sua ultima visita al cimitero, dopo lo
spettacolo che gli aveva procurato quella violenta crisi, la misura
del dolore morale sembrava essere stata colmata dalla malattia, e che
la morte di Marguerite non gli appariva più sotto la stessa luce del
passato.
Dall'acquisita certezza sembrava essergli derivata una specie di
consolazione, e, per allontanare da sé l'immagine fosca che spesso gli
si presentava davanti, egli si immergeva nei ricordi felici della sua
relazione con Marguerite, e sembrava non accettasse ormai altro che
quelli.
Il corpo era troppo esaurito dall'attacco della febbre e anche dalla
convalescenza per permettere al suo spirito un'emozione violenta, e la
piena gioia primaverile che circondava Armand riconduceva suo malgrado
il pensiero di lui su immagini gioiose.
Si era sempre ostinatamente rifiutato di far conoscere alla famiglia
il pericolo che correva, e quando era stato considerato fuori
pericolo, suo padre ignorava ancora la sua malattia.
Una sera, ci eravamo trattenuti accanto alla finestra più a lungo del
solito; il tempo era splendido e il sole tramontava in un crepuscolo
smagliante d'azzurro e d'oro. Sebbene ci trovassimo a Parigi, il verde
che ci circondava sembrava isolarci dal mondo, e solo di tanto in
tanto il rumore di una carrozza disturbava a malapena la nostra
conversazione.
"Fu press'a poco l'anno scorso di questi tempi, e in una sera come
questa, che conobbi Marguerite", mi disse Armand, prestando orecchio
solo ai propri pensieri e non a quello che gli stavo dicendo.
Io non risposi niente.
Allora si voltò verso di me e mi disse:
"Bisogna pure che vi racconti questa storia, voi ne farete un romanzo
al quale nessuno crederà, ma che sarà forse interessante scrivere".
“Mi racconterete tutto più tardi, amico mio”, gli risposi, "adesso non
siete ancora abbastanza in forze".
“La serata è tiepida, ho mangiato un petto di pollo”, mi disse
sorridendo; "non ho febbre, non abbiamo niente da fare, e quindi vi
racconterò ogni cosa".
“Se proprio lo volete, vi ascolto”.
“E' una storia semplicissima”, soggiunse allora, "e ve la racconterò
seguendo l'ordine dei fatti. Se poi ne farete qualcosa, siete libero
di narrarla in altro modo".
Ecco dunque quanto egli mi raccontò; io ho cambiato solo qualche
parola al suo commovente racconto.
Sì - riprese Armand, lasciando ricadere la testa sullo schienale della
poltrona - sì, era in una serata come questa. Avevo passato la
giornata in campagna con uno dei miei amici Gaston R... La sera
eravamo tornati a Parigi, e non sapendo che fare, entrammo al Théâtre
des Variétés.
Durante un intervallo uscimmo, e, nel corridoio, vedemmo passare una
donna alta che il mio amico salutò.
“Chi avete salutato?”, gli chiesi.
“Marguerite Gautier”, mi rispose.
“Mi sembra molto cambiata, non l'ho neppure riconosciuta” dissi con
un'emozione che presto capirete.
“E' stata malata, povera figliuola, e non ne avrà per molto”.
Mi ricordo queste parole come se fossero state pronunciate ieri.
Dovete sapere, amico mio, che da due anni la vista di quella ragazza,
quando l'incontravo, mi faceva una strana impressione.
Senza che sapessi il perché, impallidivo, e il mio cuore batteva
furiosamente.
Uno dei miei amici, cultore di scienze occulte, chiamerebbe quella mia
sensazione affinità magnetica; ma io credo semplicemente che fossi
destinato a innamorarmi di Marguerite, e che ne avessi il
presentimento.
Fatto sta che mi faceva sempre una profonda impressione, e molti dei
miei amici ne erano stati testimoni, e ne avevano riso molto quando
avevano saputo da chi mi veniva quel turbamento.
La vidi per la prima volta in Place de la Bourse, alla porta di Susse.
Un calesse scoperto si era fermato, e ne discese una donna vestita di
bianco. Un mormorio di ammirazione accolse il suo ingresso nel
negozio.
Me ne restai inchiodato al mio posto, dal momento in cui era entrata
fino a quello in cui uscì.
Attraverso i vetri la guardai scegliere e acquistare. Avrei potuto
entrare, ma non osai. Non sapevo chi fosse quella donna, e temevo che
potesse intuire la ragione del mio ingresso nel negozio e ne fosse
offesa. Tuttavia, non credevo che l'avrei rivista.
Era vestita con eleganza; indossava un abito di mussola a 'volants',
uno scialle indiano quadrato con gli angoli ricamati d'oro e di fiori
di seta, un cappello di paglia italiano, e un solo braccialetto, una
catena d'oro che stava diventando di moda a quel tempo.
Risalì nel calesse e si allontanò.
Uno dei commessi del negozio rimase sulla porta, seguendo con lo
sguardo la carrozza dell'elegante cliente. Mi avvicinai a lui e lo
pregai di dirmi chi fosse quella signora.
“E' mademoiselle Marguerite Gautier”, mi rispose.
Non osai chiedergli l'indirizzo, e me ne andai.
Il ricordo di quella visione, perché non si può parlare d'altro, non
voleva lasciare la mia mente, come le altre che avevo avuto fino ad
allora, e mi misi a cercare dappertutto quella dama in bianco così
regalmente bella.
Dopo qualche giorno ebbe luogo uno spettacolo di gala all'Opéra-
Comique.
Vi andai. La prima persona che vidi in un palco di proscenio fu
Marguerite Gautier.
L'amico che era con me la riconobbe, e mi disse, nominandola:
“Guardate quella bella donna”.
In quel momento, Marguerite puntava il binocolo verso di noi;
riconobbe il mio amico, gli sorrise, e gli fece segno di raggiungerla.
“Vado a salutarla”, mi disse lui, “e vi raggiungo subito”.
Non potei fare a meno di dirgli: “Beato voi!”.
“Perché?” .
“Perché andate da quella donna”.
“Ne siete forse innamorato?”.
“No”, dissi arrossendo, perché non sapevo bene che rispondergli, "ma
ci terrei a conoscerla".
“Venite con me, vi presenterò”.
“Domandategliene prima il permesso”.
“Oh, perbacco, non c'è bisogno di fare complimenti con lei; venite”.
Quello che mi disse mi turbò; tremavo al pensiero di dovermi forse
convincere che Marguerite non meritava quello che provavo per lei.
In un libro di Alphonse Karr, dal titolo “Aru Ranchen”, si racconta di
un uomo che, una sera, segue una donna molto elegante di cui si è
innamorato a prima vista per la sua bellezza. Pur di baciare la mano
di quella donna, egli si sente la forza per qualsiasi impresa, la
volontà per qualsiasi conquista, il coraggio per qualsiasi ardimento.
Egli osa appena sfiorare con lo sguardo la caviglia sulla quale lei
solleva con civetteria la veste per impedirle di impolverarsi.
Mentre sogna tutto quanto farebbe per possedere quella donna, lei lo
ferma all'angolo di una strada e gli chiede se vuole salire a casa
sua.
Egli gira la testa da un'altra parte, col cuore amareggiato, se ne
torna a casa.
Quello scritto mi torna in mente, e mentre avrei voluto soffrire per
quella donna, temevo che mi accettasse troppo presto, e mi concedesse
con troppa prontezza un amore che avrei voluto pagare con una lunga
attesa o con un gran sacrificio. Noi uomini siamo fatti così, ed è una
fortuna che la fantasia lasci ai sensi tanta poesia, e che il
desiderio fisico faccia così posto ai sogni dello spirito.
Insomma, se mi avessero detto: "Questa donna sarà vostra stasera, e
domani verrete ucciso", avrei accettato.
Se mi avessero detto: “Date dieci luigi, e sarete il suo amante”,
avrei rifiutato, e ne avrei pianto come un bambino che al risveglio
vede svanire il castello intravisto in sogno.
Tuttavia, volevo conoscerla: era quello il solo mezzo per sapere come
mi sarei dovuto regolare con lei.
Dissi dunque al mio amico che tenevo a che essa gli concedesse il
permesso di presentarmi a lei, e mi aggiravo nel corridoio, pensando
che di lì a poco mi avrebbe visto, e che non avrei saputo quale
contegno assumere sotto i suoi occhi.
Cercai di mettere insieme fino da allora le parole che le avrei detto.
Che bambinata sublime, l'amore!
Poco dopo il mio amico mi raggiunse. “Ci aspetta”, mi disse.
“E' sola?”, gli chiesi.
“C'è un'altra donna”.
“E nessun uomo?”.
“Nessuno”.
“Andiamo”.
Il mio amico si diresse verso la porta del teatro.
“Beh, non è mica da quella parte”, gli dissi.
“Andiamo prima a cercare dei dolci: me li ha chiesti”. Entrammo da un
pasticciere vicino all'Opéra.
Avrei voluto comprare tutto il negozio, e mi guardavo intorno per
cercare come comporre il pacchetto, quando il mio amico disse:
“Datemi una libbra di uva candita”.
“Siete sicuro che le piaccia?”.
“Non mangia altri dolci, è risaputo. Ah”, continuò dopo che fummo
usciti, "sapete che donna sto per presentarvi? Non crediate che sia
una duchessa, è solo una mantenuta, la più mantenuta delle donne, caro
mio, non fate dunque complimenti, e dite pure tutto ciò che vi verrà
in testa".
“Bene, bene”, balbettai seguendolo, e dicendomi che sarei ben presto
guarito dalla mia passione.
Quando entrammo nel palco, Marguerite rideva sonoramente.
Avrei preferito che fosse triste.
Il mio amico mi presentò. Marguerite mi rivolse un leggero cenno del
capo, e disse:
“I miei dolci?”.
“Eccoli” .
Prendendoli mi guardò. Abbassai gli occhi arrossendo. Lei si chinò
all'orecchio della vicina, le mormorò qualche parola a bassa voce, ed
entrambe scoppiarono a ridere. Ero io il motivo di quell'ilarità; il
mio imbarazzo raddoppiò. A quell'epoca avevo per amante una piccola
borghese molto tenera e molto sentimentale, il cui sentimentalismo e
le cui lettere malinconiche mi facevano ridere.
Capii il dolore che dovevo darle da quello che stavo provando io, e
per cinque minuti l'amai come mai una donna è stata amata.
Marguerite mangiava la sua uva senza più occuparsi di me. Il mio amico
non volle più lasciarmi in quella ridicola posizione.
“Marguerite”, disse, "non dovete stupirvi se monsieur Duval non vi
dice niente, perché voi lo turbate a tal punto che non riesce a
trovare le parole".
"Io credo piuttosto che il signore vi abbia accompagnato qui perché vi
annoiava venirci da solo".
“Se fosse vero”, dissi a mia volta, "non avrei pregato Ernest di
chiedervi il permesso di esservi presentato".
“Era forse solo il pretesto per ritardare il momento fatale”.
Per poco che si abbia esperienza di donne del genere di Marguerite, si
sa il piacere che provano nel fare dello spirito a sproposito e a
prendere in giro la gente che vedono per la prima volta.
E' certo una rivincita sulle umiliazioni che spesso sono costrette a
subire da parte di quelli che esse vedono tutti i giorni.
E' necessario quindi, per poter rispondere loro, una certa
dimestichezza col loro mondo, cosa che io non avevo; e poi, l'idea che
mi ero fatta su Marguerite esagerò ai miei occhi l'importanza dello
scherzo. Nulla che venisse da quella donna mi lasciava indifferente.
Così, mi alzai dicendole con un tono di voce alterata che mi fu
impossibile nascondere del tutto:
"Se è questo che pensate di me, signora, non mi resta che chiedervi
scusa per la mia indiscrezione, e congedarmi da voi assicurandovi che
la cosa non si ripeterà".
Così detto, salutai e uscii.
Appena ebbi chiuso la porta, udii un nuovo scoppio di risa. Mi sarebbe
piaciuto molto che in quel momento qualcuno mi prendesse a spintoni.
Tornai al mio posto.
Fu battuto un colpo che annunziava l'alzarsi del sipario. Ernest tornò
da me.
“Ma che fate?”, mi disse sedendosi. “Vi hanno preso per pazzo”.
“Che cosa ha detto Marguerite, quando me ne sono andato?” .
"Ha riso, e mi ha assicurato di non aver mai visto un tipo così buffo,
ma non dovete credervi sconfitto; non fate mai a certe donne l'onore
di prenderle sul serio. Esse non sanno cosa siano eleganza e buone
maniere; sono come i cani, i quali se mettete loro dei profumi,
trovano che hanno un cattivo odore e vanno a rotolarsi nelle
pozzanghere".
“Dopo tutto che m'importa?”, dissi cercando di assumere un tono
indifferente. "Non rivedrò più quella donna, e se pure mi piaceva
prima di conoscerla, ora che la conosco, è tutto molto diverso".
"Bah! non dispero di vedervi un giorno nel suo palco, e di sentir dire
che vi state rovinando per lei. Del resto, avreste ragione, è
maleducata ma varrebbe la pena averla come amante".
Per fortuna si alzò il sipario e il mio amico tacque. Mi sarebbe
impossibile dirvi quale commedia si rappresentava. Tutto ciò di cui mi
ricordo è che di tanto in tanto alzavo gli occhi sul palco dal quale
ero così bruscamente uscito, e che ogni volta vi intravedevo il viso
di un nuovo visitatore.
Tuttavia, ero ben lontano dal non pensare più a Marguerite. Un altro
sentimento si era impadronito di me. Mi sembrava che avrei dovuto far
dimenticare il suo insulto e la mia ridicola figura; mi dicevo che,
avessi dovuto spendere tutto quel che possedevo, avrei avuto quella
ragazza e avrei preso di diritto il posto che avevo abbandonato così
in fretta.
Prima che lo spettacolo finisse, Marguerite e la sua amica lasciarono
il palco.
Mio malgrado, lasciai anch'io il mio posto.
“Ve ne andate?”, mi chiese Ernest.
“Sì”
“Perché?”.
In quel momento, si accorse che il palco era vuoto. “Andate, andate”,
mi disse allora, “e buona fortuna, o piuttosto, migliore fortuna”.
Uscii.
Udii nelle scale fruscii di seta e bisbigli di voci. Mi tirai da un
lato e vidi passare, non visto, le due donne e i due giovani che le
accompagnavano.
Sotto il portico del teatro, un piccolo domestico si avvicinò a loro.
“Di' al cocchiere di aspettarci davanti al Café Anglais”, disse
Marguerite, “andremo fin là a piedi”.
Qualche minuto dopo, passeggiando sul boulevard, vidi alla finestra di
uno dei salottini di quel ristorante Marguerite, appoggiata al
davanzale, che sfogliava a una a una le camelie del suo mazzo.
Uno dei due uomini era chino sulla sua spalla e le parlava sottovoce.
Andai a sedermi alla Maison-d'Or, nei saloni del primo piano, senza
perdere di vista quella finestra.
All'una del mattino, Marguerite risaliva in carrozza coi suoi tre
amici. Presi una vettura e la seguii.
La carrozza si fermò al numero 9 di rue d'Antin.
Marguerite ne discese ed entrò da sola in casa.
Si trattava certo di un caso, ma un caso che mi rese molto felice.
Da quel giorno incontrai spesso Marguerite al teatro e agli Champs-
Elysées. Sempre in lei la stessa allegria, in me sempre lo stesso
turbamento.
Passarono tuttavia quindici giorni senza che la rivedessi in alcun
luogo. Mi incontrai con Gaston al quale chiesi notizie.
“La poverina è molto ammalata”, mi rispose.
“Che cos'ha?”.
"Ha che è tisica, e siccome ha fatto una vita che non è certo la più
adatta a guarirla, è a letto e sta morendo".
Il cuore è strano: fui quasi contento di quella malattia. Andai tutti
i giorni a prendere notizie dell'ammalata, senza tuttavia firmare o
lasciare il biglietto di visita. Seppi così della sua convalescenza e
della sua partenza per Bagnères.
Passò poi qualche tempo, e l'impressione, se non il ricordo, parve
cancellarsi a poco a poco dal mio animo. Viaggiai; relazioni,
abitudini, occupazioni, sostituirono quel pensiero, e quando ricordavo
quella prima avventura, non volevo vedervi che una di quelle passioni
che si hanno finché si è giovani, e delle quali si ride qualche tempo
dopo.
Del resto, non ci sarebbe stato alcun merito a trionfare di quel
ricordo perché avevo perso di vista Marguerite dopo la sua partenza,
e, come vi ho detto, quando mi passò accanto nel corridoio del
Variété, non la riconobbi. Era velata, è vero; ma per quanto velata,
due anni prima non avrei avuto bisogno di vederla per riconoscerla:
l'avrei indovinata. Ma questo non impedì al mio cuore di battere
quando seppi che era lei; e i due anni trascorsi senza vederla, e il
risultato che pareva aver prodotto quella separazione, svanirono nella
nebbia al solo contatto della sua veste.
Tuttavia - continuò Armand dopo una pausa - pur rendendomi conto che
ero ancora innamorato, mi sentivo più forte di prima, e nel mio
desiderio di rivedere Marguerite c'era anche la volontà di mostrarle
che le ero diventato superiore.
Quante strade e quante ragioni crea il cuore per arrivare a quello che
vuole!
Così, non potei restare più a lungo nel corridoio, e tornai al mio
posto lanciando una rapida occhiata per la sala, per vedere in quale
palco lei si trovasse.
Era nel palco di proscenio di prim'ordine, sola. Era cambiata, come vi
ho detto, non ritrovavo più sulla sua bocca quel sorriso indifferente.
Aveva sofferto, e soffriva ancora.
Per quanto si fosse già in aprile, era ancora vestita come d'inverno,
e tutta coperta di velluto.
La guardavo con tanta insistenza, che il mio sguardo attirò il suo.
Mi osservò per qualche istante, prese il binocolo per guardarmi meglio
e credette certo di riconoscermi, senza poter dire con precisione chi
fossi, perché, quando depose il binocolo, un sorriso, il delizioso
saluto delle donne, le passò sulle labbra per rispondere al saluto che
sembrava attendere da me; ma io non risposi affatto, come per assumere
un nuovo atteggiamento e fingere di aver dimenticato nel momento in
cui lei ricordava.
Credette allora di essersi sbagliata, e distolse lo sguardo. Si alzò
il sipario.
Ho visto molte volte Marguerite a teatro, e non l'ho mai vista
prestare la minima attenzione a quello che si rappresentava.
Quanto a me, lo spettacolo mi interessava assai poco, e non mi
occupavo che di lei, facendo tuttavia ogni sforzo perché non se ne
accorgesse.
La vidi scambiare occhiate con la persona che occupava il palco di
fronte al suo; portai lo sguardo su quel palco e vi riconobbi una
donna con la quale ero abbastanza in confidenza.
Questa donna era stata una mantenuta, e aveva cercato di fare del
teatro senza riuscirvi; allora, siccome poteva contare sulle relazioni
con le donne più eleganti di Parigi, si era data al commercio e aveva
aperto un negozio di mode.
Vidi in lei il modo di incontrare Marguerite, e approfittai di un
momento in cui guardava dalla mia parte per salutarla con la mano e
con gli occhi.
Accadde quanto avevo previsto: mi chiamò nel suo palco. Prudence
Duvernoy, tale era il felice nome della modista, era una di quelle
quarantenni già sformate, con le quali non è necessario usare troppa
diplomazia per fare dir loro quello che si vuole sapere, soprattutto
quando ciò che ci interessa è semplice quanto ciò che io avevo da
chiederle.
Approfittai di un momento in cui riprendeva a scambiare cenni con
Marguerite, per domandarle:
"Chi guardate così?,.
“Marguerite Gautier”.
“La conoscete?”.
“Certo: sono la sua modista e abita vicino a me”
“Abitate dunque anche voi in rue d'Antin?”.
"Sì, al numero 7. La finestra del suo spogliatoio guarda sulla
finestra del mio".
“Dicono che sia una donna affascinante”.
“Non la conoscete?”.
“No, ma vorrei tanto conoscerla”.
“Volete che le dica di venire nel nostro palco?”.
“No, preferisco esserle presentato”.
“A casa sua?”.
“Sì”.
“E' più difficile”.
“Perché?”.
“Perché è la protetta di un vecchio duca molto geloso”.
“Delizioso quel 'protetta'”.
“Sì, protetta” riprese Prudence. "Povero vecchio, non gli sarebbe
facile esserne l'amante".
Prudence mi raccontò allora come Marguerite avesse conosciuto il duca
a Bagnères.
“E' per questo”, continuai, “che è qui da sola?”.
“Appunto”.
“Ma chi la riaccompagnerà a casa?”.
“Lui”.
“Verrà a prenderla, allora?”.
“Tra poco”.
“E voi, chi v'accompagnerà?”.
“Nessuno”.
“Lo farò io”.
“Ma siete qui con un amico, mi pare”.
“E allora lo faremo insieme”.
“Chi è il vostro amico?”.
"Un ragazzo piacevole, molto spiritoso, che sarà felice di
conoscervi".
"Va bene, d'accordo, ce ne andremo tutti e tre dopo questo atto,
perché l'ultimo lo conosco".
“Volentieri, vado ad avvertire il mio amico”.
“Andate. Ah!” mi disse Prudence mentre stavo per uscire "ecco il duca
che entra nel palco di Marguerite".
Guardai. Infatti, un uomo sulla settantina si stava sedendo dietro la
giovane donna e le porgeva un sacchetto di dolci nel quale lei
infilava la mano sorridendo, per posarlo subito dopo sul parapetto del
palco facendo a Prudence un segno che poteva tradursi in:
“Ne volete?”.
“No” rispose Prudence.
Marguerite riprese il sacchetto e, girandosi, si mise a chiacchierare
col duca.
Il racconto di tutti questi particolari può sembrare puerile ma tutto
ciò che riguarda quella donna è così presente nella mia memoria, che
non posso impedirmi, oggi, di ricordarlo.
Scesi ad avvertire Gaston di quanto avevo deciso per lui e per me.
Egli accettò.
Lasciammo i nostri posti per salire nel palco di madame Duvernoy.
Appena aperta la porta del corridoio dei palchi, dovemmo farci da
parte per lasciar passare Marguerite e il duca che se ne andavano.
Avrei dato dieci anni della mia vita per essere al posto del vecchio
gentiluomo.
Usciti nel boulevard, la fece sedere in un calesse, che lui stesso
guidava, e si allontanarono, portati via al trotto da due splendidi
cavalli.
Entrammo nel palco di Prudence.
Quando l'atto finì, scendemmo a prendere la carrozza da nolo che ci
condusse al numero 7 di rue d'Antin.
Alla porta di casa, Prudence ci invitò a salire per mostrarci il
negozio, che non conoscevamo e del quale sembrava molto orgogliosa.
Potete immaginare con quale gioia accettai l'invito. Mi sembrava di
accostarmi un po' a Marguerite. Ben presto feci ricadere la
conversazione su di lei.
“Il vecchio duca è dalla nostra vicina?”, chiesi a Prudence.
“No, dovrebbe essere sola”.
“Si annoierà terribilmente”, disse Gaston.
"Passiamo quasi tutte le serate insieme, perché, quando rientra, mi
chiama da lei. Non si corica mai prima delle due del mattino. Non
riesce ad addormentarsi prima".
“Perché?” .
“Perché è malata di petto e ha quasi sempre la febbre”.
“Non ha nessun amante?”, chiesi.
"Non vedo mai nessuno che resti da lei quando me ne vado io; ma non
sono in grado di dire se non vada nessuno dopo che me ne sono andata;
spesso incontro da lei, la sera, un certo conte de N... che crede di
raggiungere i suoi scopi facendole visita alle undici di sera,
mandandole tanti gioielli quanti può desiderare; ma lei non lo può
vedere neppure dipinto, Ha torto, è un ragazzo molto ricco. Ho un bel
dirle di tanto in tanto: 'Figliuola mia, è l'uomo che ci vuole!'. Lei,
che di solito mi dà abbastanza retta, mi gira le spalle e mi risponde
che è troppo stupido. Che sia stupido, ne convengo, ma sarebbe per lei
una sistemazione, mentre quel vecchio duca potrebbe morire da un
momento all'altro. I vecchi sono egoisti; la sua famiglia gli
rimprovera senza posa il suo affetto per Marguerite: ecco due ragioni
perché non le lasci niente. Le faccio la predica, e lei mi risponde
che sarà sempre in tempo a prendersi il conte alla morte del duca. Non
è sempre divertente“, proseguì Prudence, ”vivere come lei. So bene che
mi piacerebbe poco e che manderei ben presto a spasso quel brav'uomo.
Non sa di niente, quel vecchio; la chiama 'figlia mia', si occupa di
lei come di una bambina, le sta sempre addosso. Sono sicura che a
quest'ora uno dei suoi domestici passeggia nella strada per veder chi
esce, e soprattutto chi entra".
“Ah! povera Marguerite!”, disse Gaston sedendosi al pianoforte e
accennando un valzer, "non sapevo niente di tutto ciò. Comunque, mi
ero accorto che da qualche tempo aveva un'aria meno allegra".
“Zitto!”, disse Prudence tendendo l'orecchio.
Gaston tacque.
“Mi sta chiamando, mi pare”.
Ascoltammo. Infatti, una voce chiamava Prudence.
“Allora, signori, andate via”, disse madame Duvernoy.
“Ah, è così che intendete l'ospitalità!”, disse Gaston ridendo. "Ce ne
andremo quando ci piacerà".
“E perché dovremmo andarcene?”.
“Perché vado da Marguerite”.
“Vi aspetteremo”.
“E' impossibile”.
“Allora verremo con voi”.
“Peggio”.
“Io, Marguerite la conosco”, disse Gaston, "posso pur sempre andare a
farle una visita".
“Ma Armand non la conosce”.
“Glielo presenterò”.
“E' impossibile”.
Udimmo di nuovo la voce di Marguerite che continuava a chiamare
Prudence, la quale corse nello spogliatoio. La seguii con Gaston. Lei
aprì la finestra.
Ci nascondemmo in modo da non essere visti dall'esterno.
“Sono dieci minuti che vi chiamo”, disse Marguerite dalla sua
finestra, con tono quasi imperativo.
“Che volete?”.
“Che veniate subito da me”.
“Perché?” .
“Perché il conte de N... è ancora qui e io mi annoio da morire”.
“Adesso non posso”.
“Cosa ve lo impedisce?”.
“Ci sono da me due giovanotti che non vogliono andarsene”.
“Dite loro che dovete uscire”.
“Gliel'ho detto”.
"Allora lasciateli a casa vostra; quando vedranno che siete uscita, se
ne andranno".
“Dopo aver messo tutto a soqquadro!”.
“Ma che cosa vogliono?”.
“Vedervi”.
“Come si chiamano?”.
“Uno lo conoscete, è monsieur Gaston R...”.
“Ah, sì, lo conosco. E l'altro?”.
“Monsieur Armand Duval. Non lo conoscete?”.
"No, ma portateli lo stesso, preferirei qualunque cosa al conte. Vi
aspetto, fate presto".
Marguerite richiuse la finestra, Prudence fece altrettanto.
Marguerite, che aveva per un istante riconosciuto il mio viso, non
ricordava il mio nome. Avrei preferito un ricordo svantaggioso per me
a quella dimenticanza.
“Ero sicuro”, disse Gaston, “che sarebbe stata felice di vederci”
“Felice non è la parola adatta”, rispose Prudence mettendosi uno
scialle e il cappello, "vi riceve per mandar via il conte. Cercate di
essere più divertenti di lui, o, conosco Marguerite, se la prenderà
con me".
Seguimmo Prudence per le scale.
Tremavo; presagivo che quella visita avrebbe avuto una grande
influenza nella mia vita. Ero ancora più emozionato della sera in cui
le ero stato presentato nel palco dell'Opéra-Comique.
Arrivando alla porta dell'appartamento che voi conoscete, il cuore mi
batteva così forte che non ragionavo più.
Alcuni accordi di pianoforte arrivarono fino a noi.
Prudence suonò.
Il pianoforte tacque.
Una donna che sembrava più una dama di compagnia che una cameriera
venne ad aprirci. Passammo nel salone, e dal salone nel salottino che
era, a quel tempo, proprio come voi l'avete visto più tardi.
Un uomo era appoggiato al caminetto.
Marguerite, seduta al pianoforte, faceva scorrere le dita sulla
tastiera, accennando dei brani musicali senza concluderli.
Quella scena provocava un'impressione di noia, a causa dell'uomo
imbarazzato dalla propria nullità, e della donna annoiata dalla visita
di quel tedioso personaggio.
Udendo la voce di Prudence, Marguerite si alzò, e venendoci incontro,
dopo aver lanciato uno sguardo riconoscente a madame Duvernoy, ci
disse:
“Entrate, signori, e siate i benvenuti”.
“Buona sera, caro Gaston”, disse Marguerite al mio compagno, "mi fa
molto piacere vedervi. Perché non siete venuto nel mio palco al
Variétés?".
“Temevo di essere indiscreto”.
“Gli amici”, e Marguerite calcò su questa parola, come per far capire
ai presenti che, nonostante la familiarità con cui lei lo accoglieva,
Gaston non era e non era mai stato per lei che un amico, "gli amici
non sono mai indiscreti".
“Allora, permettetemi di presentarvi monsieur Armand Duval”.
“Avevo già autorizzato Prudence a farlo”.
“Del resto, signora”, dissi inchinandomi e cercando, per quanto
potevo, di emettere dei suoni intelligibili, "ho già avuto l'onore di
esservi presentato".
L'incantevole sguardo di Marguerite sembrò cercare nella sua memoria,
ma non ricordò, o forse sembrò non ricordare.
“Signora”, ripresi allora, "vi sono grato di aver dimenticato quella
prima presentazione, perché fui molto ridicolo e debbo esservi
sembrato molto noioso. Fu due anni fa, all'Opéra-Comique; ero con
Ernest de...".
“Ah, mi ricordo!”, riprese Marguerite con un sorriso, "non voi eravate
ridicolo, ma io ero dispettosa, come del resto lo sono ancora un poco,
ma meno di allora. Mi avete perdonato, signore?".
E mi tese la mano, che baciai.
“E' vero”, riprese. "Figuratevi che ho la cattiva abitudine di mettere
in imbarazzo la gente che vedo per la prima volta. E molto sciocco. Il
mio medico dice che è perché sono nervosa e sempre sofferente: credete
al mio medico".
“Ma sembrate in ottima salute”.
“Oh! sono stata molto ammalata”.
“Lo so”.
“Chi ve lo ha detto?”.
"Tutti lo sapevano; sono venuto spesso per avere vostre notizie e ho
saputo con piacere della vostra convalescenza"
“Non mi hanno mai dato il vostro biglietto di visita”.
“Non l'ho mai lasciato”.
"Sareste dunque voi quel giovane che tutti i giorni veniva a
informarsi della mia salute, quand'ero malata, e che non ha mai voluto
dire il suo nome?".
“Proprio io”.
"Allora voi siete, più che indulgente, generoso. Certo voi, conte, non
l'avreste mai fatto", aggiunse voltandosi verso monsieur de N..., dopo
avermi lanciato uno di quegli sguardi con i quali le donne fanno
capire la loro opinione su un uomo.
“Vi conosco soltanto da due mesi”, replicò il conte.
"E il signore mi conosce da cinque minuti appena. Voi rispondete
sempre con delle sciocchezze".
Le donne sono spietate con gli uomini che non amano. Il conte arrossì
e si morse le labbra.
Mi fece pena, perché sembrava innamorato al pari di me, e la crudele
franchezza di Marguerite doveva farlo soffrire molto, soprattutto in
presenza di due estranei.
“Stavate suonando, quando siamo entrati”, dissi allora, per cambiare
discorso, "non mi fareste il piacere di trattarmi come una vecchia
conoscenza, continuando?".
“Oh!”, disse lei gettandosi sul divano e facendoci segno di sederci,
"Gaston conosce bene la mia musica. Va bene per quando sono sola con
il conte, ma non vorrei infliggere a voi un simile supplizio".
“Avete questa preferenza per me?”, replicò monsieur de N... con un
sorriso che tentò di rendere fine e ironico.
“Avete torto di rimproverarmela: è la sola”.
Era stabilito che quel povero ragazzo non dovesse aprir bocca. Egli
gettò sulla donna uno sguardo veramente supplichevole.
“Ditemi dunque, Prudence”, continuò lei, "avete fatto ciò di cui vi
avevo pregato?".
“Sì”
"Va bene, me lo racconterete più tardi. Dobbiamo discutere, non ve ne
andate senza che vi abbia parlato".
“Siamo certo indiscreti”, dissi allora, "e adesso che abbiamo, o
meglio che io ho ottenuto una seconda presentazione per far
dimenticare la prima, Gaston e io possiamo ritirarci".
"Ma nemmeno per sogno! non è per voi che l'ho detto. Voglio invece che
restiate".
Il conte tirò fuori un elegantissimo orologio e guardò l'ora.
“Bisogna che vada al circolo”, disse. Marguerite non rispose.
Il conte si staccò dal caminetto, e avvicinandosi a lei:
“Addio signora”.
Marguerite si alzò.
“Addio, mio caro conte. Ve ne andate di già?”.
“Sì, temo di annoiarvi”.
“Ma non mi annoiate oggi più degli altri giorni. Quando vi rivedrò?”.
“Quando me lo consentirete”.
“Addio, allora!”.
Diciamolo pure, era crudele.
Il conte aveva per fortuna una perfetta educazione e un ottimo
carattere. Si accontentò di baciare la mano che Marguerite gli porgeva
con una certa noncuranza, e uscì, dopo averci salutati. Al momento di
varcare la soglia, guardò Prudence.
Questa alzò le spalle come per dire:
“Che volete, ho fatto quel che ho potuto”.
“Nanine!”, gridò Marguerite. “Fa' luce al signor conte”.
Udimmo aprire e chiudere la porta. “Finalmente!”, esclamò Marguerite
riapparendo. "Se ne è andato; quel ragazzo mi dà terribilmente sui
nervi".
“Bambina mia”, disse Prudence, "siete davvero troppo cattiva con lui,
che è con voi così buono, così premuroso. Ecco là sul vostro caminetto
un orologio che vi ha regalato e che gli è costato almeno mille scudi,
ne sono certa".
E madame Duvernoy, che si era avvicinata al caminetto si mise a
giocherellare col gioiello di cui parlava, gettandogli sguardi di
cupidigia.
“Mia cara”, disse Marguerite sedendosi al pianoforte, "quando metto su
un piatto della bilancia quello che mi regala e sull'altro ciò che mi
dice, mi accorgo di fargli pagare troppo poco le visite che mi fa".
“Quel povero ragazzo è innamorato di voi”.
"Se dovessi dar retta a tutti quelli che sono innamorati di me, non
avrei neppure il tempo di far colazione". E fece scorrere le dita sul
piano; poi, voltandosi verso di noi, disse:
“Volete prendere qualcosa? Io berrei volentieri un ponce”.
“E io mangerei volentieri un po' di pollo”, disse Prudence; "e se
cenassimo?".
“Benissimo, andiamo a cena”, disse Gaston.
“No, ceniamo qui”.
Suonò. Nanine apparve.
“Manda a prendere qualcosa per cena”.
“Che cosa?”.
“Quello che vuoi, ma subito, subito”.
Nanine uscì.
“Ecco”, disse Marguerite saltando come una bambina, "ceniamo! Com'è
noioso quell'imbecille di un conte!".
Più vedevo quella donna, più ne ero incantato. Era stupenda. La
magrezza stessa la abbelliva. Ero in contemplazione. Mi sarebbe molto
difficile spiegare cosa succedesse dentro di me. Ero pieno di
indulgenza per la sua vita, pieno di ammirazione per la sua bellezza.
La prova di disinteresse che ella dava, rifiutando un uomo giovane,
elegante e ricco, pronto a rovinarsi per lei, scusava ai miei occhi
tutti i suoi passati errori. C'era in quella donna qualcosa che
somigliava alla purezza. Si vedeva che era ancora nel primo stadio del
vizio. Il suo portamento eretto, la sua figura agile, le sue narici
rosee e aperte, i suoi grandi occhi lievemente cerchiati di azzurro,
mostravano una natura ardente che diffondeva intorno un profumo di
voluttà, come quei flaconi orientali che per quanto ben chiusi,
lasciano uscire il profumo del liquore che racchiudono.
Infine, fosse per natura, fosse a causa della sua malferma salute,
ogni tanto passavano negli occhi di quella donna lampi di desiderio,
la cui soddisfazione sarebbe stata una rivelazione del cielo per colui
che lei avesse amato. Ma quelli che avevano amato Marguerite non si
contavano più, e quelli che lei aveva amato non si contavano ancora.
Insomma, si riconosceva in quella donna la fanciulla che un niente
aveva trasformato in cortigiana, e la cortigiana che un niente avrebbe
trasformato nella fanciulla più innamorata e più pura. Vi era anche,
in Marguerite, fierezza e senso d'indipendenza: due sentimenti che, se
vengono feriti, sanno avere la forza del pudore. Io non parlavo. La
mia anima sembrava essersi riversata tutta nel mio cuore e il mio
cuore nei miei occhi.
“Così”, riprese lei a un tratto, "eravate voi che venivate a chiedere
mie notizie quando ero ammalata?".
“Sì”.
"Sapete che questo è molto bello? Che cosa posso fare per
ringraziarvi?".
“Permettetemi di venire a trovarvi di tanto in tanto”.
"Quando vorrete, dalle cinque alle sei, o dalle undici a mezzanotte.
Per favore, Gaston, suonatemi l“'invito al valzer'”.
“Perché?” .
"Prima di tutto per farmi piacere, e poi perché non sono capace di
suonarlo da sola".
“Che cosa non vi riesce?”.
“La terza parte, il passaggio in diesis”.
Gaston si alzò, si sedette al pianoforte, e si mise a suonare la
meravigliosa melodia di Weber, il cui spartito era aperto sul leggio.
Marguerite, con una mano appoggiata sul pianoforte, guardava il
foglio, seguiva con gli occhi ogni nota, accompagnandola sottovoce; e
quando Gaston arrivò al passo che lei gli aveva indicato, canticchiò
facendo scorrere le dita sul coperchio dello strumento:
"Re, mi, re, do, re, fa, mi, re, ecco quello che non riesco a suonare.
Ricominciate".
Gaston ricominciò, dopo di che Marguerite gli disse:
“Adesso lasciate provare me”.
Prese il suo posto e suonò a sua volta, ma le sue dita, ribelli, si
sbagliavano sempre su una di quelle note.
“E' incredibile”, disse con un tono veramente infantile, "che io non
riesca a suonare quel passaggio! Credereste che qualche volta ci sto
sopra fino alle due del mattino? E pensare che quell'imbecille del
conte lo suona senza spartito, meravigliosamente! credo sia questo che
mi rende furiosa contro di lui".
E ricominciò, sempre con lo stesso risultato.
“Che il diavolo si porti Weber, la musica, e i pianoforti!” disse
scagliando il fascicolo dall'altro lato della stanza, "come è
possibile che non riesca a suonare otto diesis di seguito?".
E incrociò le braccia guardandoci e battendo i piedi.
Il sangue le salì alle gote, e un piccolo colpo di tosse le fece
aprire le labbra.
“Suvvia”, disse Prudence, che si era tolto il cappello e che si
lisciava i capelli davanti allo specchio, "adesso vi arrabbiate ancora
e vi sentirete male; andiamo a cena, sarà meglio: io muoio di fame".
Marguerite suonò di nuovo il campanello, poi si rimise al pianoforte e
cominciò a canterellare una canzone libertina, nel cui accompagnamento
non trovò alcuna difficoltà.
Gaston conosceva la canzone, e fecero una specie di duetto.
“Non cantate queste sconcezze”, dissi amichevolmente a Marguerite, con
un tono di preghiera.
“Oh! come siete pudico!”, mi rispose sorridendo e tendendomi la mano.
“Non è per me, ma per voi”.
Marguerite fece un gesto che sembrava dire: "Oh! L'ho finita da un
pezzo, io, con la castità".
In quel momento apparve Nanine.
“La cena è pronta?”, chiese Marguerite.
“Sì, signora, fra un istante”.
“A proposito?” mi disse Prudence, "voi non avete visto l'appartamento;
venite, ve lo mostro".
Voi lo sapete, il salone era meraviglioso.
Marguerite ci accompagnò per un po', poi chiamò Gaston e passò con lui
in sala da pranzo per vedere se la cena era pronta.
“Toh”, disse forte Prudence guardando su una credenza e prendendo una
statuetta di Sassonia, “non avevo mai visto questo ometto”.
“Il pastorello con la gabbia degli uccellini”.
“Prendetelo, se vi piace”.
“Ah, non voglio portarvelo via”.
"Volevo regalarlo alla mia cameriera, perché lo trovo orribile, ma se
vi piace, prendetevelo".
Prudence badò solo al regalo, e non al modo in cui veniva fatto. Mise
da parte il suo ometto, e mi condusse nello spogliatoio, dove,
mostrandomi due miniature appese una di fronte all'altra, mi disse:
"Ecco il conte de G... che è stato molto innamorato di Marguerite; è
lui che l'ha introdotta. Lo conoscete?".
“No. E l'altro?”, domandai indicando l'altro ritratto.
“E' il giovane visconte de L... E' stato costretto a partire”.
“Perché?”.
"Perché si era quasi completamente rovinato. Questo sì che l'amava,
Marguerite!".
“E certo anche lei l'amava molto”.
"E' una ragazza così strana, non si sa mai che cosa pensarne. La sera
del giorno in cui lui partì, lei se ne andò al teatro, come al solito,
nonostante avesse pianto fino al momento della partenza". In quel
momento apparve Nanine per avvisarci che la cena era servita.
Quando entrammo nella sala da pranzo, Marguerite era appoggiata al
muro, e Gaston, tenendole le mani, le parlava a bassa voce.
“Voi siete pazzo”, gli rispondeva Marguerite, "sapete bene che non
voglio saperne di voi. Non si attende due anni da che si conosce una
donna come me, per chiederle di diventare la propria amante. Noi diamo
tutto subito, o mai più. Andiamo, signori, a tavola".
E, liberandosi dalle mani di Gaston, Marguerite lo fece sedere alla
sua destra, me alla sua sinistra, poi disse a Nanine:
"Prima di sederti, raccomanda alla cuoca di non aprire se suonano alla
porta".
Questa raccomandazione era fatta all'una del mattino.
Si rise, si bevve e si mangiò molto, a quella cena. Dopo qualche
istante, l'allegria era scesa all'ultimo gradino, e le parole che
certa gente trova piacevoli, e che sempre sporcano la bocca di chi le
pronuncia, sprizzavano di tanto in tanto tra le grandi acclamazioni di
Nanine, Prudence e Marguerite. Gaston si divertiva sinceramente; era
un ragazzo pieno di cuore, ma il suo spirito era stato sviato dalle
prime abitudini. Per un momento, avrei voluto stordirmi, rendere il
mio cuore e il mio pensiero indifferenti allo spettacolo che avevo
davanti agli occhi, e prendere parte a quell'allegria che sembrava una
delle portate della cena; ma, a poco a poco, mi ero isolato da quel
rumore, il mio bicchiere era ancora pieno, ed ero diventato quasi
triste nel vedere quella bella creatura di vent'anni bere e esprimersi
come un facchino, e ridere tanto più rumorosamente quanto più volgare
era quello che si diceva.
Tuttavia quell'allegria, quel modo di parlare e di bere, che negli
altri invitati mi sembravano l'effetto dei bagordi, dell'abitudine, o
della buona salute, in Marguerite mi sembravano invece effetto di un
bisogno di dimenticare, di una febbre, di una irritabilità nervosa. A
ogni coppa di champagne, le sue guance si colorivano di un rosso
febbrile, e una certa tosse, lieve all'inizio della cena, era
diventata via via sempre più forte fino a obbligarla a rovesciare la
testa sullo schienale della sedia e a comprimersi il petto con le mani
ogni volta che tossiva.
Soffrivo per il male che gli eccessi quotidiani dovevano fare a quel
fragile organismo.
Alla fine, accadde una cosa che avevo previsto e che temevo. Verso la
fine della cena, Marguerite fu colta da un accesso di tosse più forte
di tutti quelli che aveva avuti da quando mi trovavo lì. Mi sembrò che
il petto le si lacerasse all'interno. La poverina divenne scarlatta,
chiuse gli occhi per il dolore, e si portò alle labbra il tovagliolo,
che una goccia di sangue macchiò. Allora si alzò e corse nello
spogliatoio.
“Che cos'ha Marguerite?”, chiese Gaston.
“Ha riso troppo, e ora sputa sangue”, rispose Prudence. "Oh non è
niente, le succede tutti i giorni. Tornerà subito. Lasciamola sola, lo
preferirà".
Quanto a me, non potei trattenermi, e, con gran stupore di Prudence e
di Nanine che mi richiamavano, raggiunsi Marguerite.
La camera nella quale si era rifugiata era illuminata da una sola
candela posta sul tavolo. Riversa su un grande divano, il vestito
slacciato, si teneva una mano contro il petto, lasciando l'altra
pendere, inerte. Sul tavolo, una bacinella d'argento piena a metà di
un'acqua macchiata di sangue.
Marguerite, pallidissima, la bocca semiaperta, cercava di riprendersi.
Di tanto in tanto il suo petto si gonfiava per un lungo sospiro, che
sembrava sollevarla un po' e lasciarla per qualche istante in uno
stato di benessere.
Mi avvicinai, senza che lei facesse alcun movimento, mi sedetti e
presi la sua mano, che era appoggiata sul divano.
“Ah, siete voi?”, mi disse con un sorriso.
Certo avevo un aspetto sconvolto, perché aggiunse:
“Siete ammalato anche voi?”.
“No, ma voi, voi, soffrite ancora?”.
“Pochissimo”, e asciugò con un fazzoletto le lacrime che la tosse le
aveva fatto salire agli occhi, “ormai ci sono abituata”.
“Voi vi uccidete, signora”, le dissi allora con voce commossa, "vorrei
essere un vostro amico, un vostro parente, per impedirvi di farvi
tanto male".
“Oh, non vale davvero la pena che voi vi spaventiate”, replicò con una
certa amarezza; "guardate un po' se gli altri si occupano di me: il
fatto è che sanno bene che con questa malattia non c'è niente da
fare". Dopo di che si alzò e, prendendo il candeliere, lo posò sul
caminetto e si guardò allo specchio.
“Come sono pallida!”, disse riallacciandosi la veste e passandosi le
dita sui capelli scomposti. "Oh, beh, rimettiamoci a tavola.
Andiamo?", ma io restavo seduto, senza muovermi.
Ella capì l'emozione che quella scena mi aveva fatto provare, mi si
avvicinò e, tendendomi la mano, mi disse:
“Su, venite”.
Le presi la mano, e la portai alle labbra bagnandola mio malgrado con
due lacrime troppo a lungo trattenute.
“Suvvia, siete proprio un bambino!”, disse lei sedendosi di nuovo
accanto a me; “adesso piangete! Ma che cosa avete?”.
"Devo sembrarvi proprio sciocco, ma quello che ho visto mi ha fatto
terribilmente male".
"Come siete buono, voi! che volete? non posso dormire bisogna pure che
mi distragga un po'. E poi, le donne come me, una di più o una di
meno, che importanza ha? I medici dicono che il sangue che sputo esce
dai bronchi; io fingo di crederlo, è tutto ciò che posso fare per
loro".
“Ascoltate, Marguerite”, esclamai allora con uno slancio che non potei
frenare, "io non so quale influenza voi avrete sulla mia vita, ma
quello che so è che in questo momento non c'è nessuno, neppure mia
sorella, che mi stia a cuore come voi. Ed è così dalla prima volta in
cui vi ho vista. Ebbene, in nome del cielo, curatevi, e smettete di
fare questa vita".
"Se mi curassi, morirei. Quello che mi sostiene, è questa vita
febbrile. E poi, curarsi va bene per le donne della buona società, che
hanno una famiglia e degli amici; ma noi quando non possiamo più
servire alla vanità o al piacere dei nostri amanti, veniamo
abbandonate, e lunghe serate di solitudine seguono a lunghi giorni. Io
lo so bene, credetemi, sono stata a letto due mesi; dopo tre
settimane, nessuno veniva più a trovarmi".
“E vero che io non sono niente per voi”, ripresi, "ma se voi lo
vorrete, avrò cura di voi come un fratello, non vi lascerò mai sola, e
vi farò guarire. E allora, quando ne avrete la forza, riprenderete la
vita di oggi, se vi piacerà; ma, ne sono certo, preferirete
un'esistenza tranquilla che vi renderà più felice e vi conserverà
bella".
"Voi la pensate così stasera, perché il vino vi ha reso triste, ma non
avrete mai la pazienza di cui vi vantate".
"Permettetemi di ricordarvi, Marguerite, che siete stata ammalata per
due mesi, e che in questi due mesi io sono venuto ogni giorno a
chiedere vostre notizie".
“E' vero ma perché non siete mai salito?”.
“Perché ancora non vi conoscevo”.
“Si hanno forse dei riguardi per una donna come me?”.
“Si hanno sempre riguardi per una donna; almeno io la penso così”.
“E così, voi avrete cura di me?”.
“Sì”.
“E starete tutti i giorni con me?”.
“Sì”.
“E anche tutte le notti?”.
“Fino a che non vi annoiassi”.
“Come chiamate tutto ciò?”.
“Devozione”.
“E da dove viene questa devozione?”.
“Dall'irresistibile simpatia che ho per voi”.
“Così siete innamorato di me? Ditelo subito, sarà più semplice”.
“Forse sì; ma non è certamente questo il giorno in cui ve lo dirò”.
“Fareste meglio a non dirmelo mai”.
“Perché”.
“Perché quella confessione non potrà avere che due risultati”.
“Quali?”.
"O che io non accetti, e allora voi me ne vorrete, o che io accetti, e
allora avrete un'amante molto triste; una donna nervosa, malata,
malinconica, o allegra d'una allegria più triste del dolore, una donna
che sputa sangue e spende centomila franchi all'anno: tutto questo va
bene per un vecchio riccone come il duca, ma sarebbe ben noioso per un
giovane come voi, e la prova è che tutti gli amanti giovani che ho
avuto mi hanno lasciata ben presto".
Io non rispondevo: la ascoltavo. Quella sincerità che pareva quasi una
confessione, quella vita dolorosa che intravedevo sotto il velo dorato
che la ricopriva, e alla cui realtà la poverina tentava di sfuggire
nei bagordi, nell'ebbrezza e nelle notti di veglia, tutto questo mi
faceva un'impressione così forte che non riuscivo a pronunciare una
parola.
“Suvvia!”, continua Marguerite, "stiamo dicendo delle bambinate.
Datemi la mano e torniamo in sala da pranzo. Non devono capire il
significato della nostra assenza".
“Andate, se volete, ma io vi chiedo il permesso di restare qui”.
“Perché?”.
“Perché la vostra allegria mi fa troppo male”.
“Allora sarò triste”.
"Ascoltate, Marguerite, lasciate che vi dica una cosa che certo vi è
stata tante volte ripetuta, e a cui l'abitudine vi impedirà forse di
credere, ma che non per questo è meno vera, e che io non vi ripeterò
mai più".
“Ed è?...”, chiese lei col sorriso delle giovani madri che ascoltano
una fantasia del loro bambino.
"Ed è che da quando vi ho vista, non so come né perché, avete preso
tanto posto nella mia vita; è che ho cercato di allontanare la vostra
immagine dalla mia mente, ma essa è sempre ritornata; è che da oggi,
quando vi ho incontrata, dopo due anni che non vi vedevo, avete
acquistato sul mio cuore e sul mio spirito un ascendente ancora
maggiore; è che, insomma, adesso che mi avete ricevuto, che vi
conosco, che so tutto quello che c'è di strano in voi, mi siete
diventata indispensabile, e che impazzirei, non solo se non mi amaste
ma anche se non mi permetteste di amarvi".
"Ma, sciagurato che siete, io vi dico quello che diceva madame D...:
siete dunque molto ricco! Ma allora voi non sapete che io spendo sei o
settemila franchi al mese, e che questa spesa è divenuta necessaria
alla mia vita; voi non sapete dunque, mio povero amico, che vi
rovinerei in breve tempo, e che la vostra famiglia vi farebbe
interdire per insegnarvi a non vivere con una donna come me.
Vogliatemi pure bene, ma come un buon amico, non in altro modo. Venite
a trovarmi, rideremo, parleremo, ma non esagerate nel valutarmi,
perché valgo assai poco. Voi avete un buon cuore, avete bisogno di
essere amato, siete troppo giovane e sensibile per vivere nel nostro
mondo. Prendetevi una donna sposata. Vedete bene che sono una brava
figliuola e vi parlo con franchezza".
“Oh! ma che diavolo fate?”, grida Prudence, che non avevamo sentito
venire, apparendo sulla soglia della stanza con la capigliatura mezzo
disfatta e il vestito slacciato. Riconobbi in quel disordine la mano
di Gaston.
“Parliamo di cose serie”, disse Marguerite, "lasciateci un po' soli,
vi raggiungeremo tra poco".
“Bene, bene, parlate pure, ragazzi miei”, disse Prudence, andandosene
e chiudendo la porta come per sottolineare il tono col quale aveva
pronunciato le ultime parole.
“Così, siamo intesi”, riprese Marguerite quando fummo soli, "voi non
mi amerete più".
“A questo punto?”.
Mi ero spinto troppo oltre per tornare indietro, e d'altra parte
quella ragazza mi sconvolgeva. Quel miscuglio di allegria, di
tristezza, di candore, di prostituzione, la malattia stessa, che
doveva sviluppare in lei la sensibilità delle impressioni e
l'irritabilità dei nervi, tutto ciò mi faceva capire che se non mi
fossi imposto fin dal primo momento su quella natura dimentica e
frivola, essa era perduta per me.
“Allora, è proprio vero quello che dite!”, esclamò.
“Verissimo”.
“Ma perché non me l'avete detto prima?”.
“E quando avrei potuto dirvelo?”.
“L'indomani del giorno in cui mi foste presentato all'Opéra-Comique”.
"Credo che mi avreste ricevuto molto male, se fossi venuto a
trovarvi".
“Perché?”.
“Perché il giorno prima mi ero comportato da sciocco”.
“Questo è vero. Tuttavia mi amavate già, allora”.
“Sì”.
"Il che non vi ha impedito di coricarvi e di dormire tranquillamente
dopo lo spettacolo. Sappiamo bene che cosa sono questi grandi amori".
"Ebbene, è qui che vi sbagliate. Sapete che cosa ho fatto la sera
dell'Opéra-Comique?".
“No”.
"Vi ho aspettato all'ingresso del Café Anglais, ho seguito la carrozza
che portava voi e i vostri tre amici, e quando vi ho vista scendere da
sola e rientrare da sola a casa vostra, sono stato molto felice".
Marguerite scoppia a ridere.
“Di che ridete?”.
“Di niente”.
“Ditemelo, ve ne prego, o crederò che vi burliate ancora di me”.
"Non vi inquieterete?.
“E con quale diritto?”.
“Ebbene, avevo un'ottima ragione di rientrare da sola”.
“Quale?”.
“Mi aspettavano”.
Se mi avesse dato una pugnalata non mi avrebbe fatto più male. Mi
alzai e, tenendole la mano:
“Addio”, le dissi.
“Lo sapevo che vi sareste inquietato”, rispose. "Gli uomini hanno la
smania di sapere ciò che deve far loro dispiacere".
“Ma vi assicuro”, replicai freddamente, come se avessi voluto
dimostrarle che ero guarito per sempre dalla mia passione, "vi
assicuro che non sono affatto inquieto. Era del tutto naturale che
qualcuno vi stesse aspettando, come è del tutto naturale che, alle tre
del mattino, io me ne vada".
“Anche voi siete atteso da qualcuno, a casa vostra?”.
“No, ma bisogna che me ne vada”.
“Addio, allora”.
“Voi mi scacciate”.
“Neppure per idea”.
“Perché volete darmi un dispiacere?”.
“Quale dispiacere vi ho dato?”.
“Mi avete detto che qualcuno vi aspettava”.
"Non ho potuto fare a meno di ridere all'idea che eravate stato così
felice nel vedermi rientrare sola, quando avevo una così buona ragione
per farlo".
"Talvolta si è felici per un nonnulla, ed è crudele distruggere questa
gioia quando, lasciandola vivere, si può rendere ancora più felice
colui che la prova".
"Ma con chi credete di avere a che fare? Non sono una fanciullina, né
una duchessa. Non vi conosco che da oggi e non devo rendere conto a
voi delle mie azioni. Pur ammettendo che io diventi un giorno la
vostra amante, bisogna che voi sappiate bene che ho avuto altri amanti
prima di voi. Se voi cominciate adesso a farmi delle scene di gelosia,
che cosa accadrà dopo, se questo dopo dovesse esistere? Non ho mai
visto un uomo come voi".
“Perché nessuno vi ha mai amato come io vi amo”.
“Insomma, francamente, voi mi amate tanto?”.
“Quanto è possibile amare, credo”.
“E questo da...?”.
"Da un giorno in cui vi ho vista scendere di carrozza per entrare da
Susse, tre anni fa".
"Sapete che è molto bello? Ebbene, che cosa devo fare per ricompensare
questo grande amore?".
“Amarmi un poco”, risposi con il cuore che mi batteva tanto da
impedirmi quasi di parlare: perché nonostante i sorrisi quasi
canzonatori con i quali aveva accompagnato tutta la conversazione, mi
sembrava che Marguerite cominciasse a condividere il mio turbamento, e
che io mi stessi avvicinando al momento atteso da tanto tempo.
“E il duca?”.
“Quale duca?”.
“Il mio vecchio geloso”.
“Non ne saprà niente”.
“E se venisse a saperlo?”.
“Vi perdonerà”.
“Eh, no! mi lascerà, e che ne sarà di me?”.
“Tuttavia, per un altro, correte questo rischio”.
“Come lo sapete?”.
“Avete raccomandato di non lasciar entrare nessuno stanotte”.
“E' vero; ma quello è un amico serio”.
"Che non vi sta troppo a cuore, se lo fate tener lontano dalla vostra
porta a quest'ora".
"Non spetta a voi rimproverarmelo, perché l'ho fatto per ricevere voi
e il vostro amico".
A poco a poco mi ero avvicinato a Marguerite, le avevo passato le mani
intorno alla vita, e sentivo il suo corpo elastico appoggiarsi
leggermente alle mie mani unite.
“Se voi sapeste come vi amo!”, le dissi sottovoce.
“Davvero?”.
“Ve lo giuro”.
"Ebbene, se mi promettete di fare tutto ciò che io vorrò senza dire
una parola, senza farmi un'osservazione, senza farmi domande, forse vi
amerò".
“Tutto ciò che vorrete”.
"Ma vi avverto, voglio essere libera di fare ciò che mi piacerà, senza
dovervi rendere minimamente conto della mia vita. Da molto tempo cerco
un amante giovane, senza volontà, innamorato senza sospetti, amante
senza diritti. Non sono mai riuscita a trovarne uno. Gli uomini,
invece di essere soddisfatti quando si concede loro a lungo ciò che
avrebbero a malapena sperato di avere una volta sola, chiedono conto
alla loro amante del presente, del passato, e anche dell'avvenire. A
mano a mano che si abituano a lei, vogliono dominarla, e diventano
tanto più esigenti quanto più si concede loro tutto ciò che vogliono.
Se ora mi decido a prendermi un nuovo amante, voglio che abbia tre
virtù molto rare, che sia cioè fiducioso, sottomesso, e discreto".
“Va bene, sarà tutto quello che vorrete”.
“Vedremo”.
“E quando vedremo?”.
“Più tardi”.
“Perché?”.
“Perché”, rispose Marguerite liberandosi dalle mie "braccia e
prendendo, da un gran mazzo di camelie rosse che le avevano portato la
mattina, una camelia che mi infila all'occhiello, "perché non si può
sempre dare esecuzione ai trattati nel giorno stesso in cui sono stati
firmati. E' facile da capire".
“E quando vi rivedrò?”, chiesi stringendola fra le braccia.
“Quando questa camelia cambierà colore”.
“E quando cambierà colore?”.
“Domani, dalle undici a mezzanotte. Siete contento?”.
“E me lo chiedete?”.
"Non una parola di tutto ciò, né al vostro amico, né a Prudence, né a
chiunque altro".
“Ve lo prometto”.
“Adesso, baciatemi, e poi torniamo in sala da pranzo”.
Mi offrì le labbra, si lisciò di nuovo i capelli, e uscimmo dalla
stanza, lei cantando, io quasi folle.
Nel salone mi disse a bassa voce, fermandosi:
"Deve sembrarvi strano che mi mostri pronta ad accettarvi così,
subito; sapete perché lo faccio? Lo faccio", continuò prendendomi la
mano e appoggiandosela sul cuore, di cui sentii il battito violento e
ripetuto, "lo faccio perché, dovendo vivere meno a lungo degli altri,
mi sono ripromessa di vivere più in fretta".
“Non parlatemi più così, ve ne supplico”.
“Oh, consolatevi!”, continuò lei ridendo. "Per poco che abbia da
vivere, vivrò più a lungo del vostro amore per me".
Ed entrò, cantando, nella sala da pranzo.
“Dov'è Nanine?”, chiese vedendo che Gaston e Prudence erano soli.
“Dorme nella vostra camera, aspettando che vi corichiate” rispose
Prudence.
“Poveretta! La farò morire! Suvvia, signori, ritiratevi, è ora”.
Dopo dieci minuti, Gaston e io uscimmo. Marguerite mi strinse forte la
mano nel salutarmi, e restò con Prudence.
“Ebbene”, mi chiese Gaston quando fummo usciti, "che ne dite di
Marguerite?".
“E' un angelo, e sono pazzo di lei”.
“Lo immaginavo; glielo avete detto?”.
“Sì”.
“E lei vi ha promesso di crederci?”.
“No”.
“Non è come Prudence”.
“Ve lo ha promesso?”.
"Ha fatto di meglio, caro mio! Nessuno lo crederebbe, ma va ancora
benissimo, la grossa Duvernoy!".
A questo punto del racconto, Armand tacque.
“Volete chiudere la finestra?”, mi disse, "comincio ad avere freddo.
Intanto andrò a letto".
Chiusi la finestra. Armand, che era ancora debolissimo, si tolse la
vestaglia e si coricò, riposando per qualche istante la testa sul
cuscino come un uomo stanco per una lunga corsa o agitato da penosi
ricordi.
“Forse avete parlato troppo”, gli dissi, "volete che me ne vada e vi
lasci dormire? mi racconterete un altro giorno il resto della vostra
storia".
“Vi ha annoiato?”.
“Tutt'altro”.
"Allora continuerò; anche se mi lasciate solo, non riuscirei a
dormire".
Quando tornai a casa - riprese, senza aver bisogno di raccogliersi,
tanto tutti quei particolari erano ancora vivi nella sua memoria - non
mi coricai, e mi misi a riflettere sull'avventura di quel giorno.
L'incontro, la presentazione, l'impegno che Marguerite aveva assunto
nei miei confronti, tutto era successo così in fretta, così
insperatamente, che in certi momenti credevo di aver sognato.
Tuttavia, non era la prima volta che una donna come Marguerite si
prometteva a un uomo per l'indomani del giorno in cui era stata
richiesta.
Avevo un bel riflettere su questo punto, la prima impressione prodotta
su di me dalla mia futura amante era stata così forte che permaneva
sempre. Continuavo a ostinarmi a non vedere in lei una donna come le
altre, e, con la vanità tipica degli uomini, ero pronto a credere che
lei condivideva nei miei riguardi l'invincibile attrazione che io
sentivo per lei.
Tuttavia avevo sotto gli occhi degli esempi molto contraddittori, e
avevo spesso sentito dire che l'amore di Marguerite si vendeva come
una merce più o meno cara, secondo la stagione.
Ma d'altra parte, come conciliare questa reputazione con i ripetuti
rifiuti fatti al giovane conte che avevamo trovato in casa sua?
Potrete rispondermi che egli non le piaceva e che, essendo mantenuta
con tanto splendore dal duca, se avesse desiderato prendersi un altro
amante, avrebbe preferito un uomo che le piacesse. E allora, perché
non voleva neanche Gaston, piacevole, spiritoso, ricco, e pareva
preferire me, che le ero apparso così ridicolo al primo incontro? E'
vero che a volte incidenti di un minuto fanno più effetto della corte
di un anno.
Tra quelli che erano seduti alla sua tavola, io ero stato il solo a
preoccuparmi vedendola lasciare la sala. L'avevo seguita, mi ero
commosso al punto da non riuscire a nasconderlo. Avevo pianto
baciandole la mano. Quella circostanza, aggiunta alle mie virtù
quotidiane durante i due mesi della sua malattia, aveva potuto farle
vedere in me un uomo diverso da quelli fino ad allora conosciuti, e
forse si era detta che avrebbe ben potuto fare, per un amore che si
esprimeva in quel modo, quello che ormai aveva fatto tante volte, e
che questo non avrebbe avuto per lei nessuna conseguenza.
Tutte queste ipotesi, come vedete, erano assai verosimili; ma
qualunque fosse la ragione del suo consenso, una cosa era certa: aveva
acconsentito.
Dunque, amavo Marguerite, stavo per averla, non potevo chiedere di
più. Tuttavia, vi ripeto, per quanto fosse una mantenuta, consideravo
quell'amore, forse per idealizzarlo, un amore senza speranza, tanto
che, più si avvicinava il momento nel quale non avrei avuto più
neppure bisogno di sperare, più ne dubitavo.
Non chiusi occhio per tutta la notte.
Non mi riconoscevo. Ero come impazzito. In certi momenti non mi
trovavo né abbastanza bello, né abbastanza ricco, né abbastanza
elegante per avere una donna come quella, in certi altri mi sentivo
pieno di orgoglio all'idea di quel possesso: poi mi assaliva il dubbio
che Marguerite avesse per me solo un capriccio passeggero e, come se
presagissi la minaccia di una rottura imminente, mi dicevo che avrei
fatto meglio a non andare da lei, quella sera, e partire comunicandole
per scritto i miei timori.
Da questo passavo a una speranza senza limiti, a una fiducia senza
confini. Sognavo un avvenire incredibile; mi dicevo che quella ragazza
avrebbe dovuto a me la sua guarigione fisica e morale, che avrei
passato con lei la mia vita, e che il suo amore mi avrebbe reso più
felice degli amori più verginali.
Infine non posso ripetervi i mille pensieri che mi salivano dal cuore
alla testa, e che si spensero a poco a poco nel sonno, che si
impadronì di me soltanto all'alba.
Quando mi svegliai erano le due. La giornata era magnifica. Non
ricordo che la vita mi sia mai parsa tanto bella e tanto piena. I
ricordi del giorno prima si riaffacciavano alla mia mente senza ombre,
senza ostacoli, allegramente scortati dalle speranze della sera. Mi
vestii in fretta. Ero contento e capace delle azioni migliori. Di
tanto in tanto il cuore mi balzava in petto, pieno di gioia e d'amore.
Una dolce febbre mi agitava. Non ero più inquieto per le ragioni che
mi avevano preoccupato prima che mi addormentassi. Non vedevo che il
risultato, non pensavo che al momento in cui avrei rivisto Marguerite.
Mi fu impossibile rimanere a casa. La mia stanza mi sembrava troppo
stretta per contenere la mia felicità, avevo bisogno di espandermi nel
pieno della natura. Uscii.
Passai per rue d'Antin. La carrozza di Marguerite attendeva al
portone; mi diressi verso gli Champs-Elysées. Amavo, senza neppure
conoscerle, tutte le persone che incontravo: l'amore rende buoni!
Dopo un ora che andavo dai cavalli di Marly al rond-point, dal rond-
point ai cavalli di Marly, vidi da lontano la carrozza di Marguerite;
non la riconobbi, la indovinai.
Al momento di girare l'angolo degli Champs-Elysées, fece fermare, e un
giovanottone si staccò dal gruppo nel quale stava chiacchierando per
andare a parlare con lei.
Parlarono per qualche istante; poi il giovane raggiunse i suoi amici,
i cavalli ripartirono, e io, che mi ero avvicinato al gruppo,
riconobbi in quello che aveva parlato con Marguerite quel conte de
G... di cui avevo visto il ritratto, e che Prudence mi aveva indicato
come la persona alla quale Marguerite doveva la sua posizione. Era a
lui che lei aveva fatto proibire l'ingresso in casa sua, la sera
prima; supposi che avesse fatto fermare la carrozza per spiegargli il
motivo di quel divieto, e sperai che con l'occasione avesse trovato
qualche nuovo pretesto per non riceverlo nemmeno la sera seguente. Non
so come passai il resto della giornata; passeggiai, fumai, parlai, ma
alle dieci della sera non ricordavo più che cosa avessi detto e chi
avessi incontrato.
Tutto quello di cui mi ricordo è che rientrai in casa, impiegai tre
ore a vestirmi, e che guardai cento volte l'orologio e la pendola, che
purtroppo segnavano la stessa ora.
Quando suonarono le dieci e mezzo, mi dissi che era ora di andare.
A quel tempo abitavo in rue de Provence: percorsi rue de Mont-Blanc,
attraversai il boulevard, presi per rue Louis-le-Grand, rue de Port-
Nahon, e rue d'Antin. Guardai le finestre di Marguerite. Erano
illuminate.
Suonai.
Chiesi al portiere se mademoiselle Gautier era in casa.
Mi rispose che non rientrava mai prima delle undici o undici e un
quarto. Guardai l'orologio.
Avevo creduto di camminare lentamente, ma in soli cinque minuti ero
arrivato da rue de Provence a casa di Marguerite.
Mi misi allora a passeggiare per quella strada, priva di negozi, e a
quell'ora ormai deserta.
Mezz'ora dopo, arrivò Marguerite. Scese di carrozza guardandosi
intorno come se cercasse qualcuno.
La carrozza ripartì al passo: le scuderie e la rimessa non erano nella
stessa casa. Nel momento in cui Marguerite stava per suonare, mi
avvicinai e le dissi:
“Buonasera”.
“Ah, siete voi?”, disse lei, con un tono che lasciava dubbi sul
piacere che provava nel vedermi.
“Non mi avete permesso di farvi visita stasera?”.
“E' vero; l'avevo dimenticato”.
Quella parola distruggeva tutte le mie riflessioni della mattina,
tutte le mie speranze della giornata. Tuttavia, cominciavo ad
abituarmi a quei modi, e non me ne andai, come avrei certo fatto in
altri tempi.
Entrammo.
Nanine aveva già aperto la porta.
“Prudence è rientrata?”, chiese Marguerite.
“No, signora”.
"Va' a dire che venga qui appena torna. Ma prima, spegni la lampada
nel salone e, se viene qualcuno, rispondi che non sono rientrata e che
non rientrerò".
Era certo una donna preoccupata da qualche cosa, e forse seccata da un
importuno. Non sapevo che atteggiamento assumere, né che cosa dire.
Marguerite andò verso la camera da letto; io restai dove mi trovavo.
“Venite”, mi disse.
Si tolse il cappello, il mantello di velluto, e li gettò sul letto;
poi si lasciò cadere in una grande poltrona, accanto al fuoco che essa
faceva accendere fino all'inizio dell'estate, e mi disse, giocando con
la catena dell'orologio:
“Ebbene, che cosa mi raccontate di nuovo?”.
“Nulla, salvo che ho fatto male a venire stasera”.
“Perché?”.
“Perché sembrate di cattivo umore e certo vi annoio”.
"Non mi annoiate affatto; solo non mi sento bene, ho sofferto tutto il
giorno, non ho dormito e ho un terribile mal di testa".
“Volete che mi ritiri per permettervi di coricarvi?”.
"Oh! potete restare, se ho voglia di coricarmi, posso farlo anche
davanti a voi".
In quel momento suonarono alla porta.
“Chi viene ancora?”, disse con un moto d'impazienza.
Dopo qualche istante suonarono di nuovo.
“Non c'è dunque nessuno che apra? Bisognerà che vada io”.
Infatti si alzò e mi disse:
“Aspettate qui”.
Attraversò l'appartamento, e la sentii aprire la porta d'ingresso.
Ascoltai.
La persona alla quale aveva aperto la porta si fermò nella sala da
pranzo. Dalle prime parole riconobbi la voce del giovane conte de N...
“Come vi sentite stasera?”, le chiese.
“Male”, risposte seccamente Marguerite.
“Vi disturbo?”.
“Può darsi”.
“Come mi ricevete! Che cosa vi ho fatto, mia cara Marguerite?”.
"Amico mio, non mi avete fatto niente. Mi sento male e bisogna che
vada a letto, e perciò mi farete il piacere di andarvene. Mi opprime
non poter rientrare la sera senza vedervi comparire dopo cinque
minuti. Che cosa volete? Che io divenga la vostra amante? Ebbene, vi
ho già detto cento volte di no, che mi irritate terribilmente, e che
potete rivolgervi altrove. Ve lo ripeto oggi per l'ultima volta: non
voglio saperne di voi. Siamo intesi: addio. Ecco, c'è Nanine; vi farà
luce. Buonanotte".
E senza aggiungere una parola, senza ascoltare quello che il giovane
andava balbettando, Marguerite tornò in camera e chiuse con violenza
la porta, dalla quale, a sua volta, Nanine entrò quasi subito.
“Ascoltami bene”, le disse Marguerite, "dirai sempre a quell'imbecille
che non sono in casa o che non voglio riceverlo. Sono stanca, insomma,
di veder sempre gente che viene a chiedermi la stessa cosa, che mi
offre denaro e con questo crede di essere a posto. Se quelle che
intraprendono il nostro vergognoso mestiere sapessero di che cosa si
tratta, preferirebbero diventare cameriere. Ma no; l'ambizione di
avere vestiti, carrozze, gioielli, ci travolge; si crede a quello che
si sente dire, perché la prostituzione ha una sua fede, e a poco a
poco ci si logora il cuore, il corpo, la bellezza; si è irritate come
bestie feroci, disprezzate come paria, circondate solo da gente che
prende sempre più di quanto non dia, e un bel giorno si crepa come
cani, dopo aver rovinato gli altri e se stesse".
“Suvvia, signora, calmatevi”, disse Nanine, “siete nervosa, stasera”.
“Questo vestito mi dà fastidio”, continuò Marguerite facendo saltare i
ganci del corpetto, “dammi una vestaglia. E allora, Prudence?”.
“Non era ancora tornata, ma la manderanno da voi appena rientrerà”.
“Eccone un'altra”, seguitò Marguerite togliendosi il vestito e
infilando una vestaglia bianca, "eccone un'altra che è capace di
venirmi a trovare quando ha bisogno di me, ma che non sa farmi un
piacere di buon grado. Sa che stasera aspetto quella risposta, che mi
è necessaria, che sono preoccupata; e sono certa che è andata in giro
senza ricordarsi di me".
“Forse è stata trattenuta”.
“Facci portare il ponce”.
“Vi farà male”, disse Nanine.
"Tanto meglio. Portami anche della frutta, del pâté o un'ala di pollo,
qualche cosa subito, ho fame".
Dirvi l'impressione che mi faceva quella scena è inutile; lo
indovinate, non è vero?
“Voi cenerete con me”, mi disse; "mentre aspettate, prendete un libro,
io vado un momento nello spogliatoio".
Accese le candele del doppiere, aprì una porta che era davanti al
letto e scomparve.
Mi misi a pensare alla vita di quella ragazza, e il mio amore si
riempì di pietà.
Passeggiavo a grandi passi nella stanza, sempre meditando, quando
entrò Prudence.
“Toh, siete qui?”, mi disse, “dov'è Marguerite?”.
“Nello spogliatoio”.
“L'aspetterò. Dite un po', lo sapevate che vi trova simpatico?”.
“No”.
“Non ve lo ha accennato?”.
“Per niente”.
“Come mai siete qui?”.
“Sono venuto a farle visita”.
“A mezzanotte?”.
“E perché no?”.
“Burlone!”.
“Mi ha ricevuto molto male, del resto”.
“Vi riceverà meglio”.
“Credete?”.
“Le porto una buona notizia”.
“Non mi interessa; e così vi ha parlato di me?”.
"Ieri sera, anzi stanotte, quando ve ne siete andato col vostro amico.
A proposito, come sta il vostro amico? Gaston R..., si chiama così,
non è vero?".
“Sì” risposi, senza poter fare a meno di sorridere al ricordo della
confidenza che Gaston mi aveva fatto, e vedendo che Prudence ne
conosceva appena il nome.
“E' gentile, quel ragazzo, che cosa fa?”.
“Ha venticinquemila franchi di rendita”.
"Ah, davvero? Dunque, per tornare a voi, Marguerite mi ha interrogato
sul vostro conto, mi ha chiesto chi siete, che cosa fate, quali erano
state le vostre amanti; insomma tutto quello che si può chiedere su un
giovanotto della vostra età. Le ho detto tutto quello che so,
aggiungendo che siete un simpatico ragazzo. Ecco tutto".
"Vi ringrazio; e adesso, ditemi quale è l'incarico che vi ha affidato
ieri".
"Nessuno; quello che lei diceva era per fare andar via il conte; ma me
ne ha dato uno per oggi, e stasera le porto appunto la risposta".
In quel momento Marguerite uscì dallo spogliatoio, acconciata con
civetteria con una cuffietta da notte guarnita di bande di nastro
giallo chiamate tecnicamente “choux”.
Era incantevole.
Aveva i piedi nudi infilati in pantofole di raso, e finiva di curarsi
le unghie.
“E allora”, disse vedendo Prudence, “avete incontrato il duca?”.
“Perbacco!”.
“Che cosa vi ha detto?”.
“Me li ha dati”.
“Quanti?”.
“Seimila”.
“Li avete qui?”.
“Sì”.
“Sembrava seccato?”.
“No”.
“Pover'uomo!”.
Quel “pover'uomo!” era stato pronunciato con un tono che non si può
ripetere. Marguerite prese i sei biglietti da mille franchi.
“Ed ora”, disse, “mia cara Prudence, avete bisogno di denaro?”.
"Sapete, bambina mia, che fra due giorni è il quindici; se poteste
prestarmi tre o quattrocento franchi, mi fareste un favore".
“Mandateli a prendere domattina, è troppo tardi per far cambiare”.
“Non lo dimenticate”.
“State tranquilla. Cenate con noi?”.
“No, Charles mi aspetta a casa mia”.
“Ne siete sempre innamorata?”.
“Cotta, mia cara! A domani. Arrivederci, Armand”.
Madame Duvernoy uscì.
Marguerite aprì un cassetto e vi gettò dentro i biglietti di banca.
“Permettete che mi corichi?”, disse sorridendo, dirigendosi verso il
letto.
“Non solo ve lo permetto, ma ve ne prego”.
Gettò in fondo al letto la sopraccoperta e si coricò.
“Adesso”, disse, “venite a sedervi accanto a me e parliamo”.
Prudence aveva ragione: la risposta che aveva portato aveva rallegrato
Marguerite.
“Mi perdonate per il mio cattivo umore di questa sera?”, mi chiese
prendendomi la mano.
“Sono pronto a perdonarvi ancora molte volte”.
“E mi amate?”.
“Da impazzire”.
“Nonostante il mio cattivo carattere?”.
“Nonostante tutto”.
“Me lo giurate?”.
“Sì”, le dissi a bassa voce.
In quel momento entrò Nanine portando dei piatti, del pollo freddo,
una bottiglia di Bordeaux, delle fragole e due coperti.
“Non vi ho fatto fare il ponce”, disse Nanine, "il Bordeaux vi farà
meglio. Non è vero, signore?".
“Certo”, risposi, ancora commosso dalle ultime parole di Marguerite,
con gli occhi ardentemente fissi su di lei.
“Bene”, disse, "metti tutto sul tavolino, e avvicinalo al letto; ci
serviremo da soli. Hai fatto già tre nottate, devi aver sonno, va' a
letto; non ho più bisogno di niente".
“Devo chiudere la porta a doppia mandata?”.
"Lo credo bene! e soprattutto avverti di non far entrare nessuno prima
di domani a mezzogiorno".
Alle cinque del mattino, quando l'alba cominciava ad apparire dietro
le tende, Marguerite mi disse:
"Perdonami se ti mando via, ma è necessario. Il duca viene ogni
mattina; quando verrà diranno che dormo, e forse aspetterà che mi
svegli".
Presi tra le mani la testa di Marguerite, le cui spalle erano inondate
dai capelli sciolti, le detti un ultimo bacio, e le dissi:
“Quando ti rivedrò?”.
“Ascolta”, rispose, "prendi la chiavetta dorata che è sul caminetto, e
apri quella porta; riporta qui la chiave e va' via. Durante la
giornata, riceverai una lettera con i miei ordini: sai bene che devi
obbedirmi ciecamente".
“Sì, e se già ti chiedessi qualcosa?”.
“Che cosa?”.
“Di lasciarmi la chiave”.
“Non ho mai fatto per nessuno quello mi chiedi”.
"Ebbene, fallo per me, perché te lo giuro, io non ti amo come ti hanno
amata tutti gli altri".
"Allora tienila; ma ti avverto che posso fare in modo che questa
chiave non ti serva a niente".
“Perché?”.
“C'è un catenaccio all'interno”.
“Cattiva!”.
“Lo farò togliere”.
“Allora mi ami un poco?”.
"Non so come sia accaduto, ma credo di sì. E adesso vattene, cado dal
sonno".
Restammo ancora qualche istante l'uno nelle braccia dell'altra; poi me
ne andai.
Le strade erano deserte, la grande città dormiva ancora, una dolce
frescura inondava i quartieri che sarebbero stati più tardi invasi del
rumore degli uomini.
Mi sembrava che quella città addormentata mi appartenesse; cercai
allora nella mia memoria i nomi di coloro ai quali avevo invidiato
fino a quel momento la felicità, e di chiunque mi ricordassi, scoprivo
di essere più felice di lui.
Essere amato da una fanciulla casta, rivelarle per primo lo strano
mistero dell'amore, è certo una grande felicità, ma è la cosa più
semplice del mondo. Impadronirsi di un cuore non abituato agli assedi,
è come entrare in una città aperta e senza difese. L'educazione, il
sentimento del dovere della famiglia sono sentinelle assai vigili, ma
non abbastanza da impedire che una fanciulla di sedici anni le inganni
quando, attraverso la voce dell'uomo amato, la natura le elargisce i
primi consigli d'amore, tanto più ardenti quanto più sembrano puri.
Più la fanciulla crede al bene, più facilmente si abbandona se non
alle braccia dell'amante, a quelle dell'amore, perché essendo senza
difesa, è senza forza, e farsi amare da lei è una vittoria che ogni
uomo di venticinque anni può ottenere quando vuole. E questo è tanto
vero che le fanciulle sono sorvegliate e circondate di difese. I
conventi non hanno muri tanto alti, le madri serrature tanto
resistenti, la religione doveri tanto assoluti da rinchiudere tutti
quegli uccellini nella loro gabbia, sulla quale non ci si dà neppure
la pena di gettare fiori. Come devono desiderare quel mondo che viene
loro nascosto, come devono credere che sia affascinante, così devono
ascoltare la prima voce che, attraverso le sbarre, viene a rivelarne
loro i segreti, così devono benedire la mano che per prima, viene a
sollevare un lembo del misterioso velo.
Ma essere veramente amati da una cortigiana, è una vittoria ben
diversamente difficile. In loro il corpo ha logorato l'anima, i sensi
hanno bruciato il cuore, il vizio ha corazzato i sentimenti. Le parole
che si rivolgono loro, esse le conoscono da un pezzo, conoscono i
mezzi che si adoperano, e l'amore stesso che ispirano, esse l'hanno
venduto. Amano per mestiere, non per slancio. Sono protette dai loro
calcoli meglio di quanto una vergine non sia protetta da sua madre e
dalle mura del convento; e così hanno inventato la parola “capriccio”
per definire quegli amori non venali che si concedono di tanto in
tanto come riposo, come scusa, o come consolazione: simili in questo a
quegli usurai che strozzano mille persone e che credono di riscattarsi
prestando una volta mille franchi a qualche povero diavolo che muore
di fame, senza pretendere interessi e senza chiedere la ricevuta.
Inoltre, quando Iddio concede l'amore a una cortigiana, quest'amore,
che sembra a prima vista un perdono, diventa ben presto per lei una
punizione. Non c'è assoluzione senza penitenza. Quando una creatura,
che ha tutto un passato da rimproverarsi, si sente improvvisamente
vinta da un amore profondo, sincero, irresistibile, del quale non si
sarebbe mai creduta capace, e confessa quest'amore, l'uomo amato la
domina! E come si sente forte del crudele diritto di dirle: "Tu non
fai per amore più di quello che hai fatto per denaro!".
Allora esse non sanno che prove dare. Racconta una novella che un
bambino, dopo essersi lungamente divertito, in un campo, a gridare:
“Aiuto!”, per disturbare la gente che vi lavorava, fu un bel giorno
divorato da un orso, senza che quelli che egli aveva così spesso
ingannati credessero quella volta alle sue vere grida di spavento. Lo
stesso accade a quelle disgraziate figliole, quando si innamorano
seriamente. Hanno mentito tante volte che non si vuole più credere
loro, e sono in mezzo ai loro rimorsi, divorate dal loro amore.
Da qui nascono le grandi devozioni, gli austeri ritiri di cui qualcuna
di loro ha dato l'esempio.
Ma quando l'uomo che ispira quell'amore purificatore ha un animo tanto
generoso da accettarlo senza ricordare il passato, quando vi si
abbandona, quando, insomma, ama come è amato, quell'uomo arriva al
fondo di tutte le sensazioni terrene, e dopo di quello, il suo cuore
resterà chiuso per sempre a ogni altro amore.
Queste riflessioni io non le facevo quella mattina, tornando a casa;
non avrebbero potuto essere che il presentimento di quanto mi sarebbe
accaduto, e nonostante il mio amore per Marguerite, non intravedevo
conseguenze del genere; le faccio oggi. Poiché tutto è
irrimediabilmente finito, esse sono il risultato naturale di quel che
avvenne. Ma torniamo al primo giorno di quella relazione. Quando
rientrai in casa, la mia allegria era folle. Pensando che gli ostacoli
posti dalla mia immaginazione tra Marguerite e me erano scomparsi, che
la possedevo, che occupavo un poco i suoi pensieri, che avevo in tasca
la chiave del suo appartamento e il diritto di servirmene, ero
soddisfatto della vita, orgoglioso di me stesso, e amavo Iddio che
faceva accadere tutto questo.
Un giovane passa un giorno per una strada, sfiora una donna, la
guarda, si volta, prosegue. Egli non conosce quella donna, non ha
nessuna parte ai piaceri di lei, ai suoi dolori, ai suoi amori; non
esiste per lei e forse, se le rivolgesse la parola, essa si burlerebbe
di lui, come Marguerite si era burlata di me. Passano le settimane, i
mesi, gli anni, e d'improvviso, dopo che entrambi hanno seguito il
loro destino in direzioni diverse, la logica del caso li mette di
nuovo l'uno di fronte all'altra. Quella donna diventa l'amante di
quell'uomo, e si innamora di lui. Come?, perché? le due vite diventano
una sola, e appena questa intimità è nata, sembra loro che essa sia
sempre esistita: e tutto quello che fino a quel momento è accaduto si
cancella dal ricordo dei due amanti. Questo è strano, ammettiamolo.
Quanto a me, non mi ricordavo più come avevo vissuto fino ad allora.
Tutto il mio essere si esaltava nella gioia, al ricordo delle parole
che ci eravamo detti in quella prima notte. O Marguerite era abile
nell'inganno, o aveva per me una di quelle passioni improvvise che si
rivelano fin dal primo bacio, e che, del resto, muoiono talvolta così
come sono nate.
Più riflettevo, più mi dicevo che Marguerite non aveva alcuna ragione
di simulare un amore non sentito, e mi dicevo anche che le donne hanno
due modi di amare, che possono risolversi l'uno nell'altro: esse amano
col cuore o coi sensi. Spesso una donna si prende un amante solo per
obbedire alla volontà dei sensi e, senza averlo previsto, impara il
mistero dell'amore immateriale, e non vive più che col cuore; spesso
una fanciulla, non cercando nel matrimonio che una unione di due puri
affetti, riceve la rivelazione improvvisa dell'amore carnale, energica
conclusione dei più casti moti dell'animo. Tra questi pensieri, mi
addormentai. Fui svegliato da un biglietto di Marguerite, che
conteneva queste parole:
"Ecco i miei ordini: stasera al Vaudeville. Venite durante il terzo
intervallo".
Chiusi la lettera in un cassetto, per avere sempre la realtà a portata
di mano, nel caso ne dubitassi, come a momenti mi accadeva.
Non diceva di andarla a trovare durante la giornata, e non osavo
perciò presentarmi a casa sua; ma avevo un desiderio così forte di
vederla prima di sera, che andai agli Champs-Elysées dove, come il
giorno prima, la vidi passare e ripassare.
Alle sette, ero già al Vaudeville.
Non ero mai entrato così presto in un teatro.
Tutti i palchi si riempirono, l'uno dopo l'altro. Uno solo era ancora
vuoto: quello di proscenio, nel primo ordine.
All'inizio del terzo atto, sentii che si apriva la porta di quel
palco, dal quale non distoglievo mai gli occhi, e Marguerite apparve.
Si accomodò subito sul davanti, cercò in platea, mi vide, e mi
ringraziò con lo sguardo.
Quella sera era meravigliosamente bella.
Ero io la ragione della sua civetteria? Mi amava tanto da credere che
più l'avessi trovata bella più sarei stato felice? Non lo sapevo
ancora; ma se questa era la sua intenzione, c'era riuscita, perché
quando si mostrò, le teste si avvicinarono le une alle altre, e
l'attore che in quel momento era sul palcoscenico guardò anche lui
colei che al suo solo apparire turbava così gli spettatori.
E io avevo la chiave dell'appartamento di quella donna, e di lì a tre
o quattro ore l'avrei posseduta di nuovo.
Si biasimano coloro che si riducono in rovina per le attrici e per le
mantenute; ma quello che mi stupisce è che questi non facciano per
quelle donne follie venti volte più grandi. Bisogna, come me, aver
vissuto quella vita, per sapere come le piccole gioie di tutti i
giorni che esse donano ai loro amanti rinsaldino fortemente nel cuore
- non saprei quale altra parola usare - l'amore che si ha per loro.
Poco dopo, Prudence prese posto nel palco, e un uomo che riconobbi per
il conte de G... si sedette sul fondo. Nel vederlo mi sentii gelare il
cuore.
Marguerite si era certo accorta dell'impressione prodotta su di me
dalla presenza di quell'uomo nel suo palco, perché mi sorrise di nuovo
e, voltando le spalle al conte, parve interessarsi vivamente allo
spettacolo. Al terzo intervallo, essa si girò, disse qualche parola,
il conte lasciò il palco, e Marguerite mi fece segno di raggiungerla.
“Buonasera”, mi disse quando entrai, tendendomi la mano.
“Buonasera”, risposi rivolgendomi a Marguerite e a Prudence.
“Sedetevi”.
“Ma prendo il posto di qualcuno. Il conte de G... non tornerà?”.
"Sì; l'ho mandato a cercarmi dei dolci, perché potessimo parlare da
soli per un poco. Madame Duvernoy è in confidenza".
“Sì ragazzi”, disse questa, “state tranquilli, non dirò niente”.
“Che cosa avete stasera?”, mi chiese Marguerite alzandosi e baciandomi
sulla fronte nella penombra del palco.
“Sono un po' indisposto”.
“Bisogna che andiate a letto”, riprese con la sua aria ironica, che si
addiceva tanto al volto fine e spiritoso.
“Dove?”.
“A casa vostra”.
“Sapete bene che non potrei dormire”.
"Allora non bisogna venire qui a fare il muso perché avete visto un
uomo nel mio palco".
“Non è per questo”.
"Invece sì, me ne intendo, e voi avete torto; quindi non ne parliamo
più. Dopo lo spettacolo andate a casa di Prudence, e restateci fino a
quando vi chiamerò. Capito?".
“Sì”.
Potevo forse disobbedire?
“Mi amate sempre?”, riprese lei.
“E me lo domandate?”.
“Avete pensato a me?”.
“Tutto il giorno”.
"Sapete che ho veramente paura di innamorarmi di voi? Chiedetelo a
Prudence".
“Ah!”, rispose la donnona, “questo sarebbe seccante”.
"Adesso, tornate al vostro posto; il conte sta per tornare, ed è
inutile che vi trovi qui".
“Perché?”.
“Perché non vi fa piacere vederlo”.
"No; solo che se mi aveste detto che desideravate venire al
Vaudeville, stasera, avrei potuto io stesso procurarvi il palco
proprio come ve lo ha procurato lui".
"Disgraziatamente, mi ha portato il biglietto senza che io glielo
avessi chiesto, offrendosi di accompagnarmi. Lo sapete bene, non avrei
potuto rifiutare. Tutto ciò che potevo fare era di scrivervi dove
sarei andata perché mi poteste vedere, e perché anch'io avessi il
piacere di rivedervi più presto; ma se è così che mi ringraziate,
terrò conto della lezione".
“Ho torto, perdonatemi”.
"Finalmente! Adesso tornate al vostro posto, per favore, e soprattutto
non fate più il geloso".
Mi baciò di nuovo, e io uscii.
Nel corridoio incontrai il conte.
Tornai alla mia poltrona.
Dopo tutto, la presenza di monsieur de G... nel palco di Marguerite si
spiegava assai facilmente. Era stato il suo amante, le offriva un
palco, la accompagnava allo spettacolo, era tutto molto naturale, e
dal momento che avevo per amante una donna come Marguerite bisognava
pure che mi adattassi alle sue abitudini.
Non per questo, però, fui meno infelice per il resto della serata, ed
ero molto triste quando me ne andai, dopo aver visto Prudence, il
conte e Marguerite entrare nella carrozza che li aspettava
all'ingresso.
Eppure dopo un quarto d'ora ero a casa di Prudence, che era appena
tornata.
Siete arrivato quasi assieme a noi", disse Prudence.
“Sì”, risposi meccanicamente. “Dov'è Marguerite?”.
“A casa sua”.
“Sola?”.
“Con monsieur de G...”.
Mi misi a camminare a grandi passi per il salone.
“Ebbene, cosa avete?”.
"Credete che mi diverta aspettare qui che monsieur de G... esca dalla
casa di Marguerite?".
"Non siete molto ragionevole. Cercate di capire che Marguerite non può
mettere il conte alla porta. Monsieur de G... è stato a lungo il suo
amante, le ha sempre dato molto denaro, e gliene dà ancora. Marguerite
spende più di centomila franchi all'anno, e ha molti debiti. Il duca
le manda tutto ciò che gli chiede, ma lei non osa chiedere sempre a
lui tutto quello di cui ha bisogno. Non può guastarsi con il conte,
che le rende almeno una decina di migliaia di franchi all'anno.
Marguerite vi vuole molto bene, caro amico, ma la vostra relazione,
nel suo e nel vostro interesse, non deve essere una cosa seria. Non è
certo con i vostri sette od ottomila franchi di rendita che potreste
sostenere il lusso di quella ragazza; non sarebbe sufficiente neppure
a mantenere la sua carrozza. Prendete Marguerite per quello che è, una
buona figliuola spiritosa e bella; siate il suo amante per un mese o
due: offritele dei fiori, dei dolci, dei palchi al teatro; ma non vi
mettete in testa niente di più, e non fatele ridicole scene di
gelosia. Sapete bene con chi avete a che fare; Marguerite non è un
modello di virtù. Voi le piacete, voi l'amate molto, non pensate al
resto. Siete proprio simpatico quando fate il suscettibile! Avete la
più graziosa amante di Parigi; vi riceve in uno splendido
appartamento, è coperta di gioielli, non vi costerà un soldo, se
vorrete, e non siete contento. Che diamine! chiedete troppo".
"Avete ragione, ma è più forte di me, l'idea che quell'uomo sia il suo
amante mi fa un male terribile".
“Prima di tutto”, replicò Prudence, "è ancora il suo amante? E' un
uomo di cui essa ha bisogno, ecco tutto. Da due giorni gli chiude la
porta di casa; è venuto stamattina, lei non ha potuto fare a meno di
accettare il suo palco e di permettergli di accompagnarla. Egli l'ha
ricondotta a casa, è stato un istante da lei, non ci rimarrà, perché
voi state aspettando qui. Tutto questo è naturale, mi sembra. D'altra
parte, non avete accettato il duca?".
"Sì, ma quello è un vecchio, e sono certo che Marguerite non è la sua
amante. E poi, si può spesso accettare una relazione, ma non due.
Quella facilità somiglia troppo a un calcolo e avvicina l'uomo che,
sia pure per amore, vi si adagia a quelli che, a un livello più basso,
fanno mercato di quel consenso e traggono lucro da quel mercato".
"Oh, caro mio, come siete arretrato! quanti ne ho visti, tra i più
nobili, tra i più eleganti, tra i più ricchi fare quello che vi
consiglio, e senza sforzo, senza vergogna, senza rimorsi! Ma questo è
cosa di tutti i giorni. Cosa potrebbero fare le mantenute di Parigi
per sostenere il loro tenore di vita, se non avessero tre o quattro
amanti alla volta? Non esiste patrimonio, per quanto considerevole,
che possa da solo bastare alle spese di una donna come Marguerite. Un
capitale di cinquecentomila franchi di rendita è un capitale immenso
in Francia; ebbene, caro amico, cinquecentomila franchi non
basterebbero, ed ecco perché: un uomo che ha una simile rendita ha una
casa arredata, cavalli, domestici, carrozze, riserve di caccia, amici;
spesso ha moglie, figli, alleva cavalli da corsa, gioca, viaggia, o
che so io! Tutte queste abitudini sono così importanti, che egli non
può disfarsene senza sembrare rovinato e senza destare scandalo. Fatti
i conti, con cinquecentomila franchi all'anno egli non può dare a una
donna più di quaranta o cinquantamila franchi all'anno, ed è già
molto. E così, altri amanti concorrono alle spese annuali della donna.
Con Marguerite, è ancora più comodo; le è capitato, per un miracolo
del cielo, un vecchio con un patrimonio di dieci milioni, che ha perso
la moglie e la figlia, che non ha che dei nipoti, ricchi anch'essi,
che le dà tutto ciò che lei desidera senza chiederle niente in cambio;
ma lei non può chiedergli più di settantamila franchi all'anno, e sono
sicura che se gliene chiedesse di più, egli rifiuterebbe, nonostante
le sue ricchezze e l'affetto che ha per lei. Tutti quei giovanotti che
hanno venti e trentamila franchi di rendita a Parigi, cioè appena di
che vivere nell'ambiente che frequentano, sanno benissimo, quando sono
gli amanti di una donna come Marguerite, che questa, con ciò che essi
le danno, non potrebbe pagare neppure l'appartamento e la servitù.
Essi non dicono niente di ciò che sanno, fingono di non vedere niente,
e quando ne hanno abbastanza se ne vanno per i fatti loro. Se hanno la
presunzione di bastare a tutto, si rovinano come degli sciocchi, e
vanno a farsi ammazzare in Africa lasciando a Parigi cinquantamila
franchi di debiti. Credete che la loro donna ne sia riconoscente? Ma
niente affatto. Al contrario, dice che ha sacrificato loro la sua
posizione, e che mentre stava con loro perdeva del denaro. Ah, voi
trovate che questi particolari sono vergognosi, vero? ma sono veri.
Voi siete un ragazzo simpatico, mi siete molto caro; io frequento
mantenute da vent'anni, so chi esse siano e che cosa valgano, e non
vorrei vedervi prendere sul serio un capriccio che una bella donna ha
per voi. Inoltre“, continuò Prudence, ”ammettiamo pure che Marguerite
vi ami tanto da rinunciare al conte e al duca, nel caso che questi si
accorgesse della vostra relazione e le imponesse di scegliere tra voi
e lui; è incontestabile che il suo sacrificio sarebbe enorme. Quale
sacrificio di uguale valore potreste fare voi per lei? Quando verrà la
stanchezza, quando insomma non vorrete più saperne, che cosa farete
per indennizzarla di quanto le avete fatto perdere? Nulla. La avrete
isolata dal mondo nel quale si trovavano la sua fortuna e il suo
avvenire, vi avrà fatto dono dei suoi anni più belli, e verrà
dimenticata. O sareste un uomo volgare, le rinfaccereste il passato,
le direste che lasciandola non fate che agire come gli altri suoi
amanti, e l'abbandonereste a una miseria sicura; o sareste un uomo
onesto, e credendovi obbligato a tenerla con voi vi votereste da solo
a un'infelicità inevitabile, perché questo tipo di relazione,
scusabile in un giovane, non lo è più in un uomo maturo. Divenuta un
ostacolo a ogni cosa, non permette né una famiglia, né un'ambizione,
il secondo e ultimo amore dell'uomo. Credetemi dunque, amico mio,
prendete le cose per quello che valgono, le donne per quello che sono,
e non date a una mantenuta il diritto di dirsi, in qualunque cosa,
vostra creditrice".
Questo discorso era saggio, e di una logica di cui non avrei mai
creduto capace Prudence. Non seppi che cosa rispondere, se non che
aveva ragione; le tesi la mano e la ringraziai dei suoi consigli.
“Andiamo, andiamo”, mi disse, "scacciate queste cattive teorie, e
ridete; la vita è affascinante, mio caro, tutto dipende dalla lente
attraverso la quale la si guarda. Ecco, consultate il vostro amico
Gaston: eccone uno che mi sembra capire l'amore come lo capisco io.
Ciò di cui dovete convincervi, altrimenti diventerete un ragazzo
noioso, è che qui vicino c'è una bella ragazza che attende con
impazienza che l'uomo che è con lei se ne vada, e che pensa a voi,
conserva per voi la sua notte, e vi ama, ne sono certa. Adesso venite
con me alla finestra, e guardiamo andar via il conte, che non tarderà
a cederci il posto".
Prudence aprì una finestra, e ci appoggiammo al davanzale l'uno
accanto all'altra.
Lei guardava i rari passanti, io sognavo.
Tutto quello che mi aveva detto mi ronzava nella testa, e non potevo
fare a meno di convenire che aveva ragione, ma l'amore vero che
sentivo per Marguerite stentava ad adattarsi a quelle ragioni. Così,
emettevo di tanto in tanto dei sospiri, che facevano voltare Prudence
e le facevano alzare le spalle come un medico che non nutre più
speranze su un malato.
“Come, attraverso la rapidità delle sensazioni”, andavo dicendo tra me
e me, "ci si accorge che la vita è breve! Conosco Marguerite solo da
due giorni, è la mia amante solo da ieri, e ha già occupato in un modo
simile i miei pensieri, il mio cuore e la mia vita, che la visita di
questo conte de G... mi rende infelice".
Finalmente il conte uscì, risalì in carrozza e si allontanò. Prudence
chiuse la finestra.
Nello stesso momento, Marguerite ci chiamava.
“Venite, presto, apparecchiamo”, disse, “ceneremo”.
Quando entrai da lei, Marguerite mi corre incontro, mi getta le
braccia al collo e mi bacia con tutta la sua forza.
“Abbiamo ancora il broncio?”, mi chiese.
“No, è passato”, rispose Prudence, "gli ho fatto la predica e ha
promesso di aver giudizio".
“Meno male!”.
Mio malgrado, gettai un'occhiata al letto: era intatto. Marguerite
indossava già la sua vestaglia bianca.
Ci mettemmo a tavola.
Fascino, dolcezza, espansività, Marguerite aveva tutto, e ogni tanto
mi sentivo veramente obbligato a riconoscere che non avevo il diritto
di chiederle altro: molti sarebbero stati felici al mio posto, e, come
il pastore di Virgilio, non avevo che da godere dei piaceri che un
dio, anzi una dea, mi elargiva.
Cercai di mettere in pratica le teorie di Prudence, e di essere
allegro come le mie amiche; ma ciò che in loro era naturale a me
costava fatica, e il mio riso nervoso, che le ingannava, era molto
simile alle lacrime.
Finalmente finimmo di cenare, e restai solo con Marguerite. Come
d'abitudine, andò a sedersi su un tappeto davanti al fuoco, guardando
con aria malinconica la fiamma del caminetto.
Pensava! a che? non lo so; io la guardavo con amore e quasi con
terrore, pensando a quel che ero pronto a soffrire per lei.
“Sai a che cosa stavo pensando?”.
“No”.
“A una combinazione che ho trovato”.
“E quale?”.
"Non posso dirtelo ancora, ma posso dirti quello che potrebbe
risultarne: e cioè che tra un mese sarò libera, non avrò più debiti, e
ce ne andremo insieme in campagna a trascorrere l'estate".
“E non puoi dirmi in che modo?”.
“No; bisogna solo che tu mi ami come ti amo io, e tutto andrà bene”.
“E hai trovato da sola questa combinazione?”.
“Sì”.
“E la metterai in pratica da sola?”.
“Ne sopporterò da sola i fastidi”, disse Marguerite con un sorriso che
non dimenticherò mai, “ma ne godremo insieme i vantaggi”.
Arrossii, invincibilmente alla parola “vantaggi”: ricordai Manon
Lescaut che sperperava con Des Grieux il denaro di monsieur de B...
Risposi in tono un po' duro, alzandomi:
"Permettetemi, cara Marguerite, di spartire soltanto i vantaggi delle
azioni che io stesso concepisco e metto in pratica".
“Che cosa vuol dire?”.
"Vuol dire che ho il forte sospetto che il conte de G... sia vostro
socio in questa felice combinazione, della quale io non accetto né i
pesi né i vantaggi".
“Siete un bambino. Credevo che mi amaste, m'ingannavo, va bene”. E
nello stesso tempo si alzò, aprì il pianoforte e si rimise a suonare
l'“invito al valzer”, fino a quel famoso passaggio in diesis che la
costringeva sempre a fermarsi.
Era per abitudine, o per ricordarmi il giorno nel quale ci eravamo
conosciuti? Tutto quello che so è che con quella musica tornarono i
ricordi e, avvicinandomi a lei, le presi la testa fra le mani e la
baciai.
“Mi perdonate?”, le chiesi.
“Lo vedete bene”, mi rispose, "ma badate che non siamo che al secondo
giorno, e ho già qualcosa da perdonarvi. Tenete davvero poca fede alle
vostre promesse di cieca obbedienza".
"Che volete, Marguerite, vi amo troppo, e sono geloso di ogni vostro
piccolo pensiero. Ciò che mi avete proposto poco fa mi renderebbe
pazzo di gioia, ma il mistero che precede la realizzazione di questo
progetto mi stringe il cuore".
“Vediamo, ragioniamo un po'”, disse prendendomi le mani e guardandomi
con un incantevole sorriso al quale non era possibile resistere; "voi
mi amate, non è vero? e sareste felice di passare tre o quattro mesi
in campagna con me, da soli; anch'io sarei felice di questa solitudine
a due, non solo, ma ne avrei anche bisogno per la mia salute. Non
posso lasciare Parigi per un periodo così lungo senza sistemare i miei
affari, e gli affari di una donna come me sono sempre molto
ingarbugliati; ebbene, ho trovato il sistema di conciliare ogni cosa,
i miei affari e il mio amore per voi, sì, per voi, non ridete, sono
così pazza da amarvi e voi vi date delle arie e mi dite dei paroloni.
Bambino, tre volte bambino, ricordatevi solo che vi amo, e non vi
preoccupate di niente. E' inteso, vero?".
“E' inteso tutto quel che volete, lo sapete bene”.
"Allora, entro un mese, saremo in un paesino di campagna, a
passeggiare in riva all'acqua e a bere latte. Vi sembrerà strano che
io, Marguerite Gautier, parli così; ma il fatto è, amico mio, che
quando questa vita di Parigi, che sembra rendermi così felice, non mi
brucia, mi annoia, e mi vengono allora improvvise aspirazioni a una
vita più calma che mi faccia ricordare la mia infanzia. C'è sempre
stata un'infanzia, comunque si sia diventati. Oh! state tranquillo,
non vi dirò che sono figlia di un colonnello in pensione e che sono
stata educata a Saint-Denis. Sono una povera ragazza di campagna, e
fino a sei anni fa non sapevo scrivere il mio nome. Eccovi
rassicurato, vero? Perché mai siete voi il primo al quale mi rivolgo
per spartire la gioia del desiderio che mi è venuto? Certo perché ho
capito che mi amate per me stessa e non per voi mentre gli altri non
mi hanno mai amata che per loro. Sono stata spesso in campagna, mai
però come avrei voluto. Conto su di voi per questa semplice felicità,
non siate dunque cattivo, e concedetemela. Pensate a questo: 'Lei non
vivrà a lungo, e un giorno potrei pentirmi di non aver fatto per lei
la prima cosa che mi ha chiesto, e che era così facile da fare'".
Che rispondere a quelle parole, soprattutto nel ricordo di una prima
notte d'amore e nell'attesa di una seconda?
Un'ora dopo, stringevo Marguerite fra le braccia, e se mi avesse
chiesto di commettere un delitto le avrei obbedito.
Alle sei del mattino me ne andai, e prima di uscire le chiesi:
“A stasera?”.
Mi strinse più forte, ma non rispose.
Durante la giornata, ricevetti una lettera con queste parole:
"Mio caro, sono un po' indisposta, e il medico mi ha prescritto il
riposo. Mi coricherò presto, stasera, e non vi vedrò. Ma, per
ricompersarvi, vi aspetterò domani a mezzogiorno. Vi amo".
Il mio primo pensiero fu: “Mi tradisce!”.
Un sudore gelato mi coprì la fronte, perché già amavo troppo quella
donna da non essere sconvolto da quel sospetto.
Eppure, con Marguerite, avrei dovuto aspettarmi cose di quel genere
quasi ogni giorno; il che mi era accaduto spesso con le altre, senza
che me ne fossi mai dato troppo pensiero. Da dove veniva, dunque, la
forza di quella donna sulla mia vita?
Pensai allora, poiché avevo la chiave di casa sua, di andarla a
trovare come sempre. In quel modo, avrei conosciuto ben presto la
verità, e se avessi trovato un uomo lo avrei schiaffeggiato.
Nel frattempo andai agli Champs-Elysées, e vi rimasi quattro ore; ma
lei non comparve. La sera entrai in tutti i teatri che essa era solita
frequentare: ma non la vidi.
Alle undici, mi recai in rue d'Antin.
Alla finestra di Marguerite non c'era luce. Tuttavia, suonai. Il
portiere mi chiese dove andassi.
“Da mademoiselle Gautier”, risposi.
“Non è tornata”.
“Salirò ad aspettarla”.
“Non c'è nessuno in casa”.
Era evidentemente una consegna, che potevo forzare, poiché avevo la
chiave, ma ebbi timore di un ridicolo scandalo, e me ne andai.
Ma non tornai a casa; non potevo lasciare quella strada, e non
perdetti d'occhio la casa di Marguerite. Mi sembrava di avere ancora
qualcosa da sapere, o perlomeno che i miei sospetti dovessero essere
confermati.
Verso la mezzanotte, una carrozza che conoscevo bene si fermò davanti
al numero 9.
Il conte de G... ne discese ed entrò in casa, dopo aver congedato la
vettura.
Per un momento sperai che, come a me, gli avrebbero detto che
Marguerite non era in casa, e che lo avrei visto uscire; ma alle
quattro del mattino aspettavo ancora.
Ho molto sofferto da tre settimane a questa parte, ma questo non è
niente, credo, in confronto a ciò che soffrii quella notte.
Tornato a casa, scoppiai in pianto come un bambino. Non c'è un uomo
che non sia stato tradito almeno una volta, e che non sappia quanto si
soffra.
Mi dissi, sotto il peso di quelle decisioni febbrili, che si pensa
sempre di avere il coraggio di mantenere, che bisognava farla finita
subito con quell'amore, e aspettai con impazienza il giorno per
acquistare un biglietto di viaggio e tornarmene da mio padre e da mia
sorella, duplice amore del quale ero sicuro, e che non mi avrebbe
tradito.
Tuttavia, non volevo partire senza che Marguerite ne sapesse bene la
ragione. Solo un uomo che veramente non ama più la propria amante la
abbandona senza scriverle.
Scrissi e riscrissi quella lettera venti volte nella mia mente.
Avevo incontrato una donna simile a tutte le altre mantenute; l'avevo
troppo idealizzata, lei mi aveva trattato come uno studentello,
impiegando, per tradirmi, una furbizia di una semplicità offensiva:
era chiaro. Il mio amor proprio ebbe allora il sopravvento. Bisognava
lasciare quella donna senza darle la soddisfazione di sapere quanto
quella rottura mi facesse soffrire; ecco ciò che le scrissi, con la
più elegante scrittura, e con lacrime di rabbia e di dolore negli
occhi:
"Mia cara Marguerite,
"spero che la vostra indisposizione di ieri sia stata cosa da poco.
Alle undici della sera, sono venuto a chiedere vostre notizie, e mi è
stato risposto che non eravate rientrata. Il signor de G... è stato
più fortunato di me, perché si è presentato qualche minuto dopo, e
alle quattro del mattino era ancora con voi.
"Perdonatemi le poche ore di noia che vi ho fatto trascorrere, e siate
certa che non dimenticherò mai i momenti felici che vi devo.
"Sarei venuto volentieri a chiedere vostre notizie oggi, ma penso di
tornare da mio padre.
"Addio, cara Marguerite; non sono né tanto ricco da amarvi come
vorrei, né tanto povero da amarvi come vorreste voi. Dimentichiamo,
dunque, voi un nome che deve esservi quasi indifferente, io una
felicità che mi è diventata impossibile.
"Vi restituisco la vostra chiave, che non mi è mai servita, e che
potrà esservi utile, se vi capita spesso di essere ammalata come lo
eravate ieri".
Come vedete, non avevo avuto la forza di finire quella lettera senza
una impertinente ironia, il che prova come ne fossi ancora innamorato.
Lessi e rilessi dieci volte quella lettera, e l'idea che avrebbe fatto
dispiacere a Marguerite mi calmò un poco. Cercai di giudicare
severamente i sentimenti che essa fingeva di avere, e quando, alle
otto, il mio domestico entrò nella mia camera, gliela consegnai perché
la recapitasse subito.
“Devo aspettare la risposta?”, mi chiese Joseph (si chiamava Joseph,
come tutti i domestici).
"Se ti sarà chiesto se c'è risposta, di' che non ne sai niente e
aspetta".
Mi attaccavo alla speranza che mi avrebbe risposto.
Come siamo miseri e deboli!
Per tutto il tempo che il domestico stette fuori, fui in preda a una
violenta agitazione. In certi momenti mi ricordavo come Marguerite si
era data a me, e mi chiedevo con qual diritto le avessi scritto quella
lettera insolente, dal momento che avrebbe potuto rispondermi che non
tradiva me con monsieur de G..., ma monsieur de G... con me:
ragionamento che permette a molte donne di avere diversi amanti. Poi,
ricordando i giuramenti di quella donna, cercavo di convincermi che la
mia lettera era anche troppo debole e che non conteneva espressioni
tanto violente da stroncare una donna che si beffava di un amore
sincero come il mio. Poi, mi dicevo che avrei fatto meglio a non
scriverle, ad andare da lei durante la giornata, e che, in quel modo,
avrei gioito delle lacrime che avrebbe versato per causa mia.
Infine, mi chiedevo che cosa mi avrebbe risposto, pronto già a credere
a qualsiasi scusa essa avesse addotto.
Joseph ritornò.
“Ebbene?”, gli chiesi.
“Signore”, rispose, "la signora era a letto e dormiva ancora, ma
appena suonerà le consegneranno la lettera, e se c'è risposta ve la
porteranno".
Dormiva ancora!
Venti volte fui sul punto di mandare a riprendere quella lettera, ma
mi dicevo sempre: "Forse gliel'hanno già data, e avrei l'aria di
essermi pentito".
Più si avvicinava il momento in cui si poteva ragionevolmente supporre
che avrei ricevuto una risposta, più mi dispiaceva di avere scritto.
Suonarono le dieci, le undici, le dodici.
A mezzogiorno stavo per andare all'appuntamento come se niente fosse
successo. Insomma, non sapevo che cosa escogitare per uscire dal
cerchio di fuoco che mi serrava.
Allora credetti, con la superstizione di chi aspetta, che se fossi
uscito per un po', al ritorno avrei trovato la risposta: le risposte
attese con impazienza arrivano spesso quando si è fuori di casa.
Uscii col pretesto di andare a far colazione
Invece di mangiare al Café Foy, all'angolo del boulevard come ero
solito fare, preferii andare al Palais-Royal passando da rue d'Antin.
Ogni volta che vedevo una donna da lontano, credevo di vedere Nanine
che mi portava la risposta. Passai in rue d'Antin senza aver
incontrato nessun fattorino. Arrivai al Palais-Royal, entrai da Véry.
Il cameriere mi fece mangiare, o meglio mi servì quello che volle,
perché non mangiai affatto.
Mio malgrado, i miei occhi non si staccavano dalla pendola.
Tornai, convinto che avrei trovato una lettera di Marguerite.
Il portiere non aveva ricevuto niente. Speravo ancora nel mio
domestico; ma non aveva visto nessuno da quando io ero uscito.
Se Marguerite avesse voluto rispondermi, lo avrebbe fatto da un pezzo.
Cominciai allora a rimpiangere le espressioni della mia lettera, avrei
dovuto tacere del tutto, il che avrebbe spinto la sua impazienza a
indagare: perché, non vedendomi venire all'appuntamento, mi avrebbe
chiesto la ragione della mia assenza, e solo allora avrei dovuto
dirgliela. In questo modo lei sarebbe stata costretta a giustificarsi
e, come volevo, sarebbe stata lei a discolparsi. Sentivo già che
qualunque pretesto avesse addotto, le avrei creduto, e che avrei
preferito qualsiasi cosa al non vederla più.
Finii col credere che sarebbe venuta lei stessa da me, ma le ore
passavano, e non venne.
Decisamente, Marguerite non era come tutte le altre donne, perché sono
poche quelle che, avendo ricevuto una lettera come la mia, non
rispondono qualcosa.
Alle cinque, corsi agli Champs-Elysées.
“Se la incontro”, pensavo, "fingerò un'aria indifferente e sarà
convinta che già non penso più a lei".
All'angolo di rue Royale, vidi passare la sua carrozza, l'incontro fu
così improvviso che impallidii. Non so se si accorse della mia
emozione; ero così turbato che vidi soltanto la carrozza.
Non proseguii la passeggiata fino agli Champs-Elysées. Guardai i
manifesti dei teatri, perché avevo ancora una possibilità.
C'era una prima rappresentazione al Palais-Royal. Marguerite vi
avrebbe certamente assistito.
Alle sette ero a teatro. Tutti i palchi si riempirono, ma Marguerite
non c'era.
Allora uscii dal Palais-Royal, ed entrai in tutti i teatri dove andava
più spesso, al Vaudeville, al Variétés, all'Opéra-Comique.
Non la trovai in nessun posto.
O la mia lettera le aveva fatto troppo dispiacere perché avesse voglia
di andare a teatro, o temeva di incontrarmi, e voleva evitare una
spiegazione.
Ecco quello che la mia vanità mi suggeriva, quando nel boulevard
incontrai Gaston che mi chiese da dove venissi.
“Dal Palais-Royal”.
“E io dall'Opéra”, mi disse; “credevo anzi di vedere anche voi”.
“Perché?”.
“Perché c'era Marguerite”.
“Ah, c'era?”.
“Sì”.
“Sola?”.
“No, con un'amica”.
“E basta?”.
"Il conte de G... è entrato un attimo nel suo palco; ma lei se n'è
andata col duca. A ogni istante credevo di vedervi comparire. C'era
accanto a me una poltrona che è rimasta vuota tutta la sera, ed ero
convinto che fosse la vostra".
“Ma perché mai dovrei andare dove va Marguerite?”.
“Perché siete il suo amante, perdio!”.
“E chi ve lo ha detto?”.
"Prudence, che ho incontrato ieri. Mi congratulo, mio caro; è una
bella amante che non tutti possono avere. Conservatela, vi farà
onore".
Quella semplice osservazione di Gaston mi fece capire come la mia
suscettibilità fosse ridicola. Se lo avessi incontrato il giorno prima
e mi avesse parlato così, certamente non avrei scritto la stupida
lettera di quella mattina.
Stavo per andare a cercare Prudence per incaricarla di dire a
Marguerite che dovevo parlarle, ma ebbi timore che per vendicarsi mi
facesse rispondere che non mi poteva ricevere, e tornai a casa dopo
essere passato per rue d'Antin.
Chiesi di nuovo al portiere se c'era una lettera per me. Niente!
"Avrà aspettato che facessi qualche nuovo approccio, o che ritirassi
la lettera oggi“, mi dissi nel coricarmi ”ma vedendo che non le ho
scritto, mi scriverà lei domani".
Quella sera mi pentii più che mai di quanto avevo fatto. Ero solo, non
riuscivo a dormire, divorato dall'ansia e dalla gelosia, mentre, se
avessi lasciato che le cose seguissero il loro corso naturale, avrei
dovuto essere accanto a Marguerite a sentirmi dire le cose incantevoli
che avevo sentito due volte soltanto, e che, nella solitudine in cui
ero, mi bruciavano le orecchie.
Una situazione atroce, perché la ragione mi dava torto: infatti, tutto
mi diceva che Marguerite mi amava. Prima, il progetto di passare
un'estate in campagna, sola con me, poi la certezza che niente la
costringeva a essere la mia amante, perché la mia rendita era
insufficiente per le sue necessità e anche per i suoi capricci. Non
c'era stata dunque, in lei, che la speranza di trovare in me un
affetto sincero, capace di riposarla dagli amori mercenari in mezzo ai
quali viveva, e fin dal secondo giorno io distruggevo questa speranza,
ripagando con insolente ironia l'amore che avevo accettato per due
notti. Quel che stavo facendo era dunque peggio che ridicolo, era
indelicato. Avevo forse pagato quella donna, così dà avere il diritto
di rimproverarle la vita che conduceva? e non facevo la figura,
ritirandomi fin dal secondo giorno, di un parassita dell'amore, che
teme che gli sia presentato il conto? Come! conoscevo Marguerite da
trentasei ore, da ventiquattro ero il suo amante, e facevo il
suscettibile; e invece di ritenermi fin troppo fortunato che mi desse
una parte di sé, pretendevo di avere tutto solo per me, costringendola
a spezzare di colpo i legami del suo passato, che costituivano le
rendite del suo futuro. Che cosa potevo rimproverarle? Niente. Mi
aveva scritto di essere indisposta, quando avrebbe potuto dirmi
crudamente, con l'odiosa sincerità di certe donne, che doveva ricevere
un amante; e invece di prestar fede alla sua lettera, invece di
andarmene a spasso per tutte le strade di Parigi tranne che rue
d'Antin, invece di trascorrere la serata con i miei amici e di andare
da lei l'indomani all'ora che mi aveva indicato, facevo l'Otello, la
spiavo, e pretendevo di punirla non vedendola più. Ma lei doveva
essere ben felice di quella separazione, doveva trovarmi immensamente
stupido, e il suo silenzio non era neppure segno di rancore: era
disprezzo.
Avrei dovuto allora fare a Marguerite un regalo che non le lasciasse
alcun dubbio sulla mia generosità, e che mi permettesse, trattandola
come una mantenuta, di considerarmi a posto nei suoi confronti, ma
avrei creduto di offendere con la più piccola parvenza di interesse,
se non l'amore che lei aveva per me almeno l'amore che io avevo per
lei, e poiché questo amore era così puro che non ammetteva
spartizioni, non avrei potuto ripagare con un regalo, per quanto
bello, la felicità, sia pure di breve durata, che mi era stata
concessa.
Ecco ciò che mi andavo ripetendo quella notte, e ciò che in ogni
momento ero pronto a dire a Marguerite.
Quando spuntò il giorno, non dormivo ancora, avevo la febbre: mi era
impossibile pensare ad altro che a Marguerite.
Come potrete capire, bisognava decidersi e farla finita o con la donna
o con gli scrupoli, sempre che avesse acconsentito a ricevermi ancora.
Ma, voi lo sapete, si rinviano sempre le decisioni estreme: così, non
potendo restare in casa, non osando presentarmi da Marguerite, cercai
un mezzo per riaccostarmi a lei, mezzo che il mio amor proprio avrebbe
potuto mettere nel conto, nel caso mi fosse riuscito.
Erano le nove; corsi da Prudence che mi chiese a che cosa dovesse
quella visita mattiniera.
Non osai dirle francamente che cosa mi conduceva. Le risposi che ero
uscito presto per fissare un posto sulla diligenza di C... dove
abitava mio padre.
“Siete ben fortunato”, mi disse, "a poter lasciare Parigi con questa
bella stagione".
Guardai Prudence, chiedendomi se si stesse beffando di me. Ma il suo
viso era serio.
“Andate a salutare Marguerite?”, riprese, sempre seriamente.
“No”.
“Fate bene”.
“Trovate?”.
"Naturalmente. Dato che avete rotto con lei, a quale scopo
rivederla?".
“Sapete dunque della nostra rottura?”.
“Mi ha mostrato la vostra lettera”.
“E che cosa vi ha detto?”.
"Mi ha detto: 'Cara Prudence, il vostro protetto non è educato: queste
lettere si pensano, non si scrivono'".
“E con che tono vi ha detto tutto questo?”.
"Ridendo, e ha aggiunto: 'Ha cenato due volte in casa mia, e non mi fa
nemmeno una visita di digestione'".
Ecco l'effetto che la mia lettera e la mia gelosia avevano prodotto!
Fui crudelmente umiliato nella vanità del mio amore.
“E che cosa ha fatto ieri sera?”.
“E' andata all'Opéra”.
“Lo so. E poi?”
“Ha cenato in casa”.
“Sola?”.
“Con il conte de G..., credo”.
E così la rottura con me non aveva cambiato per niente le abitudini di
Marguerite.
E' in circostanze simili che certa gente vi dice: "Bisognava non
pensarci più a quella donna, che non vi amava".
"Bene, sono molto contento di vedere che Marguerite non si dispera per
me", ripresi con un sorriso forzato.
"E ha tutte le ragioni. Voi avete fatto quello che dovevate fare,
siete stato più ragionevole di lei, perché quella ragazza vi amava,
non faceva che parlare di voi, e sarebbe stata capace di qualunque
pazzia".
“Perché non mi ha risposto, se mi ama?”.
"Perché ha capito di aver torto ad amarvi. E poi le donne permettono
qualche volta che si inganni il loro amore, mai che si ferisca il loro
amor proprio, e si ferisce sempre l'amor proprio di una donna quando,
dopo due giorni che si è il suo amante, la si abbandona, quali che
siano le ragioni che si voglia dare alla rottura; conosco Marguerite,
preferirebbe morire piuttosto che rispondervi".
“Che devo fare, allora?”.
"Niente. Vi dimenticherà, voi la dimenticherete, e non avrete niente
da rimproverarvi l'un l'altra".
“Ma se le scrivessi per chiederle perdono?”.
“Guardatevene bene: vi perdonerebbe”.
Fui sul punto di saltare al collo di Prudence.
Un quarto d'ora dopo, ero tornato a casa e scrivevo a Marguerite:
"Qualcuno che si pente di una lettera che ha scritto ieri, che se non
lo perdonate partirà domani stesso, vorrebbe sapere a che ora potrà
deporre ai vostri piedi il suo pentimento.
"Quando potrà trovarvi sola? perché, lo sapete. Le confessioni devono
essere fatte senza testimoni".
Ripiegai quella specie di madrigale in prosa, e lo feci recapitare da
Joseph, che consegnò la lettera alla stessa Marguerite, la quale gli
disse che avrebbe risposto più tardi.
Non uscii che per poco, per andare a pranzo, e alle undici della sera
non avevo ancora ricevuto risposta.
Decisi allora di non soffrire più a lungo e di partire il giorno
seguente.
In seguito a questa decisione, convinto che se mi fossi coricato non
sarei riuscito a prender sonno, mi misi a preparare i bagagli.
Era quasi un'ora che Joseph e io stavamo preparando tutto per la
partenza, quando suonarono con forza alla porta.
“Devo aprire?”, mi chiese Joseph.
“Apri”, gli dissi, chiedendomi chi potesse venire a casa mia a
quell'ora, e non osando credere che fosse Marguerite.
“Signore”, mi disse Joseph tornando, “sono due signore”.
“Siamo noi, Armand”, gridò una voce che riconobbi per quella di
Prudence.
Uscii dalla stanza.
Prudence, in piedi, guardava qualche pezzo del mio salotto;
Marguerite, seduta sul divano, rifletteva.
Appena entrato, le andai incontro, mi inginocchiai, le presi le mani
e, tutto commosso, le dissi:
“Perdonatemi”.
Mi baciò sulla fronte e rispose:
“E' la terza volta che vi perdono”.
“Domani sarei partito”.
"In che cosa la mia visita può cambiare la vostra decisione? Non sono
venuta per impedirvi di lasciare Parigi. Sono venuta perché in tutta
la giornata non ho avuto il tempo di rispondervi, e perché non volevo
credeste che fossi inquieta con voi. Prudence, del resto, non voleva
che venissi; diceva che vi avrei forse disturbato".
“Disturbarmi, voi, Marguerite? E come?”.
“Perbacco! poteva esserci una donna in casa vostra”, rispose Prudence,
“e non sarebbe stato divertente per lei vederne arrivare altre due”.
Durante quest'osservazione di Prudence, Marguerite mi fissava
attentamente.
“Cara Prudence”, risposi, “voi non sapete ciò che dite”.
“E' molto grazioso il vostro appartamento”, replicò Prudence, "si può
vedere la stanza da letto?".
“Sì”.
Prudence passò in camera mia, non tanto per vederla quanto per
riparare alla sciocchezza che aveva detto, e per lasciare soli
Marguerite e me.
“Perché siete venuta con Prudence?”, chiesi allora.
"Perché era con me allo spettacolo, e perché volevo avere qualcuno che
mi accompagnasse, andando via di qui".
“Non c'ero io?”.
"Sì ma, a parte il fatto che non volevo disturbarvi, ero sicurissima
che venendo fino alla porta di casa mia mi avreste chiesto di salire,
e, siccome non avrei potuto permettervelo, non volevo che ve ne
andaste col diritto di rinfacciarmi un rifiuto".
“E perché non potreste ricevermi?”.
"Perché sono molto sorvegliata, e il minimo sospetto potrebbe nuocermi
moltissimo".
“E' la sola ragione?”.
"Se ce ne fosse un'altra, ve la direi; non siamo più al punto in cui
si hanno dei segreti l'uno per l'altra".
"Insomma, Marguerite, non voglio prendere strade traverse per arrivare
a quel che voglio dirvi. Sinceramente, mi amate un poco?".
“Molto”.
“Allora, perché mi avete tradito?”.
"Amico mio, se fossi la duchessa tale o talaltra, se avessi
duecentomila franchi di rendita, se fossi la vostra amante, e avessi
un altro uomo, voi avreste il diritto di chiedermi perché vi tradisco;
ma siccome sono mademoiselle Marguerite Gautier, ho quarantamila
franchi di debiti, neppure un soldo di capitale, spendo centomila
franchi all'anno, la vostra domanda diventa oziosa e la mia risposta
inutile".
“E' giusto”, dissi abbandonando il capo sulle ginocchia di Marguerite,
“ma io vi amo follemente”.
"Ebbene, amico mio, bisognava amarmi un po' meno o capirmi un po'
meglio. La vostra lettera mi ha fatto molto dispiacere. Se fossi stata
libera, anzitutto non avrei ricevuto il conte l'altro ieri, o, pur
ricevendolo, sarei venuta a chiedervi il perdono che voi mi avete
chiesto poco fa, e non avrei avuto in futuro altro amante che voi. Ho
creduto per un momento di potermi concedere questa gioia per sei mesi,
ma voi non avete voluto; volevate conoscere i mezzi. Oh! mio Dio i
mezzi era molto facile intuirli. Impiegandoli facevo un sacrificio
molto più grande di quanto voi non crediate. Avrei potuto dirvi: 'Ho
bisogno di ventimila franchi'; eravate innamorato di me, li avreste
trovati, a rischio di rinfacciarmeli più tardi. Ho preferito non
dovervi niente; ma voi non avete capito la mia delicatezza, che pure
era evidente. Noi, quando abbiamo ancora un po' di cuore, diamo alle
parole e alle cose un significato e uno sviluppo sconosciuti alle
altre donne; vi ripeto dunque che, da parte di Marguerite Gautier,
trovare il mezzo di pagare i suoi debiti senza chiedere a voi il
denaro necessario era una delicatezza della quale avreste dovuto
approfittare senza chiedere niente. Se mi aveste conosciuto solo oggi,
sareste stato anche troppo felice di quanto vi promettevo e non mi
avreste chiesto che cosa avessi fatto l'altro ieri. Noi siamo talvolta
costrette ad acquistare una soddisfazione dell'animo a spese del
nostro corpo, e soffriamo molto di più quando, alla fine, questa
soddisfazione ci sfugge".
Io ascoltavo e guardavo Marguerite con ammirazione. Quando pensavo che
quella deliziosa creatura, per la quale avrei una volta invidiato chi
le baciava i piedi, acconsentiva a farmi entrare in qualche modo nel
suo pensiero, a darmi un posto nella sua vita, e che non ero ancora
contento di quello che mi dava, mi chiedevo se vi sono limiti al
desiderio dell'uomo, quando, soddisfatto così prontamente come lo era
stato il mio, aspira ancora ad altro.
“E' vero”, riprese "noi, creature del caso, abbiamo desideri
fantastici e amori inconcepibili. Noi ci concediamo a volte per una
cosa a volte per un'altra. Ci sono persone che potrebbero rovinarsi
senza ottenere niente da noi, ve ne sono altre che ci possiedono con
un mazzo di fiori. Il nostro cuore è capriccioso, è la sua sola
distrazione e la sua sola scusa. Io mi sono data a te più presto che a
ogni altro, te lo giuro; perché? perché quando mi hai vista sputare
sangue mi hai preso la mano, perché hai pianto, perché sei la sola
creatura umana che abbia voluto compatirmi. Ti dirò una follia, avevo
una volta un cagnolino che, quando tossivo, mi guardava con un'aria
molto triste; è stato il solo essere che io abbia amato. Quando è
morto, ho pianto più che per la morte di mia madre. Mi crederai, se ti
dico che mi aveva picchiata per dodici anni. Ebbene, io ti ho amato
subito quanto il mio cane. Se gli uomini sapessero quello che si può
avere in cambio di una lacrima, sarebbero più amati e noi saremmo meno
dannose per loro. La tua lettera ti ha smentito, mi ha rivelato che
non avevi tutte le intelligenze del cuore, è stata il torto più grave
che avessi potuto fare all'amore che avevo per te. Era gelosia, è
vero, ma una gelosia ironica e insolente. Ero già triste, quando ho
ricevuto questa lettera, aspettavo di vederti a mezzogiorno, di fare
colazione con te, di cancellare, insomma, vedendoti, un pensiero che
avevo e che non mi dava tregua, e che, prima di conoscerti, ammettevo
senza sforzo. Inoltre“ proseguì Marguerite, ”tu eri la sola persona
davanti alla quale avevo capito subito di poter pensare e parlare
liberamente. Tutti quelli che stanno intorno a una ragazza come me
hanno interesse a scrutarne la più piccola parola, a trarre
conseguenze da ogni loro più piccola azione. Naturalmente non abbiamo
amici, ma solo amanti egoisti che spendono i loro patrimoni, non già
per noi, come dicono, ma per la loro vanità. Per loro, bisogna che noi
siamo allegre quando essi sono allegri, in salute quando vogliono
cenare, scettiche come lo sono loro. Ci è proibito avere un cuore,
altrimenti si è schernite e viene rovinato tutto il nostro credito.
Non apparteniamo più a noi stesse; non siamo più esseri umani, ma
cose; siamo le prime nel loro amor proprio, ma le ultime nella loro
stima. Abbiamo delle amiche, ma sono amiche come Prudence, ex
mantenute che conservano desideri di lusso che, per la loro età, non
possono più soddisfare. Allora diventano nostre amiche, o meglio le
nostre commensali. La loro amicizia arriva al servilismo, mai al
disinteresse. Non ci daranno mai altro che consigli interessati. Poco
importa a loro che noi abbiamo dieci amanti di più, purché vi possano
guadagnare dei vestiti o un braccialetto, e possano ogni tanto
approfittare della nostra carrozza e andare a teatro nel nostro palco.
Conservano i nostri fiori del giorno prima, e ci chiedono in prestito
i nostri scialli. Non ci rendono mai un favore, per piccolo che sia,
senza farselo pagare il doppio di quello che vale. L'hai visto tu
stesso quella sera in cui Prudence mi ha portato seimila franchi che
le avevo pregato di andare a chiedere al duca per me: mi ha chiesto in
prestito cinquecento franchi che non mi renderà mai, o che mi
restituirà sotto forma di cappelli che non usciranno mai dalle loro
scatole. Noi non possiamo dunque avere, o meglio, io non potevo avere
che una gioia, ed era, triste come talvolta sono, sofferente come sono
sempre, quella di trovare un uomo tanto superiore da non chiedermi
conto della mia vita ed essere l'amante dei miei sentimenti più che
del mio corpo. Quest'uomo lo avevo trovato nel duca, ma il duca è
vecchio, e la vecchiaia non protegge né consola. Avevo creduto di
poter accettare la vita che mi offriva; ma che vuoi? morivo di noia e
se ci si deve consumare, tanto vale gettarsi sul fuoco o lasciarsi
asfissiare dal carbone.
"Allora ho incontrato te, giovane, ardente, felice, e ho cercato di
fare di te l'uomo che avevo invocato in mezzo alla mia chiassosa
solitudine. Quello che amavo in te, non era l'uomo che eri, ma quello
che dovevi essere. Tu non hai accettato questa parte, la rifiuti come
indegna di te, sei un amante volgare; fa' come gli altri, pagami, e
non ne parliamo più".
Marguerite, affaticata di questa lunga confessione. si abbandonò sulla
spalliera del divano, e si portò il fazzoletto alle labbra e poi agli
occhi per soffocare un debole accesso di tosse.
“Perdono, perdono”, mormorai, "avevo capito tutto, ma volevo
sentirtelo dire, Marguerite mia adorata. Dimentichiamo il resto e
ricordiamoci di una cosa sola: e cioè che siamo l'uno dell'altra, che
siamo giovani e che ci amiamo. Marguerite, fa' di me quello che vuoi,
sono io il tuo schiavo, il tuo cane; ma, in nome del cielo, distruggi
la lettera che ti ho scritto, e impediscimi di partire domani: ne
morirei".
Marguerite tirò fuori la mia lettera dal corpetto del vestito e,
restituendomela, mi disse con un sorriso di indicibile dolcezza:
“Tieni, te l'ho riportata”.
Strappai la lettera, e baciai piangendo la mano che me l'aveva
restituita.
In quel momento riapparve Prudence. "Ebbene, Prudence, sapete che cosa
mi ha chiesto?", disse Marguerite.
“Vi ha chiesto perdono”.
“Appunto”.
“E l'avete perdonato?”.
“Per forza, ma vuole anche un'altra cosa”.
“E quale?”.
“Vuol venire a cena con noi”.
“E voi acconsentite?”.
“Voi che ne pensate?”.
"Penso che siete due bambini, e che non avete cervello, né l'uno né
l'altra. Ma penso anche che ho una gran fame e che quanto prima gli
direte di sì, tanto prima ceneremo".
“Andiamo”, disse Marguerite, “staremo in tre nella carrozza”.
“Prendete”, aggiunse voltandosi verso di me, "Nanine dormirà, aprite
voi la porta, prendete la mia chiave, e cercate di non perderla più".
La abbracciai fino a soffocarla.
In quel momento entrò Joseph.
“Signore”, mi disse con l'aria d'un uomo soddisfatto di sé, "i bagagli
sono pronti".
“Del tutto?”.
“Sì, signore”.
“Ebbene, disfali: non parto più”.
"Avrei potuto - mi disse Armand - raccontarvi in poche parole l'inizio
di questa relazione, ma volevo che voi conosceste bene gli avvenimenti
e le fasi attraverso le quali arrivammo, io ad acconsentire a ogni
desiderio di Marguerite, e Marguerite a non poter più vivere senza di
me.
Fu all'indomani della sera in cui era venuta a trovarmi che le mandai
Manon Lescaut.
Da quel momento, non potendo cambiare la vita della mia amante,
cambiai la mia. Volevo innanzitutto non lasciare al mio spirito il
tempo di riflettere sulla parte che avevo accettato, perché, mio
malgrado, ne avrei provata una grande tristezza. Così, la mia vita, in
genere tanto calma, si rivestì da un momento all'altro di un'apparenza
di chiasso e di disordine. Non crediate che, sebbene disinteressato,
l'amore che una mantenuta ha per voi non vi costi niente. Nulla è caro
come i mille capricci in fiori, palchi, cene, gite in campagna, che
non si possono rifiutare alla propria amante.
Come vi ho detto, non avevo un patrimonio. Mio padre era ed è ancora,
esattore generale a C..., dove ha fama di grande lealtà, grazie alla
quale ha potuto trovare la cauzione che doveva depositare per assumere
la carica. Questo lavoro gli procura quarantamila franchi all'anno, e
in dieci anni ha restituito la cauzione e ha messo da parte la dote di
mia sorella. Mio padre è l'uomo più onesto che si possa incontrare.
Quando mia madre morì, lasciò seimila franchi di rendita, che egli ha
diviso tra mia sorella e me, quando ha ottenuto l'incarico che
sollecitava; poi, quando io ho compiuto ventun anni, ha aggiunto a
questa piccola rendita una pensione annua di cinquemila franchi,
affermando che con ottomila franchi avrei potuto vivere tranquillo a
Parigi, se avessi voluto, oltre a quella rendita, farmi una posizione,
nell'avvocatura o nella medicina. Sono dunque venuto a Parigi, ho
studiato diritto, sono stato nominato avvocato, e, come molti giovani,
ho messo la laurea in tasca per abbandonarmi un po' alla vita
spensierata di Parigi. Le mie spese erano molto modeste; ma in otto
mesi spendevo tutta la rendita dell'anno, e trascorrevo i quattro mesi
estivi con mio padre, il che rappresentava in tutto dodicimila franchi
di rendita e mi dava la fama di figlio affettuoso. Del resto, neppure
un soldo di debiti.
Ecco come stavo quando conobbi Marguerite.
Voi potrete capire che, mio malgrado, il mio tenore di vita si elevò.
Marguerite era molto capricciosa, apparteneva a quella categoria di
donne che non hanno mai considerato come una spesa seria le mille
distrazioni di cui la loro vita è composta. Ne risultava che, volendo
passare con me il maggior tempo possibile, al mattino mi scriveva che
avrebbe pranzato con me, non a casa sua, ma in qualche ristorante, a
Parigi o in campagna. Andavo a prenderla, pranzavamo, andavamo a
teatro, spesso cenavamo, e la sera avevo speso quattro o cinque luigi,
il che significava duemilacinquecento o tremila franchi al mese, e
riduceva la mia annata a tre mesi e mezzo, mettendomi nella necessità
di contrarre debiti o di lasciare Marguerite.
Accettavo tutto, tranne quest'ultima possibilità. Perdonatemi se vi
racconto tutti questi particolari, ma potrete vedere come furono essi
la causa degli avvenimenti successivi. Quella che vi racconto è una
storia vera, semplice, alla quale lascio tutta l'ingenuità dei
particolari e tutta la semplicità degli sviluppi.
Compresi dunque che, poiché niente al mondo avrebbe potuto farmi
dimenticare la mia amante, mi era necessario trovare il sistema per
sostenere le spese che ero costretto a fare per lei. E poi,
quell'amore mi sconvolgeva in un modo tale che ogni istante che
passavo lontano da Marguerite mi sembrava un anno, e sentivo il
bisogno di bruciare quei momenti al fuoco di una qualunque passione, e
di viverli tanto in fretta da non accorgermi neppure che li stavo
vivendo.
Cominciai col sottrarre cinque o seimila franchi dal mio piccolo
capitale, e mi misi a giocare, perché da quando sono state soppresse
le bische si gioca dappertutto. In altri tempi, quando si entrava da
Frascati, si aveva la possibilità di farsi una fortuna: si giocava per
denaro e, se si perdeva, si aveva la consolazione di dire che si
sarebbe potuto vincere; mentre oggi, tranne che nei circoli dove c'è
ancora un certo rigore per i pagamenti, si ha quasi la certezza,
quando si vince una grossa somma, di non averla mai. Si capirà
facilmente la ragione.
Il gioco non può essere praticato che da giovani con grandi necessità,
che mancano del denaro necessario a sostenere il loro tenore di vita;
allora giocano, e naturalmente il risultato è questo: o vincono, e
allora i perdenti pagano i cavalli e le amanti di questi signori, il
che è molto sgradevole. Si contraggono debiti, le relazioni
intrecciate intorno al tavolo verde finiscono con litigi nei quali si
rimette a poco a poco l'onore e la vita; e quando si è onesti, ci si
trova rovinati da onestissimi giovanotti che non hanno altro difetto
che quello di non possedere duecentomila franchi di rendita.
Non ho bisogno di parlarvi di quelli che barano al gioco e dei quali
si apprende un giorno la partenza forzata e la tardiva condanna.
Mi gettai dunque in questa vita vorticosa, chiassosa, vulcanica, che
in altri tempi, quando ci pensavo, mi spaventava e che era diventata
per me l'indispensabile complemento ai mio amore per Marguerite. Che
avrei dovuto fare?
Se avessi passato a casa mia, da solo, le notti che non passavo in rue
d'Antin, non avrei dormito. La gelosia mi avrebbe tenuto sveglio e mi
avrebbe bruciato la mente e il sangue; il gioco, invece, allontanava
per un momento la febbre che altrimenti mi avrebbe invaso il cuore, e
riportava i miei pensieri a una passione il cui interesse mi prendeva
mio malgrado, fino a che suonava l'ora in cui dovevo andare dalla mia
amante. Allora, ed è da questo che riconoscevo la violenza del mio
amore, vincessi o perdessi, abbandonavo con fermezza il tavolo da
gioco, compiangendo quelli che restavano e che non avrebbero trovato,
come me, la felicità altrove.
Per la maggior parte di loro, il gioco era una necessità; per me, era
un rimedio.
Guarito da Marguerite, sarei stato guarito dal gioco.
E così, in mezzo a tutto ciò, conservavo un certo sangue freddo; non
perdevo che ciò che avrei potuto pagare, non vincevo che quanto avrei
potuto perdere.
D'altra parte, la fortuna mi arrise. Non facevo debiti, spendevo tre
volte più di quando non giocavo. Non era difficile resistere a una
vita che mi permetteva di soddisfare, senza preoccupazioni, i mille
capricci di Marguerite. Quanto a lei, mi amava sempre tanto e anche di
più.
Come vi ho detto, avevo cominciato a non essere ricevuto che da
mezzanotte alle sei del mattino, poi fui ammesso, di tanto in tanto,
nel suo palco, e poi lei venne qualche volta a pranzo con me.
Una mattina non me ne andai che alle otto, e venne il giorno in cui
non me ne andai che a mezzogiorno.
In attesa della metamorfosi morale, una metamorfosi fisica si era
operata in Marguerite. Avevo intrapreso la sua guarigione, e la povera
figliuola, intuendo il mio scopo, mi obbediva per dimostrarmi la sua
gratitudine.
Ero arrivato, senza scosse e senza sforzo, a isolarla quasi del tutto
dalle sue antiche abitudini. Il mio medico, col quale la avevo fatta
incontrare, mi aveva detto che solo il riposo e la calma avrebbero
potuto conservarle la salute, per cui ero riuscito a sostituire alle
cene fuori e alle notti insonni un regime igienico e un sonno
regolare. Marguerite si abituava suo malgrado a quella nuova vita, di
cui già sentiva gli effetti benefici. Cominciava già a passare qualche
serata in casa, oppure, se faceva bel tempo, la sera, si avvolgeva in
uno scialle, si copriva con un velo, e andavamo a piedi, come due
bambini, per i viali ombrosi degli Champs-Elysées. Tornava stanca,
faceva una cena leggera, si coricava dopo aver suonato un po' o aver
letto, cosa che non le era mai successa. Gli accessi di tosse che,
ogni volta che li sentivo, mi strappavano il cuore, erano scomparsi
quasi del tutto.
In meno di sei settimane, non si parlava più del conte,
definitivamente allontanato; soltanto a causa del duca ero costretto a
nascondere la mia relazione con Marguerite, benché fosse stato spesso
mandato via mentre io ero in casa, col pretesto che la signora dormiva
e aveva proibito che la svegliassero.
Per l'abitudine e anche per il bisogno che Marguerite aveva di
vedermi, lasciai il gioco proprio nel momento in cui lo avrebbe
lasciato un giocatore esperto. A conti fatti, mi trovai, in seguito
alle vincite, in possesso di circa dodicimila franchi, che mi
sembravano un patrimonio inesauribile.
Era arrivato il tempo in cui ero solito andare a trovare mio padre e
mia sorella, ma non mi decidevo a partire; ricevetti quindi frequenti
lettere di entrambi, che mi pregavano di andare da loro. A tutte
queste insistenze rispondevo come meglio potevo, ripetendo sempre che
stavo bene e che non avevo bisogno di denaro, due cose che a mio
parere avrebbero consolato un po' mio padre del ritardo della mia
visita annuale.
In questo periodo avvenne che Marguerite, svegliata una mattina da un
sole splendente, saltò dal letto e mi chiese di condurla per tutta la
giornata in campagna.
Mandammo a cercare Prudence, e partimmo tutti e tre, dopo che
Marguerite ebbe raccomandato a Nanine di dire al duca che aveva voluto
approfittare della giornata per recarsi in campagna con madame
Duvernoy.
Oltre al fatto che la presenza della Duvernoy era necessaria per
tranquillizzare il vecchio duca, Prudence era una di quelle donne che
sembrano fatte apposta per le gite in campagna. Con la sua
inalterabile allegria e il suo eterno appetito, non permetteva a
quelli che erano con lei un solo attimo di noia, ed era bravissima a
ordinare uova, ciliegie, latte, coniglio in padella, tutto quanto
costituisce la colazione tradizionale dei dintorni di Parigi.
Non ci restava che decidere dove andare.
Fu ancora una volta Prudence a toglierci d'imbarazzo. "Volete andare
nella vera campagna?", ci chiese.
“Sì”.
"Ebbene, andiamo a Bougival, al Point-du-Jour, dalla vedova Arnould.
Armand, andate a prendere un calesse".
Dopo un'ora e mezzo eravamo dalla vedova Arnould.
Voi conoscete forse quella locanda, albergo durante la settimana,
trattoria la domenica. Dal giardino, che è all'altezza di un normale
primo piano, si scopre un panorama magnifico. A sinistra l'acquedotto
di Marly chiude l'orizzonte, a destra la vista si stende su un
infinito di colline; il fiume, in quel punto quasi stagnante, si snoda
come un largo nastro bianco iridato, tra la pianura di Gabillons e
l'isola di Croissy, eternamente cullata dal fremito dei suoi alti
pioppi e dal mormorio dei salici".
In fondo, in un vasto raggio di sole, si innalzano delle piccole case
bianche col tetto rosso, e delle fabbriche che perdendo, data la
distanza, il loro aspetto duro e commerciale completano mirabilmente
il paesaggio.
Sullo sfondo, Parigi tra la nebbia.
Come aveva detto Prudence, era vera campagna, e, devo aggiungere, fu
anche una vera colazione.
Non dico tutto questo in riconoscenza della felicità che gli ho
dovuto, ma Bougival, nonostante il nome orribile, è uno dei villaggi
più graziosi che si possano immaginare. Io ho viaggiato molto, ho
visto cose più grandi, ma non più piacevoli di quel piccolo villaggio
allegramente disteso ai piedi della collina che lo protegge.
Madame Arnould ci offrì il modo di fare una passeggiata in barca, e
Marguerite e Prudence accettarono con entusiasmo.
Si è sempre associato il pensiero della campagna a quello dell'amore,
e a ragione: per la donna che si ama non esiste miglior cornice del
cielo azzurro, dei profumi, della brezza della solitudine risplendente
dei campi o dei boschi. Per quanto si ami una donna, per quanta
fiducia si abbia in lei, per quanta certezza sul futuro possiate
trarre dal suo passato, si è sempre più o meno gelosi. Se siete stato
innamorato, innamorato veramente, avete dovuto sentire il bisogno di
isolare dal mondo l'essere nel quale avreste voluto riversare tutta la
vostra vita. Sembra che, per quanto indifferente possa essere a quanto
la circonda, la donna amata perda profumo e unità al contatto degli
uomini e delle cose. Io sentivo questo molto più di ogni altro. Il mio
non era un amore comune, ero innamorato come può esserlo una creatura
normale, ma lo ero di Marguerite Gautier, il che significava che a
Parigi, a ogni passo, potevo trovarmi accanto a un uomo che era stato
l'amante di quella donna o che avrebbe potuto diventarlo il giorno
dopo. Invece in campagna, tra persone che non avevamo mai visto e che
non si occupavano di noi, in seno a una natura rivestita di primavera,
dono benigno di ogni anno, lontano dal frastuono della città, potevo
mostrare il mio amore e amare senza vergogna e senza timore.
La cortigiana scompariva a poco a poco. Avevo accanto a me una donna
giovane, bella, che amavo, che mi amava, e che si chiamava Marguerite:
il passato non aveva più forma, l'avvenire era sgombro da nubi. Il
sole illuminava la mia amante come avrebbe illuminato la più casta
fidanzata. Passeggiavamo insieme in quei luoghi incantevoli, che
sembrano fatti apposta per ricordare i versi di Lamartine o cantare le
melodie di Scudo. Marguerite era vestita di bianco, si appoggiava al
mio braccio, e la sera, sotto il cielo stellato, mi ripeteva le parole
che mi aveva detto il giorno prima; il mondo, a distanza, continuava
la sua vita senza macchiare con la sua ombra il ridente quadro della
nostra giovinezza e del nostro amore.
Ecco il sogno che il sole ardente di quella giornata mi ispirava
attraverso le foglie, mentre, allungato sull'erba nell'isola dove
eravamo sbarcati, lasciavo il mio pensiero vagare e cogliere tutte le
speranze che incontrava, libero da tutti i legami umani che lo avevano
fino a quel momento trattenuto.
Aggiungete che, dal luogo dove mi trovavo, vedevo sulla riva una
graziosa casetta a due piani, con una cancellata intorno; attraverso
il cancello, davanti alla casa, un prato verde, compatto come velluto,
e dietro l'edificio un boschetto pieno di misteriosi anfratti, nel
quale il muschio doveva cancellare ogni mattina le orme del giorno
prima.
Alcuni fiori rampicanti nascondevano l'ingresso di quella casa
disabitata, avvolgendola fino al primo piano.
A forza di guardarla, finii col convincermi che quella casa mi
apparteneva, tanto bene riassumeva tutto quello che sognavo. Lì vedevo
Marguerite e me, di giorno nel bosco che copriva la collina, di sera
seduti sul prato, e mi chiedevo se altre creature terrestri avrebbero
mai potuto essere felici quanto noi.
“Che bella casa!”, disse Marguerite, seguendo la direzione del mio
sguardo e forse anche del mio pensiero.
“Dove?”, chiese Prudence.
“Laggiù”. E Marguerite indicò col dito la casa.
“Ah! incantevole”, replicò Prudence, “vi piace?”.
“Molto”.
"Bene, allora dite al duca di prenderla in affitto per voi, la
prenderà, ne sono certa. Me ne occuperò io, se volete".
Marguerite mi guardò, come per domandarmi cosa ne pensassi.
Il mio sogno era volato via con le ultime parole di Prudence, e mi
aveva fatto ripiombare nella realtà così brutalmente che ero ancora
tutto stordito per la caduta.
“In effetti, è un ottima idea”, balbettai senza sapere quello che
dicevo.
“Va bene! sistemerò ogni cosa”, disse Marguerite stringendomi la mano
e interpretando le mie parole secondo il suo desiderio. "Andiamo
subito a vedere se è in affitto".
La casa era libera, e veniva affittata per duemila franchi.
“Sarete felice qui?”, mi chiese.
“E' sicuro che ci verrò?”.
“E per chi dunque verrei a seppellirmi qui, se non per voi?”.
"Ebbene, Marguerite, lasciate che questa casa la prenda in affitto
io".
"Siete pazzo? non solo è inutile, ma sarebbe pericoloso, sapete bene
che ho il diritto di accettare doni da un uomo soltanto; lasciate fare
dunque, bambinone, e non dite niente".
“Così, quando avrò due giorni liberi, verrò a passarli da voi”, disse
Prudence.
Lasciammo la casa e riprendemmo la strada di Parigi, parlando di
questa nuova decisione. Tenevo Marguerite fra le braccia, tanto che
scendendo dalla carrozza, cominciai a vedere il progetto della mia
amante con spirito meno scrupoloso.
II giorno dopo, Marguerite mi congedò presto, dicendomi che il duca
doveva venire di buon mattino, e mi promise che mi avrebbe scritto
appena egli se ne fosse andato, per darmi l'appuntamento di ogni sera.
Infatti, durante la giornata, ricevetti questo biglietto: "Vado a
Bougival col duca; trovatevi da Prudence stasera alle otto".
All'ora indicata, Marguerite era di ritorno, e mi raggiunse da madame
Duvernoy.
“Allora, tutto è a posto”, disse entrando.
“La casa è affittata?”, chiese Prudence.
“Sì, ha acconsentito subito”.
Non conoscevo affatto il duca, ma provavo vergogna nell'ingannarlo a
quel modo.
“Ma non è tutto!”, seguitò Marguerite.
“Che altro, dunque?”.
“Mi sono occupata dell'alloggio di Armand”.
“Nella stessa casa?”, chiese Prudence ridendo.
"No, al Point-du-Jour, dove il duca e io abbiamo fatto colazione.
Mentre lui guardava il panorama, ho chiesto a madame Arnould, perché
si chiama madame Arnould, non è vero?, le ho chiesto se aveva un
appartamento conveniente. Ne ha appunto uno, con salotto, ingresso, e
camera da letto. E tutto ciò che occorre, credo. Sessanta franchi al
mese. Il tutto arredato in modo tale da rallegrare un ipocondriaco. Ho
fissato l'alloggio. Ho fatto bene?".
Saltai al collo di Marguerite.
“Sarà meraviglioso”, continuò, "avrete una chiave della porticina, e
ho promesso al duca una chiave del cancello, ma non la prenderà,
perché non verrà che di giorno, quando verrà. Credo detto tra noi, che
sia soddisfatto di questo capriccio che mi terrà per qualche tempo
lontano da Parigi, e farà tacere per un po' la sua famiglia. Mi ha
chiesto, tuttavia, come ho potuto, io che amo tanto Parigi, decidermi
a seppellirmi in quella campagna; gli ho risposto che ero sofferente e
che era per riposarmi. Mi è parso che mi credesse solo in parte. Quel
povero vecchio sta sempre in guardia. Noi prenderemo dunque molte
precauzioni, mio caro Armand, perché laggiù egli mi farà sorvegliare,
e non è sufficiente che mi prenda in affitto una casa, bisogna anche
che paghi i miei debiti e disgraziatamente ne ho qualcuno. Siete
d'accordo su tutto ciò?".
“Sì”, risposi cercando di far tacere tutti gli scrupoli che quel modo
di vivere risvegliava di tanto in tanto dentro di me.
"Abbiamo visitato la casa da cima a fondo, ci staremo a meraviglia. Il
duca si preoccupava di tutto. Ah, mio caro", aggiunse quella piccola
pazza abbracciandomi, "voi non siete sfortunato, è un milionario che
vi fa il letto".
“E quando sgomberate?”, chiese Prudence.
“Il più presto possibile”.
“Porterete via la carrozza e i cavalli?”.
"Porterò via tutto quanto ho in casa. Vi occuperete voi
dell'appartamento durante la mia assenza".
Otto giorni dopo, Marguerite aveva preso possesso della casa di
campagna, e io mi ero sistemato al Point-du-Jour.
Cominciò allora una vita che farei molta fatica a descrivervi.
Agli inizi del soggiorno a Bougival, Marguerite non poté interrompere
del tutto le sue abitudini, e poiché la casa era sempre in festa,
tutte le sue amiche venivano a trovarla; per un mese non ci fu un
giorno in cui Marguerite non avesse otto o dieci persone a tavola.
Prudence, dal canto suo, portava tutta la gente che conosceva, e
faceva gli onori di casa come se fosse stata lei la padrona.
Il denaro del duca pagava tutto, come potete ben immaginare, e
tuttavia accadde che ogni tanto Prudence mi chiedesse mille franchi,
dicendo che erano per Marguerite. Voi sapete che avevo fatto qualche
vincita al gioco, mi affrettavo dunque a consegnare a Prudence quello
che Marguerite mi chiedeva tramite suo, e, temendo che potesse avere
bisogno di più di quanto io non avessi, venni a Parigi a chiedere in
prestito la stessa somma che mi ero fatta prestare un'altra volta, e
che avevo scrupolosamente restituita.
Mi trovai dunque di nuovo ricco di una diecina di migliaia di franchi,
senza contare la mia pensione.
Tuttavia il piacere che Marguerite provava nel ricevere le amiche
diminuì un po' davanti alle spese che esso la costringeva a fare, e
soprattutto davanti alla necessità, nella quale veniva talvolta a
trovarsi, di chiedermi denaro. Il duca, che aveva preso in affitto la
casa perché Marguerite vi si riposasse, non vi appariva più, temendo
sempre di incontrarvi un'allegra e numerosa comitiva dalla quale non
voleva essere visto. Infatti, essendo venuto un giorno per pranzare da
solo con Marguerite, era capitato in una colazione di quindici
persone, che non era ancora finita all'ora in cui egli aveva contato
di mettersi a tavola per pranzare. Quando, non sospettando niente,
aveva aperto la porta della sala da pranzo, una risata generale aveva
accolto il suo ingresso, ed egli era stato costretto a ritirarsi
immediatamente davanti all'insolente allegria delle ragazze che si
trovavano là.
Marguerite si era alzata da tavola, aveva raggiunto il duca nella
stanza accanto, e aveva cercato, per quanto possibile, di fargli
dimenticare l'accaduto; ma il vecchio, ferito nel suo amor proprio,
aveva serbato rancore: aveva detto piuttosto brutalmente alla povera
figliola che era stanco di pagare i capricci di una donna incapace di
farlo rispettare perfino in casa sua, ed era ripartito molto irritato.
Da quel giorno non si era più sentito parlare di lui. Nonostante che
Marguerite avesse congedato i convitati e cambiato le sue abitudini,
il duca non aveva più dato notizie. Io ci avevo guadagnato che la mia
amante mi apparteneva interamente, e che il mio sogno finalmente si
realizzava. Marguerite non poteva più fare a meno di me. Senza
preoccuparsi di quello che ne sarebbe venuto, mostrava pubblicamente
la nostra relazione, e io ero arrivato al punto da non uscire più di
casa sua. I domestici mi chiamavano signore, e mi consideravano
ufficialmente come il loro padrone.
Prudence aveva fatto, è vero, molte prediche a Marguerite a proposito
della sua nuova vita; ma questa le aveva risposto che mi amava, che
non poteva vivere senza di me, e che, qualunque cosa fosse accaduto,
non avrebbe rinunciato alla gioia di avermi sempre accanto a lei,
aggiungendo che tutti quelli che non erano d'accordo erano liberi di
non farsi più vedere.
Ecco che cosa avevo sentito un giorno in cui Prudence aveva detto a
Marguerite che aveva qualcosa di molto importante da comunicarle;
avevo ascoltato dietro la porta della stanza nella quale si erano
chiuse.
Qualche tempo dopo Prudence tornò.
Quando entrò ero in fondo al giardino; lei non mi vide. Dubitai dal
modo col quale Marguerite le era andata incontro, che avrebbe avuto
luogo una conversazione simile a quella che già avevo sorpreso, e
volli ascoltarla come avevo ascoltato l'altra.
Le due donne si chiusero in un salottino e io mi misi in ascolto.
“Ebbene?”, chiese Marguerite.
“Ebbene, ho visto il duca”.
“Che cosa vi ha detto?”.
"Che vi perdonava volentieri il primo avvenimento, ma che aveva saputo
che vivevate pubblicamente con monsieur Armand Duval, e che questo non
ve lo avrebbe perdonato. 'Marguerite lasci quel giovane', mi ha detto,
'e io le darò, come in passato, tutto ciò che vorrà, altrimenti dovrà
rinunciare a chiedermi qualunque cosa'".
“E che gli avete risposto?”.
"Che vi avrei comunicato la sua decisione, e gli ho promesso che avrei
cercato di farvi ragionare. Riflettete, bambina mia, pensate alla
posizione che perdete, e che Armand non potrà mai restituirvi. Egli vi
ama con tutta l'anima, ma non è abbastanza ricco da soddisfare i
vostri bisogni, e bisognerà pure che un giorno vi lasciate, ma allora
sarà troppo tardi e il duca non vorrà fare più niente per voi. Volete
che parli ad Armand?".
Marguerite sembrava riflettere, perché non rispondeva.
Il cuore mi batteva con violenza, mentre attendevo la sua risposta.
“No”, riprese, "non lascerò Armand, e non mi nasconderò per vivere con
lui. E' una pazzia, forse, ma lo amo! che volete? E poi, ora lui è
abituato ad amarmi senza ostacoli, soffrirebbe troppo di essere
obbligato a lasciarmi, fosse pure solo per un'ora al giorno.
D'altronde, io non ho da vivere così a lungo da permettermi di essere
infelice e obbedire ai desideri di un vecchio la cui sola vista mi fa
invecchiare. Si tenga il suo denaro: ne farò a meno".
“Ma come farete?”.
“Non lo so”.
Prudence stava certo per rispondere qualcosa ma io mi precipitai
dentro e corsi a gettarmi ai piedi di Marguerite, coprendo le sue mani
con le lacrime che la gioia di essere amato così mi faceva versare.
"La mia vita è tua, Marguerite, tu non hai più bisogno di quell'uomo;
non ci sono io, forse? potrei mai abbandonarti? potrei mai ripagare
abbastanza la felicità che mi dai? Basta coi timori, Marguerite mia,
noi ci amiamo! che c'importa del resto?".
“Oh, sì, io ti amo, Armand mio!”, mormorò passandomi le braccia
intorno al collo, "ti amo come non avrei mai creduto dl poter amare.
Saremo felici, vivremo in pace, e io dirò addio per sempre alla vita
della quale adesso arrossisco. Tu non mi rimprovererai mai il passato,
vero?".
Le lacrime mi velavano la voce. Non riuscii a rispondere che
stringendo Marguerite al cuore
“Ecco”, disse rivolgendosi a Prudence, con voce commossa, "riferite
questa scena al duca, e aggiungete che non abbiamo bisogno di lui".
Da quel giorno del duca non si parlò più. Marguerite non era più la
ragazza che avevo conosciuta; evitava tutto ciò che avrebbe potuto
ricordarmi la vita in mezzo alla quale la avevo incontrata; mai donna,
mai sorella, ebbe per il suo sposo o per suo fratello l'amore e le
cure che lei aveva per me. Quella natura malaticcia era aperta a tutte
le impressioni, accessibile a tutti i sentimenti. Aveva rinunciato
alle sue amiche come alle sue abitudini, al suo modo di parlare come
alle spese di una volta. Quando ci vedevano uscire di casa per fare
una passeggiata in un delizioso battellino che avevo comperato, non si
sarebbe mai creduto che quella donna vestita di bianco, col gran
cappello di paglia, che portava sul braccio una semplice mantiglia di
seta per proteggersi dall'umidità del fiume, fosse quella Marguerite
Gautier che, quattro mesi prima, faceva parlare del suo lusso e dei
suoi scandali.
Ahimè! eravamo avidi di felicità, come se intuissimo che non ne
avremmo goduto a lungo.
Da due mesi non eravamo neppure andati a Parigi. Nessuno era venuto a
trovarci, salvo Prudence, e quella Julie Duprat della quale vi ho
parlato, e alla quale Marguerite doveva un giorno affidare il
commovente racconto che ho conservato.
Trascorrevo intere giornate ai piedi della mia amante. Aprivamo le
finestre che davano sul giardino, e guardando l'estate splendere
allegramente tra i fiori che aveva fatto schiudere e sotto l'ombra
degli alberi, respiravamo l'uno accanto all'altra la vera vita, che né
Marguerite né io avevamo fino a quel momento capita.
Quella donna si stupiva, come un bambino, delle più piccole cose. In
certi giorni correva per il giardino, come una bambina di dieci anni,
dietro a una farfalla o a una libellula. Quella cortigiana, che aveva
fatto spendere in fiori più denaro di quanto basta per far vivere
nell'agiatezza un'intera famiglia, si sedeva a volte nel prato, per
un'ora, a contemplare il semplice fiore di cui portava il nome.
Fu in quel periodo che lesse così spesso Manon Lescaut. La sorpresi
molte volte mentre annotava quel libro: e mi diceva sempre che quando
una donna è innamorata non può fare che quello che faceva Manon.
Il duca le scrisse due o tre volte. Lei riconobbe la grafia e mi diede
le lettere senza leggerle.
Qualche volta le espressioni di quelle lettere mi facevano salire le
lacrime agli occhi.
Egli aveva creduto, chiudendo la sua borsa a Marguerite, di ricondurla
a sé; ma quando si era accorto dell'inutilità di quel sistema, non
aveva potuto resistere: aveva scritto, chiedendo di nuovo, come già
un'altra volta, il permesso di tornare, qualsiasi fossero le
condizioni poste a quel ritorno.
Avevo dunque letto quelle lettere ansiose e insistenti e le avevo
strappate, senza rivelare a Marguerite il loro contenuto, e senza
consigliarle di rivedere il vecchio, benché un sentimento di pietà per
il dolore del pover'uomo mi spingesse a farlo; ma temevo che lei
vedesse in quel consiglio il desiderio di far ricadere di nuovo sul
duca gli oneri della casa, facendogli riprendere le antiche visite;
temevo soprattutto che lei mi credesse capace di rifiutare la
responsabilità della sua vita, con tutte le conseguenze alle quali il
suo amore per me poteva trascinarla.
Ne risultò che il duca, non ricevendo risposta, smise di scrivere, e
che Marguerite e io continuammo a vivere insieme senza preoccuparci
del futuro.
Mi sarebbe difficile riferirvi i particolari della nostra nuova vita.
Essa era costituita da una serie di puerilità, incantevoli per noi, ma
insignificanti per coloro ai quali potrei raccontarle. Voi sapete bene
che cosa sia amare una donna, voi sapete bene come le giornate
diventino brevi, e con quale amorosa pigrizia ci si lasci trascinare
all'indomani. Voi non ignorate certo quell'oblio di ogni cosa, che
nasce da un amore violento, fiducioso e condiviso. Qualsiasi essere
nel creato, che non sia la donna amata, sembra inutile. Si rimpiange
di aver già gettato particelle di cuore ad altre donne, e non si
immagina neppure la possibilità di stringere una mano diversa da
quella che si tiene fra le nostre. Il cervello non sopporta lavoro né
ricordo, niente insomma di ciò che potrebbe distoglierlo dall'unico
pensiero che continuamente gli si offre. Ogni giorno si scopre nella
propria amante un incanto nuovo, una voluttà sconosciuta.
La vita non è più nient'altro che il ripetuto soddisfacimento di un
desiderio continuo, l'anima non è più che la vestale incaricata di
alimentare il sacro fuoco dell'amore.
Spesso, dopo che la notte era scesa, andavamo a sederci sotto il
boschetto che stava dietro la casa. Lì ascoltavamo le allegre melodie
della sera, pensando tutti e due alll'avvicinarsi del momento che ci
avrebbe messi, fino all'indomani, l'uno nelle braccia dell'altra. A
volte restavamo a letto tutta la giornata, senza nemmeno lasciare che
il sole entrasse nella nostra stanza. Le tende erano ermeticamente
chiuse, e il mondo esterno, per un attimo, smetteva di esistere per
noi. Solo a Nanine era consentito di aprire la nostra porta, ma
unicamente per portarci i pasti; li consumavamo senza alzarci,
inframmezzandoli continuamente di risa e scherzi. A questo seguiva un
sonno di qualche istante, perché, scomparendo nel nostro amore,
eravamo come due ostinati tuffatori che tornano alla superficie solo
per riprendere fiato.
Tuttavia, sorprendevo in Marguerite momenti di tristezza e talvolta
anche lacrime; le chiedevo da che cosa le venisse quel dolore
improvviso, e lei mi rispondeva:
"Il nostro amore non è un amore normale, mio caro Armand. Tu mi ami
come se non fossi mai appartenuta a nessun altro, e io tremo al
pensiero che più tardi, pentendoti del tuo amore e considerando come
un delitto il mio passato, tu mi costringa a gettarmi di nuovo
nell'esistenza dalla quale mi hai presa. Ora che ho provato una vita
nuova, morirei se tornassi all'altra. Dimmi, dunque, che non mi
lascerai mai".
“Te lo giuro!”.
A questa parola, lei mi guardava come per leggermi negli occhi se il
giuramento era sincero; poi si gettava fra le mie braccia e,
nascondendo la testa contro il mio petto, mi diceva:
“Il fatto è che tu non sai quanto ti amo!”.
Una sera, stavamo appoggiati al davanzale della finestra guardando la
luna che sembrava uscire a fatica dal suo letto dl nuvole, ascoltando
il vento che scuoteva rumorosamente gli alberi, e tenendoci per mano;
da un quarto d'ora stavamo così, in silenzio, quando Marguerite mi
disse:
“Ecco l'inverno, ormai; vuoi che partiamo?”.
“E per dove?”.
"Per l'Italia.
“Ti annoi, dunque?”.
"Ho paura dell'inverno, ho paura soprattutto del nostro ritorno a
Parigi".
“Perché?”.
“Per molte ragioni”.
Poi proseguì bruscamente, senza dirmi le ragioni dei suoi timori:
"Vuoi partire? venderò tutto ciò che possiedo, ce ne andremo a vivere
laggiù, non mi resterà niente di ciò che ero, nessuno saprà chi sono.
Vuoi?".
“Partiamo, se ti fa piacere, Marguerite; andiamo a fare un viaggio”,
le rispondevo; "ma per quale ragione vendere cose che sarai felice di
ritrovare al tuo ritorno? Non sono così ricco da poter accettare un
sacrificio simile ma lo sono abbastanza da permettere ad entrambi di
viaggiare comodamente per cinque o sei mesi, se di questo hai il
benché minimo desiderio".
“Infatti, no”, proseguì lasciando la finestra e andando a sedersi sul
divano, nella parte più buia della stanza; "perché andare a spendere
del denaro laggiù? ti costo già abbastanza qui".
“Non è generoso, Marguerite, che tu me lo rimproveri”.
“Perdonami, amico mio” rispose tenendomi la mano, "questo temporale
che si avvicina mi fa male ai nervi; non dico quello che vorrei dire".
E, dopo avermi baciato, si abbandonò a una lunga fantasticheria. Molto
spesso accaddero scene come questa, e, se ignoravo da che cosa
nascessero, tuttavia scoprivo in Marguerite un sentimento di
inquietudine per il futuro. Lei non poteva dubitare del mio amore, che
aumentava ogni giorno, tuttavia la vedevo spesso triste, e mi spiegava
sempre il motivo della sua tristezza dandole una causa fisica.
Temendo che si stancasse di quella vita troppo monotona le proposi di
tornare a Parigi, ma respingeva sempre questa proposta, assicurandomi
che in nessun altro luogo avrebbe potuto sentirsi felice come in
campagna.
Prudence veniva ormai solo di rado, ma, in cambio, scriveva lettere
che io non avevo mai chiesto di leggere, sebbene ogni volta gettassero
Marguerite in uno stato di profonda preoccupazione. Non sapevo che
cosa pensarne.
Un giorno Marguerite restò in camera sua. Vi entrai.
Stava scrivendo.
“A chi scrivi?”, le chiesi.
“A Prudence: vuoi che ti legga quello che sto scrivendo?”.
Avevo in orrore tutto ciò che potesse assomigliare a un sospetto, e
quindi risposi a Marguerite che non avevo bisogno di sapere che cosa
stesse scrivendo, per quanto, ne ero certo, quella lettera mi avrebbe
resa nota la vera ragione delle sue tristezze.
L'indomani il tempo era stupendo. Marguerite mi propose una
passeggiata in barca e una visita all'isola di Croissy; sembrava
allegrissima. Tornammo a casa alle cinque.
“E' venuta madame Duvernoy”, disse Nanine vedendoci rientrare.
“E' ripartita?”, chiese Marguerite.
“Sì, con la vostra carrozza; ha detto che eravate d'accordo”.
“Molto bene”, disse Marguerite con vivacità, “fateci servire”.
Due giorni dopo arrivò una lettera di Prudence, e per quindici giorni
Marguerite parve liberata da quelle misteriose malinconie, delle
quali, da quando non esistevano più, non cessava di chiedermi perdono.
Tuttavia la carrozza non tornava.
“Come mai Prudence non ti rimanda la vettura?”, le chiesi un giorno.
"Uno dei cavalli è ammalato, e inoltre bisogna fare delle riparazioni.
E' meglio che provvedere mentre noi siamo ancora qui, dove non abbiamo
bisogno della carrozza, piuttosto che aspettare di essere tornati a
Parigi".
Dopo qualche giorno Prudence venne a trovarci, e mi confermò quanto
Marguerite mi aveva detto.
Le due donne andarono a passeggiare in giardino, da sole e quando le
raggiunsi cambiarono discorso.
La sera, al momento di andarsene, Prudence si lamentò del freddo, e
pregò Marguerite di prestarle uno scialle.
Passò così un mese, durante il quale Marguerite fu più allegra e
attraente che mai.
Tuttavia la carrozza non era tornata, lo scialle non era stato
restituito, e tutto questo, mio malgrado, mi preoccupava, e dato che
sapevo in quale cassetto Marguerite metteva le lettere di Prudence,
approfittai di un momento in cui era in fondo al giardino per correre
a quel cassetto, che cercai di aprire, ma invano, poiché era chiuso a
doppia mandata.
Frugai allora in quelli dove di solito erano conservati i gioielli e i
brillanti; questi si aprirono senza fatica, ma gli astucci erano
scomparsi, naturalmente con tutto ciò che contenevano.
Un timore lancinante mi strinse il cuore.
Avrei preteso di sapere da Marguerite la verità su quelle sparizioni,
ma certo lei non me l'avrebbe confessato.
“Mia cara Marguerite”, le dissi allora, "ti chiedo ii permesso di
andare a Parigi. A casa mia non sanno dove io mi trovi e devono essere
arrivate lettere di mio padre; sarà certo preoccupato, e bisogna che
gli risponda".
“Va', amico mio”, mi rispose, “ma torna presto”.
Partii.
Corsi subito da Prudence.
“Insomma”, le dissi senza preamboli, "rispondetemi francamente, dove
sono i cavalli di Marguerite?".
“Venduti”.
“Lo scialle?”.
“Venduto”.
“I brillanti?”.
“Impegnati”.
“E chi se ne è occupato?”.
“Io”.
“Perché non mi avete avvertito?”.
“Perché Marguerite me lo ha proibito”.
“E perché non mi avete chiesto denaro?”.
“Non voleva”.
“A che cosa è servito il denaro?”.
“A pagare”.
“Ha dunque molti debiti?”.
"Ancora trentamila franchi, circa. Ah, caro mio, ve lo avevo detto! ma
non avete voluto credermi; ebbene, adesso vi convincerete. Il
tappezziere, presso il quale il duca si era reso garante, è stato
messo alla porta appena si è presentato a casa del duca, il quale il
giorno seguente gli ha scritto che non avrebbe fatto niente per
mademoiselle Gautier. Quest'uomo ha preteso il denaro, gli sono stati
dati degli acconti, cioè quelle poche migliaia di franchi che vi ho
chiesto; poi delle anime pie lo hanno avvertito che la sua debitrice,
abbandonata dal duca, viveva con un giovane senza beni di fortuna;
anche gli altri creditori sono stati avvertiti, hanno chiesto denaro,
hanno fatto dei pignoramenti. Marguerite avrebbe voluto vendere tutto"
ma era troppo tardi, e d'altronde parte io mi sarei opposta. Bisognava
pagare comunque e, pur di non chiedere a voi del denaro, lei ha
venduto i cavalli e gli abiti, e ha impegnato i gioielli. Volete le
ricevute dei compratori e le polizze del Monte di Pietà?".
E Prudence, aperto un cassetto, mi mostrava quei documenti.
“Ah! voi credete”, continuò con l'insistenza propria della donna che
può ben dire: “Avevo ragione!”. "Ah! voi credete che basti amarsi e
rifugiarsi in campagna a fare una vita pastorale e idilliaca? No,
amico mio, no. Accanto alla vita ideale c'è la vita materiale, e le
più caste decisioni sono trattenute a terra da fili esigui, ma di
ferro, e che non possono essere facilmente spezzati. Se Marguerite non
vi ha tradito venti volte, è perché la sua è una natura eccezionale, e
non che io non glielo abbia consigliato, perché mi faceva male vedere
quella povera figliuola spogliarsi di tutto. Ma non ha voluto! mi ha
risposto che vi ama e che per niente al mondo vi avrebbe tradito.
Tutto ciò è molto bello, molto poetico, ma non è con questa moneta che
si pagano i creditori, e a questo punto, vi ripeto, lei non può trarsi
d'impaccio che con una trentina di migliaia di franchi".
“Va bene, vi darò questa somma”.
“La chiederete in prestito?”.
“Mio Dio, sì”.
"E farete proprio una bella cosa; vi guasterete con vostro padre,
comprometterete la vostra rendita, e poi, trentamila franchi non si
trovano così, dall'oggi al domani. Credetemi, caro Armand, io conosco
le donne meglio di voi; non commettete questa sciocchezza, della quale
un giorno potreste pentirvi. Siate ragionevole. Non vi dico di
lasciare Marguerite, ma vivete con lei come vivevate all'inizio
dell'estate. Lasciate che trovi da sola il modo di trarsi d'imbarazzo.
Il duca si riaccosterà a lei, un po' alla volta. Il conte de N... mi
ha detto proprio ieri che se essa lo accetterà, pagherà tutti i suoi
debiti, e le darà quattro o cinquemila franchi al mese: ha
duecentomila franchi di rendita. Sarà per lei una posizione; invece
voi dovreste pur decidervi a lasciarla: non aspettate quindi di
esservi rovinato, tanto più che quel conte de N... è uno sciocco, e
niente vi impedirà di rimanere l'amante di Marguerite. Lei piangerà un
po' i primi tempi, poi finirà col farci l'abitudine, e un giorno vi
ringrazierà di quello che avrete fatto. Fingete che Marguerite sia
sposata, e ingannate il marito ecco tutto. Vi ho già detto un'altra
volta tutto ciò; soltanto che a quel tempo era solo un consiglio,
mentre oggi è quasi una necessità".
Prudence aveva maledettamente ragione.
“Così stanno le cose”, continuò, ripiegando le carte che mi aveva
mostrato, "le mantenute prevedono sempre di essere amate, mai di
amare, altrimenti metterebbero del denaro da parte, e a trent'anni
potrebbero pagarsi il lusso di avere un amante per niente. Se io
avessi saputo prima quello che so adesso! Comunque, non dite niente a
Marguerite, e riportatela a Parigi. Avete vissuto da solo con lei
quattro o cinque mesi, un tempo ragionevole; ora chiudete gli occhi, è
tutto quanto vi si chiede. In capo a quindici giorni lei dirà di sì al
conte de N..., quest'inverno farà delle economie, e l'estate prossima
ricomincerete. Ecco come si fa, caro mio!".
Prudence pareva entusiasta del suo consiglio, che io respingevo
indignato.
Non solo il mio amore e la mia dignità non mi avrebbero permesso di
comportarmi a quel modo, ma ero anche profondamente convinto che, al
punto in cui era, Marguerite sarebbe morta piuttosto che accettare
quel compromesso.
“Basta con gli scherzi”, dissi a Prudence; "di quanto ha bisogno
Marguerite, in tutto?".
“Ve l'ho detto, circa trentamila franchi”.
“E per quando occorre questa somma?”.
“Entro due mesi”.
“La avrà”.
Prudence alzò le spalle.
“La consegnerò a voi”, continuai, "ma giuratemi che non direte a
Marguerite che sono stato io a darvela".
“State tranquillo”.
"E se vi manderà qualche altra cosa da vendere o da impegnare,
avvertitemi".
“Non c'è pericolo, non ha più niente”.
Passai a casa mia per vedere se c'erano lettere di mio padre.
Ce n'erano quattro.
Nelle tre prime lettere, mio padre si mostrava preoccupato del mio
silenzio, e me ne chiedeva il motivo; nell'ultima, mi faceva capire di
essere stato informato della nuova vita che conducevo, e mi annunciava
il suo imminente arrivo.
Ho avuto sempre un grande rispetto e un affetto sincero per mio padre;
gli risposi, perciò, che un piccolo viaggio era stato la causa del mio
silenzio e lo pregai di avvertirmi del giorno del suo arrivo, affinché
potessi andargli incontro.
Diedi al domestico il mio indirizzo di campagna, raccomandandogli di
portarmi la prima lettera che fosse arrivata col timbro di C..., poi
ripartii subito per Bougival.
Marguerite mi aspettava al cancello del giardino.
Il suo sguardo esprimeva apprensione. Mi saltò al collo, e non poté
fare a meno di chiedermi:
“Hai visto Prudence?”.
“No” .
“Ti sei trattenuto molto a Parigi”.
"Ho trovato delle lettere di mio padre, alle quali ho dovuto
rispondere".
Dopo qualche istante, arrivò Nanine, ansante. Marguerite si alzò e si
mise a parlare con lei sottovoce.
Appena Nanine se ne fu andata, Marguerite mi disse, tornando a sedersi
accanto a me e prendendomi la mano:
“Perché mi hai ingannata? Sei stato da Prudence”.
“Chi te l'ha detto?”.
“Nanine”.
“E come lo ha saputo?”
“Ti ha seguito”.
“Le avevi dunque ordinato di seguirmi?”.
"Sì. Ho pensato che dovevi avere un motivo molto importante per
correre a Parigi così in fretta, dato che in quattro mesi non mi hai
mai lasciata sola. Temevo che ti fosse accaduta una disgrazia, o che
andassi forse a trovare un'altra donna".
“Sciocchina!” .
"Ora sono rassicurata, so ciò che hai fatto, ma non so ancora ciò che
ti è stato detto".
Mostrai a Marguerite le lettere di mio padre.
"Non ti ho chiesto questo: quello che vorrei sapere è perché sei
andato da Prudence".
“Per farle una visita”.
“Tu menti, amico mio”.
"Ebbene, sono andato a chiederle se il cavallo stava meglio, e se
aveva ancora bisogno del tuo scialle e dei tuoi gioielli".
Marguerite arrossì senza rispondere.
“E”, proseguii, "ho saputo che cosa avevi fatto dei cavalli, degli
abiti e dei brillanti".
“E me ne vuoi?”.
"Te ne voglio perché non hai pensato a chiedere a me ciò di cui avevi
bisogno".
"In una relazione come la nostra, se la donna conserva un po' di
dignità, deve imporsi tutti i sacrifici possibili pur di non chiedere
denaro al suo amante, per non dare un aspetto venale al suo amore. Tu
mi ami, ne sono certa, ma non sai come è sottile il filo che trattiene
nel cuore l'amore che si ha per donne come me. Chi sa? forse, in un
giorno di malumore o di noia, avresti immaginato di vedere nella
nostra relazione un calcolo abilmente combinato! Prudence è una
chiacchierona. Che bisogno avevo di quei cavalli? Vendendoli, ho fatto
un guadagno; posso ben farne a meno, e così non devo più spendere
niente per mantenerli; purché tu mi ami, è tutto ciò che chiedo, e tu
mi amerai lo stesso senza cavalli senza abiti e senza gioielli".
Tutto ciò era detto con un tono così naturale, che ascoltando mi
venivano le lacrime agli occhi.
“Ma, mia cara Marguerite”, risposi stringendo affettuosamente le mani
della mia amante, "tu sapevi bene che un giorno avrei saputo di questo
tuo sacrificio, e che, il giorno in cui l'avessi saputo, non lo avrei
tollerato".
“Perché?”.
"Perché, bambina cara, non voglio che l'affetto che hai per me possa
privarti fosse pure di un anellino. Non voglio neanch'io che, in un
momento di malumore o di noia, tu possa pensare che se vivessi con un
altro non avresti momenti simili, e che tu ti penta, sia pure per un
istante, di vivere con me. Tra qualche giorno riavrai i tuoi cavalli,
i tuoi brillanti, i tuoi abiti. Ti sono necessari come l'aria che
respiri, e, sarà forse ridicolo, ma io ti preferisco nel fasto che
nella semplicità".
“Vuol dire che non mi ami più”.
“Sei pazza!”.
"Se mi amassi, mi permetteresti di amarti a modo mio, invece ti ostini
a vedere in me soltanto una ragazza a cui il lusso è indispensabile, e
ti credi sempre obbligato a pagare. Tu ti vergogni di accettare delle
prove del mio amore. Tuo malgrado, pensi che un giorno mi lascerai, e
tieni a mettere la tua delicatezza al riparo da ogni sospetto. Hai
ragione, amico mio, ma io avevo sperato di meglio".
Marguerite fece il gesto di alzarsi, ma la trattenni, dicendole:
"Voglio che tu sia felice, e che non abbia niente da rimproverarmi,
ecco tutto".
“E ci separaremo!”.
“Perché, Marguerite? Chi può separarci?”, gridai.
"Tu stesso, perché non mi consenti di capire la tua posizione, e
pretendi di conservare la mia, tu, perché conservando il lusso in
mezzo al quale ho vissuto, vuoi conservare la distanza morale che ci
separa; tu, insomma, perché non reputi il mio affetto abbastanza
disinteressato, tanto da dividere con me la tua rendita, con la quale
potremmo vivere felici insieme, e perché preferisci rovinarti, schiavo
come sei di un ridicolo pregiudizio. Credi forse che io metta una
carrozza e dei gioielli sullo stesso piano del tuo amore? credi che la
felicità stia per me nelle frivolezze di cui ci si accontenta quando
non si ha un amore, ma che diventano ben poca cosa quando si ama?
Pagherai i miei debiti, impegnerai il tuo patrimonio e, finalmente, mi
manterrai! E quanto tempo durerà tutto ciò? Due o tre mesi, e allora
sarà troppo tardi per intraprendere la vita che ti sto proponendo,
perché allora accetteresti tutto da me, cosa che un uomo d'onore non
può fare. Ora, invece, tu hai otto o diecimila franchi di rendita, con
i quali potremmo vivere. Io venderò il superfluo di quanto possiedo, e
questa vendita mi frutterà da sola duemila franchi all'anno.
Prenderemo in affitto un grazioso appartamentino nel quale entrambi
vivremo. L'estate verremo in campagna, non in una casa come questa, ma
in una casetta sufficiente per due persone. Tu sei indipendente, io
sono libera, siamo giovani; in nome del cielo, Armand, non gettarmi di
nuovo nella vita che in altri tempi sono stata costretta a condurre".
Non riuscivo a rispondere, lacrime di riconoscenza e d'amore mi
inondavano gli occhi, e mi gettai fra le braccia di Marguerite.
“Volevo”, riprese, "sistemare tutto senza dirti niente, pagare tutti i
miei debiti e far preparare una nuova casa. Inoltre, saremmo tornati a
Parigi, e ti avrei detto tutto; ma siccome Prudence ti ha avvertito,
bisogna che tu sia d'accordo adesso invece di esselo dopo. Mi ami
abbastanza da poterlo fare?".
Era impossibile resistere a tanta abnegazione. Baciai con slancio le
mani di Marguerite, e le dissi:
“Farò tutto ciò che vorrai”.
Quello che lei aveva deciso, fu stabilito.
Allora si abbandonò a una folle allegria: ballava, cantava si
rallegrava per la semplicità della sua nuova casa, per l'ubicazione e
l'arredamento, sui quali mi chiedeva consiglio.
La vedevo felice e fiera di quella decisione che sembrava doverci
riavvicinare definitivamente.
Non volli esserle da meno, e in un solo istante decisi tutta la mia
vita. Stabilita l'entità del mio patrimonio, destinai a Marguerite la
rendita che mi veniva da mia madre, e che mi sembrava del resto
insufficiente a ricompensarla del sacrificio che avevo accettato da
lei.
Mi restavano i cinquemila franchi di pensione che mio padre
annualmente mi passava, e che, qualsiasi cosa fosse accaduto, mi
sarebbero bastati per vivere.
Non dissii a Marguerite della mia decisione, convinto che avrebbe
rifiutato la mia offerta.
La mia rendita proveniva da un'ipoteca di sessantamila franchi su una
casa che non avevo neppure mai visto. Tutto ciò che sapevo era che
ogni tre mesi il notaio di mio padre, vecchio amico di famiglia, mi
versava settecentocinquanta franchi contro una semplice ricevuta.
Il giorno in cui Marguerite e io andammo a Parigi per cercare casa, mi
recai dal notaio e gli chiesi in che modo avrei potuto cedere a
un'altra persona la mia rendita.
Il brav'uomo mi credette rovinato e mi interrogò sul motivo di questa
decisione; e siccome prima o poi avrei pur dovuto dirgli il nome di
colei cui volevo fare la donazione, mi decisi a raccontargli subito
ogni cosa.
Egli non mi pose nessuna delle obiezioni che la sua posizione di
notaio e di amico lo avrebbe autorizzato a pormi e mi promise che
avrebbe fatto in modo di sistemare tutto per il meglio.
Gli raccomandai, naturalmente, la massima discrezione verso mio padre,
e andai a raggiungere Marguerite che mi aspettava in casa di Julie
Duprat, dove aveva preferito fermarsi piuttosto che andare ad
ascoltare le prediche di Prudence.
Ci mettemmo a cercare casa. Marguerite trovava tutti gli appartamenti
troppo cari, io li trovavo troppo modesti. Tuttavia finimmo con
l'accordarci, e scegliemmo in uno dei quartieri più tranquilli di
Parigi un piccolo padiglione, isolato dalla casa principale, sul cui
retro si stendeva un grazioso giardino, circondato da mura abbastanza
alte da separarci dai vicini, e abbastanza basse da non limitarci la
vista.
Era meglio di quanto avessimo sperato.
Mentre mi recavo a casa mia per dare la disdetta dell'appartamento,
Marguerite andò da un uomo d'affari che, mi disse, aveva già fatto per
una delle sue amiche ciò di cui lei lo avrebbe pregato.
Venne a riprendermi in rue de Provence, felice. Quell'uomo le aveva
promesso di pagare tutti i suoi debiti, di lasciargliene quietanza, e
di versarle una ventina di migliaia di franchi in cambio di tutti i
mobili. Potete rendervi ben conto, dal prezzo al quale è salita
l'asta, che quel galantuomo avrebbe guadagnato a spese della sua
cliente più di trentamila franchi.
Ripartimmo, felici, per Bougival, continuando a comunicarci i nostri
progetti per l'avvenire, che, grazie alla nostra spensieratezza e
soprattutto al nostro amore, vedevamo nei colori più rosei.
Otto giorni dopo, mentre eravamo a tavola, Nanine venne ad avvertirmi
che il mio domestico mi cercava.
Lo feci entrare.
“Signore”, mi disse, "vostro padre è a Parigi, e vi prega di andare
subito a casa, dove vi aspetta".
Questa notizia era la cosa più semplice del mondo, tuttavia, nel
sentirla, Marguerite e io ci scambiammo un'occhiata quasi presagendo
che da quell'avvenimento sarebbe nata una sciagura.
E così, senza che lei mi parlasse di quell'impressione, che era anche
la mia, risposi stringendole la mano:
“Sta' tranquilla”.
“Torna più presto che puoi”, mormorò Marguerite abbracciandomi, "ti
aspetterò alla finestra".
Mandai Joseph ad avvertire mio padre del mio prossimo arrivo: infatti,
due ore dopo ero in rue de Provence.
Mio padre, in veste da camera, era seduto in salotto e scriveva.
Capii subito, dal modo in cui mi guardò, che si trattava di cose
gravi. Gli andai comunque incontro come se non avessi indovinato
niente dall'espressione del suo volto, e lo abbracciai.
“Quando siete arrivato, padre mio?”.
“Ieri sera”.
“Siete venuto in casa mia, come sempre?”.
“Sì” .
“Mi dispiace di non essere stato qui per ricevervi”.
Mi aspettavo che da questa frase mio padre avrebbe tratto occasione
per la predica che il suo gelido viso prometteva ma non rispose,
sigillò la lettera che aveva scritto, e la consegnò a Joseph perché la
imbucasse.
Quando fummo soli, mio padre si alzò e, appoggiandosi al caminetto, mi
disse:
“Mio caro Armand, dobbiamo parlare di cose serie”.
“Vi ascolto, padre mio”.
“Mi prometti di essere sincero?”.
“E' mia abitudine”.
“E' vero che vivi con una donna chiamata Marguerite Gautier?”.
“Sì”.
“Sai chi era quella donna?”.
“Una mantenuta”.
"Ed è per lei che quest'anno hai dimenticato di venire a trovare tua
sorella e me!".
“E' vero, padre, lo confesso”.
“L'ami dunque molto?”.
"Come vedete, dal momento che mi ha fatto venir meno a un sacro
dovere; di questo vi chiedo, oggi, umilmente perdono".
Mio padre, di certo, non si aspettava delle risposte così decise,
perché sembrò riflettere un attimo; poi mi disse:
“Ti sei reso conto che non potrai vivere sempre così?”
“Lo temevo, ma non l'ho capito”.
“Ma avresti dovuto capire”, continuò mio padre in tono più secco, "che
io non lo avrei sopportato".
"Mi sono detto che fino a quando non avessi fatto cosa contraria al
rispetto che devo al vostro nome e alla tradizionale onestà della
famiglia, avrei potuto vivere in questo modo, il che mi ha sollevato
un po' dai miei timori".
Le passioni agguerriscono contro i sentimenti; ero pronto a combattere
contro tutti, anche contro mio padre, pur di non perdere Marguerite.
“Allora, è venuto il momento di vivere diversamente”.
“Perché, padre mio?”.
"Perché sei sul punto di fare cose che feriscono il rispetto che credi
di avere per la tua famiglia".
“Non capisco cosa vogliate dire”.
"Ti spiegherò. Che tu abbia un'amante, va bene; che tu la paghi come
un galantuomo deve pagare l'amore di una mantenuta, va benissimo; ma
che tu dimentichi per lei le cose più sacre, che tu permetta che l'eco
della vostra vita scandalosa arrivi fino in fondo alla provincia e
macchi il nome onorato che ti ho dato, è cosa che non deve essere, è
cosa che non sarà"
"Permettetemi di rispondervi, padre mio, che quelli che vi hanno
avvertito sul conto mio erano male informati. Sono l'amante di
mademoiselle Gautier, vivo con lei, è la cosa più naturale del mondo.
Non do a mademoiselle Gautier il nome che ho ricevuto da voi, non
spendo per lei che quel che i miei mezzi mi permettono di spendere,
non ho contratto alcun debito, non mi sono mai trovato, insomma, in
alcuna di quelle situazioni che autorizzano un padre a dire a un
figlio quanto voi avete detto a me".
"Un padre ha sempre il diritto di distogliere il proprio figlio dalla
cattiva strada per la quale lo vede incamminarsi. Tu non hai fatto
ancora niente di male, ma lo farai".
“Padre!”.
"Giovanotto, conosco la vita meglio di te. Sentimenti interamente puri
esistono solo nelle donne interamente caste. Qualsiasi Manon può fare
un Des Grieux, e i tempi e i costumi sono mutati. Sarebbe inutile che
il mondo invecchiasse, se non dovesse mai cambiare. Tu lascerai la tua
amante".
“Mi addolora disobbedirvi, padre mio, ma mi è impossibile”.
“Ti costringerò”.
"Disgraziatamente, padre mio, non esistono più isole Sainte-Marguerite
nelle quali mandare le cortigiane, e se pure ci fossero ancora vi
seguirei mademoiselle Gautier, se voi otteneste di farcela relegare.
Che cosa volete? forse ho torto, ma non posso essere felice che a
condizione di essere l'amante di quella donna".
"Insomma, Armand, apri gli occhi, ascolta tuo padre che ti ha sempre
voluto bene e che non desidera altro che la tua felicità. Credi che
sia dignitoso per te andare a vivere coniugalmente con una donna che è
stata di tutti?".
"Che importa, padre mio, se nessuno la avrà più? che importa, se
quella donna mi ama, se rifiorisce nell'amore che ha per me,
nell'amore che ho per lei? che importa, insomma, se si è ravveduta?".
"Oh! credi dunque, giovanotto, che la missione di un uomo d'onore sia
quella di far ravvedere le prostitute? credi dunque che Dio abbia dato
alla vita questo ridicolo scopo, e che il cuore non debba avere altro
entusiasmo che quello? Quale sarà la conclusione di questa
meravigliosa cura, e che cosa penserai di ciò che dici oggi, quando
avrai quarant'anni? Riderai del tuo amore, se ti sarà permesso ridere
ancora, se non avrà lasciato tracce troppo profonde nel tuo passato.
Che cosa saresti oggi, se tuo padre l'avesse pensata come te e avesse
abbandonato la sua vita a tutte le brezze d'amore, invece di fondarla
in modo indistruttibile sopra un'idea di onore e di lealtà? Pensaci,
Armand, e non dir più simili sciocchezze. Insomma, lascia quella
donna, tuo padre te ne supplica".
Io non risposi.
“Armand”, continuò mio padre, "in nome di quella santa di tua madre,
dammi retta, rinuncia a questa vita, la dimenticherai prima di quanto
tu non creda, a lei ti incatena una teoria assurda. Hai ventiquattro
anni, pensa al futuro. Non potrai amare per sempre quella donna che,
dal canto suo, non ti amerà per sempre. Entrambi esagerate il vostro
amore, e tu ti precludi ogni carriera. Fa' ancora un passo, e non
potrai più lasciare questa strada, e avrai, per tutta la vita, il
rimorso della tua giovinezza. Parti, vieni a trascorrere un mese o due
accanto a tua sorella. Il riposo e l'affetto della tua famiglia ti
faranno ben presto guarire da questa febbre, perché di nient'altro si
tratta. Frattanto, la tua amante si consolerà, si prenderà un altro
uomo, e quando ti accorgerai per chi hai rischiato di guastarti con
tuo padre e di perdere il suo affetto, mi dirai che ho fatto bene a
venire a trovarti, e mi ringrazierai. Andiamo, tu partirai, vero
Armand?".
Sentivo che mio padre avrebbe avuto ragione, ove si fosse trattato di
qualsiasi altra donna, ma ero convinto che su Marguerite si sbagliava.
Tuttavia, il tono con cui aveva pronunciato le ultime parole era così
dolce, così supplichevole, che non osavo rispondere niente.
“Ebbene?”, disse con voce commossa.
“Ebbene, padre mio”, risposi finalmente, "non posso promettervi
niente; ciò che mi chiedete va al di là delle mie energie. Credetemi",
continuai, vedendolo fare un gesto d'impazienza, "voi esagerate i
risultati della mia relazione. Marguerite non è la donna che voi
credete. Questo amore, ben lontano dal trascinarmi su una cattiva
strada, è invece in grado di sviluppare in me i più nobili sentimenti.
L'amore vero rende sempre migliori, qualunque sia la donna che lo
ispira. Se voi conosceste Marguerite, vi rendereste conto che non
corro alcun pericolo. Lei è nobile come le donne più nobili. Tanta
cupidigia c'è nelle altre, altrettanto disinteresse c'è in lei".
"Il che non le impedisce di accettare tutto il tuo patrimonio, perché
i sessantamila franchi che hai avuto da tua madre, e che hai
intenzione di dare a lei, sono, ricordartelo bene, la tua sola
fortuna".
Mio padre aveva rinviato fino a questo momento quella perorazione e
quella minaccia, per darmi l'ultimo colpo.
Ero più forte davanti alle sue minacce che davanti alle sue preghiere.
“Chi vi ha detto che voglio, per lei, rinunciare a quella somma?”,
risposi.
"Il mio notaio. Un galantuomo avrebbe potuto fare una cosa del genere
senza avvertirmi? Ebbene, è per impedire che tu ti rovini per una
donna che sono venuto a Parigi. Tua madre, morendo, ti ha lasciato di
che vivere dignitosamente, e non di che fare il generoso con le tue
amanti".
"Vi giuro, padre mio, che Marguerite non sa niente di questa
donazione".
“E allora perché volevi fargliela?”.
"Perché Marguerite, la donna che voi calunniate e che volete che io
abbandoni, sacrifica tutto ciò che possiede per venire a vivere con
me".
"E tu accetti questo sacrificio? Che uomo siete dunque, signore, per
permettere a una mademoiselle Marguerite di sacrificarvi qualcosa?
Andiamo, basta. Tu lascerai quella donna. Fino a questo momento te ne
ho pregato, ora te lo ordino; non tollero simili sconcezze nella mia
famiglia. Fa' le valigie, e preparati a seguirmi".
“Perdonatemi, padre mio”, risposi, “ma non partirò”.
“Perché?” .
“Perché ho raggiunto l'età in cui non si obbedisce più a un ordine” .
A questa risposta mio padre impallidì.
“Va bene, signore”, riprese; “so quel che mi resta da fare”.
Suonò.
Apparve Joseph.
“Fa' trasportare i miei bagagli all'Hôtel de Paris”, disse al mio
domestico, e passò in camera sua, dove finì di vestirsi.
Quando rientrò, gli andai incontro.
“Mi promettete, padre mio”, gli dissi, "di non fare niente che possa
fare del male a Marguerite?".
Mio padre si fermò, mi guardò con disprezzo, e non mi rispose altro
che:
“Io penso che tu sia pazzo”.
Dopo di che, uscì chiudendo con violenza la porta. Uscii a mia volta,
fermai una carrozza e partii per Bougival.
Marguerite mi aspettava alla finestra.
“Finalmente!” gridò, saltandomi al collo. “Eccoti! Come sei pallido!”.
Allora le raccontai la scena con mio padre.
“Oh, Dio mio!, lo immaginavo” disse. "Quando Joseph è venuto ad
annunciarci l'arrivo di tuo padre, ho sobbalzato come alla notizia di
una disgrazia. Povero caro! e sono io a procurarti tutti questi
dispiaceri. Faresti forse meglio a lasciarmi, piuttosto che guastarti
con tuo padre. Eppure non gli ho fatto niente. Viviamo molto
tranquillamente, e ancora più tranquillamente vivremo. Egli sa bene
che devi avere un'amante, e dovrebbe essere contento che questa sia
io, dal momento che ti amo e non desidero più di quanto ti consenta la
tua posizione. Gli hai detto quello che abbiamo stabilito per
l'avvenire?".
"Sì, ed è stata la cosa che lo ha irritato di più, perché ha visto
nella nostra decisione la prova del nostro reciproco amore".
“Che faremo, allora?”.
"Resteremo insieme, mia dolce Marguerite, e lasceremo passare la
tempesta".
“Passerà?”.
“Per forza”.
“Ma tuo padre non si fermerà a questo”.
“Che vuoi che faccia?”.
"Come posso saperlo, io? tutto quello che un padre può fare per
costringere suo figlio a obbedirgli. Ti ricorderà il mio passato e mi
farà forse l'onore di inventare qualche nuova storia perché tu mi
abbandoni".
“Sai bene che ti amo”.
"Sì, ma so anche che bisogna, prima o poi, obbedire al proprio padre,
e tu finirai forse col lasciarti convincere".
"No, Marguerite, sarò io a convincere lui. Sono state le maldicenze di
qualche suo amico a provocare la sua collera; ma egli è buono e
giusto, e tornerà sulla sua prima impressione. E poi, dopo tutto, che
m'importa!".
"Non dire questo, Armand; preferirei qualsiasi cosa piuttosto che si
credesse che io ti metto contro la tua famiglia, lascia passare questa
giornata, e domani torna a Parigi. Tuo padre avrà riflettuto da parte
sua, come tu avrai riflettuto da parte tua, e forse vi capirete
meglio. Non urtare i suoi principi, abbi l'aria di fare qualche
concessione ai suoi desideri, fingi di non tenere tanto a me, e vedrai
che lascerà le cose come stanno. Spera, amico mio, e sii ben certo di
una cosa, e cioè che, qualsiasi cosa accada, Marguerite ti apparterrà
sempre".
“Me lo giuri?”.
“Ho forse bisogno di giurartelo?”.
Come è dolce lasciarsi convincere da una voce che si ama! Passammo
tutta la giornata a ripeterci i nostri progetti, come se ci fossimo
resi conto del bisogno di realizzarli più in fretta. Ci aspettavamo
qualche avvenimento da un momento all'altro, ma fortunatamente la
giornata passò senza che accadesse niente di nuovo.
L'indomani alle dieci partii, e arrivai verso mezzogiorno all'albergo.
Mio padre era già uscito.
Andai a casa mia, dove speravo che fosse andato. Nessuno. Andai dal
notaio. Nessuno!
Tornai all'albergo, e aspettai fino alle sei; mio padre non rientrò.
Ripresi allora la strada di Bougival.
Trovai Marguerite non più ad aspettarmi, come il giorno prima, ma
seduta accanto al fuoco, già acceso, data la stagione.
Era così immersa nelle sue riflessioni, che potei avvicinarmi alla sua
poltrona senza che mi sentisse. Appena appoggiai le labbra sulla sua
fronte, trasalì come se il mio bacio l'avesse svegliata di
soprassalto.
“Mi hai fatto paura” disse. “E tuo padre?”.
"Non l'ho visto. Non so che cosa possa significare. Non l'ho trovato
né a casa, né in alcun posto in cui era probabile che fosse".
“Allora, domani proverai di nuovo”.
"Avrei voglia di aspettare che mi mandi a chiamare. Ho fatto, credo,
tutto quel che dovevo".
"No, amico mio, non basta, bisogna che tu torni da tuo padre,
specialmente domani".
“Perché domani, piuttosto che un altro giorno?”.
“Perché”, rispose Marguerite, che mi sembrò arrossire un po' alla mia
domanda, "perché l'insistenza da parte tua sembrerà più viva e il
perdono per noi sarà più immediato". Per tutto il resto della
giornata, Marguerite fu preoccupata, distratta, triste. Ero costretto
a ripeterle due volte tutte le mie domande, per ottenere una risposta.
Attribuì la sua preoccupazione ai timori che gli avvenimenti che si
succedevano da due giorni le procuravano riguardo al nostro avvenire.
Passai la notte a rassicurarla, e l'indomani mi lasciò partire con una
insistente inquietudine che non riuscivo a spiegarmi.
Come il giorno prima, mio padre non c'era; ma, uscendo, mi aveva
lasciato questa lettera.
"Se oggi tornerai a cercarmi, aspettami fino alle quattro; se per
quell'ora non sarò rientrato, torna domani, e pranzeremo insieme: devo
parlarti".
Aspettai fino all'ora indicata; ma mio padre non tornò, e io me ne
andai.
Il giorno prima avevo trovato Marguerite triste, quel giorno la trovai
febbricitante e agitata. Vedendomi entrare, mi saltò al collo, ma
pianse a lungo fra le mie braccia.
La interrogai su quel dolore improvviso, la cui intensità mi
preoccupava; non mi diede nessuna risposta positiva, dicendo tutto
quello che può dire una donna quando non vuol dire la verità.
Quando si fu calmata un po', le dissi del risultato del mio viaggio e,
mostrandole la lettera di mio padre, le feci osservare che di sicuro
era per noi di buon augurio.
Quando vide la lettera e ascoltò le mie riflessioni, le sue lacrime
raddoppiarono, tanto che chiamai Nanine e insieme, per timore di un
attacco di nervi, la mettemmo a letto; piangeva senza dire una sola
parola, ma mi stringeva le mani, coprendole di baci.
Chiesi a Nanine se, durante la mia assenza, la padrona avesse ricevuto
una lettera o una visita che potessero spiegare lo stato in cui si
trovava, ma Nanine mi rispose che nessuno era venuto e che non era
stata portata nessuna lettera.
Ma non c'era nessun dubbio che dal giorno prima stesse accadendo
qualcosa, tanto più preoccupante in quanto Marguerite me lo teneva
nascosto.
In serata, sembrò calmarsi un po'; e, facendomi sedere ai piedi del
suo letto, mi rinnovò a lungo l'assicurazione del suo amore. Poi mi
sorrise, ma a fatica, perché aveva gli occhi velati, suo malgrado,
dalle lacrime.
Impiegai tutti i mezzi possibili per indurla a confessare la vera
ragione del suo dolore, ma lei si ostinò a darmi ancora le stesse
ragioni indefinite che vi ho detto prima.
Si addormentò infine fra le mie braccia, ma di quel sonno da cui il
corpo esce prostrato più che riposato; ogni tanto emetteva un grido,
si svegliava di soprassalto e, dopo essersi assicurata che io ero
accanto a lei, mi faceva giurare di amarla sempre.
Non riuscivo a capire niente di quell'agitazione che scompariva e
ritornava, e che si prolungò fino al mattino, quando finalmente
Marguerite cadde in una specie di torpore; non dormiva da due notti.
Ma il suo riposo fu di breve durata.
Verso le undici, Marguerite si svegliò e, vedendomi in piedi, gridò,
volgendo intorno lo sguardo.
“Vai già via?”.
“No” dissi prendendole le mani, "ma ho voluto lasciarti dormire. E'
ancora presto".
“A che ora vai a Parigi?”.
“Alle quattro”.
“Così presto? e prima starai con me, vero?”.
“Certo, non è sempre così?”.
“ Che gioia!”. E soggiunse, con aria distratta: “Facciamo colazione?”.
“Se vuoi”.
“E poi mi terrai ben stretta a te fino al momento di andartene?”.
“Sì, e tornerò il più presto possibile”.
“Tornerai?”, chiese, guardandomi con occhi smarriti.
“Certo”.
"Sì, tornerai stasera e io, come sempre, ti aspetterò, e tu mi amerai,
e saremo felici come lo siamo da quando ci conosciamo".
Tutte queste parole erano state pronunciate con una voce spezzata dai
singhiozzi, sembravano nascondere un costante pensiero doloroso, tanto
che temevo che da un momento all'altro Marguerite potesse cadere in
deliquio.
“Ascolta”, le dissi, "tu stai male, non posso lasciarti così. Vado a
scrivere a mio padre di non aspettarmi"
“No, no!”, gridò lei bruscamente, "non farlo. Tuo padre mi accuserebbe
anche di impedirti di andare da lui quando ha desiderio di vederti;
no, no, bisogna che tu ci vada, è necessario! D'altronde, io non sto
male, sto anzi benissimo. Ho solo fatto un brutto sogno, e non sono
ancora ben sveglia"
Da quel momento, Marguerite si sforzò di apparire più allegra. Non
pianse più.
Venuta l'ora della partenza, la baciai e le chiesi se voleva
accompagnarmi alla stazione: speravo che una passeggiata l'avrebbe
distratta, e che un po' d'aria le avrebbe fatto bene. Volevo
soprattutto restare con lei il più a lungo possibile.
Accettò, prese un mantello e mi accompagnò insieme con Nanine, per non
tornare a casa da sola. Per venti volte ebbi la tentazione di non
partire. Ma la speranza di tornare presto, e il timore che mio padre
potesse mettersi di nuovo contro di me, mi sostennero, e salii sul
treno.
“A stasera”, dissi a Marguerite nel salutarla.
Non mi rispose. Già una volta non aveva risposto a quella stessa
parola, e il conte de G..., come ricorderete, aveva passato la notte a
casa di lei; ma quel tempo era così lontano, che sembrava cancellato
dalla mia memoria, e se avevo qualche timore, non era più ormai quello
che Marguerite mi tradisse.
Appena fui arrivato a Parigi, mi precipitai da Prudence per pregarla
di andare a trovare Marguerite, sperando che la sua vivacità e la sua
allegria l'avrebbero distratta.
Entrai senza farmi annunciare, e trovai Prudence che si abbigliava.
“Ah!”, mi disse, con fare preoccupato. “Marguerite è con voi?”.
“No”.
“Come sta?”.
“Sta poco bene”.
“Non verrà?”.
“Doveva venire?”.
Madame Duvernoy arrossì, e mi rispose, con un certo imbarazzo:
"Volevo dire, poiché siete venuto a Parigi, non verrà a
raggiungervi?".
“No”.
Guardai Prudence; abbassò gli occhi, e mi parve di leggere sul suo
viso il timore che la mia visita si prolungasse.
"Sono venuto anche a pregarvi, cara Prudence, di venire stasera a far
visita a Marguerite, se non avete altro da fare; potreste tenerle
compagnia, e dormire da noi. Non l'ho mai vista come oggi, e temo che
mi si ammali".
“Stasera pranzerò fuori”, rispose Prundence, "e non potrò vedere
Marguerite, ma la vedrò domani".
Mi congedai da madame Duvernoy, che mi sembrò preoccupata quasi quanto
Marguerite, e andai da mio padre il quale, fin dal primo sguardo,
prese a scrutarmi con attenzione.
Mi tese la mano.
“Le tue due visite mi hanno fatto piacere, Armand”, mi disse; "mi
hanno fatto sperare che avresti riflettuto da parte tua, come io ho
riflettuto da parte mia".
"Posso permettermi di domandarvi, padre mio, quale sia stato il
risultato delle vostre riflessioni?".
"E' stato, mio caro, che avevo esagerato l'importanza dei racconti che
mi avevano fatto, e mi sono ripromesso di essere meno severo con te".
“Che dite, padre mio!”, gridai con gioia.
"Dico, figliuolo caro, che bisogna bene che un giovanotto abbia
un'amante, e che, in seguito a recenti informazioni, preferisco che la
tua amante sia mademoiselle Gautier piuttosto che un'altra".
“Padre mio, siete tanto buono! quanto mi rendete felice!”.
Discorremmo così per qualche minuto, poi ci mettemmo a tavola. Mio
padre fu affettuosissimo per tutto il tempo. Avevo fretta di tornare a
Bougival per raccontare a Marguerite di questo felice mutamento.
Guardavo l'orologio continuamente.
“Tu guardi l'ora”, disse mio padre, "hai fretta di lasciarmi. Oh, i
giovani; sacrificherete dunque sempre gli affetti sinceri ad amori
dubbi?".
“Non dite così! Marguerite mi ama, ne sono certo”.
Mio padre non rispose; non sembrava né dubitare, né credere.
Insisté molto perché passassi tutta la serata con lui, e non partissi
che l'indomani; ma avevo lasciato Marguerite sofferente, glielo dissi,
e gli chiesi il permesso di andare da lei presto, promettendo di
tornare il giorno seguente.
Era bel tempo; volle accompagnarmi fino alla stazione. Non ero mai
stato così felice. L'avvenire mi sembrava ora proprio come da tempo lo
desideravo. Amavo mio padre più di quanto non l'avessi mai amato.
Mentre stavo per partire, insisté ancora una volta perché restassi, ma
rifiutai.
“L'ami tanto, dunque?”, mi disse.
“Follemente”.
“Va', allora!”, e si passò la mano sulla fronte come per cacciar via
un pensiero, poi aprì la bocca come se volesse dirmi qualcosa; ma si
limitò a stringermi la mano, per allontanarsi poi bruscamente,
esclamando:
“Allora, a domani”.
Mi sembrava che il treno non si muovesse. Arrivai a Bougival alle
undici.
Non una finestra era illuminata; suonai senza che nessuno mi
rispondesse.
Era la prima volta che questo mi succedeva. Finalmente comparve il
giardiniere. Entrai.
Nanine mi venne incontro reggendo una lampada. Andai nella camera di
Marguerite.
“Dov'è la signora?”.
“E' partita per Parigi”, mi rispose Nanine.
“Per Parigi!”.
“Sì, signore”.
“Quando?” .
“Un'ora dopo di voi”.
“Non vi ha detto niente per me?”.
“Nulla” .
Nanine uscì.
“Può darsi che abbia avuto dei dubbi”, pensai, "e che sia andata a
Parigi per assicurarsi se la visita che, a quanto le avevo detto,
avrei fatto a mio padre, non fosse un pretesto per avere un giorno di
libertà.
“Forse Prudence le avrà scritto per qualche affare importante”, mi
dissi appena fui solo; ma avevo visto Prudence al mio arrivo, e non mi
aveva detto niente che potesse farmi pensare che aveva scritto a
Marguerite.
All'improvviso mi ricordai di quella domanda che madame Duvernoy mi
aveva fatta quando le avevo detto che Marguerite non stava bene:
“Allora, non verrà, oggi?”. Mi ricordai anche dell'imbarazzo di
Prudence, quando l'avevo guardata dopo quella frase che sembrava
tradire un appuntamento. A questo ricordo si aggiungeva quello del
pianto di Marguerite durante tutta la giornata, pianto che la buona
accoglienza di mio padre mi aveva fatto dimenticare un po'. Da quel
momento, tutti i fatti della giornata vennero a raggrupparsi intorno
al mio primo sospetto, e lo fissarono così saldamente nel mio animo,
che ogni cosa sembrava esserne la conferma, anche la bontà di mio
padre.
Marguerite aveva quasi preteso che io andassi a Parigi, aveva finto la
calma quando le avevo proposto di restare con lei. Ero forse caduto in
un tranello? Marguerite mi tradiva? aveva forse fatto conto di tornare
in tempo perché io non mi accorgessi della sua assenza, e il caso
l'aveva trattenuta? perché non aveva detto niente a Nanine, e perché
non mi aveva scritto? Che significavano quelle lacrime, quell'assenza,
quel mistero?
Ecco che cosa mi domandavo, pieno di sgomento, in mezzo a quella
stanza vuota, gli occhi fissi sulla pendola che segnava la mezzanotte,
e che sembrava con ciò dirmi che era troppo tardi perché potessi
sperare che la mia amante tornasse.
Eppure, dopo le decisioni che avevamo prese, con il sacrificio offerto
e accettato, era verosimile che mi tradisse? No. Cercavo di respingere
i miei primi sospetti.
Poverina, avrà trovato un acquirente per i suoi mobili, e sarà andata
a Parigi per concludere. Non ha voluto avvertirmi perché sa che,
benché io accetti questa vendita, necessaria alla nostra felicità
futura, tuttavia è penosa, e avrà temuto di ferire il mio amor proprio
e la mia delicatezza parlandomene. Preferisce tornare soltanto a cose
fatte. Prudence l'aspettava evidentemente per questo, e si è tradita
davanti a me. Marguerite non avrà potuto concludere le sue trattative
oggi, e sarà rimasta a dormire da lei, o fors'anche sta per arrivare,
perché certo si preoccuperà della mia inquietudine e non vorrà certo
lasciarmici.
Ma allora, perché quei pianti? Senza dubbio, poverina, malgrado il suo
amore per me, non avrà potuto fare a meno di piangere nell'abbandonare
il lusso nel quale ha finora vissuto e che la rendeva felice e
invidiata.
Perdonai molto volentieri a Marguerite i suoi rimpianti. L'attendevo
con impazienza per dirle, coprendola di baci, che avevo indovinato il
motivo della sua misteriosa assenza.
Tuttavia la notte diventava più profonda, e Marguerite non tornava.
L'ansia andava stringendo a poco a poco la sua morsa serrandomi la
testa e il cuore. Forse le era successo qualcosa! Forse era malata,
ferita, morta! Forse sarebbe arrivato un messaggio con l'annuncio di
qualche dolorosa sciagura! Forse il giorno mi avrebbe trovato nella
stessa incertezza e negli stessi timori!
L'idea che Marguerite mi ingannasse proprio nel momento in cui la
stavo aspettando, in preda al terrore causatomi dalla sua assenza, non
mi veniva più in mente. Doveva essere una ragione indipendente dalla
sua volontà a tenerla lontana da me, e più ci pensavo, più mi
convincevo che questa ragione non poteva essere che una qualche
disgrazia. O vanità dell'uomo! ti manifesti sotto tutte le forme.
Era suonata l'una. Mi riproposi di aspettare ancora un'ora, ma se alle
due Marguerite non fosse ancora tornata, sarei partito per Parigi.
In attesa, cercai un libro, perché non avevo il coraggio di mettermi a
pensare.
Manon Lescaut era aperto sulla tavola. Mi sembrò che qua e là le
pagine fossero bagnate di lacrime. Dopo averlo sfogliato, richiusi
quel libro i cui caratteri mi sembravano privi di senso, attraverso il
velo dei dubbi.
Il tempo passava lentamente. Il cielo era coperto. Una pioggia
autunnale batteva sui vetri. Mi sembrava che il letto vuoto assumesse
di tanto in tanto l'aspetto di una tomba. Avevo paura.
Aprii la porta. Rimasi in ascolto, ma non sentii che il mormorio del
vento tra gli alberi. Non una carrozza. L'una e mezzo suonò
tristemente al campanile della chiesa.
Ero arrivato a temere che entrasse qualcuno. Mi sembrava che solo una
disgrazia potesse venirmi a trovare a quell'ora e in quell'oscurità.
Suonarono le due. Aspettai ancora un po'. Solo la pendola rompeva il
silenzio col suo tic tac monotono e cadenzato.
Alla fine, uscii da quella stanza, i cui piccoli oggetti avevano il
triste aspetto assunto da tutto ciò che circonda l'inquieta solitudine
del cuore.
Trovai nella stanza accanto Nanine addormentata sul ricamo. Al rumore
della porta, si svegliò e mi chiese se la padrona fosse rientrata.
"No, ma se rientrasse, ditele che non ho saputo resistere alla
preoccupazione e sono andato a Parigi"
“A quest'ora?”.
“Sì”.
“Ma in che modo? non troverete nessuna carrozza”.
“Andrò a piedi”.
“Ma piove”.
“E che m'importa?”.
"La signora tornerà, e se non torna, ci sarà sempre tempo, domani, per
andare a vedere che cosa l'abbia trattenuta. Voi volete farvi
assassinare sulla strada".
“Non c'è pericolo, cara Nanine; a domani”.
La brava figliuola andò a prendermi il mantello, me lo gettò sulle
spalle e si offrì di andare a svegliare madame Arnoud per chiederle se
era possibile trovare una carrozza; ma io mi opposi, convinto che in
quel tentativo, forse infruttuoso avrei perso più tempo di quanto ne
avrei impiegato a percorrere metà della strada.
E poi avevo bisogno d'aria e di fatica fisica, che placassero la
sovreccitazione alla quale ero in preda.
Presi la chiave dell'appartamento di rue d'Antin e, dopo aver salutato
Nanine, che mi aveva accompagnato al cancello, mi incamminai.
Dapprima andai di corsa, ma la terra era umida e mi stancai
doppiamente. Dopo mezz'ora di corsa fui costretto a fermarmi, ero
tutto bagnato. Ripresi fiato e proseguii il mio cammino. La notte era
così fitta, che temevo sempre di sbattere contro uno degli alberi
della strada i quali, presentandosi improvvisamente ai miei occhi,
avevano l'aspetto di immensi fantasmi che mi corressero incontro.
Incontrai una o due vetture di carrettieri che presto mi lasciai
indietro.
Un calesse si dirigeva al gran trotto verso Bougival. Nel momento in
cui mi passò davanti, ebbi la speranza che dentro ci fosse Marguerite.
Mi fermai, gridando: “Marguerite! Marguerite!”. Ma nessuno mi rispose,
e il calesse continuò la sua corsa. Lo guardai allontanarsi, e
ripartii.
In due ore giunsi alla barriera dell'Etoile.
La vista di Parigi mi rincuorò, e discesi correndo il lungo viale che
avevo tante volte percorso. Quella notte era deserto. Sembrava la
passeggiata di una città morta.
Il giorno cominciava a spuntare. Quando arrivai a rue d'Antin, la
grande città cominciava a scuotersi un po', prima di svegliarsi del
tutto.
Suonarono le cinque alla chiesa di Saint-Roch, nel momento stesso in
cui entravo nella casa di Marguerite.
Dissi il mio nome al portiere, che con parecchie monete da venti
franchi convinsi del mio diritto di salire alle cinque del mattino da
mademoiselle Gautier. Passai dunque senza ostacoli.
Avrei potuto chiedergli se Marguerite era in casa, ma avrebbe potuto
rispondermi di no, e preferii dubitare due minuti di più, perché
dubitando speravo ancora.
Accostai l'orecchio alla porta, cercando di sorprendere un rumore, un
movimento.
Nulla. Il silenzio della campagna sembrava essersi prolungato fin lì.
Aprii la porta, ed entrai.
Tutte le tende erano accuratamente tirate. Aprii quella della sala da
pranzo, e mi diressi verso la camera da letto, della quale spinsi la
porta.
Corsi al cordone delle tende e lo tirai violentemente. Le tende si
aprirono; una debole luce entrò, e corsi verso il letto.
Era vuoto!
Aprii le porte, l'una dopo l'altra, guardai in tutte le stanze.
Nessuno.
C'era da impazzire.
Passai nello spogliatoio, aprii la finestra, e chiamai più volte
Prudence.
La finestra di madame Duvernoy restò chiusa. Scesi allora dal
portiere, e gli chiesi se mademoiselle Gautier era venuta a casa
durante il giorno. “Sì”, mi rispose, “con madame Duvernoy”.
“Non vi ha detto niente per me?”.
“Nulla”.
“Sapete che cosa hanno fatto dopo?”.
“Sono salite in carrozza”.
“Che carrozza?”.
“Un coupé privato”.
Cosa poteva significare tutto ciò?
Suonai alla porta accanto.
“Dove andate, signore?”, mi chiese il portiere dopo avermi aperto.
“Da madame Duvernoy”.
“Non è tornata”.
“Ne siete certo?”.
"Sì, signore; anzi, ecco una lettera che hanno portato per lei ieri
sera e che non ho ancora avuto il modo di consegnarle".
E mi mostrò una lettera sulla quale gettai meccanicamente lo sguardo.
Riconobbi la scrittura di Marguerite.
Presi la lettera. Sull'indirizzo era scritto: "A madame Duvernoy, da
consegnare a monsieur Duval".
“Questa lettera è per me”, dissi al portiere, mostrandogli
l'indirizzo.
“Siete voi monsieur Duval?”, mi domandò.
“Sì”.
“Ah, vi riconosco, voi venite spesso da madame Duvernoy”.
Quando fui per la strada, spezzai i sigilli della lettera. Se un
fulmine mi fosse caduto ai piedi, avrei provato meno terrore di quanto
ne provai leggendo quelle parole. "Quando leggerete questa lettera,
Armand, io sarò diventata l'amante di un altro. Tutto è dunque finito
tra noi. Tornate da vostro padre, amico mio, andate a rivedere vostra
sorella, giovinetta casta e ignara di tutte le bassezze del mondo,
accanto alla quale dimenticherete ben presto quel che vi ha fatto
soffrire questa donna perduta che chiamano Marguerite Gautier, che vi
siete degnato di amare per un poco, e che vi è debitrice dei soli
momenti felici di una vita che lei adesso spera non debba durare più a
lungo".
Dopo aver letto queste ultime parole, credetti di impazzire.
Per un istante ebbi veramente paura di stramazzare sul selciato. Una
nube mi pesava sugli occhi, e il sangue mi batteva nelle tempie.
Finalmente mi ripresi, e mi guardai intorno, sbalordito nel vedere che
la vita degli altri continuava senza fermarsi davanti alla mia
sventura.
Non ero abbastanza forte da sopportare da solo il colpo che Marguerite
mi aveva inferto. Mi ricordai allora che mio padre era in città, che
in dieci minuti avrei potuto essere da lui e che, qualunque fosse
stata la ragione del mio dolore, egli l'avrebbe condivisa.
Corsi come un pazzo, come un ladro, fino all'Hôtel de Paris: trovai la
chiave sulla porta dell'appartamento di mio padre. Entrai.
Egli stava leggendo e si mostrò così poco stupito nel vedermi entrare,
che si sarebbe detto che mi aspettasse.
Mi precipitai tra le sue braccia, senza una parola, gli porsi la
lettera di Marguerite e, lasciandomi cadere accanto al suo letto,
piansi a calde lacrime.
Quando tutte le cose della vita ebbero ripreso il loro andamento, non
riuscii a credere che il giorno che nasceva non sarebbe stato, per me,
simile a quelli che lo avevano preceduto. C'erano dei momenti in cui
mi immaginavo che una qualche circostanza, che non ricordavo, mi
avesse fatto passare la notte lontano da Marguerite, ma che, se fossi
tornato a Bougival, l'avrei ritrovata, ansiosa come lo ero stato io,
pronta a chiedermi che cosa mi avesse tenuto lontano da lei.
Quando la vita ha preso un'abitudine come quella dell'amore, sembra
impossibile che questa abitudine si rompa senza spezzare nello stesso
tempo tutte le altre molle della vita.
Per convincermi, dunque, di non aver sognato, ero obbligato a
rileggere di tanto in tanto la lettera di Marguerite.
Il mio corpo, prostrato da quella scossa morale, era incapace di
muoversi. L'inquietudine, la marcia notturna, la notizia di quella
mattina, mi avevano distrutto. Mio padre approfittò di
quell'indebolimento totale delle mie forze per chiedermi una formale
promessa che sarei partito con lui.
Promisi tutto quanto mi chiese. Ero incapace di sostenere una
discussione, e avevo bisogno di un affetto vero che mi aiutasse a
vivere dopo ciò che era successo.
Ero troppo felice che mio padre volesse consolarmi di un simile
dispiacere.
Di quel giorno ricordo solo che, verso le cinque, mi fece salire con
lui su una diligenza. Senza dirmi niente, aveva fatto preparare i miei
bagagli, li aveva fatti sistemare assieme ai suoi dietro la vettura, e
mi portava via.
Non mi accorsi di quello che facevo che quando la città fu scomparsa,
e la solitudine della strada mi ricordò il vuoto del mio cuore.
Allora le lacrime ricominciarono a sgorgare.
Mio padre aveva capito che le parole, anche se provenienti da lui, non
mi avrebbero consolato, e mi lasciò piangere senza dirmi niente,
limitandosi a stringermi la mano di tanto in tanto, come a ricordarmi
che vicino a me avevo un amico.
La notte, riuscii a dormire un po'. Sognai di Marguerite.
Mi svegliai di soprassalto, non comprendendo perché mai mi trovassi in
una carrozza.
Poi la realtà mi tornò alla mente e lasciai cadere la testa sul petto.
Non osavo rivolgere la parola a mio padre, temendo sempre che mi
dicesse: "Vedi, avevo ragione quando rifiutavo di credere all'amore di
quella donna".
Ma egli non approfittò della sua posizione di vantaggio, e arrivammo a
C... senza che mi avesse detto altro che parole del tutto estranee
all'avvenimento che aveva determinato la mia partenza.
Quando abbracciai mia sorella, mi ricordai le parole della lettera di
Marguerite che la riguardavano, ma capii subito che per quanto buona
fosse, mia sorella non avrebbe potuto farmi dimenticare la mia amante.
La caccia era aperta; mio padre pensò che sarebbe stata per me una
distrazione, e organizzò delle battute con i vicini e gli amici. Vi
prendevo parte senza avversione, ma anche senza entusiasmo, con quella
sorta di apatia che era tipica di tutte le mie azioni da quando ero
partito.
Si cacciava in battuta. Mi facevano appostare, posavo accanto a me il
fucile scarico, e sognavo. Guardavo le nuvole che passavano, lasciavo
che il pensiero vagasse nella pianura deserta; di tanto in tanto mi
sentivo chiamare da qualche cacciatore che mi indicava una lepre, a
dieci passi da me.
Nessuno di questi particolari sfuggiva a mio padre, che non si
lasciava ingannare dalla mia calma apparente. Capiva bene che il mio
cuore, sebbene abbattuto, avrebbe avuto un giorno una reazione
terribile, forse anche pericolosa, e, cercando di consolarmi senza
parere, faceva il possibile per distrarmi.
Mia sorella, naturalmente, non era a conoscenza di niente, e quindi
non sapeva spiegarsi perché io, una volta così allegro, fossi
improvvisamente diventato così pensieroso e triste.
A volte, sorpreso nel pieno della tristezza dallo sguardo ansioso di
mio padre, gli prendevo la mano, stringendogliela come per chiedergli
silenziosamente perdono del male che mio malgrado gli facevo.
Passò così un mese, ma ero ormai stremato.
Il ricordo di Marguerite mi perseguitava incessantemente. Avevo troppo
amato quella donna, e l'amavo troppo perché potesse diventarmi
indifferente da un giorno all'altro. Bisognava che la amassi, o che la
odiassi. Bisognava soprattutto, qualunque fosse il sentimento che
provavo per lei, che la rivedessi, e al più presto.
Questo desiderio mi entrò nell'animo e vi si stabilì con tutta la
violenza della volontà, che finalmente tornava nel mio corpo rimasto
troppo a lungo inerte.
Non era nel futuro, tra un mese, tra otto giorni, che volevo
Marguerite, la volevo subito, non appena avevo presa quella decisione,
e così dissi a mio padre che sarei partito per degli affari che
richiedevano la mia presenza a Parigi, ma che sarei tornato al più
presto.
Egli indovinò, certo, il motivo della mia partenza, e insisté perché
restassi; ma comprendendo che se non avessi soddisfatto il mio
desiderio, nello stato di agitazione in cui mi trovavo, la cosa mi
sarebbe stata fatale, mi abbracciò, e mi pregò, con le lacrime agli
occhi, di tornare presto da lui.
Finché non fui giunto a Parigi, non riuscii a chiudere occhio.
Una volta arrivato, che cosa avrei fatto? non lo sapevo; ma bisognava
che per prima cosa mi occupassi di Marguerite.
Andai a vestirmi a casa mia, e siccome era bel tempo, e l'ora era
adatta, andai agli Champs-Elysées.
Dopo una mezz'ora, vidi da lontano, dal rond-point a place de la
Concorde, la carrozza di Marguerite.
Aveva ricomprato i cavalli, perché la vettura era come prima; ma lei
non c'era.
Avevo appena notato la sua assenza quando, guardandomi intorno, vidi
Marguerite che avanzava a piedi, in compagnia di una donna a me
sconosciuta. Passandomi accanto, impallidì, e un sorriso nervoso le
increspò le labbra. Quanto a me, un violento battito del cuore mi
lacerò il petto, ma riuscii ad assumere un'espressione indifferente, e
salutai freddamente la mia vecchia amante, che quasi subito raggiunse
la carrozza, nella quale salì con l'amica.
Conoscevo Marguerite. Quell'incontro inaspettato doveva averla
sconvolta. Senza dubbio aveva saputo della mia partenza, e certo si
era tranquillizzata per gli eventuali strascichi della nostra rottura;
ma vedendo che ero tornato, e trovandosi faccia a faccia con me,
pallido come ero, aveva capito che il mio ritorno doveva avere uno
scopo, e doveva chiedersi che cosa sarebbe accaduto.
Se avessi trovato Marguerite in cattive acque, se, per vendicarmi di
lei, avessi potuto soccorrerla, le avrei forse perdonato e non avrei
certo pensato a farle del male; ma la ritrovavo felice, almeno in
apparenza; un altro le aveva restituito quel lusso che io non avevo
potuto mantenerle; la nostra rottura, determinata da lei, veniva così
ad assumere il carattere della più bassa venalità, ero umiliato
nell'amor proprio e nell'amore, e bisognava assolutamente che lei
scontasse quello che avevo sofferto.
Non potevo restare indifferente davanti alla vita che conduceva; di
conseguenza, ciò che doveva ferirla maggiormente era la mia
indifferenza; era dunque questo sentimento che avrei dovuto fingere,
non solo davanti a lei, ma anche davanti agli altri.
Cercai di assumere un aspetto allegro, e andai da Prudence.
La cameriera andò ad annunciarmi, e mi fece aspettare per qualche
istante nel salone.
Alla fine apparve madame Duvernoy, e mi introdusse nel salottino;
mentre mi sedevo, sentii la porta del salone che si apriva, e un passo
leggero che faceva scricchiolare il pavimento, poi la porta d'ingresso
fu chiusa con violenza.
“Vi disturbo?”, chiesi a Prudence.
"Per niente. C'era Marguerite; quando ha sentito che eravate qui, è
fuggita: è lei che è uscita".
“Dunque, ha paura di me, adesso?”.
“No, ma teme che vi dispiaccia vederla”.
“E perché mai?”, dissi facendo uno sforzo per respirare liberamente,
soffocato com'ero dall'emozione, "poverina, mi ha lasciato per riavere
la sua carrozza, i suoi mobili, i suoi gioielli: ha fatto bene, e io
non ho il diritto di volergliene Oggi l'ho incontrata", aggiunsi con
finta indifferenza.
“Dove?”, chiese Prudence, che mi scrutava e sembrava chiedersi se
l'uomo che aveva di fronte fosse proprio quello che aveva conosciuto
così innamorato.
"Agli Champs-Elysées, era con un'altra donna, molto carina. Sapete chi
è?".
“Descrivetemela”.
“Bionda, sottile, boccoli, occhi azzurri, elegantissima”.
“Ah! è Olympe. Una bellissima figliuola, infatti”.
“Con chi vive?”.
“Con nessuno, e con tutti”.
“E abita?”.
“In rue Tronchet... Ah, volete dunque farle la corte?”.
“Non si sa mai”.
“E Marguerite?”.
"Se vi dicessi che non penso più a lei, mentirei, ma sono uno di
quegli uomini per i quali il modo in cui vengono lasciati ha molta
importanza. Ora, Marguerite mi ha detto addio così leggermente, che mi
considero uno sciocco ad averla amata tanto: perché l'ho veramente
amata moltissimo.
Potete indovinare con che tono cercassi di dire queste cose: avevo la
fronte madida di sudore.
"Lei vi amava tanto, credetemi, e vi ama ancora: prova ne sia che
appena vi ha incontrato si è precipitata qui per raccontarmelo. E'
arrivata tutta tremante, sull'orlo dello svenimento".
“E che cosa vi ha detto?”.
"Mi ha detto: 'Certo verrà a trovarti', e mi ha pregato di implorare
per lei il vostro perdono".
"Potete dirle che l'ho perdonata. E' una brava ragazza, ma è pur
sempre una donna, e ciò che mi ha fatto dovevo aspettarmelo. Le sono
grato della sua decisione, perché oggi mi domando a che cosa ci
avrebbe condotti la mia idea di vivere per sempre con lei. Era pura
follia".
"Sarà ben contenta di sapere che vi siete reso conto che doveva
lasciarvi. Era ora che vi lasciasse, caro mio. L'usuraio al quale
aveva proposto l'acquisto dei mobili era andato a trovare i suoi
creditori per sapere a quanto ammontasse il loro credito; questi erano
rimasti impressionati, e volevano far vendere tutto tra due giorni".
“E adesso, sono stati pagati?”.
“Quasi del tutto”.
“E chi ha anticipato il denaro?”.
"Il conte de N... Ah, caro mio, ci sono degli uomini fatti apposta per
queste cose. Per farla breve, lui le ha dato ventimila franchi: ma è
arrivato dove voleva. Sa bene che Marguerite non lo ama, ma questo non
gli impedisce di essere gentile con lei. Avete visto, le ha ricomprato
i cavalli, ha riscattato i suoi gioielli, e le dà tanto denaro quanto
gliene dava il duca; se vorrà vivere tranquillamente, quest'uomo le
sarà vicino per un pezzo".
“E che cosa fa? abita sempre a Parigi?”.
"Non ha mai voluto tornare a Bougival dopo la vostra partenza. Sono
andata io a riprendere tutta la sua roba, e anche la vostra, di cui ho
fatto un pacco che è a vostra disposizione. C'è tutto, tranne un
piccolo portafoglio con le vostre cifre. Marguerite ha voluto
prenderlo, e lo ha lei. Se ci tenete, glielo chiederò".
“Lo tenga pure”, balbettai, sentendo le lacrime affluirmi dal cuore
agli occhi al ricordo di quel villaggio dove ero stato così felice, al
pensiero che Marguerite tenesse a conservare per mio ricordo una cosa
che mi apparteneva.
Se in quel momento fosse entrata, ogni mio proposito di vendetta
sarebbe caduto, e mi sarei gettato ai suoi piedi.
“Del resto”, continuò Prudence, "non l'ho mai vista come adesso: non
dorme quasi più, corre a tutti i balli, cena fuori, si ubriaca
perfino. Ultimamente, dopo una cena, è rimasta a letto per otto
giorni; e quando il medico le ha permesso di alzarsi, ha ricominciato
daccapo, rischiando di morire. Andrete a trovarla?".
"A che scopo? Sono venuto a trovare voi, perché siete stata sempre
tanto gentile con me, e perché vi conoscevo prima di conoscere
Marguerite. E' merito vostro se sono stato il suo amante, come è
merito vostro se non lo sono più: non è vero?".
"Oh! perbacco, ho fatto tutto quanto era in me perché vi lasciasse, e
credo che, un giorno, non mi nutrirete più rancore per me".
“Ve ne sono doppiamente grato”, soggiunsi, alzandomi "perché quella
donna cominciava a venirmi a noia, col suo prendere sul serio tutto
quello che le dicevo".
“Ve ne andate?”.
“Sì”.
Ne sapevo abbastanza.
“Quando vi si rivedrà?”.
“Presto. Addio”.
“Addio”.
Prudence mi accompagnò alla porta, e io tornai a casa, con le lacrime
della rabbia negli occhi e un bisogno di vendetta.
Così, Marguerite era proprio come le altre; così quell'amore profondo
che aveva per me non aveva superato il desiderio di riprendere la vita
passata, non aveva vinto la smania di avere una carrozza e di darsi
alle orge.
Ecco che cosa dicevo a me stesso, tormentato dall'insonnia, mentre, se
avessi riflettuto con quella stessa freddezza che andavo ostentando,
avrei visto in quella nuova chiassosa esistenza di Marguerite la sua
speranza di far tacere un pensiero continuo, un incessante ricordo.
Purtroppo, la passione mi accecava, e non facevo che cercare un mezzo
col quale torturare quella povera creatura.
Oh! l'uomo è ben meschino e vile quando una delle sue intime passioni
è ferita.
Quella Olympe, con la quale avevo visto Marguerite, era se non la sua
amica almeno colei che lei frequentava di più da quando era tornata a
Parigi. Seppi che stava per dare un ballo, e poiché pensavo che ci
sarebbe andata anche Marguerite, cercai di ottenere un invito, e ci
riuscii.
Quando, in preda a una dolorosa emozione, arrivai a quel ballo, c'era
già molta animazione. Si ballava, si gridava, e in una quadriglia,
vidi Marguerite col conte de N... che sembrava molto orgoglioso di
mostrarla, e sembrava dire a tutti “Questa donna è mia!”. Mi appoggiai
al caminetto, proprio di fronte a Marguerite, e la guardai ballare.
Appena mi vide si turbò. La guardai e la salutai distrattamente, con
un cenno della mano e degli occhi.
Se pensavo che, dopo il ballo, non sarebbe andata via con me, ma con
quel ricco idiota, se mi immaginavo quello che sarebbe certamente
successo al loro ritorno a casa di lei, il sangue mi saliva al viso, e
sentivo il bisogno di turbare i loro amori.
Dopo la contraddanza, andai a salutare la padrona di casa, che
esponeva allo sguardo degli invitati le sue magnifiche spalle e la
metà di un seno splendente.
Era bella, forse più bella di Marguerite. Lo capii ancora meglio da
certi sguardi che quest'ultima lanciava a Olympe mentre io le parlavo.
L'uomo che sarebbe stato l'amante di quella donna poteva essere
orgoglioso quanto monsieur de N..., e lei era tanto bella da ispirare
una passione pari a quella che Marguerite mi aveva ispirata.
In quel momento non aveva un amante. Non sarebbe stato difficile
diventarlo. Sarebbe bastato mostrarle tanto oro da costringerla ad
accorgersi di me. Presi una decisione. Quella donna sarebbe stata la
mia amante.
Cominciai la parte di corteggiatore ballando con Olympe.
Mezz'ora dopo, Marguerite, pallida come una morta, indossava il
mantello e lasciava la festa.
Era già molto, ma non abbastanza. Avevo capito quale ascendente avessi
su quella donna, e ne abusavo vilmente.
Quando penso che ormai non c'è più, mi chiedo se Dio mi perdonerà mai
il male che ho fatto.
Dopo il pranzo, allegro e rumoroso, si giocò.
Mi sedetti accanto a Olympe e puntai ii denaro con tanta noncuranza,
che lei non poté fare a meno di prestare attenzione. In un attimo,
vinsi centocinquanta o duecento luigi, che sistemai davanti a me, e
sui quali lei fissò uno sguardo ardente.
Ero il solo a non essere completamente assorto nel gioco e a occuparmi
di lei. Per tutta la notte vinsi, e le diedi anche del denaro per
giocare, poiché aveva perso tutta la sua posta, che era probabilmente
tutto quanto possedeva.
Alle cinque la sala si vuotò.
Avevo vinto trecento luigi.
Tutti i giocatori erano già scesi, e io solo ero rimasto indietro,
senza che nessuno se ne accorgesse, perché non ero amico di nessuno
dei presenti.
Olympe stessa faceva luce sulle scale, e io stavo per scendere, come
gli altri, quando, tornando verso di lei, le dissi:
“Devo parlarvi”.
“Domani”, rispose.
“No, subito”.
“Che cosa avete da dirmi?”.
“Lo vedrete”.
E rientrai.
“Avete perduto”, le dissi.
“Sì”.
“Tutto quanto avevate in casa?”.
Esitò.
“Siate sincera”.
“Ebbene, è vero”.
"Io ho vinto trecento luigi, eccoli, purché mi consentiate di
rimanere".
"No, perché amate Marguerite, e volete vendicarvi di lei diventando il
mio amante. Non si inganna una donna come me, mio caro; purtroppo sono
ancora troppo giovane e troppo bella da accettare la parte che mi
proponete".
“Dunque, rifiutate?”.
“Sì”.
"Preferite amarmi senza interesse? Allora sarei io a non volerlo.
Riflettete, cara Olympe; se vi avessi mandato un altro a offrirvi i
trecento luigi da parte mia alle condizioni che vi ho detto, avreste
accettato. Ma ho preferito trattare la cosa direttamente. Accettate
senza cercare di sapere le cause che mi hanno spinto ad agire così;
dite a voi stessa che siete bella, e che non c'è niente di strano nel
fatto che io sia innamorato di voi".
Marguerite era una mantenuta, come Olympe, e tuttavia non avrei mai
osato dirle, la prima volta che l'avevo vista, quello che avevo detto
a questa donna. Era perché amavo Marguerite, avevo indovinato in lei
istinti che all'altra mancavano, e nel momento stesso in cui proponevo
quel mercato, quella con cui stavo per concluderlo, nonostante la sua
bellezza, mi disgustava.
Alla fine, naturalmente, accettò, e divenni il suo amante; uscii di
casa sua l'indomani a mezzogiorno, ma lasciai il suo letto senza
ricordare affatto le carezze e le parole d'amore che si era creduta in
dovere di prodigarmi in cambio dei seimila franchi che le lasciavo.
E tuttavia, alcuni si erano rovinati per quella donna.
Da quel giorno, la mia persecuzione nei confronti di Marguerite non
ebbe sosta. Olympe e lei smisero di vedersi, capite bene perché.
Regalai alla mia nuova amante una carrozza, dei gioielli, giocai, feci
infine tutte le pazzie che avrebbe fatto chiunque fosse stato
innamorato di una donna come Olympe. L'eco della mia nuova relazione
si diffuse ovunque.
La stessa Prudence ci cadde, e finì col credere che io avessi
completamente dimenticato Marguerite. Quest'ultima, sia che avesse
indovinato il motivo che mi faceva agire, sia che si ingannasse come
gli altri, reagiva con grande dignità alle ferite che ogni giorno le
procuravo.
Però, mi pareva che soffrisse, perché, dovunque la incontrassi, la
vedevo sempre più pallida, sempre più triste. Il mio amore per lei,
esaltato al punto da rassomigliare all'odio, gioiva alla vista di quel
dolore quotidiano. Più volte, in circostanze nelle quali la mia
crudeltà fu infame, Marguerite alzò su di me degli sguardi così
supplichevoli da farmi arrossire della parte che avevo assunto, e fui
sul punto di chiederle scusa.
Ma questi pentimenti non duravano che un istante, e Olympe, che aveva
finito col far tacere ogni sorta di amor proprio, e che aveva capito
che facendo del male a Marguerite avrebbe ottenuto da me tutto ciò che
voleva, mi eccitava continuamente contro l'altra, e non trascurava
occasione d'insultarla, con la persistente vigliaccheria della donna
che ha un uomo dietro le spalle.
Marguerite aveva finito col non andare più né a feste né a spettacoli,
nel timore di incontrare Olympe e me. Allora le lettere anonime
presero il posto degli oltraggi diretti, e non ci fu cosa vergognosa
che io non incitassi a dire e che non dicessi io stesso sul conto di
Marguerite.
Ero certamente pazzo per arrivare a quel punto. Ero come un uomo che,
ubriacatosi con del vino cattivo, cade in preda a una di quelle
esaltazioni nervose nelle quali la mano è capace di un delitto senza
che la mente vi partecipi. In mezzo a tutto questo, soffrivo il
martirio. La calma priva di rancore, la dignità priva di disprezzo,
con le quali Marguerite rispondeva a tutti i miei attacchi, e che ai
miei occhi la rendevano superiore a me, mi irritavano ancora di più
contro di lei.
Una sera, Olympe era andata non so dove, e aveva incontrato
Marguerite, che questa volta non aveva fatto grazia a quella sciocca
che la insultava, al punto che quest'ultima aveva dovuto darsi per
vinta. Olympe era tornata a casa furiosa, e Marguerite era stata
portata via svenuta.
Rientrando, Olympe mi aveva raccontato quello che era successo, e mi
aveva detto che Marguerite, vedendola sola, aveva voluto vendicarsi
della donna che era la mia amante, e che bisognava che le scrivessi di
rispettare, che io fossi o no presente, la donna che amavo.
Non c'è bisogno che vi dica che acconsentii, e che tutto quanto potei
trovare di amaro, di vergognoso e di crudele, lo misi in quella
lettera, che inviai il giorno dopo all'indirizzo di Marguerite.
Questa volta il colpo era troppo forte perché la poverina potesse
sopportarlo senza reagire.
Immaginavo che avrei avuto una risposta; e così decisi di non muovermi
di casa per tutto il giorno.
Verso le due suonarono, e vidi entrare Prudence.
Cercai di assumere un'espressione indifferente, e le chiesi a che cosa
dovevo la sua visita; ma quel giorno madame Duvernoy non era in vena
di scherzare, e con tono sinceramente commosso mi disse che da quando
ero tornato, cioè da circa tre settimane, non mi ero lasciato sfuggire
un'occasione per maltrattare Marguerite, che se ne era ammalata: la
scena del giorno prima e la mia lettera di quella mattina l'avevano
costretta a mettersi a letto.
Insomma, senza farmi rimproveri, Marguerite mandava a chiedere pietà,
facendomi dire che non aveva più la forza morale né la forza fisica di
sopportare quello che le facevo.
“Che mademoiselle Gautier”, dissi a Prudence, "mi allontani da casa
sua, è suo diritto, ma che insulti la donna che amo, col pretesto che
quella donna è la mia amante, è una cosa che non permetterò mai".
“Amico mio”, disse Prudence, "Voi subite l'influenza di una ragazza
senza cuore e senza cervello; ne siete innamorato, è vero, ma non è
una ragione per torturare una donna che non si può difendere".
“Mademoiselle Gautier mi mandi il suo conte de N..., e saremo pari”.
"Sapete bene che non lo farà. Dunque, caro Armand, lasciatela in pace,
se la vedeste, avreste vergogna del modo in cui vi comportate verso di
lei. E' pallida, tossisce, non ha più molta strada davanti".
E Prudence mi tese la mano, aggiungendo:
“Venite a trovarla, la vostra visita la farà molto felice”.
“Non ho voglia di incontrare monsieur de N...”.
“Monsieur de N... non c'è mai. Lei non lo può soffrire”.
"Se Marguerite tiene a vedermi, sa dove abito; venga, ma io non
metterò piede in rue d'Antin".
“E la riceverete bene?”.
“Perfettamente”.
“Allora verrà, ne sono certa”.
“Venga!”.
“Uscirete oggi?”.
“Resterò in casa tutta la sera”.
“Glielo dirò”.
Prudence se ne andò.
Non scrissi neppure ad Olympe per dirle che non sarei andato da lei.
Non facevo complimenti con quella ragazza. Era già molto se passavo
con lei una notte ogni settimana. Lei se ne consolava, credo, con un
attore di non so quale teatro dei boulevards.
Uscii per cenare, e rientrai quasi subito. Feci accendere il fuoco in
ogni stanza e dissi a Joseph di uscire.
Non sono in grado di raccontavi le tante impressioni che si agitavano
in me in quell'ora di attesa: ma quando, erano quasi le nove, sentii
suonare, quelle impressioni cedettero il posto a un'emozione tanto
forte che, andando ad aprire, fui costretto ad appoggiarmi al muro per
non cadere.
Fortunatamente, l'anticamera era in penombra, e l'espressione alterata
del mio viso era meno visibile.
Marguerite entrò.
Era vestita di nero, e velata. Riconobbi appena il suo viso sotto il
velo.
Entrò nel salone e si scoprì il viso.
Era pallida come il marmo.
“Eccomi, Armand”, disse; “volevate vedermi, sono venuta”.
E, prendendosi la testa fra le mani, scoppiò in pianto.
Mi avvicinai a lei.
“Che avete?”, le chiesi, con voce alterata.
Mi strinse la mano senza rispondermi, perché la sua voce era velata
dalle lacrime. Ma dopo qualche istante, calmatasi un poco, mi disse:
“Mi avete fatto molto male, Armand, e io non vi ho fatto niente”.
“Niente?”, replicai con un amaro sorriso.
“Niente che le circostanze non mi abbiano costretto a farvi”.
Non so se nella vostra vita abbiate mai provato o proverete mai quello
che io provai vedendo Marguerite.
L'ultima volta che era venuta a casa mia, si era seduta nello stesso
posto in cui era seduta ora; soltanto, da quell'epoca, era stata
l'amante di un altro; altri baci avevano sfiorato le sue labbra, verso
le quali le mie si protendevano mio malgrado, e tuttavia sentivo di
amare quella donna altrettanto e forse più di quanto non l'avessi mai
amata.
Tuttavia, era difficile per me portare la conversazione sull'argomento
che la conduceva in casa mia. Certo Marguerite lo capì, perché
riprese:
"Vengo a disturbarvi, Armand, perché ho due cose da chiedervi; perdono
di quello che ho detto ieri a mademoiselle Olympe, e grazie per quello
che siete forse pronto a farmi patire ancora. Volontariamente o no, da
quando siete tornato mi avete fatto tanto male, che ora sarei incapace
di sopportare la quarta parte delle emozioni che ho sopportato fino a
questa mattina. Avrete pietà di me, vero? e capirete che per un uomo
di cuore ci sono cose più nobili da fare che vendicarsi di una donna
ammalata e triste come me. Ecco, prendete la mia mano. Ho la febbre,
ma ho lasciato il letto per venire a chiedervi, non la vostra
amicizia, ma la vostra indifferenza".
Le presi la mano. Bruciava, e la povera donna era tutta brividi sotto
il mantello di velluto.
Spinsi davanti al fuoco la poltrona nella quale sedeva. "Credete
dunque che io non abbia sofferto“, ripresi, ”la notte nella quale,
dopo avervi attesa in campagna, venni a cercarvi a Parigi, e non
trovai che quella lettera per la quale ho rischiato di impazzire? Come
avete potuto ingannarmi, Marguerite, quando vi amavo tanto?".
"Non parliamo di questo, Armand, non sono venuta per parlarne. Ho
voluto vedervi non più nemico, ecco tutto, e ho voluto stringervi la
mano ancora una volta. Avete un'amante giovane e bella, che vi ama, a
quanto si dice: siate felice con lei e dimenticatemi".
“E voi, anche voi siete felice, vero?”.
"Ho forse il viso di una donna felice, Armand? Non prendetevi gioco
del mio dolore, voi che sapete meglio di chiunque altro da che cosa
deriva e quanto è grande".
"Non dipendeva che da voi non conoscere mai l'infelicità, se veramente
la conoscete come dite".
"No, amico mio, le circostanze sono state più forti della mia volontà.
Ho obbedito, non ai miei istinti di mantenuta, come sembrate credere,
ma a una imperiosa necessità, e a delle ragioni che un giorno
conoscerete, e che vi spingeranno a perdonarmi".
“Perché non me le dite adesso?”.
"Perché non determinerebbero un riavvicinamento, impossibile tra noi,
e vi allontanerebbero forse da persone dalle quali non dovete
allontanarvi".
“Chi sono?”.
“Non posso dirvelo”.
“Allora, mentite”.
Marguerite si alzò e si diresse verso la porta.
Non potevo assistere a quella manifestazione di dolore muta ed
espressiva senza esserne commosso, paragonando tra me e me quella
donna pallida e piangente alla ragazza bizzarra che si era burlata di
me all'Opéra-Comique.
“Voi non ve ne andrete”, dissi mettendomi davanti alla porta.
“E perché?”.
"Perché nonostante quello che mi hai fatto, ti amo sempre, e voglio
che tu resti con me".
"Per scacciarmi domani, non è vero? No, è impossibile! I nostri
destini sono separati, non cerchiamo di riunirli; mi disprezzereste,
forse, mentre adesso non potete che odiarmi".
“No, Marguerite”, gridai, sentendo tutto il mio amore e tutto il mio
desiderio risvegliarsi al contatto di quella donna. "No, dimenticherò
tutto, e saremo felici, come ci eravamo promesso".
Marguerite scosse dubbiosamente la testa, e disse:
"Non sono la tua schiava, il tuo cane? fa' di me ciò che vuoi,
prendimi, sono tua".
E togliendosi il mantello e il cappello, li gettò sul divano e si
sganciò bruscamente il corsetto, perché, per una di quelle reazioni
così frequenti nella sua malattia, il sangue le saliva alla testa e
sembrava soffocarla.
Ebbe un colpo di tosse secca e rauca.
“Fa' dire al cocchiere”, riprese, "di ricondurre indietro la
carrozza".
Scesi io stesso per mandar via quell'uomo.
Quando rientrai, Marguerite era distesa davanti al fuoco, e batteva i
denti per il freddo.
La presi tra le braccia, la spogliai senza che lei facesse un solo
movimento, e la portai, tutta gelata, nel letto.
Mi sedetti allora accanto a lei e cercai di riscaldarla con le mie
carezze. Non diceva una parola, ma mi sorrideva.
Oh! fu una ben strana notte. Tutta la vita di Marguerite sembrava
fluire nei baci di cui mi copriva, e io l'amavo tanto, che negli
slanci del mio febbricitante amore mi chiedevo se non l'avrei uccisa,
purché non appartenesse mai più a un altro uomo.
Un mese d'amore come quello, ci avrebbe distrutti, nel corpo e
nell'anima.
Il giorno ci trovò svegli.
Marguerite era livida. Non diceva una parola. Grosse lacrime
scendevano di tanto in tanto dai suoi occhi, e si fermavano sulle
guance, lucenti come diamanti. Le sue braccia esauste si tendevano di
tanto in tanto per abbracciarmi, e ricadevano sul letto, senza forza.
Per un momento credetti che avrei potuto dimenticare quanto era
accaduto dopo la mia partenza da Bougival, e dissi a Marguerite:
“Vuoi che partiamo, che lasciamo Parigi?”.
“No, no”, mi rispose quasi con terrore, "saremmo troppo infelici; non
posso più fare la tua felicità ma, fino a che avrò vita, sarò la
schiava dei tuoi capricci. A qualunque ora del giorno o della notte tu
mi desideri, vieni, sarò tua, ma non legare mai più il tuo avvenire al
mio, saresti troppo infelice e mi renderesti troppo infelice. Sarò
bella ancora per qualche tempo, approfittane, ma non chiedermi altro".
Quando se ne fu andata, ebbi paura della solitudine nella quale mi
aveva lasciato. Due ore dopo, ero ancora seduto sul letto nel quale
lei era stata, e guardavo il cuscino che conservava l'impronta della
sua testa, chiedendomi che cosa avrebbero fatto di me il mio amore e
la mia gelosia.
Alle cinque, senza sapere quel che facevo, andai in rue d'Antin.
Fu Nanine ad aprirmi.
“Madame non può ricevervi”, mi disse, imbarazzata.
“Perché?”.
"Perché il signor conte de N... è con lei, e ho l'ordine di non fare
entrare nessuno".
“E' giusto”, balbettai "l'avevo dimenticato. Rientrai a casa come
ubriaco, e sapete quel che feci in un attimo di delirante gelosia che
bastò a farmi commettere un'azione vergognosa, sapete quel che feci?
Mi dissi che quella donna si burlava di me, me la immaginai nel suo
inaccessibile colloquio con il conte, in atto di ripetere le stesse
parole che quella notte aveva dette a me, e, prendendo un biglietto da
cinquecento franchi, glielo mandai con queste parole:
"Ve ne siete andata così presto, stamattina, che ho dimenticato di
pagarvi. Eccovi il prezzo di questa notte".
Poi, quando la lettera fu partita, uscii, come per sottrarmi
all'immediato rimorso di quell'infamia.
Andai da Olympe, che stava provandosi dei vestiti; quando restammo
soli, mi cantò delle canzoni oscene per distrarmi.
Era proprio il tipo della cortigiana senza vergogna, senza cuore e
senza cervello, almeno per me, perché forse qualcuno aveva fatto su di
lei lo stesso sogno che io avevo fatto su Marguerite.
Mi chiese del denaro, glielo diedi e, libero finalmente di andarmene,
rientrai a casa.
Marguerite non mi aveva risposto.
E' inutile che vi dica in quale agitazione passai il giorno.
Alle sei e mezzo, un fattorino mi portò una busta che conteneva la mia
lettera e il biglietto da cinquecento franchi, senza una parola.
“Chi ve l'ha data?”, chiesi a quell'uomo.
"Una signora che partiva con la sua cameriera con la diligenza di
Boulogne, e che mi ha raccomandato di non consegnarla che dopo che la
carrozza fosse uscita dal cortile".
Mi precipitai a casa di Marguerite.
“Madame è partita per l'Inghilterra alle sei”, mi disse il portiere.
Nulla mi tratteneva più a Parigi, né l'odio, né l'amore. Tutte quelle
scosse mi avevano prostrato. Un mio amico stava per fare un viaggio in
Oriente; mi recai da mio padre per dirgli che desideravo
accompagnarlo; egli mi diede delle lettere di credito e delle
raccomandazioni, e otto o dieci giorni dopo mi imbarcavo a Marsiglia.
Ad Alessandria, da un addetto dell'ambasciata, che avevo visto qualche
volta in casa di Marguerite, seppi della malattia della poverina.
Le scrissi allora la lettera alla quale essa rispose con le parole che
conoscete, e che ricevetti a Tolone.
Partii immediatamente; il resto lo sapete.
Ora, non mi resta che leggervi i fogli che Julie Duprat mi ha
consegnati e che sono il complemento indispensabile di quanto vi ho
raccontato.
Armand, stanco di quel lungo racconto spesso interrotto dalle lacrime,
si coprì la fronte con le mani e chiuse gli occhi, sia per pensare,
sia per tentare di dormire, dopo avermi dato le pagine scritte dalla
mano di Marguerite.
Qualche istante dopo, un respiro un po' più veloce mi fece capire che
Armand dormiva, ma di quel sonno leggero che il minimo rumore può
interrompere.
Ecco ciò che lessi; lo trascrivo senza aggiungere né togliere niente:
"Oggi è il 15 dicembre. Sono ammalata da tre o quattro giorni.
Stamattina sono rimasta a letto; il tempo è buio, sono triste; nessuno
è vicino a me, e io penso a te, Armand. E tu, dove sei tu mentre ti
sto scrivendo queste cose? Lontano da Parigi, molto lontano, mi hanno
detto, e forse hai già dimenticato Marguerite. Ebbene, sii felice,
perché devo a te i soli momenti felici della mia vita.
Non avevo potuto resistere al desiderio di spiegarti la mia condotta,
e ti avevo scritto una lettera; ma una lettera del genere, scritta da
una donna come me, sarebbe potuta sembrare una menzogna a meno che la
morte non l'avesse santificata con la sua autorità e che, invece di
una lettera, essa fosse stata una confessione.
Oggi sono ammalata, potrei morire di questa malattia, perché ho sempre
avuto il presentimento di morire giovane. Mia madre è morta di una
malattia di petto, e il modo nel quale ho finora vissuto non ha potuto
che far peggiorare in me questa malattia, la sola eredità che essa mi
abbia lasciato; ma non voglio morire senza che tu sappia bene che cosa
pensare di me se, comunque, quando tornerai, ti preoccuperai ancora
della povera ragazza che amavi prima di partire.
Ecco che cosa conteneva quella lettera, che sarei felice di
riscrivere, per dare a me stessa ancora una prova di quanto
inevitabile sia stata la mia condotta.
Ti ricorderai, Armand, come l'arrivo di tuo padre ci sorprese a
Bougival; ti ricorderai dell'involontario terrore che quell'arrivo mi
causò, della scena che ebbe luogo fra voi e che tu mi raccontasti la
sera.
L'indomani, mentre eri a Parigi e aspettavi tuo padre che non tornava,
un uomo venne da me, e mi consegnò una lettera da parte di monsieur
Duval.
Questa lettera, che allego alla mia, mi pregava, nei termini più seri,
di allontanarti l'indomani con un pretesto qualunque e di ricevere tuo
padre; doveva parlarmi, e mi raccomandava soprattutto di non dirti
niente della sua intenzione.
Tu sai con quale insistenza ti consigliai, al tuo ritorno, di andare
di nuovo a Parigi il giorno seguente.
Eri partito da un'ora, quando si presentò tuo padre. Ti faccio grazia
dell'impressione che mi fece il suo volto sereno. Tuo padre era
imbevuto delle vecchie teorie secondo le quali ogni cortigiana è un
essere senza cuore, senza ragione, una specie di macchina succhiatrice
di denaro, sempre pronta, come un torchio, a stritolare la mano che le
porge qualcosa, e a distruggere senza pietà, senza discernimento, chi
la fa vivere e agire.
Tuo padre mi aveva scritto una lettera molto cortese perché accettassi
di riceverlo; ma non si presentò esattamente come aveva scritto. Ci
furono nelle sue prime parole tanta superbia, insolenza e minacce, che
fui costretta a fargli capire che era in casa mia e che non avevo da
rendergli conto della mia vita se non a causa del sincero affetto che
sentivo per suo figlio.
Monsieur Duval si calmò un po', ma cominciò a dire che non poteva
sopportare più a lungo che suo figlio si rovinasse per me; che ero
bella, sì, ma per bella che fossi, non dovevo servirmi della mia
bellezza come di un'arma per distruggere il futuro di un giovane con
spese come quelle che andavo facendo.
A questo, non c'era che una cosa da rispondere, non è vero? e cioè con
le prove che, da quando ero la tua amante, nessun sacrificio mi era
penoso per restarti fedele senza chiederti più denaro di quel che tu
potessi darmi. Gli mostrai le polizze del Monte di Pietà, le ricevute
delle persone alle quali avevo venduto gli oggetti che non ero
riuscita a impegnare; comunicai inoltre a tuo padre la mia decisione
di disfarmi del mio mobilio per pagare i debiti, e per vivere con te
senza essere un peso troppo grave.
Gli parlai della nostra felicità, della rivelazione, che mi avevi
dato, di una vita più tranquilla e gioiosa, e finì con l'arrendersi
all'evidenza e col tendermi la mano, chiedendomi perdono del modo in
cui poco prima si era comportato.
Poi mi disse:
'Allora, signora, non più con rimproveri e minacce, ma con preghiere,
cercherò di ottenere da voi un sacrificio maggiore di tutti quelli che
avete finora fatti per mio figlio'.
Tremai a quest'inizio.
Tuo padre mi si avvicinò, mi prese le mani e continuò con tono
affettuoso:
'Figliola mia, non prendetevela per quello che sto per dirvi;
rendetevi conto soltanto che la vita ha a volte delle sue necessità
crudeli per i sentimenti, ma alle quali bisogna sottomettersi. Voi
siete buona, e la vostra anima ha slanci generosi sconosciuti a molte
donne che forse vi disprezzano e non valgono quanto voi. Ma pensate
che oltre l'amante c'è una famiglia; che oltre l'amore esiste il
dovere; che all'età delle passioni segue quella in cui un uomo, per
essere rispettato, ha bisogno di avere una solida posizione. Mio
figlio non è ricco, e tuttavia si prepara a cedervi l'eredità di sua
madre. Se accettasse da voi il sacrificio che state per fare, sarebbe
costretto dal suo amore e dalla sua dignità a farvi in cambio questa
donazione, che vi metterebbe per sempre al riparo da ogni avversità.
Ma questo sacrificio, egli non può accettarlo, perché il mondo, che
non vi conosce, attribuirebbe a quel consenso una causa disonesta, che
non deve intaccare il nome che portiamo. Non ci si chiederebbe se
Armand vi ama, se voi lo amate, se questo amore sia per lui felicità e
per voi la riabilitazione; non si vedrebbe che una cosa, cioè che
Armand Duval ha permesso che una mantenuta - perdonatemi, figlia mia,
per tutto quello che sono costretto a dirvi - vendesse per lui tutto
quello che possedeva. Poi, siatene certa, arriverebbe il giorno dei
rimproveri e dei rimpianti, per voi come per tutti, e dovreste
entrambi portare una catena che non potreste spezzare. Allora, che
fareste? La vostra giovinezza sarebbe finita, l'avvenire di mio figlio
distrutto; ed io, suo padre, non avrei più che da uno solo dei miei
figli la ricompensa che aspetto da tutti e due.
Voi siete giovane, siete bella, la vita vi consolerà; avete un nobile
cuore, e il ricordo di una buona azione riscatterà molte delle vostre
azioni passate. Da sei mesi che vi conosce, Armand mi ha dimenticato.
Avrei potuto morire, ed egli non lo avrebbe saputo!
Qualunque sia la vostra decisione di vivere diversamente da come avete
finora vissuto, Armand, che vi ama, non accetterà mai di imporvi la
reclusione alla quale sareste destinata dalla modesta posizione di
lui, e che non è adatta alla vostra bellezza. Chi sa come farebbe
allora! Ha giocato, lo so; e senza che voi lo sapeste, so anche
questo; ma in un momento di ebbrezza avrebbe potuto perdere una parte
di quel che io vado mettendo da parte, da tanti anni, per la dote di
mia figlia, per lui, e per una tranquilla vecchiaia. Ciò che sarebbe
potuto accadere, può accadere ancora.
Siete sicura, inoltre, che non sareste di nuovo attratta dalla vita
che abbandonereste per seguirlo? Siete sicura, voi che lo avete amato,
di non innamorarvi di un altro? Non soffrirete, insomma, degli
ostacoli che la vostra relazione porrà nella vita del vostro amante, e
dei quali non potrete consolarlo se, con l'età, le ambizioni
succederanno ai sogni d'amore? Riflettete, signora: voi amate Armand,
dimostrateglielo col solo mezzo che vi resta ancora: sacrificando al
suo avvenire il vostro amore. Non è successo finora niente di male, ma
potrebbe accadere, forse peggiore di quanto io possa prevedere. Armand
potrebbe ingelosirsi di un uomo che vi ha amata; potrebbe provocarlo,
potrebbe battersi, essere ucciso, insomma, e pensate a quello che
soffrireste davanti a questo padre, che vi chiederebbe conto della
vita di suo figlio.
Insomma, figliuola, sappiate tutto, perché non vi ho ancora detto
tutto, sappiate dunque che cosa mi ha condotto a Parigi. Ho una
figlia, ve l'ho detto, giovane, bella, pura come un angelo. E'
innamorata, e ha fatto di quest'amore il sogno della sua vita. Avevo
scritto tutto ciò ad Armand ma, tutto preso da voi, non mi ha
risposto. Ebbene, mia figlia sta per sposarsi. Sposa l'uomo che ama,
entra in una famiglia onorata che pretende che tutto sia onorevole
nella mia. La famiglia dell'uomo che sarà mio genero ha saputo che
vita conduce Armand a Parigi, e mi ha dichiarato che ritirerà la sua
parola se Armand continuerà con questa vita. L'avvenire di una
fanciulla che non vi ha fatto niente, e che ha il diritto di contare
sul futuro, è nelle vostre mani.
Avete il diritto, avete la forza di spezzarlo? In nome del vostro
amore e del vostro pentimento, Marguerite, concedetemi la felicità di
mia figlia'.
Io piangevo in silenzio, amico mio, davanti a quelle considerazioni
che anch'io avevo fatto tanto spesso, e che, sulle labbra di tuo
padre, venivano ad acquistare una più seria realtà. Mi dicevo tutto
ciò che tuo padre non osava dirmi, e che venti volte era stato sul
punto di dire: che dopo tutto non ero che una mantenuta, e che
qualunque ragione attribuissi alla nostra relazione, avrebbe avuto
sempre l'aspetto del calcolo; che la mia vita passata non mi dava
alcun diritto di sognare un simile avvenire, e che accettavo delle
responsabilità alle quali le mie abitudini e la mia reputazione non
davano alcuna garanzia.
Insomma, Armand, ti amavo. Il tono paterno di monsieur Duval, i
sentimenti puri che risvegliava in me, la stima che stavo per ottenere
da quel vecchio leale, la tua che ero sicura che avrei avuta più
tardi, tutto ciò risvegliava nel mio cuore dei nobili pensieri che mi
innalzavano ai miei stessi occhi, e facevano parlare sante ambizioni,
fino ad allora sconosciute. Quando pensavo che un giorno quel vecchio,
che mi implorava per l'avvenire di suo figlio, avrebbe detto a sua
figlia di ricordare il mio nome nelle sue preghiere come il nome di
una amica misteriosa, mi trasfiguravo, ed ero fiera di me stessa.
L'esaltazione di quel momento esagerava forse la verità di quelle
impressioni; ma ecco che cosa provai, amico mio, e quei nuovi
sentimenti facevano tacere i consigli che mi dava il ricordo dei
giorni trascorsi con te.
'Va bene, signore', dissi a tuo padre, asciugandomi le lacrime.
'Credete che io ami vostro figlio?'.
'Sì', rispose monsieur Duval.
'Di un amore disinteressato?'.
'Sì'.
'Credete che io abbia fatto di quell'amore la speranza, il sogno, la
redenzione della mia vita?'.
'Lo credo fermamente'.
'Ebbene, signore, abbracciatemi una volta come abbraccereste vostra
figlia; e vi giuro che il vostro bacio, il solo veramente casto che io
avrò mai ricevuto, mi renderà forte contro il mio amore, e che entro
otto giorni vostro figlio tornerà da voi, forse infelice per qualche
tempo, ma guarito per sempre'.
'Voi siete un'anima generosa', replicò tuo padre baciandomi sulla
fronte, 'e fate un tentativo di cui Dio terrà conto ma temo fortemente
che non riusciate a ottenere niente da mio figlio'.
'Oh! state tranquillo, signore, mi odierà'.
Ci voleva tra noi una barriera insormontabile per entrambi
Scrissi a Prudence che avrei accettato le offerte del conte de N..., e
che andasse a dirgli che avrei cenato con lei e con lui. Sigillai la
lettera, e senza dirgli che cosa contenesse, pregai tuo padre di farla
recapitare al suo indirizzo arrivando a Parigi.
Egli, tuttavia, mi chiese che cosa contenesse.
'La felicità di vostro figlio', risposi.
Tuo padre mi abbracciò ancora una volta. Sentii sulla mia fronte due
lacrime di riconoscenza che sembrarono lavare le mie colpe di un
tempo, e nel momento in cui acconsentivo a darmi a un altro uomo, mi
illuminavo d'orgoglio pensando a quello che acquistavo con questa
nuova colpa.
Era naturale, Armand, tu mi avevi detto che tuo padre era l'uomo più
onesto che si potesse trovare.
Monsieur Duval salì in carrozza e partì.
Ero donna, tuttavia, e quando ti rividi, non potei impedirmi di
piangere; ma non cedetti.
Ho fatto bene? ecco che cosa mi chiedo, oggi che giaccio ammalata in
un letto che forse lascerò cadavere.
Tu sei stato testimone di quel che provavo man mano che l'ora della
nostra inevitabile separazione si avvicinava; tuo padre non era più lì
per sostenermi, e ci fu un momento nel quale fui sul punto di
confessarti tutto, tanto ero spaventata dall'idea che mi avresti
odiata e disprezzata.
Una cosa alla quale forse non crederai, Armand, è che pregai Iddio di
darmi la forza, e a prova che accettava il mio sacrificio, Egli mi
diede quella forza che imploravo.
Durante la cena ebbi ancora bisogno di aiuto, perché non volevo sapere
ciò che stavo per fare, tanto temevo che il coraggio mi mancasse!
Chi avrebbe detto a me, Marguerite Gautier, che avrei sofferto tanto
al solo pensiero che avrei avuto un altro amante?
Bevvi per dimenticare, e quando l'indomani mi svegliai, ero nel letto
del conte.
Ecco tutta la verità, amico mio, giudicami e perdonami, come io ti ho
perdonato per tutto il male che mi hai fatto a partire da quel
giorno".
"Ciò che seguì a quella notte fatale, lo sai quanto me, ma quello che
non sai, quello che non puoi immaginare, è ciò che ho sofferto dopo la
nostra separazione.
Avevo saputo che tuo padre ti aveva portato via, ma sapevo bene che
non avresti potuto vivere a lungo lontano da me, e il giorno in cui ti
incontrai agli Champs-Elysées ne fui commossa, ma non stupita.
Allora cominciò quella serie di giorni ciascuno dei quali mi portava
un tuo nuovo oltraggio, oltraggio che ricevevo quasi con gioia, perché
oltre a essere la prova che mi amavi ancora, mi sembrava che, più mi
avessi perseguitata, più mi sarei innalzata ai tuoi occhi il giorno in
cui avresti saputo la verità.
Non stupirti di quel felice martirio, Armand, l'amore che avevi avuto
per me aveva aperto il mio cuore a nobili entusiasmi.
Tuttavia non ero stata subito così forte.
Tra l'esecuzione del mio sacrificio e il tuo ritorno, era trascorso un
periodo abbastanza lungo, durante il quale avevo avuto bisogno di
ricorrere a mezzi fisici per non impazzire e per stordirmi nella vita
alla quale ero tornata. Prudence ti ha detto, vero, che andavo a tutte
le feste, a tutti i balli, a tutte le orge?
Avevo quasi la speranza di uccidermi rapidamente, con gli stravizi e,
credo, questa speranza non tarderà a realizzarsi. La mia salute si
alterò, fatalmente, sempre di più, e il giorno in cui ti inviai madame
Duvernoy a chiederti grazia, ero sfinita nel corpo e nell'anima.
Non ti ricorderò, Armand, in che modo tu abbia ripagato l'ultima prova
d'amore che ti ho dato, e con quale oltraggio tu abbia scacciato da
Parigi la donna che, vicina alla morte, non aveva potuto resistere al
suono della tua voce che implorava una notte d'amore, e che, come una
pazza, ha per un istante creduto di poter saldare insieme passato e
presente. Tu avevi il diritto di fare quel che hai fatto, Armand: non
sempre le mie notti sono state pagate così largamente!
Ho lasciato tutto, allora! Olympe ha preso ii mio posto accanto a
monsieur de N..., e si è occupata, mi hanno detto, di fargli sapere la
ragione della mia partenza. Il conte de G... era a Londra. E' uno di
quegli uomini che, non considerando l'amore per donne come me che come
un piacevole passatempo, restano amici delle donne che hanno avuto, e
non provano odio, non avendo mai provato gelosia; è, insomma, uno di
quei gran signori che non aprono per noi che uno spiraglio del loro
cuore, ma aprono completamente la loro borsa. Pensai subito a lui, e
lo raggiunsi. Mi ricevette benissimo, ma era, a Londra, l'amante di
una signora del gran mondo, e temeva di compromettersi occupandosi di
me. Mi presentò ai suoi amici, che diedero in mio onore una cena, dopo
la quale uno di loro mi condusse a casa sua.
Che dovevo fare, amico mio?
Uccidermi? Sarebbe stato come caricare la tua vita, che deve essere
felice, di un inutile rimorso; e poi, perché uccidersi quando si è già
così vicini alla morte?
Passai allo stato di corpo senz'anima, di cosa senza pensiero; vissi
per qualche tempo come una automa, poi tornai a Parigi e chiesi
notizie di te; seppi allora che eri partito per un lungo viaggio. Non
avevo più niente che potesse sostenermi. La mia vita tornò a essere
quella che era stata due anni prima che ti conoscessi. Cercai di
riagganciare il duca, ma lo avevo troppo crudelmente ferito, e i
vecchi non sono pazienti, certo perché si accorgono di non essere
eterni. La malattia mi sopraffaceva, un giorno dopo l'altro, ero
pallida, triste, sempre più magra. Gli uomini che comprano l'amore
esaminano la merce prima di acquistarla. C'erano a Parigi donne più
affascinanti, più formose di me; mi si dimenticò un poco. Ecco il
passato, fino a ieri.
Ora sono irreparabilmente ammalata. Ho scritto al duca per chiedergli
del denaro, perché non ne ho, e i creditori sono tornati, e mi portano
i loro conti con spietato accanimento. Il duca mi risponderà? Oh,
perché non sei a Parigi, Armand? verresti a trovarmi, e le tue visite
mi consolerebbero".
20 dicembre.
"C'è un tempo orribile, nevica, sono sola in casa. Da tre giorni mi ha
assalito una febbre così forte che non ho potuto scriverti una parola.
Niente di nuovo, amico mio; ogni giorno spero vagamente in una tua
lettera, ma non arriva e certo non arriverà mai. Solo gli uomini hanno
la forza di non perdonare. Il duca non mi ha risposto.
Prudence ha ricominciato i suoi viaggi al Monte di Pietà.
Sputo sangue senza tregua. Oh! ti farei pena, se mi vedessi. Tu sei
ben felice a essere sotto un cielo caldo e a non avere, come me, tutto
un inverno di ghiaccio che ti pesa sul petto. Oggi, mi sono alzata un
po', e, dietro le tende della mia finestra, ho visto passare questa
vita di Parigi con la quale credo di aver rotto completamente ogni
rapporto. Qualche volto sconosciuto è passato nella strada,
rapidamente, gioiosamente, spensieratamente. Nessuno ha alzato gli
occhi verso la mia finestra. Tuttavia, qualche giovanotto è venuto a
firmare. Già una volta fui malata, e tu, che non mi conoscevi, che
avevi avuto da me solo la mia impertinenza del giorno in cui ti avevo
visto per la prima volta, venivi a cercare mie notizie tutte le
mattine. Eccomi ammalata di nuovo. Abbiamo passato insieme sei mesi.
Ho avuto per te tanto amore quanto può contenerne e darne il cuore di
una donna e tu sei lontano, e mi maledici, e non ho da te neppure una
parola di conforto. Ma è solo il caso che mi rende così abbandonata,
ne sono sicura, perché se tu fossi a Parigi, non lasceresti mai il mio
capezzale e la mia camera".
25 dicembre.
"Il medico mi proibisce di scrivere tutti i giorni. Infatti, i miei
ricordi non fanno che farmi crescere la febbre, ma ieri, ho ricevuto
una lettera che mi ha fatto bene, più per i sentimenti di cui era
l'espressione che per l'aiuto materiale che veniva a portarmi. Quella
lettera era di tuo padre, ed eccone il contenuto.
'Signora,
ho saputo adesso che siete ammalata. Se fossi a Parigi, verrei io
stesso a chiedere vostre notizie, se mio figlio fosse qui gli direi di
venire a informarsi, ma non posso lasciare C... e Armand si trova a
sei o settecento leghe di distanza. Permettetemi dunque, signora, di
scrivervi semplicemente quanto io sia addolorato della vostra
malattia, e credete agli auguri sinceri che vi faccio di una pronta
guarigione.
Un mio buon amico, monsieur H..., verrà da voi. Degnatevi di
riceverlo. Gli ho dato un incarico del quale attendo con impazienza il
risultato.
Credete, signora, alla mia sincera devozione'.
Questa è la lettera che ho ricevuto. Tuo padre è un nobile cuore;
amalo, amico mio, perché ci sono al mondo pochi uomini altrettanto
degni di essere amati. Quella lettera firmata da lui mi ha fatto più
bene di tutte le ricette del nostro grande medico.
Stamattina è venuto monsieur H... Sembrava molto imbarazzato del
delicato incarico affidatogli da monsieur Duval. Veniva semplicemente
a portarmi mille scudi da parte di tuo padre. Dapprima ho tentato di
rifiutare, ma egli mi ha detto che un rifiuto avrebbe offeso monsieur
Duval, che lo aveva incaricato di darmi prima di tutto quella somma, e
poi tutto ciò di cui avessi avuto bisogno. Ho accettato quell'offerta
che, da parte di tuo padre, non è certo un'elemosina. Se quando sarai
tornato io sarò morta, mostra a tuo padre ciò che ho scritto per lui,
e digli che, scrivendo queste righe, la povera ragazza alla quale si è
degnato di scrivere quella lettera consolatrice versava lacrime di
riconoscenza, e pregava il Signore per lui".
4 gennaio.
"Ho passato una serie di giorni molto dolorosi. Non sapevo che il
corpo potesse far soffrire così. Oh, pago due volte, oggi, la mia vita
passata!
Sono stata vegliata tutte le notti. Non potevo più respirare. Il
delirio e la tosse si dividevano i resti della mia povera esistenza.
La mia sala da pranzo è piena di dolci, di regali di ogni specie che i
miei amici mi hanno portato. C'è tra loro, senza dubbio, gente che
spera di avermi più tardi come amante. Se vedessero come la malattia
mi ha ridotto, fuggirebbero spaventati.
Prudence fa dei doni con quelli che io ricevo.
Fuori c'è una grande gelata, e il dottore dice che tra qualche giorno
potrò uscire, se il bel tempo continua".
8 gennaio.
"Ieri sono uscita con la mia carrozza. Era un tempo stupendo. Il viale
degli Champs-Elysées era pieno di gente. Tutto intorno a me aveva
un'aria di festa. Non avevo mai sospettato che in un raggio di sole vi
fosse tutto quello che ieri vi ho trovato di gioia, di dolcezza e di
conforto.
Ho incontrato quasi tutte le persone che conosco, sempre allegre,
sempre occupate nei loro piaceri. Quanta gente è felice, e non lo sa!
E' passata Olympe, in un'elegante carrozza che le è stata regalata da
monsieur de N... Ha cercato di insultarmi con gli occhi. Non sa quanto
io sia lontana da queste cose. Un bravo giovane che conosco da molto
tempo mi ha chiesto se volevo cenare con lui e con un suo amico che,
mi ha detto, desiderava molto conoscermi.
Ho sorriso tristemente, e gli ho teso una mano bruciante di febbre.
Non ho mai visto un volto più sbalordito.
Sono tornata alle quattro, ho mangiato con un certo appetito.
Quell'uscita mi ha fatto bene. Se guarissi!
Come lo spettacolo della vita e della felicità degli altri restituisce
a quelli che, il giorno prima, nella solitudine della loro anima e
nell'ombra della loro stanza di ammalati, si auguravano una rapida
morte, il desiderio della vita!"
10 gennaio.
"La mia speranza di guarire non era che un sogno.
Eccomi di nuovo a letto, coperta di impiastri bollenti. Va' un po' a
offrire quel corpo che un giorno si pagava tanto caro, e vedrai che
cosa ti daranno oggi!
Bisogna aver fatto molto male prima di venire al mondo o essere
destinati a una ben grande felicità dopo la morte, perché Dio permetta
che questa vita abbia tutte le torture dell'espiazione e tutti i
dolori della prova".
12 gennaio.
Soffro sempre.
Ieri il conte de N... mi ha mandato del denaro, ma non l'ho accettato.
Non voglio niente da quell'uomo. E' per causa sua che tu non sei
vicino a me.
Oh, i nostri bei giorni di Bougival! dove sono?
Se uscirò viva da questa stanza, farò un pellegrinaggio alla casa
nella quale abbiamo abitato insieme, ma non uscirò di qui che morta.
Chi sa se potrò scriverti domani?".
25 gennaio
"Da undici notti non dormo, soffoco, e credo in ogni momento di
morire. Il medico ha ordinato che non mi lascino toccare la penna.
Julie Duprat, che mi assiste, mi ha permesso di scriverti ancora
qualche riga. Non tornerai, dunque, prima che io muoia? E' dunque
finita per sempre tra noi? Credo che se tu venissi, guarirei.
Altrimenti, perché guarire?"
28 gennaio.
"Stamani sono stata svegliata da un gran rumore. Julie, che dormiva in
camera mia, si è precipitata nella sala da pranzo. Ho sentito delle
voci maschili contro le quali la sua lottava invano. E' rientrata
piangendo.
Venivano per il pignoramento. Le ho detto di lasciar fare quello che
essi chiamano giustizia. L'usciere è entrato in camera mia col
cappello in testa. Ha aperto i cassetti, ha elencato tutto quello che
ha visto e non ha avuto l'aria di accorgersi che c'era una moribonda
nel letto che fortunatamente la carità della legge mi lascia.
Si è degnato di dirmi, andandosene, che potevo fare opposizione entro
nove giorni, ma ha lasciato un custode! Che sarà di me, mio Dio!
Questa scena ha aggravato il mio stato. Prudence voleva chiedere del
denaro all'amico di tuo padre, ma mi sono opposta.
Ho ricevuto stamattina la tua lettera. Ne avevo bisogno. La mia
risposta arriverà in tempo? Mi vedrai ancora? Ecco una giornata felice
che mi fa dimenticare tutte quelle che ho passato da sei settimane a
questa parte. Mi sembra di stare meglio, nonostante la tristezza che
mi pesava quando ti ho risposto.
Dopo tutto, non si deve essere sempre infelici.
Quando penso che potrei non morire, che potresti tornare, che potrei
rivedere la primavera, che potresti amarmi ancora e che potremmo
ricominciare la nostra vita dell'anno scorso!
Pazza che sono! è già molto se riesco a reggere la penna con la quale
ti scrivo questo sogno insensato del mio cuore.
Qualunque cosa accada, ti amavo molto, Armand, e sarei già morta da un
pezzo se non mi sostenesse il ricordo di quell'amore e una vaga
speranza di vederti ancora accanto a me".
4 febbraio.
"Il conte de G... è tornato. La sua amante l'ha tradito. E' molto
triste, la amava molto. E' venuto e mi ha raccontato tutto. Il povero
ragazzo è piuttosto in cattive acque, il che non gli ha impedito di
pagare l'usciere e di licenziare il custode.
Gli ho parlato di te, e mi ha promesso che ti parlerà di me. Come
dimenticavo, in quei momenti, che ero stata la sua amante, e come
anche lui cercava di farmelo dimenticare! E' un uomo di cuore.
Il duca ha mandato ieri a chiedere di me, e stamattina è venuto. Non
so che cosa ancora mantenga in vita quel vecchio. E' rimasato per tre
ore accanto a me, e non mi ha detto venti parole. Quando mi ha vista
così pallida, due grosse lacrime sono scese dai suoi occhi. Certo a
farlo piangere era il ricordo della morte di sua figlia.
L'avrà vista morire due volte. La sua schiena è curva, la sua testa
china verso terra, il suo labbro pendente, il suo sguardo spento.
L'età e il dolore gravano col loro duplice peso sul suo corpo
stremato. Non mi ha rivolto un rimprovero. Si sarebbe anzi detto che
gioisse in cuor suo della devastazione che la malattia aveva fatto in
me. Sembrava orgoglioso di essere in piedi, quando io, ancora giovane,
ero schiacciata dalla sofferenza.
E' tornato il cattivo tempo. Nessuno viene a trovarmi. Julie mi
assiste il più possibile. Prudence, alla quale non posso dare tanto
denaro come una volta, comincia ad avanzare pretesti per andarsene.
Ora che sto per morire, nonostante quel che mi dicono i medici, perché
ne ho più d'uno, il che dimostra che la malattia peggiora, quasi mi
pento di aver dato ascolto a tuo padre; se avessi saputo che non avrei
sottratto che un anno al tuo avvenire, non avrei resistito al
desiderio di passare questo anno con te, e almeno sarei morta
stringendo una mano amica. E' vero che se avessimo vissuto insieme
questo anno, non sarei morta così presto.
Sia fatta la volontà di Dio!".
5 febbraio.
"Oh, Armand, vieni, vieni, soffro terribilmente, muoio, Dio mio! Ieri
ero così triste che non ho voluto passare in casa la serata, che
minacciava di essere lunga come quella del giorno prima. Il duca era
venuto la mattina. Mi sembra che la vista di questo vecchio
dimenticato dalla morte mi faccia morire più in fretta.
Nonostante la febbre ardente che mi divorava, mi sono fatta vestire e
portare al Vaudeville. Julie mi ha messo del rossetto, senza il quale
sarei sembrata un cadavere. Sono andata nel palco nel quale ti diedi
il nostro primo appuntamento; per tutto il tempo ho tenuto gli occhi
fissi sulla poltrona che occupavi quella sera, e che ieri era occupata
da una specie di bifolco, che rideva rumorosamente per tutte le
stupidaggini propinate dagli attori. Mi hanno riportata a casa mezza
morta. Oggi non posso più parlare, posso a malapena muovere le
braccia. Dio mio, Dio mio, sto per morire! Me lo aspettavo, ma non
posso abituarmi all'idea che dovrò soffrire più di quanto soffro, e
se...".
Da questa parola in poi le poche parole che Marguerite aveva cercato
di scrivere erano illeggibili, ed era stata Julie Duprat a continuare.
18 febbraio.
Monsieur Armand,
dal giorno in cui ha voluto andare a teatro, Marguerite è andata
sempre peggiorando. Ha perso completamente la voce, poi l'uso delle
membra. Quello che soffre la nostra povera amica non si può
raccontare. Io non sono abituata a queste emozioni, e ho spaventi
continui.
Come vorrei che foste qui con noi! Lei delira quasi continuamente, ma
delirante o lucida, è sempre il vostro nome che pronuncia quando
riesce a dire una parola.
Il medico mi ha detto che ne ha per poco. Da quando è così peggiorata,
il duca non è tornato. Ha detto al medico che questo spettacolo gli fa
troppo male.
Madame Duvernoy non si comporta affatto bene. Questa donna, che
credeva di ottenere più denaro da Marguerite, a carico della quale
viveva quasi del tutto, ha preso degli impegni che non può mantenere
e, vedendo che la sua vicina non può più esserle utile, non viene
nemmeno più a trovarla. Tutti la abbandonano. Monsieur de G...,
rovinato dai debiti, è stato costretto a ripartire per Londra.
Partendo, ci ha inviato un po' di denaro; egli ha fatto tutto quello
che ha potuto, ma sono tornati a pignorare, e i creditori non
aspettano che la morte di lei per far vendere tutto.
Volevo impiegare i miei ultimi risparmi per impedire tutti questi
pignoramenti, ma l'ufficiale giudiziario mi ha detto che era inutile,
e che aveva anche altre sentenze da eseguire. Dal momento che sta per
morire, tanto vale abbandonare tutto, piuttosto che salvare questa
roba per la sua famiglia, che lei non ha mai voluto vedere e che non
le ha mai voluto bene. Non potete immaginare in mezzo a quale miseria
dorata stia morendo questa poverina. Ieri non avevamo più denaro.
Coperte, gioielli, mantelli, tutto è impegnato, il resto è venduto o
pignorato. Marguerite ha ancora coscienza di ciò che accade intorno a
lei, e ne soffre nel corpo, nell'anima e nel cuore. Grosse lacrime le
scivolano sulle guance, così magre e pallide che non riconoscereste
più il viso di colei che amavate tanto, se poteste vederla. Mi ha
fatto promettere che vi avrei scritto quando essa non avrebbe più
potuto farlo, e scrivo davanti a lei. Mi guarda senza vedermi, il suo
sguardo è già offuscato dalla morte che si avvicina; tuttavia sorride,
e tutti i suoi pensieri, tutta la sua anima sono per voi, ne sono
certa.
Ogni volta che viene aperta la porta, i suoi occhi si illuminano, e
pensa sempre di vedervi entrare; poi, quando vede che non siete voi,
il suo viso riprende la sua espressione dolorosa, si bagna di freddo
sudore, e le sue guance si fanno di porpora".
19 febbraio, mezzanotte.
"Che triste giornata quella di oggi, mio povero monsieur Armand!
Stamane Marguerite soffocava, il medico le ha fatto un salasso, e le è
tornato un filo di voce. Il dottore le ha consigliato di far venire un
prete. Ha detto di sì, ed è andato lui stesso a cercare l'abate della
chiesa di Saint-Roch.
Frattanto Marguerite mi ha chiamata accanto al suo letto, mi ha
pregata di aprire l'armadio, poi mi ha indicato una cuffietta, una
camicia lunga tutta coperta di merletti, e mi ha detto con voce
debolissima:
'Morirò dopo essermi confessata, perciò vestimi con questi oggetti: è
una civetteria da moribonda'.
Poi mi ha abbracciato piangendo, e ha aggiunto: 'Posso parlare, ma
quando parlo soffoco. Soffoco! aria!'.
Scoppiai in pianto, aprii la finestra, e dopo qualche istante entrò il
prete. Gli andai incontro.
Quando seppe in casa di chi era, sembrò che avesse paura di essere
male accolto.
'Entrate liberamente padre', gli dissi.
E' rimasto poco nella stanza dell'ammalata, e ne è uscito dicendomi:
'E' vissuta da peccatrice, ma morirà da cristiana'.
Qualche minuto dopo, è tornato accompagnato da un chierichetto che
portava un crocifisso, e da un sacrestano che camminava davanti a loro
suonando, per annunciare che Dio veniva a visitare la moribonda.
Sono entrati tutti e tre in quella stanza da letto che aveva risuonato
in altri tempi di tante strane parole, e che ormai era solo un
tabernacolo santo.
Caddi in ginocchio. Non so per quanto tempo durerà in me l'emozione
suscitata da quello spettacolo, ma non credo che, fino a che non sarò
arrivata a quel momento, una cosa umana potrà farmi tanta impressione.
Il prete unse con l'olio santo i piedi, le mani e la fronte della
moribonda, recitò una breve preghiera, e Marguerite si trovò pronta a
partire per il cielo, dove certo andrà, se Dio ha visto le prove della
sua vita e la santità della sua morte.
Da quel momento in poi non ha più detto una parola, non ha più fatto
un movimento. Venti volte avrei potuto crederla morta, se non avessi
udito lo sforzo del suo respiro".
20 febbraio, alle cinque della sera.
"Tutto è finito.
Marguerite è entrata in agonia questa notte verso le due. Nessun
martire ha mai sofferto simili torture, a giudicare dalle grida che
emetteva. Due o tre volte si è alzata sul letto, come se volesse
riprendere la vita che saliva verso Dio.
Due o tre volte ha anche pronunciato il vostro nome, poi tutto è stato
silenzio, ed ella è ricaduta sfinita sul letto. Lacrime silenziose le
sgorgavano dagli occhi, ed è morta.
Allora mi sono avvicinata a lei, l'ho chiamata, e poiché non mi
rispondeva, le ho chiuso gli occhi e l'ho baciata sulla fronte.
'Povera cara Marguerite, avrei voluto essere una santa, affinché il
mio bacio potesse raccomandarti a Dio'.
Poi, l'ho vestita come mi aveva pregato, sono andata a cercare un
prete a Saint-Roch, ho acceso dei ceri per lei, e ho pregato in chiesa
per un'ora.
Ho dato ai poveri un po' del suo denaro.
Non mi intendo molto di religione, ma penso che il buon Dio
riconoscerà che le mie lacrime erano vere, la mia preghiera fervida,
la mia elemosina sincera, e che avrà pietà di colei che, morta giovane
e bella, non ebbe altri che me per chiuderle gli occhi e seppellirla".
22 febbraio.
"Oggi c'è stato il funerale. Molte amiche di Marguerite sono venute in
chiesa. Alcune piangevano sinceramente. Quando il corteo si è diretto
verso Montmartre, due uomini soli lo seguirono: il conte de G..., che
era tornato appositamente da Londra, e il duca, che camminava
appoggiandosi a due camerieri.
E' da casa sua che vi scrivo tutti questi particolari, tra le lacrime,
davanti alla lampada che brucia tristemente accanto a una cena che non
mangio, come potete ben immaginare, ma che Nanine mi ha fatto
preparare, perché non tocco cibo da più di ventiquattr'ore.
La mia vita non potrà conservare a lungo queste impressioni tristi,
perché essa non mi appartiene più di quanto appartenesse a Marguerite
la sua; ed è per questo che vi do tanti particolari sui luoghi stessi
nei quali sono accaduti, nel timore che, se molto tempo dovesse
passare prima del vostro ritorno, non possa darveli in tutta la loro
desolata esattezza".
“Avete letto?”, mi chiese Armand quando ebbi terminato la lettura del
manoscritto.
"Capisco quel che avete dovuto soffrire, amico mio, se tutto ciò che
ho letto è vero!".
“Mio padre me l'ha confermato in una sua lettera”.
Parlammo ancora per un po' del triste destino che si era compiuto, e
poi tornai a casa a riposarmi un poco. Armand, sempre triste, ma un
po' sollevato dopo il racconto di quella storia, si ristabilì presto,
e andammo insieme a far visita a Prudence e a Julie Duprat.
Prudence era fallita. Ci disse che Marguerite ne era stata la causa;
che, durante la malattia, le aveva prestato molto denaro, per il quale
aveva firmato delle cambiali che non aveva potuto pagare, poiché
Marguerite era morta senza restituire quanto aveva avuto e senza
averle rilasciato ricevute che le permettessero di presentarsi ai
creditori.
Con l'appoggio di questa favola, che raccontava a tutti per
giustificare i suoi cattivi affari, madame Duvernoy estorse un
biglietto da mille franchi ad Armand, che non le credeva, ma che ebbe
la compiacenza di fingere di crederle, tanto rispettava tutto ciò che
era stato vicino alla sua amante.
Poi andammo da Julie Duprat, che ci raccontò i tristi avvenimenti di
cui era stata testimone, versando lacrime sincere al ricordo della sua
amica.
Infine, andammo a visitare la tomba di Marguerite sulla quale i primi
raggi del sole di aprile facevano spuntare le prime foglie.
Ad Armand restava un ultimo dovere da compiere, raggiungere suo padre;
volle che lo accompagnassi anche questa volta.
Arrivammo a C..., dove trovai monsieur Duval esattamente come me l'ero
immaginato dal ritratto che me ne aveva fatto suo figlio: alto,
dignitoso, benevolo.
Accolse Armand con lacrime di gioia, e mi strinse affettuosamente la
mano. Mi accorsi presto che era il sentimento paterno a dominare in
lui tutti gli altri.
Sua figlia, Blanche, aveva la trasparenza degli occhi e dello sguardo,
la serenità del sorriso di chi possiede un'anima che non ha che
pensieri devoti e una bocca che non pronuncia che pie parole.
Sorrideva al ritorno del fratello, la casta giovinetta, ignorando che,
lontano da lei, una cortigiana aveva sacrificato la propria felicità
alla sola invocazione del suo nome.
Mi trattenni per un po' presso quella famiglia felice, prendendomi
molta cura di colui che le affidava la convalescenza del proprio
cuore.
Tornai a Parigi, dove scrissi questa storia esattamente come mi fu
raccontata. Essa ha un solo merito, che le sarà forse contestato:
quello di essere vera.
Non voglio trarre da questo racconto la conclusione che tutte le
giovani come Marguerite sono capaci di fare quello che lei ha fatto;
tutt'altro, ma ho avuto la prova che una di esse aveva provato nella
sua vita un amore vero, che ne aveva sofferto, e che ne era morta. Ho
narrato al lettore quello che avevo saputo. Era mio dovere.
Io non sono l'apostolo del vizio, ma mi farò sempre l'eco del nobile
dolore, dovunque lo sentirò pregare.
La storia di Marguerite è un'eccezione, ripeto; ma se così non fosse
stato, non avrebbe meritato di essere raccontata.