HEINRICH VON KLEIST

RACCONTI

Traduzione di Andrea Casalegno

© GARZANTI


MICHELE (MICHAEL) KOHLHAAS
(Da una vecchia cronaca)

Lungo le rive della Havel viveva, intorno alla metà del sedicesimo secolo, un mercante di cavalli, chiamato Michele Kohlhaas, figlio di un maestro di scuola: uno degli uomini più onesti e al tempo stesso più spaventevoli del tempo suo. - Quest'uomo fuori dell'ordinario sarebbe potuto passare fino al suo trentesimo anno per il modello del buon cittadino. Possedeva una fattoria, in un villaggio che porta ancora oggi il suo nome, e vi si manteneva pacificamente, con i frutti del suo lavoro; i fanciulli che sua moglie gli aveva dato li tirava su nel timor di Dio, laboriosi e leali; non c'era uno dei suoi vicini che non avesse provato i benefici della sua generosità, o della sua giustizia; il mondo, in breve, avrebbe dovuto benedire la memoria se non avesse ecceduto in una virtù. Il senso di giustizia, infatti, fece di lui un brigante e un assassino.
Egli era diretto, un giorno, oltre il confine, con un branco di cavalli giovani, tutti lustri e ben pasciuti, e rifletteva per l'appunto a come avrebbe impiegato il guadagno che sperava di ricavarne sui mercati (un po', da buon massaio, ne avrebbe investito, perché fruttasse a sua volta, ma un po', anche, se lo sarebbe goduto seduta stante), quando giunse all'Elba, e qui si imbatté, nei pressi di un maestoso castello, in territorio sassone, in una barriera che prima di allora non aveva mai trovato su quella strada. Fermò i cavalli, mentre proprio in quel momento si scatenava un acquazzone, e chiamò il cantoniere, che non tardò, con viso burbero, ad affacciarsi alla finestra. Il mercante di cavalli gli disse di aprire.
«Che novità è questa?», domandò, quando il gabelliere, dopo un bel po' di tempo, uscì dalla casa.
«Privilegio signorile», rispose questi, armeggiando con la serratura per aprire, «concesso al barone Venceslao di Tronka».
«Ah», fece Kohlhaas, «il barone si chiama Venceslao?», e rimirò il castello, che dominava i campi con i suoi merli scintillanti. «È morto il vecchio signore?».
«Morto, gli ha preso un colpo», rispose il gabelliere, e alzò l'albero che faceva da sbarra.
«Hm, peccato!», aggiunse Kohlhaas. «Un degno signore, il vecchio, che aveva piacere a intrattenersi con la gente, e tutte le volte che poteva dava una mano ai traffici e ai commerci; una volta fece costruire un argine di pietre perché, là dietro, dove la strada sbocca nel villaggio, una delle mie cavalle s'era spezzata una gamba. Dunque, quanto devo?», domandò; e cominciò a cavar fuori con fatica, da sotto il mantello sbattuto dal vento, i denari che il gabelliere gli aveva chiesto.
«Sì, vecchio mio», aggiunse ancora, dal momento che quello brontolava «Svelto! Svelto!», e imprecava al maltempo: «Se l'albero se ne fosse rimasto nel bosco, sarebbe stato meglio, per
me e per voi». E, così dicendo, gli diede il denaro e fece per proseguire. Ma non era neppure arrivato sotto la stanga, che già un'altra voce gli urlava dietro «Alto là, sensale!», dalla torre di guardia; ed egli vide il castaldo sbattere una finestra e precipitarsi verso di lui.
«Be', che novità è questa?», si domandò Kohlhaas fra sé, fermandosi con i suoi cavalli. Il castaldo arrivò, allacciandosi ancora il panciotto sulla figura corpulenta, e, piantato di traverso contro le raffiche di vento, chiese il lasciapassare. «Lasciapassare?», domandò Kohlhaas. E disse, un po' confuso, che, per quanto ne sapesse, non l'aveva: ma se solo avessero voluto descrivergli, bontà divina, che specie di cosa era, quel lasciapassare, magari poteva anche darsi che per caso l'avesse.
Il castaldo, guardandolo storto, replicò che, senza un permesso scritto del sovrano, a nessun sensale era consentito varcare il confine con i suoi cavalli. Il sensale assicurò che per diciassette volte, nel corso della sua vita, aveva passato il confine senza un permesso simile; e che egli conosceva perfettamente tutte le disposizioni sovrane che riguardavano la sua attività; non poteva trattarsi, dunque, che di un errore; pregava, perciò, che volessero ripensarci, e non trattenerlo oltre laggiù senza costrutto, dal momento che la sua giornata di viaggio era lunga assai. Ma il castaldo ribatté che la diciottesima non l'avrebbe fatta franca, che appunto per questo era stata recentemente emanata quella nuova ordinanza, e che, se non si fosse procurato lì sul posto il lasciapassare, avrebbe dovuto ritornarsene di dove era venuto. Il mercante, che cominciava a irritarsi a quelle estorsioni illegali, scese, dopo una breve riflessione, da cavallo lo affidò a un servo, e disse che ne avrebbe parlato di persona con il barone di Tronka. E salì infatti al castello, il castaldo gli tenne dietro, borbottando di affaristi spilorci e di opportuni salassi; e, misurandosi l'un l'altro con lo sguardo, i due entrarono insieme nella sala.
Il barone stava bevendo in mezzo a un'allegra brigata di amici, e una facezia aveva appena scatenato fra loro un'interminabile risata, quando Kohlhaas gli si avvicinò per fargli le sue rimostranze. Il barone gli chiese che cosa volesse; i cavalieri quando videro lo sconosciuto, ammutolirono; ma non appena questi ebbe incominciato a esporre le sue richieste a proposito di cavalli, tutta la brigata salto su, gridando «Cavalli? Dove sono?», e corse alle finestre per osservarli. Quando videro quella splendida mandria, scesero di corsa, su proposta del barone, nella corte; la pioggia era cessata; il castaldo, il fattore, i servi si raccolsero intorno a loro, e tutti passarono in rassegna gli animali. Uno lodava il sauro fulvo con la macchia bianca, a un altro piaceva il baio, il terzo accarezzava il pomellato a macchie gialle e nere; e tutti dicevano che quei cavalli sembravano dei cervi, e in tutto il paese non se ne allevava di più belli. Kohlhaas ribatté allegramente che i cavalli non erano migliori dei cavalieri che li avrebbero montati; e li invitò a comperare. Il barone, molto attirato dal poderoso stallone sauro, gli domandò il prezzo; il fattore gli consigliò di acquistare un paio di morelli che pensava di poter utilizzare nei lavori agricoli, perché cavalli ce n'erano pochi; ma, quando il sensale tirò fuori i prezzi, i cavalieri li trovarono troppo cari, e il barone disse che, se pretendeva tanto per quelle bestie, doveva cavalcare fino alla Tavola Rotonda, e andare alla ricerca di Re Artù.
Kohlhaas, vedendo il castaldo e il fattore bisbigliare tra loro e gettare ai morelli occhiate eloquenti, fece, per un oscuro presentimento, di tutto, perché si tenessero quei due animali. Disse al barone: «Signore, i morelli li ho acquistati sei mesi fa, per venticinque fiorini d'oro; datemene trenta, e li avrete». Due cavalieri che stavano a fianco del barone dissero apertamente che i cavalli li valevano senz'altro; ma il barone dichiarò che era disposto a spendere per il sauro, semmai, non per i morelli, e fece l'atto di andarsene. Allora Kohlhaas disse che forse avrebbeconcluso un affare con lui la prossima volta, quando fosse ripassato con i suoi cavallucci, fece al barone i suoi rispetti, e afferrò le briglie della sua cavalcatura, per ripartire. Ma in quel momento il castaldo uscì dal crocchio, dicendo che senza un lasciapassare, l'aveva sentito, non avrebbe potuto andarsene.
Kohlhaas si voltò, e domandò al barone se fosse proprio vera quella faccenda, che rovinava tutta la sua attività. Il barone rispose, con aria imbarazzata, allontanandosi: «Sì, Kohlhaas, devi procurarti il lasciapassare. Parlane con il castaldo, e va' per la tua via». Kohlhaas gli assicurò che non aveva alcuna intenzione di eludere le ordinanze sull'esportazione dei cavalli, quali che fossero, promise che, passando da Dresda, sarebbe andato a prendere il lasciapassare alla Cancelleria, e lo pregò di lasciarlo passare soltanto per quella volta, dato che non aveva saputo proprio nulla di una simile richiesta.
«E va bene!», disse il barone, mentre il temporale, proprio in quel momento, riprendeva, e il vento sibilando gli passava da parte a parte le membra rinsecchite. «Lasciate andare questo poveraccio. Venite!», disse rivolto ai cavalieri, si voltò e fece per rientrare al castello. Il castaldo, rivolto al barone, disse che il mercante doveva almeno lasciare un pegno, per essere certi che andasse a ritirare il documento. Il barone si fermo di nuovo, sotto il portone del castello. Kohlhaas domandò quale valore, in denaro o in oggetti, dovesse lasciare, come pegno per i morelli. Il fattore, masticando le parole nella barba, disse che poteva lasciare per l'appunto i morelli. «Sicuro», disse il castaldo; «è la cosa più conveniente; quando ha ritirato il lasciapassare, può venire a prenderseli in qualunque momento».
Kohlhaas, sconcertato da una richiesta così sfacciata, disse al barone, che si stringeva addosso intirizzito il giustacuore, che i morelli li voleva vendere. Ma questi, mentre in quell'attimo una raffica scagliava attraverso il portone uno scroscio di pioggia mista a grandine, gridò, per mettere fine alla cosa: «Se non vuoi mollare i cavalli, ributtatelo al di là dello sbarramento», e se ne andò. Il sensale, rendendosi conto che doveva pur cedere alla violenza, decise di accogliere la richiesta, visto che non gli restava altro da fare; sciolse i morelli, e li condusse in una stalla indicatagli dal castaldo. Lasciò con le bestie un servo, gli rimise del denaro, gli raccomandò di tenere ben d'occhio i cavalli fino al suo ritorno, e proseguì, con il resto della mandria, il suo viaggio verso Lipsia, dove voleva recarsi alla fiera; rimuginando, incerto, fra sé e sé, se forse, dopo tutto, in Sassonia non potesse essere stato emanato un simile ordine, per proteggere qualche nuovo allevamento di cavalli.
A Dresda, dove possedeva, nei sobborghi, una casa con alcune stalle, perché quella era la base dei suoi commerci sui mercati minori della regione, si recò subito, appena arrivato, alla Cancelleria; e qui venne a sapere dai consiglieri, alcuni dei quali conosceva, che, come aveva sospettato, in realtà, fin dal primo momento, la storia del lasciapassare era inventata di sana pianta. Kohlhaas, dopo che i consiglieri, di malavoglia, gli ebbero rilasciato, su sua richiesta, una dichiarazione scritta che ne attestava l'infondatezza, sorrise allo scherzo dell'allampanato barone, anche se non capiva ancora bene a che cosa avesse potuto mirare; e, venduto con soddisfazione, poche settimane dopo, il branco di cavalli che aveva con sé, senza portarsi ormai dietro maggiore amarezza che non fosse quella sulla generale miseria del mondo, fece ritorno al castello di Tronka.
Il castaldo, al quale mostrò la dichiarazione, non aggiunse parola sull'argomento; e quando il sensale gli domandò se ora poteva riavere i cavalli, rispose che scendesse, e andasse a prenderseli. Ma già attraversando il cortile Kohlhaas ebbe la spiacevole sorpresa di venire a sapere che il suo servo, soltanto pochi giorni dopo essere stato lasciato nel castello, per il suo contegno sconveniente, a quanto dicevano, era stato bastonato e cacciato via. Al ragazzo che gli aveva dato la notizia Kohlhaas domandò che cosa avesse fatto, e chi si fosse occupato, nel frattempo, dei cavalli; al che il ragazzo rispose di non saperlo, mentre apriva davanti a lui, che aveva già il cuore gonfio di presentimenti, la stalla in cui si trovavano. Quale fu però il suo stupore, quando, al posto dei suoi due morelli lustri e ben pasciuti, scorse un paio di allampanati e sparuti ronzini; ossa che sarebbero potute servire per appendere i panni, pelame e criniere intrecciate, che nessuno aveva pulito e rigovernato: il vero ritratto dello squallore nel regno animale!
Kohlhaas, al quale le bestie nitrirono, con un debole movimento, era al colmo dell'indignazione, e domandò che cosa fosse successo ai suoi poveri cavalli. Il ragazzo, che stava al suo fianco, rispose che no, alle bestie non era successa nessuna disgrazia, e avevano sempre ricevuto la loro razione di biada; ma, dato che era appunto il tempo del raccolto, e mancavano animali da tiro, erano stati adoperati un poco nei campi. Kohlhaas inveì contro quell'infame, concertato sopruso; ma, sentendosi impotente, ingoiò la sua rabbia, e stava già preparandosi poiché non gli restava altro, ad andarsene con i suoi cavalli da quel covo di briganti, quando apparve il castaldo, richiamato dal battibecco, e chiese che cosa stava succedendo. «Che cosa succede?», rispose Kohlhaas. «Chi ha dato al barone di Tronka e alla sua gente l'autorizzazione di servirsi per il lavoro dei campi dei miei morelli, che avevo lasciato presso di lui? Era umano», aggiunse, «comportarsi così?». E cercò di scuotere gli animali esausti con un colpo di scudiscio, mostrandogli che non si muovevano neppure. Il castaldo, dopo averlo squadrato per un pò, con aria di sfida, replicò: «Vedi un po' il tanghero! Come se non dovesse ringraziare Iddio, il villano, che i suoi ronzini sono ancora vivi. E chi avrebbe dovuto prendersene cura», domandò, «dopo che il suo servo se n'era scappato? Non era stato forse giusto che i cavalli si guadagnassero sui campi il foraggio che avevano ricevuto?». E chiuse il discorso dicendo che la smettesse di far storie, o avrebbe chiamato i cani, e con essi avrebbe saputo come riportare la calma nella corte.
Al mercante batteva il cuore contro la giubba. Faceva fatica a non scaraventare quell'ignobile pancione in mezzo al letame, e a non calpestare col piede la sua faccia di bronzo. Ma il suo senso di giustizia, che era come la bilancia dell'orafo, oscillava ancora; davanti al tribunale del suo cuore, non era ancora certo che il suo avversario fosse colpevole; e, mentre ingoiando gli improperi si accostava ai cavalli e, soppesando in silenzio le circostanze, ravviava alle bestie la criniera, domandò a voce bassa per quale mancanza il suo servo fosse stato allontanato dal castello. «Perché quella lenza s'è messo a fare il gradasso, qui nella corte!», rispose il castaldo. «Perché si è rifiutato di accettare un cambio di stalla di cui non si poteva fare a meno, e pretendeva che i cavalli di due gentiluomini giunti al castello di Tronka passassero la notte sulla strada maestra, per amore dei suoi ronzini!».
Kohlhaas avrebbe dato il valore dei cavalli per avere sottomano il suo servo, e poter confrontare il suo racconto con quello che usciva dalla boccaccia del castellano. Era sempre là, in piedi, sbrecciando ai morelli i crini arruffati, e riflettendo al da farsi, nella situazione in cui si trovava, quando la scena mutò di colpo, e il barone Venceslao di Tronka, con una torma di cavalieri, di servi e di cani, tornando dalla caccia alla lepre irruppe nel piazzale del castello. Il castaldo, quando gli fu chiesto che cosa fosse accaduto, prese subito la parola, e, mentre i cani, alla vista del forestiero, scatenavano contro di lui dei latrati d'inferno, e i cavalieri a loro volta gridavano per metterli a tacere, riferì al suo padrone, mettendo il fatto nella luce peggiore, che razza di rivolta avesse messo su quel Cavallar, perché si erar fatti lavorare un po' i suoi morelli. E disse, fra risa di scherno che rifiutava di riconoscere i cavalli per suoi.
«Non sono i miei cavalli, signore illustrissimo!», gridò Kohlhaas. «Non sono i cavalli che valevano trenta fiorini d'oro! Voglio riavere i miei cavalli sani e ben nutriti!».
Il barone per un attimo impallidì, e disse, scendendo di sella: «Se mastro Bertoldo non vuole riprendersi i cavalli, che li lasci pure qui. Vieni qua, Guntiero!», gridò. «Gianni! Venite qua!», e intanto spazzava con la mano la polvere dai calzoni.
«Portate del vino!», gridò ancora, quando fu sulla soglia con i cavalieri; ed entrò in casa. Kohlhaas disse che avrebbe preferito chiamare lo scortichino, e portare i suoi cavalli al macello piuttosto che riportarseli nella sua stalla a Pontekohlhaas così com'erano. Lasciò le bestie sul piazzale, senza curarsene più saltò sul suo baio, assicurando che avrebbe saputo farsi giustizia, e se ne andò.
Correva già, a spron battuto, sulla strada di Dresda; ma, ripensando al suo servo, e alle accuse che avevano mosso contro di lui al castello, si mise al passo; e, prima di averne fatti mille, voltò il cavallo, e, per interrogare prima di tutto il suo servo, cosa che gli sembrava prudente e giusta, piegò verso Pontekohlhaas. Perché un sentimento di giustizia, al quale era ben noto l'ordine imperfetto delle cose umane, lo rendeva incline nonostante le offese patite, se soltanto il suo servo si fosse reso realmente responsabile di una colpa qualsiasi, come pretendeva il castaldo, a rassegnarsi, come a una giusta conseguenza, alla perdita dei cavalli. Ma se, per contro, gli diceva un sentimento non meno imperioso, un sentimento che metteva in lui radici sempre più profonde, man mano che egli proseguiva nella sua cavalcata, e, dovunque entrasse, sentiva parlare delle ingiustizie quotidianamente commesse al castello di Tronka, in danno dei viaggiatori: se l'intera storia, come tutte le apparenze lasciavano credere, non era altro che una macchinazione, allora egli aveva, di fronte al mondo, il dovere di procacciare, con tutte le sue forze, a sé stesso soddisfazione per l'offesa patita, e ai suoi concittadini sicurezza contro offese future.
Non appena, giunto a Pontekohlhaas, ebbe abbracciato Lisabetta, la sua fedele moglie, e baciato i suoi figli, che gli facevano festa alle ginocchia, chiese immediatamente di Ersiano, il capo della servitù: se n'era sentito qualcosa?
«Già, Michele carissimo, proprio Ersiano!», disse Lisabetta.
«Pensa un po', quel poveraccio, saranno quindici giorni, arriva qui tutto pesto da far pietà; no, ti dico, così conciato da non poter nemmen tirare il respiro. Lo mettiamo a letto, dove non fa che sputar sangue, e a furia di chiedere veniamo a sapere una storia che nessuno capisce. Che è stato lasciato indietro da te a Castel Tronka, con dei cavalli che non han lasciato passare; che l'hanno costretto, con i maltrattamenti più vergognosi, a lasciare il castello; e che non ha potuto portarsi via i cavalli».
«Ah sì?», disse Kohlhaas, togliendosi il mantello. «E si è già rimesso?».
«Mezzo e mezzo; ma sputa ancora sangue», rispose lei. «Volevo mandare subito un servo a Castel Tronka, perché si prendesse cura dei cavalli, fino al tuo ritorno. Perché Ersiano si è sempre dimostrato così sincero con noi, e così fedele, sì, più di tutti gli altri servi, che non mi è neppure venuto in mente di dubitare del suo racconto, confermato da tanti particolari; e di credere, per esempio, che avesse perso i cavalli in altro modo. Ma lui mi scongiurò di non pretendere da nessuno di metter piede in quel covo di briganti, e di rinunciare alle bestie, se non volevo, per loro, sacrificare degli uomini».
«È ancora a letto?», domandò Kohlhaas, liberandosi della sciarpa.
«È già da qualche giorno che ha ricominciato a uscire nel cortile. Insomma, vedrai», continuò Lisabetta, «che è proprio tutto come lui ha detto, e che questa faccenda è una delle angherie che, da un po' di tempo, quelli di Castel Tronka si permettono contro i forestieri».
«Prima di tutto vedrò coi miei occhi», replicò Kohlhaas.
«Fallo venire un po' qua, Lisabetta, se è in piedi!». E con queste parole si sedette, mentre la massaia, molto contenta che la prendesse così calma, andò a chiamare il servo.
«Che cosa hai combinato a Castel Tronka?», gli domandò Kohlhaas, quando Lisabetta rientrò con lui nella stanza. «Non sono troppo contento di te».
Il servo, il cui volto pallido si coprì di macchie rosse, a queste parole, restò per un poco in silenzio, e poi rispose:
«Avete ragione, padrone! Perchè una miccia che, per volontà di Dio, avevo con me, per metter fuoco a quel covo di briganti da cui ero stato scacciato, la buttai, quando sentii piangere un bambino nel castello, nelle acque dell'Elba, e pensai: possa ridurlo in cenere la folgore divina! Io non lo farò».
Impressionato, Kohlhaas disse: «E in che modo ti sei fatto cacciare da Castel Tronka?». E Ersiano:
«Con un tiro mancino, padrone!». E si asciugò il sudore dalla fronte. «Ma cosa fatta capo ha. Non volevo che rovinassero i cavalli nel lavoro dei campi; ho detto che erano giovani, che non erano ancora mai stati aggiogati».
Kohlhaas, cercando di nascondere il suo turbamento, rispose che qui non aveva detto tutta la verità, perché all'inizio della primavera scorsa i cavalli, qualche volta, erano stati messi al tiro. «Al castello», proseguì, «dove, in fondo, eri una specie di ospite, avresti dovuto mostrarti compiacente, almeno qualche volta, quando c'era proprio bisogno, per portare alla svelta il raccolto al coperto».
«È quello che ho fatto, padrone», disse Ersiano. «Ho pensato, dal momento che mi guardavano di brutto, che i morelli non sarebbero morti per questo. La mattina del terzo giorno li attaccai, e portai dentro tre carichi di grano».
Kohlhaas, al quale il cuore stava per scoppiare, chinò gli occhi a terra, e commentò: «Di questo non m'han detto nulla, Ersiano!».
Ersiano l'assicurò che era andata così. «La mia poca compiacenza è stata questa: che non volli più riaggiogarli a mezzogiorno, quando i cavalli non avevano neppure finito la biada. E quando il castaldo e il fattore mi proposero, in cambio, il foraggio, e mi dissero di mettere in tasca il denaro che voi mi avevate lasciato per il mantenimento delle bestie, io risposi "vi faccio vedere io", gli voltai le spalle, e me ne andai».
«Ma non è stato per questa poca compiacenza», disse Kohlhaas, «che ti hanno scacciato da Castel Tronka».
«Dio ne guardi!», gridò il servo. «Per un'azione che grida vendetta a Dio. Perché quella sera condussero nella stalla i cavalli di due cavalieri, arrivati a Castel Tronka, e i miei vennero legati fuori, alla porta della stalla. E quando tolsi i morelli di mano al castaldo, che ce li legava di persona, e gli chiesi dove dovevano stare, adesso, le mie bestie, lui mi indicò un porcile fatto di assi e di tavole, a ridosso del muro di cinta.
«Vuoi dire», lo interruppe Kohlhaas, «che era un così cattivo riparo, per dei cavalli, che assomigliava più a un porcile che a una stalla».
«Era un porcile, padrone», rispose Ersiano. «Un porcile vero e proprio, dove i maiali correvamo avanti e indietro, e io non potevo stare in piedi».
«Forse non c'era nessun altro posto, dove mettere al riparo i morelli», replicò Kohlhaas. «In un certo senso i cavalli degli ospiti avevano la precedenza».
«Lo spazio», continuò il servo, abbassando la voce, «era poco. In tutto allora c'erano sette cavalieri che alloggiavano al castello. Se foste stato voi, avreste fatto stringere un po' i cavalli. Dissi che mi sarei cercato una stalla da affittare nel villaggio; ma il castaldo mi rispose che i morelli non doveva perderli d'occhio, e non mi azzardassi a portarli via dal cortile».
«Hm», fece Kohlhaas; «e tu che hai risposto?».
«Dal momento che il fattore disse che i due ospiti avrebbero passato soltanto la notte, e il mattino dopo avrebbero proseguito, rinchiusi i cavalli nel porcile. Ma il giorno seguente passò, e non partirono; e quando venne il terzo giorno, dissero che i signori si sarebbero trattenuti al castello per qualche settimana».
«Alla fin fine non si stava poi così male nel porcile, come ti era parso quando ci avevi messo il naso la prima volta», disse Kohlhaas.
«È vero», rispose il servo. «Quando l'ebbi spazzato un po', il posto poteva andare. Ho dato due soldi alla sguattera, perché andasse a mettere i maiali da qualche altra parte. E il giorno dopo mi preoccupai anche che le bestie potessero stare in piedi; alla prima luce dell'alba, tolsi le tavole del soffitto, e ce le rimisi la sera. Così allungavano il collo, come le oche, sopra il tetto, e si guardavano intorno, cercando Pontekohlhaas, o qualche altro posto, dove stare meglio di là».
«Ma insomma», domando Kohlhaas, «per quale ragione al mondo ti hanno cacciato via?».
«Padrone, ve lo dico io», rispose il servo. «Perché volevano liberarsi di me. Perché, finché c'ero io, non potevano sfiancare del tutto i cavalli. Dappertutto mi guardavano in cagnesco, in cortile, nei locali della servitù. E siccome io pensavo, mi storcete la bocca? vi si sloghino le mascelle!, han preso il primo pretesto che gli è venuto a tiro, e mi han buttato fuori».
«Ma la ragione!», gridò Kohlhaas. «Avranno pur avuto qualche ragione!».
«Oh, certamente», rispose Ersiano, «una ragione giustissima. La sera del secondo giorno che avevo passato nel porcile,presi i cavalli, che si erano tutti insudiciati, e volevo portarli allo stagno. E quando sono giù, sotto il portone principale, e sto per svoltare, sento il castaldo e il fattore, con servi, cani e randelli, precipitarsi dietro di me dalle stanze della servitù, gridando: "Ferma, furfante! Ferma, pendaglio da forca!", come se fossero invasati. Il guardaportone mi sbarra la strada; io chiedo a lui, e a quel mucchio di forsennati che mi corrono addosso, che cosa succede. "Che cosa succede?", risponde il castaldo, e afferra per le briglie i miei due morelli. "Dove vuole andarsene, questo, coi cavalli?". E mi agguanta per la camicia. "Dove voglio andarmene, dico io? Fulmini del cielo! Allo stagno me ne voglio andare. Ma pensate che io...?". "Allo stagno?", grida il castaldo. "T'insegno io a fare il bagno sulla strada maestra, imbroglione, dalla parte di Pontekohlhaas!" E con un colpo vigliacco a tradimento lui e il fattore, che mi aveva preso per una gamba, mi tirano giù da cavallo, e finisco nel fango lungo disteso. "Morte e dannazione!", grido: ma se i finimenti e le coperte sono nella stalla, e c'è anche il mio fagotto della biancheria! Ma lui e i servi, mentre il fattore si porta via i cavalli, mi danno tutti addosso, coi calci, e le fruste e i randelli, finché cado, mezzo morto, al di là del portone. E poiché io grido: "Briganti! Dove mi portate i cavalli?", e mi tiro su, "Fuori di qui!", urla il castaldo; "Dai, Cesare! Dai, Bracco!", si sente gridare, e: "Dai, Lupo!"; e mi piomba addosso una muta di una dozzina di cani, e più. Allora io stacco, non so che cosa, un palo doveva essere, dalla staccionata, e tre cani li stendo giù vicino a me, morti stecchiti; ma il dolore per i morsi e i tagli, che fan spavento a vedersi, mi costringe a indietreggiare; e allora fiuu!, sibila un fischio, i cani rientrano, il portone chiude i battenti, mettono il catenaccio: e io cado svenuto sulla strada».
Kohlhaas, pallido in volto, fece ancora, con malizia un po' forzata: «Ma proprio non te la volevi filare, Ersiano?». E poiché lui, paonazzo, fissava per terra, davanti a sé: «Via, confessa», continuò, «non ti piaceva stare nel porcile; pensavi che nella stalla di Pontekohlhaas si sta meglio».
«Tuoni e fulmini!», gridò Ersiano. «Non ho forse lasciato laggiù, nel porcile, le coperte e i finimenti, e un fagotto di biancheria? E non mi sarei messo in tasca i tre fiorini imperiali che avevo nascosto dietro la mangiatoia, nel fazzoletto di seta rossa? Per tutti i diavoli dell'inferno! Quando parlate così, mi viene voglia di riaccendere subito quella miccia che ho gettato via!».
«Su, su!», disse il mercante. «Non intendevo offenderti. Quel che hai detto, guarda, te lo credo parola per parola. E se qualcuno lo mette in dubbio, sono pronto a prenderci sopra l'ostia consacrata. Mi rincresce che, per servirmi, non ti sia andata meglio. Vai, Ersiano, vattene a letto, fatti dare un fiasco di vino, e consolati: ti sarà fatta giustizia!».
E, così dicendo, si alzò, fece un elenco delle cose che il suo soprastante aveva lasciato nel porcile, ne specificò il valore, gli domandò, anche, quanto valutasse le spese per la cura, e lo congedò, dopo avergli teso, ancora una volta, la mano.
Poi raccontò a Lisabetta, sua moglie, per filo e per segno come erano andate le cose, e cosa c'era sotto, e le dichiarò di essere fermamente deciso a ricorrere alla pubblica giustizia; ed ebbe la gioia di vedere che lei lo incoraggiava con tutta l'anima nel suo proponimento. Lei disse, infatti, che molti altri viaggiatori, forse meno pazienti di lui, sarebbero passati per quel castello, che sarebbe stata un'opera benedetta porre un freno a simili disordini, e che ci avrebbe pensato lei a mettere assieme la somma necessaria per affrontare le spese del processo. Kohlhaas la chiamò la sua brava moglie, passò lietamente con lei e con i suoi figli quel giorno e il successivo, e, non appena gli affari gliene diedero modo, si mise in viaggio per Dresda, per portare in giudizio la sua querela.
Qui, con l'aiuto di un giureconsulto che conosceva, stese un ricorso, in cui, dopo una descrizione dettagliata del sopruso commesso dal barone Venceslao di Tronka, contro lui stesso, e contro il suo servo Ersiano, chiedeva che il colpevole fosse punito secondo la legge, che i cavalli fossero riportati nelle condizioni originarie, e che fossero risarciti i danni che sia egli, sia il servo suo, avevano patito da tutto ciò. La causa, infatti, era chiara. La circostanza che i cavalli fossero stati trattenuti in modo illegittimo gettava su tutto il resto una luce decisiva; e, anche se si fosse voluto supporre che i cavalli si fossero ammalati per puro caso, la richiesta del sensale di riaverli indietro in buona salute sarebbe stata comunque giustificata. E, mentre Kohlhaas si guardava intorno nella città di residenza del principe, non gli mancarono amici che gli promisero di sostenere a spada tratta le sue ragioni; il suo commercio di cavalli, assai esteso, la conoscenza e l'onestà con cui lo conduceva gli aveva procurato la benevolenza degli uomini più importanti del paese. Più volte egli sedette allegramente a mensa, in casa del suo avvocato, che era a sua volta una persona in vista; depositò presso di lui una somma per sopperire alle spese processuali, e, trascorse poche settimane, completamente tranquillizzato da lui circa l'esito della causa, se ne tornò a Pontekohlhaas da Lisabetta, sua moglie.
Eppure i mesi passarono, e l'anno volgeva ormai al termine, senza che egli ricevesse dalla Sassonia neppure una dichiarazione sulla querela da lui intentata, per non parlare della sentenza.
Dopo aver inoltrato più volte ripetuti solleciti al tribunale, egli scrisse al suo avvocato una lettera confidenziale, in cui gli chiedeva la causa di un ritardo così eccessivo, e venne a sapere che, per un intervento assai elevato, presso il tribunale di Dresda, la sua querela era stata definitivamente cassata. Quando il mercante riscrisse, sbalordito, domandandone le ragioni, questi gli comunicò che il barone Venceslao di Tronka era parente di due nobiluomini, Enzo e Corrado di Tronka, adibiti al seguito personale del principe, coppiere l'uno, e l'altro addirittura camerlengo. E gli consigliava di mettere da parte ogni sforzo, per quanto era delle vie legali, e cercare solo di tornare in possesso dei suoi cavalli, rimasti nel castello di Tronka; gli faceva capire, infatti, che il barone, che al momento soggiornava nella capitale, sembrava aver dato disposizione alla sua gente di consegnargli i cavalli; e concludeva pregandolo, se non voleva accontentarsi di una simile soluzione, di dispensare almeno lui da ogni ulteriore incarico.
Kohlhaas, in quel periodo, si trovava per l'appunto a Brandeburgo, dove il prefetto Enrico di Geusau, alla cui giurisdizione apparteneva anche Pontekohlhaas, era in quel momento impegnato a organizzare un certo numero di istituti per l'assistenza ai poveri e agli ammalati, grazie a un lascito considerevole che era toccato alla città. E soprattutto si adoperava per adattare ad uso degli infermi una fonte minerale che scaturiva in un villaggio della regione, e dalle cui virtù salutari ci si riprometteva assai più di quanto il futuro poi mantenesse. Poiché Kohlhaas l'aveva conosciuto e frequentato, durante il periodo in cui aveva soggiornato presso la corte, questi permise a Ersiano, il soprastante dei servi, al quale, da quei brutti giorni al castello di Tronka, era rimasto un dolore al petto, ogni volta che traeva il respiro, di sperimentare l'efficacia della piccola fonte medicamentosa, alla quale era stato annesso un recinto coperto. Avvenne che, proprio mentre Kohlhaas riceveva, dalle mani di un messaggero, che sua moglie gli aveva mandato, la lettera scoraggiante del suo avvocato di Dresda, il prefetto fosse presente, per dare alcune disposizioni, presso il bordo della vasca nella quale il mercante aveva fatto adagiare Ersiano. Il prefetto, che, parlando con il medico, aveva notato che Kohlhaas faceva cadere una lacrima sulla lettera che aveva ricevuto e aperto, gli si avvicinò, con fare gentile e premuroso, e gli chiese quale sventura l'avesse colpito. E quando il mercante, senza rispondere gli tese la lettera, quell'uomo dabbene, che era al corrente della rivoltante ingiustizia commessa contro di lui al castello di Tronka, per le cui conseguenze Ersiano appunto soffriva, e avrebbe sofferto forse per tutta la vita, gli batté sulla spalla, e gli disse di non perdersi di coraggio: l'avrebbe aiutato lui a ottenere soddisfazione!
Quella sera, quando il mercante, dietro suo ordine, si recò da lui al castello, questi gli disse di stendere soltanto una supplica all'Elettore del Brandeburgo, con una breve esposizione dell'accaduto, di allegarvi la lettera dell'avvocato, e di invocare la protezione del principe, a causa della violenza che si erano permessi contro di lui in territorio sassone. Egli promise di rimettere la petizione, che avrebbe incluso in un altro plico, già pronto, nelle mani dell'Elettore: il quale da parte sua, senza fallo, se le circostanze lo permettevano, sarebbe intervenuto presso il principe Elettore di Sassonia. Un passo simile sarebbe stato più che sufficiente a fargli ottenere giustizia presso il tribunale di Dresda, a dispetto delle arti del barone e delle sue aderenze. Kohlhaas, vivamente rallegrato, ringraziò di tutto cuore il prefetto per quella nuova dimostrazione della sua benevolenza; aggiunse che gli dispiaceva soltanto di non aver fatto capo sin dal principio a Berlino, per trattare la sua faccenda, senza compiere a Dresda passi di alcun genere; e, dopo aver redatto nella Cancelleria del tribunale cittadino la sua lagnanza, seguendo fedelmente le istruzioni, e averla consegnata al prefetto, fece, più rassicurato che mai sull'esito della sua causa, ritorno a Pontekohlhaas.
Ma già poche settimane dopo, per mezzo di un magistrato che si recava a Potsdam per seguire alcune faccende del prefetto, ebbe il cruccio di sapere che il principe Elettore aveva rimesso la supplica al suo cancelliere, il conte Kallheim, e questi non si era direttamente rivolto alla corte di Dresda, come sembrava opportuno, per l'inchiesta e la punizione del sopruso bensì al barone di Tronka, per avere innanzitutto da lui maggiori informazioni. Il magistrato, che, nella sua carrozza, che aveva fermato davanti all'abitazione di Kohlhaas, sembrava aver avuto l'incarico di fare al mercante quella comunicazione alla sua sbigottita domanda come mai si fosse proceduto a quel modo, non seppe dare una risposta soddisfacente. Aggiunse soltanto che il prefetto gli faceva dire di aver pazienza; sembrava aver molta fretta di proseguire il suo viaggio, e solo al termine del breve colloquio, da alcune parole buttate là, Kohlhaas indovinò che il conte Kallheim era imparentato con la casa dei Tronka.
Kohlhaas, al quale non davano più gioia né l'allevamento dei cavalli, né la casa e la fattoria, e quasi neppure la moglie e i figli, tenne duro, pieno di cupi presentimenti per l'avvenire, fino alla luna successiva; e, proprio come si aspettava, trascorso quel periodo, Ersiano, al quale le cure termali avevano procurato un po' di sollievo, ritornò da Brandeburgo, con una lettera del prefetto, che accompagnava un lungo rescritto. In essa il prefetto si diceva spiacente di non poter far nulla per la sua causa; gli inviava una risoluzione della Cancelleria di Stato, che gli era stata rimessa; e gli consigliava di andare a riprendersi i cavalli che erano rimasti nel castello di Tronka, e per il resto lasciare le cose come stavano.
La risoluzione suonava: «Egli era, secondo il rapporto del tribunale di Dresda, un querelante ozioso; il barone presso il quale egli aveva lasciato i cavalli non li tratteneva in alcun modo; che mandasse qualcuno a riprenderli al castello, o almeno facesse sapere al barone dove avrebbe dovuto mandarglieli; ma in ogni caso risparmiasse alla Cancelleria di Stato simili beghe fastidiose».
Kohlhaas, per cui non era questione di cavalli - avrebbe provato lo stesso dolore se si fosse trattato di due cani - Kohlhass ribollì di furore, quando ricevette la lettera. Ogni volta che nel cortile si faceva udire un rumore, guardava, nell'attesa a se stesso più odiosa che avesse mai agitato il suo petto, verso il viottolo dell'ingresso, se mai comparissero gli uomini del barone, per riportargli, forse addirittura con le sue scuse, i cavalli sfiniti dalla fame e dalla fatica; era la prima volta che la sua anima, così ben temprata alla scuola della vita, si aspettava qualcosa che non corrispondeva completamente ai suoi sentimenti. Ma già poco tempo dopo sentì dire, da un conoscente che era passato per quella strada, che al castello di Tronka i suoi cavalli continuavano come per l'innanzi, come tutti gli altri cavalli del barone, a essere adoperati nel lavoro dei campi; e, attraverso il dolore di scorgere il mondo in tale stato di mostruoso disordine, batté con forza l'intima gioia di vedere ormai l'ordine nel suo cuore.
Invitò a casa sua un balivo, suo vicino, che da tempo accarezzava il progetto di ingrandire i suoi possedimenti, acquistando i terreni confinanti; e, quando questi si fu accomodato, gli domandò quanto sarebbe stato disposto a dargli per le sue proprietà in Sassonia e nel Brandeburgo; tutto compreso, casa e podere, beni mobili e immobili. Lisabetta, sua moglie, sbiancò a queste parole. Si voltò, tirò su il figlio più piccolo che dietro di lei si trastullava per terra, e, sfiorando le guance rosse del fanciullo, che giocava con le sue collane, gettò sul mercante, e su un foglio che questi teneva in mano, degli sguardi nei quali era dipinta la morte. Il balivo gli domandò, osservandolo con stupore, che cosa gli avesse fatto venire di colpo in mente un'idea così strana. Ma egli rispose, con quanta allegria riuscì a imporre a se stesso, che l'idea di vendere la sua masseria sulle rive della Havel non era del tutto nuova. Non avevano forse già più volte condotto trattative sull'argomento? Quanto alla casa nei sobborghi dl Dresda, essa non era, in confronto, che un accessorio, del quale non metteva conto parlare. In breve, se voleva fare la sua volontà, e prendersi l'uno e l'altro terreno, egli era pronto a concludere il relativo contratto. E aggiunse, con un tono scarso piuttosto sforzato, che Pontekohlhaas non era poi il mondo; che potevano esserci degli scopi in confronto ai quali dirigere, da buon padre di famiglia, l'azienda domestica era cosa secondaria e poco onorevole; che, in breve, l'anima sua, doveva dirgli, era tesa a cose grandi, delle quali, forse, avrebbe presto sentito parlare.
Tranquillizzato da queste parole, il balivo disse allegramente, rivolto alla donna, che baciava e ribaciava il bambino: «Non pretenderà mica il pagamento seduta stante?», posò sulla tavola cappello e bastone, che teneva fra le ginocchia, e prese il foglio che il mercante aveva in mano, per leggerlo tutto. Kohlhaas, facendosi più vicino, gli spiegò che si trattava di un ipotetico contratto di acquisto, a nome suo, con una scadenza di quattro settimane; gli mostrò che non vi mancava nulla, se non le firme, e l'indicazione delle somme vale a dire il prezzo d'acquisto da un lato, e dall'altro la penale, cioé la somma che egli si impegnava a pagare se, entro le quattro settimane, si fosse tirato indietro; e lo invitò ancora una volta, allegramente, a fare un'offerta, assicurando che le sue pretese erano modeste, e non avrebbe fatto difficoltà. La donna andava avanti e indietro per la stanza; il petto le ansava, tanto che il fazzoletto, che il bambino aveva tirato per gioco, stava per caderle del tutto dalla spalla. Il balivo disse di non essere in alcun modo in grado di giudicare il valore della proprietà di Dresda; al che Kohlhaas rispose, porgendogli alcune lettere che erano state scambiate al tempo dell'acquisto, che la valutava cento fiorini d'oro; benché da quelle carte risultasse che gli era costata quasi la metà in più. Il balivo rilesse ancora una volta il contratto di acquisto; e vedendo che, stranamente includeva anche da parte sua la facoltà di recedere, disse, già a metà deciso, che però non sapeva che farsene degli stalloni che si trovavano nelle sue stalle, ma poiché Kohlhaas replicò che non intendeva affatto disfarsene, e voleva anche tenere per sé alcune armi, che erano appese nell'armeria, questi allora esitò, esitò ancora, e alla fine ripeté un'offerta che gli aveva già fatto, mezzo per scherzo, mezzo sul serio, poco tempo prima, durante una passeggiata, e che era irrisoria, rispetto al valore dei possedimenti.
Kohlhaas spinse verso di lui la penna e l'inchiostro, perché scrivesse; e quando il balivo, non credendo ai suoi occhi, gli domandò ancora una volta se faceva sul serio, e il mercante gli ebbe risposto, un po' risentito, se credeva forse che si stesse prendendo gioco di lui, questi prese bensì in mano la penna, con espressione pensierosa, e cominciò a scrivere; ma cancellò il punto in cui si parlava della penale che il venditore avrebbe pagato, se si fosse pentito, si impegnò a versare, a titolo di prestito, cento fiorini d'oro, garantiti da un'ipoteca sul possedimento di Dresda che, con quella somma, egli non intendeva affatto comprare, e lasciò al mercante piena libertà, per due mesi, di recedere dal negozio. Il mercante, toccato da questo modo di agire, gli strinse calorosamente la mano; e, dopo che si furono accordati sul punto, che era una delle condizioni principali, che un quarto del prezzo di acquisto sarebbe stato pagato subito in contanti, e il resto, entro tre mesi, presso la banca di Amburgo egli gridò che si portasse del vino, per festeggiare un negozio così felicemente concluso. Disse a una ragazza, che era entrata con le bottiglie, che Sternbald, il garzone, gli sellasse il sauro, spiegando che doveva recarsi alla capitale, dove aveva da fare, e lasciò capire che in breve tempo, quando fosse tornato, avrebbe parlato a cuore aperto di ciò che, per il momento, doveva tenere per sé. Poi, riempiendo i bicchieri, domandò dei Polacchi e dei Turchi, che per l'appunto allora erano in lotta, trascinò il balivo in una serie di congetture politiche sulla questione, brindò ancora una volta, alla fine, alla felice conclusione del loro affare, e lo congedò.
Quando il balivo ebbe lasciato la stanza, Lisabetta gli cadde in ginocchio davanti. «Se hai ancora nel cuore», gridò, «me, e i bambini che ti ho partorito, se non ne siamo già stati banditi ormai, per una qualche ragione, che io non so: dimmi che cosa significano questi orribili preparativi!».
«Moglie carissima», disse Kohlhaas, «nulla che, finché le cose stanno così, ti debba impensierire. Ho ricevuto una risoluzione, in cui mi si dice che la mia querela contro il barone Venceslao di Tronka è una bega oziosa. E poiché deve trattarsi di un malinteso, ho deciso di presentare ancora una volta la mia querela, personalmente al principe Elettore».
«E perché vuoi vendere la casa?», gridò lei, alzandosi, con il viso sconvolto.
Il mercante la strinse teneramente al petto, e rispose: «Perché in un paese, mia carissima Lisabetta, in cui non mi vogliono proteggere nei miei diritti, io non voglio restare. Meglio essere un cane, se devo essere preso a calci, che un uomo! Sono sicuro che in questo mia moglie la pensa come me».
«Chi ti dice» chiese lei con violenza, «che non ti proteggeranno nei tuoi diritti? Se ti presenti al sovrano umilmente, come ti si addice, con la tua supplica, chi ti dice che sarà messa da parte, o che ti risponderanno rifiutandosi di ascoltarti?».
«Ebbene», rispose Kohlhaas, «se in questo il mio timore è infondato, neppure la mia casa, per adesso, è venduta. Il sovrano, lo so, è giusto; e se soltanto riesco, attraverso tutti coloro che lo circondano, a giungere fino alla sua persona, non dubito di ottenere giustizia, e di tornare lietamente, ancor prima che sia finita la settimana, a te e alle mie vecchie occupazioni. E che da allora in poi io possa», aggiunse, baciandola, «restare sempre con te, fino alla fine dei miei giorni! Ma è consigliabile», continuò, «che io mi tenga pronto a ogni eventualità; per questo desideravo che tu, per qualche tempo, se è possibile, ti allontanassi, e andassi con i bambini a Schwerin, da tua zia, alla quale del resto già da un pezzo volevi far visita».
«Come», gridò la donna, «devo andare a Schwerin? Passare il confine con i bambini, e andare a Schwerin da mia zia?». E l'orrore le soffocò la voce.
«Proprio così», rispose Kohlhaas, «e subito, se è possibile, affinché, nei passi che intendo fare per la mia causa, io non sia disturbato da alcun riguardo».
«Oh, ti capisco!», gridò lei. «Adesso non hai più bisogno di nulla, se non di armi e di cavalli; tutto il resto, se lo prenda chi vuole!». E con queste parole si girò, si buttò su una seggiola e pianse.
«Elisabetta carissima», disse Kohlhaas, turbato, «che fai? Dio mi ha benedetto, dandomi una moglie, dei figli e dei beni; devo oggi, per la prima volta, desiderare che non fosse così?...». E si sedette affettuosamente accanto a lei, che, a quelle parole, gli aveva gettato le braccia al collo, arrossendo. «Dimmi tu», disse, scostandola i riccioli dalla fronte, «che devo fare? Devo tirarmi indietro? Devo andare a Castel Tronka, e pregare il cavaliere che mi restituisca i cavalli, saltarci su, e portarteli qui?».
Elisabetta non osò dire «Sì! Sì! Sì!»...scosse il capo piangendo, si strinse forte a lui, e gli coprì il petto di baci ardenti. «E dunque», gridò Kohlhaas, «se tu senti che, perché io possa continuare la mia attività, mi deve essere resa giustizia, concedimi anche la libertà che mi è necessaria per procurarmela!». E dicendo queste parole si alzò, e disse al garzone, che veniva ad irritarla che il sauro era sellato, che l'indomani dovevano essere attaccati i bai, per condurre sua moglie a Schwerin.
Elisabetta disse che le era venuta un'idea! Si alzò in piedi, si asciugò gli occhi pieni di lacrime, e chiese al manto, che si era seduto a uno scrittoio, se voleva dare a lei la supplica, e lasciare andar lei, in sua vece, a Berlino, a porgela al principe. Kohlhaas, commosso, per più di una ragione, dalla proposta inattesa, se l'attirò sulle ginocchia, e disse: «Moglie carissima, non è possibile! Il principe ha molta gente intorno; chi gli si avvicina si espone a numerose situazioni spiacevoli». Elisabetta obbiettò che c'erano mille circostanze in cui per una donna sarebbe stato più facile avvicinarsi a lui, che non per un uomo. «Dammi la supplica», ripeté; «e se non vuoi altro, se non essere sicuro che finisca nelle sue mani, ti do la mia parola: la riceverà!».
Kohlhaas, che del suo coraggio, come della sua prudenza aveva avuto più d'una prova, le domandò come pensasse di condursi; e lei, guardando davanti a sé, con gli occhi bassi per
la vergogna, rispose che il castaldo del palazzo del principe Elettore, tempo addietro, quando era in servizio a Schwerin, aveva chiesto la sua mano, adesso era ormai sposato, e aveva numerosi figli; ma non l'aveva ancora del tutto dimenticata insomma, lasciasse a lei di trarre partito da questa circostanza, e da alcune altre che sarebbe stato troppo lungo descrivere.
Kohlhaas la baciò con grande gioia, disse che accettava la sua proposta, le spiegò che non occorreva altro che procurarsi alloggio presso la moglie del castaldo, per potersi avvicinare al principe nel suo stesso palazzo, le diede la supplica, fece aggiogare i bai, e la lasciò partire, bene equipaggiata, con Sternbald, il suo servo fedele.
Quel viaggio fu però, di tutti i passi infruttuosi che aveva fatto per la sua causa, il più infelice. Dopo pochi giorni, infatti, Sternbald rientrava già nel cortile, guidando, al passo, la carrozza, nella quale era adagiata la donna, con una pericolosa contusione al petto. Kohlhaas, che, pallido, si avvicinò alla vettura, non riuscì a ottenere una spiegazione coerente di ciò che aveva causato la disgrazia. Il castaldo, a quanto disse il servo, non era in casa; e dunque erano stati costretti a scendere in una locanda che si trovava nelle vicinanze del palazzo, il mattino seguente Lisabetta aveva lasciato la locanda, ordinando al servo di restare presso i cavalli, ed era tornata soltanto a sera, in quello stato. Sembrava che si fosse spinta con troppa foga verso la persona del sovrano, e, senza colpa di lui, soltanto per lo zelo brutale di una delle guardie che lo circondavano, avesse ricevuto sul petto un colpo, con l'asta di una lancia. Almeno, così riferirono le persone che, verso sera, la riportarono, priva di sensi, nella locanda; perché lei stessa, impedita dagli sbocchi di sangue, poco poteva parlare. La supplica le era stata poi ritirata da un cavaliere. Sternbald disse che egli avrebbe voluto saltare subito su un cavallo e portargli la notizia del disgraziato incidente; ma lei, malgrado le rimostranze del chirurgo che era stato chiamato, aveva insistito per essere ricondotta, senza farsi precedere dalla notizia, da suo marito a Pontekohlhaas.
Kohlhaas la portò, ridotta in fin di vita dal viaggio, su un letto, dove, tra sforzi dolorosi per respirare, visse ancora qualche giorno. Si cercò inutilmente di farla tornare in sé, per trarre qualche conclusione su quanto era accaduto; ma lei restava distesa, con gli occhi fissi, e già spenti, e non rispondeva. Solo poco prima di morire riprese i sensi, ancora una volta. Infatti, mentre un sacerdote di religione luterana (fede che stava allora prendendo piede, e alla quale, seguendo l'esempio del marito, si era convertita), in piedi accanto al suo letto, le leggeva, con voce alta, commossa e solenne, un capitolo della Bibbia, lei lo guardò, a un tratto, con espressione cupa, gli prese, come se in quel punto non ci fosse nulla da leggerle, la Bibbia di mano, la sfogliò a lungo, come se vi cercasse qualcosa, e a Kohlhaas, che stava seduto accanto al suo letto, mostrò con l'indice il versetto: «Perdona ai tuoi nemici, e fai del bene anche a coloro che ti odiano». Gli strinse allora la mano, guardandolo con tutta l'anima, e morì. «Così non mi perdoni mai Iddio, come io perdonerò al barone!», pensò Kohlhaas, la baciò, mentre gli scorrevano abbondanti le lacrime, le chiuse gli occhi, e lasciò la stanza.
Prese i cento fiorini d'oro che il balivo gli aveva già versato per le stalle di Dresda, e diede disposizioni per un funerale che non sembrava destinato a lei, ma a una principessa: una bara di quercia con pesanti ornamenti metallici, cuscini di seta con nappe d'oro e d'argento, e una fossa profonda otto braccia, rivestita di pietre e di calce. Egli stesso, con il figlio più piccolo in braccio, restò in piedi accanto alla cripta, a sorvegliare il lavoro. Venuto il giorno del funerale, la salma, bianca come la neve, fu esposta in una sala che egli aveva fatto tappezzare di drappi neri. Il sacerdote aveva appena terminato una commovente orazione accanto alla bara, quando gli fu consegnata la risoluzione sovrana, in risposta alla supplica che era stata consegnata dalla defunta: doveva andare a prendere i cavalli al castello di Tronka, e, sotto pena di essere messo in prigione, non presentare ulteriori ricorsi sull'argomento. Kohlhaas mise in tasca la lettera, e ordinò di mettere la bara sul carro. Non appena fu alzato il tumulo, piantata in cima la croce, e congedati gli ospiti che avevano accompagnato la salma, egli si gettò ancora una volta sul letto di lei, ora deserto, e subito si accinse al negozio della vendetta.
Si sedette, e stese un'ordinanza, nella quale condannava, in virtù del suo innato potere, il barone Venceslao di Tronka a ricondurre a Pontekohlhaas, entrò tre giorni dal ricevimento, i morelli che gli aveva sottratto, e sfiancato nel lavoro dei campi, e a ingrassarsi di persona nelle sue stalle. Gli inviò l'intimazione con un messo a cavallo, al quale diede istruzioni, non appena consegnato il documento, di tornare di gran carriera a Pontekohlhaas. Poiché i tre giorni trascorsero senza che fossero consegnati i cavalli, mandò a chiamare Ersiano; gli confidò che cosa aveva intimato al barone, a proposito dell'ingrasso degli animali, e gli domandò due cose: era disposto a recarsi con lui a cavallo a Castel Tronka, a prendere il barone, e poi, quando l'avessero condotto là, se si fosse dimostrato pigro nell'adempiere all'ordinanza, nelle stalle di Pontekohlhaas, ad adoperare la frusta? E poiché Ersiano, non appena l'ebbe compreso, «Padrone, oggi stesso!», gridò esultante, e, gettando in aria il berretto, l'assicurò che si sarebbe fatto intrecciare uno staffile a dieci nodi, per insegnargli a strigliare! Kohlhaas vendette la casa, spedì i bambini, ben sistemati in una carrozza, oltre confine, radunò, sul far della notte, anche gli altri servi, sette di numero, ognuno dei quali gli era fedele come oro schietto, li armò, li fece salire a cavallo, e si mosse verso il castello di Tronka.
E già al calare della terza notte irrompeva, con questo piccolo drappello, travolgendo il gabelliere e il portiere, che stavano discorrendo sotto il portone, nel castello; e, mentre di colpo tutte le baracche, all'interno del muro di cinta, s'incendiavano e crepitavano, infiammate dalle torce che vi erano state gettate, ed Ersiano, su per la scala a chiocciola, correva nella torre di guardia, e si avventava, con fendenti di taglio e di punta, contro il castaldo e l'amministratore, che, mezzo svestiti, sedevano al gioco, Kohlhaas si preapitava nel castello alla ricerca del barone Venceslao. Così cala dal cielo l'Angelo del Giudizio; e il barone, che per l'appunto, fra grandi risate, stava leggendo alla brigata di giovani amici che era con lui l'ordinanza che il mercante di cavalli gli aveva fatto recapitare, non appena ne ebbe udita la voce, nella corte del castello, fattosi, d'un tratto, bianco come un cadavere: «Fratelli, salvatevi!», urlò a quei signori, e sparì. Kohlhaas, che, entrando nella sala, aveva afferrato per il collo un barone Giovanni di Tronka, che gli veniva contro, e l'aveva scaraventato nell'angolo, così da farne schizzare sulle pietre il cervello, mentre i servi sopraffacevano e disperdevano gli altri cavalieri, che avevano messo mano alle armi, chiese dove fosse il barone Venceslao di Tronka. E, poiché quegli uomini, storditi, non lo sapevano, dopo aver sfondato con un calcio le porte di due stanze che davano nelle ali del castello, e percorso in tutte le direzioni il vasto edificio, senza trovare nessuno, scese imprecando nel cortile, per far presidiare le uscite.
Nel frattempo, raggiunto dal fuoco delle baracche, anche il castello era ormai in fiamme, con tutti gli edifici attigui, sprigionando contro il cielo un fumo spesso, e, mentre Sternbald, con tre servi indaffarati, portava giù tutto ciò che non era intrasportabile o attaccato ai muri, e lo ammassava in mezzo ai cavalli, come buon bottino, dalle finestre spalancate della torre di guardia volavano giù, con giubilo di Ersiano, i cadaveri del castaldo e del fattore, con mogli e figli. Kohlhaas, al quale, mentre scendeva la scala del castello, si era gettata ai piedi la vecchia economa, tormentata dalla gotta, che aveva il governo della casa, le chiese, fermandosi sul gradino, dove fosse il barone Venceslao di Tronka; e poiché ella, con voce debole e tremante, gli disse in risposta che credeva che fosse fuggito nella cappella, chiamò due servi con le torce, fece scardinare, in mancanza di chiavi, l'ingresso con leve di ferro e con le asce, rovesciò le panche e gli altari, ma, con suo rabbioso dolore, non trovò il barone.
Avvenne che un giovane garzone, che apparteneva alla servitù del castello, nel momento in cui Kohlhaas ritornava dalla cappella, accorresse per tirar fuori da una grande stalla in pietra, minacciata dalle fiamme, gli stalloni da battaglia del barone. Kohlhaas, che proprio in quel momento, in una piccola rimessa coperta di paglia, scorse i suoi due morelli, chiese al servo perché non mettesse in salvo i morelli; e poiché questi, infilando la chiave nella porta della grande stalla, rispose che ormai la rimessa era in fiamme, Kohlhaas gettò la chiave, dopo averla strappata con violenza dalla porta della stalla, al di là del muro, spinse, con una grandinata di piattonate, il servo fin dentro la baracca in fiamme, e lo costrinse, tra le orribili risate degli astanti, a salvare i morelli. Tuttavia, quando il garzone pallido di terrore, pochi istanti prima che la rimessa crollasse dietro di lui, ne uscì con i cavalli alla cavezza non trovò più Kohlhaas; e quando raggiunse i servi sul piazzale del castello, e chiese al mercante, che più volte gli voltò le spalle, che cosa dovesse fare, adesso, con quelle bestie, questi d'un tratto levò il piede, con una mossa così terribile, che, se il calcio l'avesse raggiunto, sarebbe stata la sua morte, montò, senza rispondergli, il suo baio, si piantò sotto il portone del castello, e attese, mentre i servi continuavano ad affaccendarsi, in silenzio, il giorno.
Quando spuntò il mattino, tutto il castello, fuorché le mura, era in cenere, e non vi si trovava più nessuno, se non Kohlhaas e i suoi sette servi. Egli scese da cavallo, e setacciò ancora una volta, alla chiara luce del sole, che ora ne illuminava ogni angolo, l'intero luogo, e poiché, per quanto difficile gli fosse ammetterlo, dovette convincersi che l'impresa contro il castello era fallita, inviò, con il cuore oppresso dalla pena e dal dolore Ersiano e alcuni servi a cercare informazioni sulla direzione che il barone aveva preso nella sua fuga. Soprattutto l'impensieriva un ricco educandato per fanciulle nobili, chiamato Erlabrunn, che sorgeva sulle rive della Molda, e la cui badessa, Antonia di Tronka, era conosciuta nella regione come una donna pia, benefica e santa; poiché all'infelice Kohlhaas sembrava anche troppo probabile che il barone, privo com'era di tutto il necessario, si fosse rifugiato in quell'istituto, dal momento che la badessa era sua zia carnale, e l'aveva allevato nella prima infanzia. Kohlhaas, dopo essersi ragguagliato su questa circostanza, salì alla torre del corpo di guardia, che all'interno offriva ancora una stanza abitabile, e redasse quello che egli chiamo «Bando Kohlhaasiano», in cui intimava al paese di non prestare alcun aiuto al barone Venceslao di Tronka, contro il quale egli era sceso in giusta guerra, e anzi faceva obbligo a ogni abitante, non esclusi i suoi parenti e amici, sotto pena di morte, e dell'immancabile incenerimento di tutto ciò che si potesse chiamare proprietà, di consegnarlo nelle sue mani.
Egli diffuse quella dichiarazione nella contrada, per mezzo di viaggiatori e forestieri, e ne dette anche una copia al suo servo Waldmann, con il preciso incarico di consegnarlo a Erlabrunn, nelle mani di donna Antonia. Subito dopo, trattò con alcuni servi del castello di Tronka, che erano scontenti del barone, e, attratti dalla speranza di bottino, desideravano entrare al suo servizio; li armò, alla maniera dei fanti, di daga e balestra, e li instruì a tenersi in groppa dietro gli uomini a cavallo; poi, quando ebbe venduto tutto cio che la sua gente aveva predato, e distribuito fra loro il ricavato, riposò alcune ore, sotto il portone del castello, dai suoi tristi negozi.
Verso mezzogiorno arrivò Ersiano, e gli confermò ciò che il suo cuore, sempre incline ai più cupi presentimenti, gli aveva già detto: che per l'appunto il barone si trovava a Erlabrunn, nell'educandato, presso l'anziana donna Antonia di Tronka, sua zia. Si era salvato, a quanto pareva, per una postierla che, nel muro posteriore del castello, dava sul vuoto, e per una stretta scala di pietra che, coperta da un piccolo tetto, scendeva fino ad alcune barche sull'Elba. Erziano, quanto meno, riferiva che, in un villaggio lungo l'Elba, con gran stupore della gente, che si era radunata a causa dell'incendio di Castel Tronka, egli era giunto, verso la mezzanotte, in un canotto senza timone e senza remi, ed era proseguito poi per Erlabrunn in un carro di contadini.
Kohlhaas, a quella notizia, mandò un profondo sospiro, domandò se i cavalli avevano mangiato, e poiché gli fu risposto di sì, fece montare il drappello, e in tre ore era già davanti a Erlabrunn. Stava proprio entrando con la sua schiera, al brontolio di un lontano temporale all'orizzonte, con le fiaccole, che aveva fatto accendere alle porte, nel cortile del convento, e Waldmann, il suo servo, gli veniva incontro, a comunicargli che il bando era stato consegnato a dovere, quando vide la badessa e il castaldo, in colloquio concitato, farsi avanti sotto il portale del monastero; e, mentre questi, il castaldo, un uomo piccolo anziano, candido come la neve, lanciando a Kohlhaas degli sguardi torvi, si faceva allacciare la corazza, e ai servi che lo circondavano gridava, con voce ardita, di suonare a martello, lei, la superiora del monastero, con un crocifisso d'argento in mano, scese, pallida come un lenzuolo di lino, la scalinata, e si gettò con tutte le sue donzelle in ginocchio davanti al cavallo di Kohlhaas.
Kohlhaas, mentre Ersiano e Sternbald riducevano all'impotenza il castaldo, che non aveva in pugno la spada, e lo conducevano prigioniero tra i cavalli, le domandò dove fosse il barone Venceslao di Tronka; e poiché lei, sciogliendosi dalla cintura un grande anello di chiavi, rispondeva: «A Vittemberga Kohlhaas, uomo dabbene»; e aggiungeva, con voce tremante: «Abbi timor di Dio, non commettere ingiustizie!», Kohlhaas voltò, ricacciato nell'inferno della vendetta inappagata, il cavallo, e stava per gridare: «Appiccate il fuoco!», quando un fulmine spaventevole cadde al suolo proprio accanto a lui. Kohlhaas, voltando di nuovo il cavallo verso di lei, le chiese se avesse ricevuto il suo bando: e poiché la nobildonna, con voce flebile quasi impercettibile, rispose: «Proprio ora!», «Quando?», «Due ore fa, così mi aiuti Iddio, dopo che il barone, mio nipote, era ormai partito!», e Waldmann, il suo servo, al quale Kohlhaas si era rivolto con sguardo bieco, confermò, balbettando, questa circostanza, perché, disse, le acque della Molda, gonfiate dalla pioggia, gli avevano impedito di giungere se non pochissimo tempo innanzi, allora Kohlhaas riprese il dominio di sé; d'un tratto un tremendo rovescio di pioggia, che spazzò il selciato della corte, spegnendo le fiaccole, sciolse il dolore nel suo petto infelice; voltò, sollevando di poco il cappello davanti alla nobildonna, il suo cavallo, gli diede, con le parole: «Seguitemi, fratelli! Il barone è a Vittemberga!», di sprone, e lasciò la badia.
Egli entrò, al calar della notte, in una locanda sulla strada maestra, nella quale dovette, per la grande stanchezza dei cavalli, riposare un giorno, e, rendendosi conto che con un drappello di dieci uomini (tanti ne aveva in quel momento) non poteva sfidare una località come Vittemberga, redasse un nuovo bando, nel quale, dopo un breve racconto di ciò che gli era toccato nel paese, invitava «ogni buon cristiano», così si espresse, «con la promessa di una paga, e di altri vantaggi di guerra, ad abbracciare la sua causa contro il barone di Tronka, nemico comune di tutti i cristiani». In un altro bando, che apparve poco dopo, egli si definiva «libero signore, non soggetto ne al mondo né all'Impero, ma soltanto a Dio»; una millanteria insana e di cattiva lega, che tuttavia, al suono del suo denaro e alla prospettiva del bottino, gli procurò un gran concorso di gente, fra la marmaglia che la pace con la Polonia aveva lasciato senza pane: così che egli contava trenta uomini e più, quando ripassò sulla riva destra dell'Elba, per ridurre in cenere Vittemberga.
Egli si accampò, con i cavalli e i fanti, al riparo di una vecchia fornace diroccata, nella solitudine e nell'oscurità del bosco che a quel tempo circondava la località, e, non appena ebbe saputo da Srernbald, che aveva inviato travestito in città, con il suo bando, che esso vi era già noto, subito si mosse con il suo drappello, la santa vigilia della Pentecoste, e, mentre gli abitanti erano immersi in un sonno profondo, appiccò l'incendio alla città, in più punti contemporaneamente. Poi, mentre la sua truppa metteva a sacco i sobborghi, attaccò al pilastro di una chiesa un foglio di questo tenore: «Egli, Kohlhaas, aveva dato fuoco alla città: e, se non gli fosse stato consegnato il barone, l'avrebbe così ridotta in cenere, che», in tal modo si espresse, «non avrebbe avuto bisogno di guardare dietro a nessun muro per trovarlo». L'orrore degli abitanti per l'inaudito misfatto fu indescrivibile; e non appena le fiamme, che in quella notte d'estate, per buona sorte non molto ventosa, non avevano raso al suolo più di diciannove case, fra le quali, tuttavia, c'era una chiesa, furono, verso lo spuntar del giorno, almeno in parte domate, il vecchio prefetto, Ottone di Gorgas, inviò sui due piedi una piccola compagnia di cinquanta uomini, per spazzar via l'orribile flagello.
Ma il capitano che la guidava, di nome Gerstenberg, si condusse così malamente nell'impresa, che la spedizione, invece di sconfiggere Kohlhaas, gli conferì una pericolosissima gloria militare; poiché, quando l'uomo d'armi divise le sue forze in plotoni, per circondari, così pensava, e quindi sopraffarli, fu invece da Kohlhaas, che aveva tenuto compatto il suo drappello, attaccato nei diversi punti, e battuto: in modo tale che, già alla sera del giorno successivo, neppure uno degli uomini della truppa in cui erano riposte le speranze del paese restava più in campo contro di lui. Kohlhaas, che in quei combattimenti aveva subìto alcune perdite, il mattino del giorno seguente appiccò di nuovo l'incendio alla città, e le sue crudeli istruzioni furono così efficaci, che questa volta un gran numero di case e quasi tutti i fienili dei sobborghi furono ridotti in cenere. Nel frattempo egli affisse di nuovo, questa volta agli angoli dello stesso Municipio, il bando già noto, aggiungendovi le nuove sulla sorte del capitano Gerstenberg, inviato contro di lui dal prefetto, e da lui sbaragliato. Il prefetto, al colmo dell'indignazione davanti a tanta arroganza, si pose egli stesso, con molti cavalieri, alla testa di uno squadrone di centocinquanta uomini. Diede al barone Venceslao di Tronka, che l'aveva sollecitata per iscritto, una scorta che lo proteggesse dalle violenze del popolo, il quale pretendeva che egli fosse allontanato senza indugio dalla città, e, dopo aver inviato dei presidi in tutti i villaggi dei dintorni, e guarnito di sentinelle anche le mura di cinta della città, per difenderle da un colpo di mano, uscì in persona dalle porte, il giorno di san Gervasio, per catturare il drago che devastava il paese.
Lo squadrone il mercante di cavalli fu tanto accorto da evitarlo; e, dopo aver attirato il prefetto, con abili marce, a cinque miglia dalla città, e averlo indotto, con una serie di stratagemmi, nell'opinione fallace che egli, incalzato da forze troppo superiori, fosse per cercare scampo nel Brandeburgo, fece bruscamente dietro front, al calare della terza notte, ritorno di gran carriera a Vittemberga, e per la terza volta diede alle fiamme la città. Erziano era sgattaiolato in citta travestito, e aveva realizzato l'orribile colpo maestro; e un vento teso di tramontana rese l'avvampare dell'incendio così funesto e divorante che, in meno di tre ore, quarantadue case, due chiese, numerosi conventi e scuole e l'edificio stesso della prefettura furono ridotti in cenere e macerie. Il prefetto, che, allo spuntar del giorno, credeva il suo avversario in territorio brandeburghese, quando, informato di ciò che era accaduto, ebbe fatto, a marce forzate ritorno, trovò la città intera in rivolta; il popolo era accampato, a migliaia, davanti alla casa, barricata con pali e tronchi, del barone, e chiedeva, con urla furibonde, che fosse condotto via dalla città. Due borgomastri, di nome Genziano e Ottone, che si erano recati sul posto con le divise e le insegne, alla testa di tutta la magistratura cittadina, spiegarono invano che bisognava in ogni caso attendere il ritorno di un messo inviato d'urgenza al presidente della Cancelleria di Stato, per chiedere l'autorizzazione a condurre il barone a Dresda, dove egli stesso desiderava, per più di una ragione, recarsi; la torma irragionevole, armata di spiedi e di spranghe, non se ne dava per inteso, e già stava malmenando alcuni consiglieri, che proponevano di impiegare le maniere forti, e si accingeva a dare l'assalto alla casa in cui si trovava il barone, e raderla al suolo, quando il prefetto, Ottone di Gorgas, alla testa del suo squadrone di cavalieri, apparve in città.
A quell'uomo dabbene, che era avvezzo a istillare nel popolo, con la sua sola presenza, obbedienza e rispetto, era riuscito, quasi a compenso per l'impresa fallita dalla quale ritornava, di catturare, a poca distanza dalle porte della città, tre fanti sbandati della masnada dell'incendiario; e poiché egli, mentre quei ribaldi venivano, al cospetto del popolo, incatenati, assicurò i magistrati, con un avveduto discorso, che in breve tempo contava di condurre in città in catene lo stesso Kohlhaas, del quale era già sulle tracce, riuscì, grazie a queste circostanze rassicuranti, a disarmare l'angoscia del popolo radunato, e a calmarlo un poco, riguardo alla presenza del barone fino al ritorno del messaggero da Dresda. Egli smontò, accompagnato da alcuni cavalieri, da cavallo, e si recò, fatta rimuovere la barricata, nella casa, dove trovò il barone, che passava da uno svenimento all'altro, nelle mani di due medici, che cercavano di richiamarlo in vita con essenze e stimolanti; e poiché Ottone di Gorgas si rendeva ben conto che non era quello il momento di scambiar parole con lui su tutto ciò che era successo per causa sua, gli disse soltanto, con uno sguardo di muto disprezzo, che per favore si vestisse, e, per la sua stessa sicurezza, lo seguisse nelle stanze della prigione dei nobili. Quando ebbero fatto indossare al barone un panciotto, e gli ebbero messo un elmo in testa, ed egli, ancora a metà sbottonato, perché gli mancava il respiro, apparve, al braccio del prefetto e del conte di Gerschau, suo cognato, sulla strada, salirono fino al cielo maledizioni e bestemmie orribili contro di lui. Il popolo, trattenuto a fatica dalla truppa, lo chiamava sanguisuga, infame, aguzzino, flagello del paese, maledizione della città di Vittemberga e rovina della Sassonia; dopo un pietoso tragitto per la città ridotta in macerie, durante il quale egli più volte, senza avvedersene, perse l'elmo, che un cavaliere gli rimetteva in capo da dietro, si raggiunse finalmente la prigione, dove egli sparì in una torre, sotto la protezione di una buona scorta.
Intanto il ritorno del messaggero con la decisione del principe Elettore destava in città nuove preoccupazioni. Infatti il governo dello Stato, al quale la cittadinanza di Dresda si era immediatamente rivolta con una supplica, non voleva saperne di un soggiorno del barone nella capitale, prima che l'incendiario fosse ridotto all'impotenza; e anzi faceva obbligo al prefetto di difenderlo, ovunque fosse, poiché in qualche luogo doveva pur stare, con le forze che aveva sotto il suo comando; ma annunciava al contempo alla buona città di Vittemberga, per sua tranquillatà, che un battaglione di cinquecento uomini, al comando del principe Federico di Meissen, era già in marcia, per difenderla da ulteriori molestie. Il prefetto, che ben vedeva come una decisione simile non potesse in alcun modo rassicurare la popolazione, poiché non soltanto numerose piccole scaramucce, che il mercante di cavalli aveva combattuto con successo, in diversi punti, davanti alla città, avevano diffuso le voci più incresciose su un aumento delle sue forze, ma, per di più, la guerra che egli conduceva, con pece, paglia e zolfo, nell'oscurità della notte, per mezzo di gentaglia travestita, avrebbe potuto rendere inefficace, inaudita e senza esempio com'era, una difesa anche maggiore di quella con la quale il principe di Meissen si stava avvicinando: il prefetto, dunque, dopo breve riflessione, decise di tenere del tutto nascosta l'ordinanza che aveva ricevuto. Fece soltanto affiggere, agli angoli della città, una lettera nella quale il principe di Meissen gli annunciava il suo arrivo; una carrozza chiusa, che uscì sul far del giorno dal cortile del carcere dei nobili, prese, scortata da quattro cavalieri pesantemente armati, la strada di Lipsia, mentre i cavalieri della scorta facevano capire, con vaghi accenni, che si dirigevano verso il castello sulla Pleisse; e, dopo aver così tranquillizzato il popolo a proposito dell'infausto barone, la cui presenza significava ferro e fuoco, si mosse egli stesso, con una schiera di trecento uomini, per unirsi al principe Federico di Meissen.
Nel frattempo Kohlhaas, grazie alla singolare posizione che aveva assunto nel mondo, era salito, in effetti, alla forza di cento e nove uomini; e, dopo aver anche scoperto, a Jessen, un deposito di armi, e averne munito di tutto punto le sue schiere, prese, informato della doppia tempesta che si stava addensando, la decisione di andare incontro a entrambe con la rapidità del vento, prima che si scatenassero sul suo capo. E infatti il giorno successivo attaccava già il principe di Meissen, in un assalto notturno, nei pressi di Mühlberg; in quel combattimento perse bensì, con suo grande dolore, Ersiano, che sin dai primi colpi cadde morto al suo fianco: ma, esasperato da quella perdita, in tre ore di battaglia ridusse il principe, incapace di riordinarsi nella borgata, così a mal partito, che, allo spuntar del giorno, a causa di molte gravi ferite e del completo disordine della sua truppa, fu costretto a ritirarsi in direzione di Dresda. Reso temerario da questo successo, Kohlhaas si volse, prima che potesse essere informato dell'accaduto, contro il prefetto, lo assalì, presso il villaggio di Damerow, in campo aperto, in pieno mezzogiorno, e si batté con lui, con perdite bensì sanguinose, ma con uguale successo, fino al calar della notte. E certo il mattino seguente, con il resto della sua schiera, egli avrebbe senza fallo nuovamente attaccato il prefetto, che si era ritirato nel camposanto di Damerow, se questi, per mezzo di esploratori, non fosse stato informato della disfatta subita dal principe presso Mühlberg, e non avesse perciò ritenuto più prudente ritornare, a sua volta, a Vittemberga, in attesa di tempi migliori.
Cinque giorni dopo aver disfatto questi due contingenti, Kohlhaas era davanti a Lipsia, e da tre lati appiccava il fuoco alla città. - Nel bando che diffuse in quella occasione egli si definiva «luogotenente dell'Arcangelo Michele, venuto a punire col ferro e col fuoco, su tutti coloro che nella contesa prendessero le parti del barone, la malizia in cui era caduto il mondo intero». Dal castello di Lützen, di cui s'era impadronito di sorpresa, e in cui si era insediato, egli chiamava il popolo a unirsi a lui, per dare alle cose un migliore ordinamento, e il bando era sottoscritto, con gesto quasi folle, in questo modo: «Dato nel regale castello di Lützen, sede provvisoria del nostro governo universale». La buona sorte degli abitanti di Lipsia volle che il fuoco, a causa di una pioggia persistente che cadeva dal cielo, non si propagasse, così che, grazie alla rapidità d'intervento dell'organizzazione antincendio locale, soltanto alcune botteghe che sorgevano intorno alla rocca sulla Pleisse furono divorate dalle fiamme. E tuttavia la costernazione della città per la presenza del forsennato incendiario, e per la sua falsa supposizione che il barone fosse a Lipsia, era indescrivibile; e, quando un reparto di cento e ottanta uomini a cavallo, che era stato inviato contro di lui, ritornò sbaragliato in città, ai magistrati, che non volevano mettere a repentaglio le ricchezze della città, non rimase altro da fare che chiudere del tutto le porte, e ordinare che la cittadinanza facesse, giorno e notte, la guardia fuori delle mura.
Invano i magistrati fecero affiggere, nei villaggi delle zone circostanti, manifesti con la precisa assicurazione che il barone non si trovava nel castello sulla Pleisse il mercante di cavalli insisteva, su manifesti analoghi, che egli era nella rocca, e dichiarava che, se non vi si fosse trovato, egli avrebbe comunque proceduto come se ci fosse, finché non gli venisse indicato, con tanto di nome, il luogo in cui si trovava. Il principe Elettore informato per mezzo di un corriere veloce della situazione gravissima in cui si trovava la città di Lipsia, dichiarò che stava già radunando un esercito di duemila uomini, e che si sarebbe messo alla sua testa, per catturare Kohlhaas. Egli rivolse al signor Ottone di Gorgas un severo rimproverò per l'astuzia ambigua e sconsiderata cui era ricorso per allontanare l'incendiario dalla regione di Vittemberga; e nessuno può descrivere il turbamento che invase l'intera Sassonia, e soprattutto la capitale, quando laggiù si venne a sapere che, nei villaggi intorno a Lipsia, era stata affissa, da parte di chi non era noto, una dichiarazione diretta a Kohlhaas, secondo la quale «Venceslao, il barone, si trovava presso i cugini Enzo e Corrado, a Dresda».
In quel frangente, il dottor Martin Lutero prese su di sé il compito, sorretto dal prestigio che la sua posizione nel mondo gli dava, di ricondurre Kohlhaas, con la forza di parole pacate, entro gli argini dell'ordine umano; e, facendo affidamento su quanto di onesto c'era ancora nel petto dell'incendiario, gli indirizzò un manifesto del seguente tenore, che venne affisso in ogni città e in ogni borgo del principato:

«Kohlhaas, tu che ti spacci per inviato a brandire la spada della giustizia, che cosa mai ardisci, temerario, nel delirio di una cieca passione, tu che di ingiustizia sei colmo dalla punta dei capelli alle piante? Poiché il sovrano al quale sei suddito ha negato il tuo diritto, il tuo diritto nella contesa per una cosa da nulla, tu ti sollevi, o sciagurato, col ferro e col fuoco, e irrompi, come il lupo del deserto, nella pacifica comunità di cui egli è scudo. Tu, che seduci gli uomini con i tuoi proclami, pieni di falsità e di malizia, credi tu, peccatore, di trovare scampo dinanzi a Dio in questo modo, nel giorno che getterà luce entro le pieghe di tutti i cuori? Come puoi dire che ti è stato negato il tuo diritto, tu, il cui cuore rabbioso, eccitato dal prurito di un'ignobile brama di vendetta, dopo i primi, avventati tentativi che ti fallirono, ha lasciato cadere ogni sforzo per guadagnarselo? È la panca occupata dagli uscieri e dagli sgherri del tribunale, che intercettano la lettera che hanno ricevuto, o trattengono la sentenza che dovrebbero consegnare, è questa la tua autorità? E debbo io dirti, uomo dimentico di Dio, che la tua autorità non sa nulla della tua causa - che cosa dico? che il sovrano, contro il quale tu ti rivolti, non conosce neppure il tuo nome, di modo che, quando tu comparirai un giorno davanti al trono di Dio, e penserai di accusarlo, egli potrà dire, con il volto sereno: a quest'uomo, Signore, io non feci torto alcuno, poiché della sua esistenza l'anima mia non sa nulla? La spada che tu impugni, sappilo, è la spada della rapina e della strage; un ribelle tu sei, e non un soldato del giusto Iddio, la tua meta sulla terra è la ruota e la forca, e nell'al di là la dannazione che pende sul misfatto e sull'empietà.
Vittemberga, etc. Martin Lutero».

Kohlhaas stava per l'appunto agitando, nel castello di Lützen, un nuovo piano per incenerire Lipsia, nel suo petto lacerato - egli non dava, infatti, alcun credito alla notizia affissa nei villaggi che il barone Venceslao si trovasse a Dresda, poiché non era firmata da nessuno, e tanto meno dai magistrati, come egli aveva richiesto -, quando Sternbald e Waldmann notarono, con la più profonda costernazione, il manifesto, che, nottetempo, era stato affisso al portone del castello. Invano sperarono, per diversi giorni, che Kohlhaas, poiché preferivano non essere loro a rivolgergli la parola a quel proposito, vi lasciasse cadere lo sguardo: cupo e ripiegato su se stesso, egli appariva bensì, verso sera, ma soltanto per dare i suoi brevi ordini, e non vedeva nulla; tanto che essi, un mattino, in cui egli voleva far impiccare un paio dei suoi fanti, che, contro la sua volontà, avevano saccheggiato nei dintorni, si risolsero ad attirare l'attenzione. Egli tornava appunto, mentre il popolo si faceva da parte, intimidito, da ambo i lati, dal luogo dell'esecuzione, con l'apparato che, dall'ultimo bando, gli era abituale - lo precedeva una grande spada da cherubino, adagiata su un cuscino di cuoio rosso adorno di nappe d'oro, e lo seguivano dieci fanti con le fiaccole accese -, quando i due uomini, con le spade sottobraccio, girarono, in un atteggiamento che non poteva non colpirlo, intorno al pilastro al quale era affisso il manifesto. Kohlhaas, quando, con le mani intrecciate dietro la schiena, immerso nei suoi pensieri, giunse sotto il portone, alzò gli occhi e si fermò di colpo; e quando i servi, vedendolo, si tirarono con deferenza da parte, egli si avvicinò al pilastro, guardadoli distrattamente, a rapidi passi. Ma come descrivere ciò che avvenne nella sua anima quando vi scorse il foglio che lo accusava di ingiustizia, sottoscritto dal nome più caro e più venerando che conoscesse: dal nome di Martin Lutero!
Un cupo rossore gli salì al viso; egli lo lesse due volte, levandosi l'elmo, dal principio alla fine; si volse indietro, con sguardi incerti, ai suoi uomini, come se volesse dire qualcosa, e non disse nulla; staccò il foglio dalla parete, lo lesse tutto ancora una volta, e gridò: «Waldmann! Fai sellare il mio cavallo!», e poi: «Sternbald! Seguimi nel castello!», e disparve. Quelle poche parole erano bastate, con tutto l'alone di terrore che lo circondava, a disarmano di colpo. Egli indossò, come travestimento, le vesti di un fittavolo della Turingia, disse a Sternbald che un negozio di notevole importanza lo costringeva a recarsi a Vittemberga, gli affidò, alla presenza di alcuni dei suoi migliori soldati, il comando della schiera rimasta a Lützen, e partì, assicurando che entro tre giorni, durante i quali non c'era da temere alcun attacco, sarebbe stato di ritorno, per Vittemberga.
Si introdusse, sotto falso nome, in una locanda, e, non appena fu scesa la notte, avvolto nel suo mantello, e munito di un paio di pistole che erano bottino del castello di Tronka, si recò nella stanza di Lutero. Lutero, che sedeva al suo leggio, fra libri e manoscritti, vedendo quello strano sconosciuto aprire la porta, e richiuderla col catenaccio dietro di sé, gli domandò chi fosse e che cosa volesse; e l'uomo, che teneva con deferenza il cappello in mano, aveva appena timidamente risposto, già presentendo quale spavento stesse per provocare, che egli era Michele Kohlhaas, il mercante di cavalli, che già Lutero gridava: «Via, lontano da me!», aggiungendo, mentre si alzava dal leggio, e si precipitava verso un campanello: «Il tuo alito è peste, la tua vicinanza è perdizione!».
Kohlhaas disse, mentre, senza muoversi dal suo posto, tirava fuori la pistola: «Reverendo signore, questa pistola, se voi toccate il campanello, mi stenderà senza vita ai vostri piedi! Sedetevi, e datemi ascolto; fra gli angeli dei quali trascrivete i salmi non siete più sicuro che vicino a me».
Lutero, sedendosi, gli chiese: «Che vuoi?».
«Confutare», rispose Kohlhaas, «la vostra opinione di me, che io sia un uomo ingiusto! Mi avete detto, nel vostro manifesto, che la mia autorità non sa nulla della mia causa: ebbene, procuratomi un salvacondotto, e io andrò a Dresda, e gliela sottoporrò».
«Uomo empio e spaventevole!», esclamò Lutero, confuso e tranquillizzato insieme da quelle parole. «Chi ti ha dato il diritto di aggredire, eseguendo una tua arbitraria ingiunzione, il barone di Tronka, e, non avendolo trovato nel suo castello, di mettere a ferro e fuoco la comunità intera che lo difende?».
«Reverendo signore», rispose Kohlhaas, «nessuno, finora! Una notizia che ricevetti da Dresda mi ha tratto in inganno, e fuorviato! La guerra che conduco contro la comunità degli uomini è un delitto, se è vero che io, come voi mi avete assicurato, non ne sono stato ripudiato».
«Ripudiato!», gridò Lutero, guardandolo. «Quale pensiero folle ti ha preso? Chi ti avrebbe ripudiato dalla comunità dello Stato nel quale vivevi? Dove si ebbe mai, da quando esistono Stati, che qualcuno, chiunque egli fosse, sia stato da esso ripudiato?».
«Ripudiato», rispose Kohlhaas, stringendo a pugno la mano, «chiamo colui al quale si nega la protezione delle leggi! Poiché di questa protezione, per la prosperità del mio pacifico
commercio, io ho bisogno; ed è, anzi, proprio per questo che io, con tutto ciò che mi sono guadagnato, cerco rifugio nella comunità; e chi me la nega mi ricaccia fra i selvaggi del deserto, e mi mette in mano, potete forse negarlo?, la clava che mi protegge».
«Chi ti ha negato la protezione delle leggi?», gridò Lutero. «Non ti scrissi che dell'accusa che avevi presentato il sovrano, al quale l'avevi presentata, non sa nulla? Se i servitori di Stato, alle sue spalle, annullano i processi, o si fanno altrimenti beffe, a sua insaputa, del suo nome consacrato, chi, fuorché Dio, può chiedergli conto della scelta di tali servitori, e sei tu, uomo orribile e maledetto da Dio, autorizzato a giudicarlo per questo?».
«Ebbene», disse allora Kohlhaas, «se il sovrano non mi ripudierà, anch'io ritornerò nella comunità che da lui è difesa. Procuratemi, lo ripeto, un salvacondotto per Dresda: e io scioglierò la gente che ho raccolto nel castello di Lützen, e presenterò di nuovo, davanti al tribunale di Stato, l'accusa che mi è stata respinta».
Lutero, con aria contrariata, scompigliò le carte che aveva sullo scrittoio, e tacque. L'atteggiamento di sfida che quell'uomo strano assumeva nello Stato lo contrariava; e, ripensando all'ingiunzione che egli, da Pontekohlhaas, aveva emanato contro il barone, gli domandò che cosa pretendesse, insomma, dal tribunale di Dresda.
«La punizione del barone, conforme alla legge», rispose Kohlhaas; al ristabilimento dei cavalli nello stato in cui erano; e il risarcimento del danno che tanto io quanto il mio servo Ersiano, caduto a Mühlberg, abbiamo subito, a causa della Violenza commessa contro di noi».
«Il risarcimento del danno!», gridò Lutero. «Somme a migliaia, da ebrei e da cristiani, su tratte e su pegni, hai preso a prestito, per far fronte alle spese della tua selvaggia vendetta. Metterai nel conto anche il loro valore, se si farà l'inchiesta?».
«Dio ne scampi!», rispose Kohlhaas. «Casa e podere, e l'agiatezza che è stata mia, io non li richiedo; e neppure le spese del funerale di mia moglie! La vecchia madre di Ersiano farà un conto delle spese per la sua cura, e un elenco delle cose che suo figlio perse nel castello di Tronka; e il danno che io ho subito per la mancata vendita dei morelli lo faccia valutare il governo, per mezzo di un esperto».
«Uomo folle, incomprensibile e spaventoso!», disse Lutero, e lo fissò. «Dopo che la tua spada si è presa sul barone la vendetta più feroce che si possa immaginare, che cosa ti spinge a insistere su una sentenza il cui rigore, quando fosse, alla fine pronunciata, lo colpirebbe con un gravame di così scarso rilievo?».
«Reverendo signore», replicò Kohlhaas, mentre una lacrima gli rigava le gote, «mi è costata mia moglie, Kohlhaas farà vedere al mondo che non è perita in una causa ingiusta. Adattatevi, quanto a questo, alla mia volontà, e fate che la corte pronunci la sua sentenza; in tutto il resto, su cui possa ancora esservi contesa, io mi adatterò alla vostra».
«Vedi», disse Lutero, «ciò che tu chiedi, se dare le circostanze sono come la voce pubblica le riferisce, è giusto; e se tu avessi saputo portare la lite, prima di passare arbitrariamente alla vendetta privata, fino alla decisione del principe, la tua richiesta, non ne dubito, ti sarebbe stata accolta punto per punto. Ma, tutto ben considerato, non avresti fatto meglio, se tu, per amore del tuo Redentore, avessi perdonato il barone, avessi preso per la cavezza i morelli, secchi e sfiniti com'erano, fossi montato in sella e avessi cavalcato fino a casa tua, a ingrassarsi nelle tue stalle di Pontekohlhaas?».
«Forse sì», rispose Kohlhaas, avvicinandosi alla finestra «forse sì; e forse no! Se avessi saputo che mi sarebbe toccato rimetterli in piedi con il sangue e il cuore della mia cara moglie, forse sì, avrei fatto come dite voi, reverendo signore, e non sarei stato a guardare uno staio di avena! Ma poiché, ormai, mi sono venuti a costare tanto, le cose vadano, così la intendo, per il loro verso: lasciate che sia pronunciata la sentenza che mi aspetta, e che il barone mi ingrassi i morelli».
Lutero, mettendo, tra vari pensieri, di nuovo le mani tra le sua carte, disse che avrebbe agiato per lui una trattativa con il principe Elettore. Intanto, che egli restasse quieto nel castello di Lützen; se il principe avesse consentito al salvacondotto, glielo si sarebbe fatto sapere per via di pubblici manifesti. «A dire il vero», continuò, mentre Kohlhaas si chinava per baciargli la mano, «se l'Elettore vorrà usare clemenza, anziché giustizia, non so; poiché ha raccolto, ho saputo, un esercito, ed è in procinto di cogliere nel castello di Lützen; ma nel frattempo, come ti ho già detto, non risparmierà i miei sforzi». E con queste parole si alzò, mostrando di volerlo congedare.
Kohlhaas affermò che la sua intercessione lo tranquillizzava pienamente, su quel punto; al che Lutero lo salutò con la mano, ma egli, improvvisamente, piegò un ginocchio davanti a lui, e disse di avere ancora una preghiera sul cuore. A Pentecoste, infatti, quando era solito accostarsi alla mensa del Signore egli, a causa di quella sua impresa guerresca, non era andato in chiesa: voleva avere la compiacenza di ricevere, senza altra preparazione, la sua confessione, e impartirgli, in cambio, il beneficio del santo sacramento?
Lutero, dopo una breve riflessione, lo fissò severamente e disse: «Sì, Kohlhaas, lo farò. Ma il Signore, del quale desideri il corpo, perdonò il suo nemico. Vuoi tu», aggiunse, mentre egli lo guardava turbato, «perdonare allo stesso modo il barone che ti ha offeso: andare al castello di Tronka, montare sui tuoi morelli, e portarteli a casa a Pontekohlhaas, per ingrassarsi?».
«Reverendo signore», disse Kohlhaas arrossendo, e gli prese la mano.
«Ebbene?».
«Neppure il Signore perdonò tutti i suoi nemici. Lasciate che io perdoni i due principi Elettori, miei sovrani, il castaldo e il fattore, i signori Enzo e Corrado, e chiunque altro mi abbia offeso in questa circostanza: ma che, se è possibile, io costringa il barone a farmi tornare grassi i morelli».
A queste parole Lutero gli volse, con uno sguardo dispiaciuto, le spalle, e tirò il campanello. Kohlhaas, mentre un domestico, da esso chiamato, si annunciava, recando un lume, nell'anticamera, si alzò confuso da terra, asciugandosi gli occhi; e poiché il domestico, essendo tirato il catenaccio, si affaccendava invano alla porta, mentre Lutero si era di nuovo seduto davanti alle sue carte, Kohlhaas aprì la porta a quell'uomo. Lutero, lanciando un breve sguardo, di lato, al forestiero, disse al domestico: «Fà luce!», e questi, un po' sorpreso da quella visita, alla quale volse lo sguardo, staccò dalla parete la chiave di casa, e, aspettando che l'ospite se ne andasse, si ritirò nel vano della porta semiaperta.
«E così, signore molto reverendo», disse Kohlhaas, tenendo il cappello con entrambe le mani, che tremavano, «non mi può essere impartito il beneficio della riconciliazione, che vi ho supplicato di concedermi?».
«Con il tuo Salvatore, no», rispose brevemente Lutero; «con il tuo sovrano... questo dipenderà dal tentativo che ti ho promesso!». E con ciò fece al domestico il cenno di eseguire, senz'altro indugio, l'incarico che gli aveva affidato. Kohlhaas si portò, con un'espressione di dolore, le mani al petto, seguì l'uomo, che gli faceva lume giù per le scale, e disparve.
Il mattino seguente Lutero inviò una missiva al principe Elettore di Sassonia, nella quale, dopo un'amara allusione ai signori Enzo e Corrado di Tronka, ciambellano e coppiere addetti alla sua persona, i quali, come a tutti era noto, avevano intercettato la querela, dichiarava al sovrano, con la franchezza che gli era propria, che in così spiacevoli circostanze non restava altro da fare che accogliere la proposta del mercante di cavalli, e concedergli, al fine di riaprire il suo processo, l'amnistia per quanto era avvenuto. L'opinione pubblica, osservava, era pericolosamente propensa a prendere le parti di quell'uomo, tanto che persino a Vittemberga, da lui tre volte incendiata, si levavano voci in suo favore; e poiché immancabilmente, in caso fosse stata respinta, egli avrebbe portato l'offerta sua, con odiosi commenti, a conoscenza del popolo, questo avrebbe facilmente potuto essere sobillato a tal punto che, con la forza dello Stato, nulla più si sarebbe potuto intraprendere contro di lui. E concludeva che, in quel caso fuori dell'ordinario, bisognava passar sopra lo scrupolo di aprire una trattativa con un cittadino che aveva impugnato le armi; egli, in effetti, a causa dei procedimenti seguiti contro di lui, era stato posto, in certo modo, al di fuori del consorzio statale; e, in breve, per uscire da quella situazione, bisognava considerarlo più come una potenza straniera, quale, in un certo senso, il suo stesso essere forestiero lo qualificava, penetrata nel paese, che come un ribelle sollevatisi contro il trono.
Il principe Elettore ricevette questa lettera proprio mentre il principe Cristiano di Meissen, generalissimo dell'Impero, zio del principe Federico di Meissen, battuto a Mühlberg, e ancora a letto per le ferite, il Gran Cancelliere del Tribunale, conte Wrede, il conte Kallheim, presidente della Cancelleria di Stato, e i due signori Enzo e Corrado di Tronka, ciambellano questi, coppiere l'altro, amici d'infanzia e confidenti entrambi del sovrano, erano presenti a palazzo. Il ciambellano, il nobile Corrado, che, in qualità di consigliere segreto, sbrigava la corrispondenza privata del principe, con facoltà di servirsi del suo nome e del suo sigillo, prese per primo la parola, e, dopo aver spiegato ancora una volta, per filo e per segno, che mai e poi mai egli avrebbe messo da parte, di proprio arbitrio, la querela che il mercante di cavalli aveva sporto presso il Tribunale contro il barone, suo cugino, se, ingannato da false informazioni, non l'avesse ritenuta una bega oziosa e priva di qualunque fondamento, venne a parlare della situazione presente. Osservò che né in base alle leggi divine né in base alle umane il mercante di cavalli era autorizzato a prendersi, per quello sbaglio, una così mostruosa vendetta personale come quella che si era permesso descrisse la gloria che una trattativa con lui, come se fosse stato una potenza militare in piena regola, avrebbe fatto cadere sul suo capo maledetto da Dio; e l'onta che ne sarebbe ricaduta sulla sacra persona del principe gli parve così insopportabile, che, nella foga della sua perorazione, asserì che avrebbe preferito soffrire l'estremo, e vedere eseguita l'ordinanza del pazzo ribelle, e il barone, suo cugino, condotto a Pontekohlhaas, a ingrassare i morelli, piuttosto di sapere che si era accettata la proposta del dottor Lutero.
Il Gran Cancelliere del Tribunale, conte Wrede, espresse, rivolto a mezzo verso di lui, il proprio rincrescimento che una così delicata sollecitudine, come quella che egli mostrava, per il buon nome del sovrano, nella conclusione di quella faccenda, certamente incresciosa, non l'avesse ispirato fin dal momento del suo avvio. Egli espose all'Elettore le sue riserve a fare ricorso alla forza dello Stato per dare esecuzione a una misura palesemente ingiusta; osservò, con una significativa allusione al grande seguito che il mercante di cavalli continuava a incontrare nel paese, che in questo modo il filo dei delitti minacciava di svolgersi all'infinito; e dichiarò che soltanto una schietta azione di giustizia, che desse, immediatamente e senza riguardi, riparazione all'errore al quale era stato colpevolmente dato corso, avrebbe potuto strapparlo, e trarre felicemente il governo fuori da quel brutto impiccio.
Il principe Cristiano di Meissen, richiesto dal sovrano di dire che cosa pensasse di tutto ciò, asserì, rivolgendosi con deferenza verso il Gran Cancelliere, che la linea di pensiero da lui esposta gli ispirava, bensì, il massimo rispetto; ma, volendo aiutare Kohlhaas a ottenere i suoi diritti, egli non rifletteva che in tal modo veniva a ledere Vittemberga e Lipsia, e tutto il paese da lui devastato, nella giusta pretesa di un risarcimento dei danni, o almeno della loro punizione. L'ordinamento dello Stato era, in rapporto a quell'uomo, così sconvolto, che difficilmente lo si sarebbe potuto raddrizzare con un principio desunto dalla scienza del diritto. Perciò egli era d'avviso, secondo l'opinione del ciambellano, di fare ricorso ai mezzi previsti per tali casi: radunare un esercito di grandezza sufficiente, e con esso sloggiare o schiacciare il mercante di cavalli che si era insediato a Lützen.
Il ciambellano, mentre toglieva dalla parete due sedie, per lui e per l'Elettore, e le collocava con fare premuroso al centro della stanza, disse di rallegrarsi che un uomo della sua probità e intelligenza convenisse con lui sui mezzi per risolvere l'intricata questione. Il principe, tenendo ancora, senza sedersi, la mano appoggiata sulla sedia, e guardandolo fisso, gli assicurò che non aveva alcun motivo di rallegrarsi per questo: poiché la misura necessariamente a ciò collegata era di spiccare, prima, un ordine di cattura contro di lui, e metterlo sotto processo per abuso del nome del sovrano. Poiché, se la necessità esigeva di calare il velo, davanti al trono della giustizia, su una serie di delitti che, continuando a perdita d'occhio, non trovavano ormai posti abbastanza per comparire davanti al suo tribunale, ciò non valeva per il primo, che li aveva causati; e soltanto un'accusa capitale portata contro di lui avrebbe potuto autorizzare lo Stato a schiacciare il mercante di cavalli, la causa del quale era, come noto, più che giusta, e al quale essi stessi avevano messo in mano la spada che brandiva. Il principe, mentre a queste parole il barone lo guardava sgomento, si voltò, facendosi rosso per tutto il viso, e andò alla finestra.
Il conte Kallheim, dopo una pausa d'imbarazzo generale, disse che in quella maniera non si usciva dal cerchio stregato di cui erano prigionieri. Con lo stesso diritto si sarebbe potuto mettere sotto processo il nipote del Generalissimo, il principe Federico; poiché anch'egli, nel corso della poco ortodossa campagna intrapresa contro Kohlhaas, aveva in più modi travalicato le istruzioni ricevute: di modo che, se si fosse voluto fare l'elenco della lunga schiera di coloro che avevano dato causa all'imbarazzante situazione in cui ci si trovava, anch'egli sarebbe stato del numero, e il sovrano avrebbe dovuto chiedergli conto di quanto era avenuto presso Mühlberg.
Il coppiere, il nobile Enzo di Tronka, mentre il principe, con sguardi indecisi, andava verso il suo tavolo, prese la parola, e disse di non comprendere come la decisione di Stato che andava adottata potesse sfuggire a uomini di tanta saggezza, come quelli colà riuniti. Il mercante di cavalli, a quanto gli risultava, aveva promesso, in cambio di un semplice salvacondotto per Dresda, e di una nuova indagine sulla sua causa, di sciogliere la masnada con la quale era penetrato nel paese. Non ne seguiva, però, che gli si dovesse concedere l'amnistia per la sua delittuosa vendetta personale: due concetti giuridici che tanto il dottor Lutero quanto il Consiglio di Stato sembravano confondere. «Quando», proseguì, toccandosi il naso col dito «il Tribunale di Dresda avrà pronunciato, non importa come, la sentenza a proposito dei morelli, nulla impedirà di gettare Kohlhaas in prigione per i suoi incendi e le rapine: soluzione politicamente opportuna, che unisce i vantaggi di quelle dei due statisti che mi hanno preceduto, e alla quale non potrà mancare il plauso dei contemporanei e dei posteri».
Il principe Elettore, poiché sia egli, sia il Gran Cancelliere avevano risposto soltanto con uno sguardo a questo discorso del coppiere, il nobile Enzo, e con ciò la discussione pareva terminata, disse che avrebbe riflettuto per conto proprio, fino alla prossima seduta del Consiglio di Stato, sulle diverse opinioni che gli erano state esposte. Sembrava che la misura preliminare da lui stesso suggerita gli avesse tolto dal cuore, molto sensibile all'amicizia, la voglia di mettere in atto la spedizione contro Kohlhaas, per la quale tutto era già pronto. In ogni caso, trattenne presso di sé il Gran Cancelliere, conte Wrede, la cui opinione gli sembrava la più praticabile; e, quando questi gli ebbe mostrato delle lettere dalle quali risultava che, in effetti, le forze del mercante di cavalli erano già cresciute a quattrocento uomini, e anzi, per via della generale scontentezza che, a causa delle prevaricazioni del ciambellano, regnava nel paese, egli avrebbe potuto in breve contare su forze raddoppiate e triplicate, il principe Elettore si risolse, senza ulteriori esitazioni, ad accettare il consiglio che il dottor Lutero gli aveva dato. Affidò dunque al conte Wrede tutta la direzione dell'affare Kohlhaas; e già pochi giorni dopo compariva un affisso, di cui riassumiamo l'essenziale nel modo seguente:

«Noi, eccetera, eccetera, Principe Elettore di Sassonia, concediamo, avendo preso in particolare e benigna considerazione l'intercessione del dottor Martin Lutero presso di Noi, a Michele Kohlhaas, mercante di cavalli del Brandeburgo, a condizione che, entro tre giorni dalla visione della presente, abbia deposto le armi da lui impugnate, il salvacondotto per recarsi a Dresda, al fine di replicare l'esame della sua causa: affinché, nel caso in cui, come non è da attendersi, il Tribunale di Dresda respinga la sua querela, a proposito dei morelli, si proceda contro di lui, a causa della sua arbitraria intrapresa di farsi giustizia da sé, con tutta la severità della legge; ma, nel caso contrario, sia concessa a lui e a tutta la sua banda grazia in luogo di giustizia, e completa amnistia per le violenze da lui commesse in Sassonia».

Kohlhaas, non appena ebbe ricevuto, per mezzo del dottor Lutero, un esemplare di quel manifesto, che era stato affisso in tutte le piazze del paese, sciolse immediatamente, per quanto condizionate fossero le espressioni in esso contenute, tutta la sua masnada, con doni, ringraziamenti e raccomandazioni opportune. Depose tutto ciò che aveva predato, denaro, armi e masserizie, presso il tribunale di Lützen, come proprietà del principe Elettore; e, dopo aver inviato Waldmann a Pontekohlhaas, presso il balivo, con una sua lettera, per il riacquisto se era possibile, della sua fattoria, e Sternbald a Schwerin, a riprendere i suoi bambini, che desiderava tenere di nuovo con sé, lasciò il castello di Lützen, e, in incognito, portandosi dietro sotto forma di documenti, il resto del suo piccolo patrimonio, si recò a Dresda.
Spuntava il giorno, e tutta la città dormiva ancora, quando egli bussò alla porta della sua piccola proprietà nel sobborgo di Pirna, che grazie all'onestà del balivo gli era rimasta, e disse a Tommaso, il vecchio portiere al quale era affidata, che gli aveva aperto con stupore e sgomento, di recarsi al palazzo del Governo e annunciare al principe di Meissen che egli, Kohlhaas, il mercante di cavalli, era giunto. Il principe di Meissen, che, a questo annuncio, ritenne opportuno informarsi immediatamente di persona della situazione in cui ci si trovava, riguardo a quell'uomo, trovò le strade che conducevano all'abitazione di Kohlhaas, quando, poco tempo dopo, vi apparve, con il suo seguito di cavalieri e di fanti, già gremite, a perdita d'occhi, dalla folla radunata. La notizia che era giunto l'Angelo sterminatore, che cacciava gli oppressori del popolo col ferro e col fuoco, aveva richiamato tutta Dresda, città e sobborghi; si dovette sbarrare il portone di casa davanti alla folla dei curiosi che premeva, e i ragazzi si arrampicarono sino alle finestre, per vedere coi loro occhi l'incendiario che faceva colazione.
Non appena il principe, con l'aiuto delle guardie, che gli facevano largo, riuscì a penetrare in casa, ed entrò nella stanza di Kohlhaas, domandò all'uomo che stava in piedi accanto a un tavolo, in maniche di camicia, se fosse Kohlhaas, il mercante di cavalli; al che Kohlhaas, tirando fuori dalla cintura un portafogli con varie carte, che attestavano la sua identità, e porgendoglielo rispettosamente, rispose di sì, e aggiunse di esser venuto, dopo aver sciolto le sue truppe, a Dresda, secondo l'immunità concessagli dal sovrano, per sporgere davanti al tribunale la sua querela, a proposito dei morelli, contro il barone Venceslao di Tronka. Il principe, dopo un rapido sguardo, con il quale lo squadrò da capo a piedi, diede una scorsa alle carte che si trovavano nel portafogli; si fece spiegare da lui che cosa volesse dire una ricevuta che vi trovò, redatta dal tribunale di Lützen, a proposito dei beni depositati a beneficio del tesoro dell'Elettore; e, dopo aver ulteriormente saggiato con domande di varie specie, sui suoi bambini, il suo patrimonio e la vita che pensava dl condurre in avvenire, che tipo di uomo fosse, e averlo trovato su ogni punto tale che si poteva stare tranquilli sul conto suo, gli restituì le carte e gli disse che nulla si opponeva al suo processo, e che, per avviarlo, si rivolgesse pure direttamente al Gran Cancelliere del tribunale, conte Wrede.
«Nel frattempo», disse il principe dopo una pausa, accostandosi alla finestra e osservando con stupore il popolo radunato davanti alla casa, «dovrai, per i primi giorni, accettare una scorta che ti protegga, sia in casa tua, sia quando esci».
Kohlhaas, turbato, guardava a terra davanti a sé, e taceva. Il principe disse: «Fa lo stesso!», e lasciò la finestra. «Di ciò che nascerà, dovrai fare carico a te stesso», e con ciò si volse verso la porta, con l'intenzione di lasciare la casa.
Kohlhaas, che aveva riflettuto, disse: «Vostra Grazia, fate ciò che volete. Datemi la vostra parola di ritirare la scorta, non appena io lo desideri, e non avrò nulla da obbiettare circa questo provvedimento».
Il principe replicò che non c'era bisogno di dirlo; e, dopo aver spiegato a tre lanzi, che gli erano stati presentati a quello scopo, che l'uomo nella casa del quale si trattenevano era libero, e che soltanto per sua difesa dovevano, quando usciva, seguirlo, salutò il mercante di cavalli con un cenno condiscendente della mano, e si allontanò.
Verso mezzogiorno Kohlhaas, accompagnato dai suoi tre lanzi, e seguito da una folla sterminata che, tuttavia, messa sull'avviso dalla polizia, non gli fece alcun male, si recò dal Gran Cancelliere del tribunale, conte Wrede. Il Gran Cancelliere, che lo ricevette gentilmente e con indulgenza nella sua anticamera, si intrattenne con lui per due ore intere; e, dopo essersi fatto raccontare dal principio alla fine come si erano svolte le cose, gli disse di rivolgersi, per l'immediata stesura e presentazione della querela, a un noto avvocato cittadino, che esercitava presso il tribunale. Kohlhaas, senza ulteriori indugi, si recò nell'abitazione di questi; e, dopo che la querela fu redatta, in tutto e per tutto uguale alla prima che era stata cassata, chiedendo la punizione del barone secondo le leggi, la reintegrazione dei cavalli nello stato precedente e il risarcimento dei danni suoi propri, e anche di quelli subiti dal suo servo Ersiano, caduto presso Mühlberg, a favore della vecchia madre, fece, accompagnato dalla folla, che continuava a guardarlo con tanto d'occhi, ritorno a casa, ben deciso a non lasciarla più, a meno che non fosse chiamato da affari imprescindibili.
Nel frattempo anche il barone era stato rilasciato dalla sua custodia, a Vittemberga, e, dopo essere guarito da una pericolosa risipola, che gli aveva infiammato un piede, aveva ricevuto dal tribunale dello Stato l'ingiunzione perentoria di presentarsi a Dresda, per rispondere dell'accusa, sollevata contro di lui dal mercante di cavalli Kohlhaas, di aver illegalmente trattenuto e sfiancato i suoi morelli. I due fratelli, il ciambellano e il coppiere di Tronka, cugini del barone e feudatari come lui, che prese alloggio presso di loro, lo ricevettero al colmo dell'indignazione e del disprezzo; lo chiamarono sciagurato, buono a nulla, onta e disonore di tutta la famiglia, gli annunciarono che, ormai, avrebbe perduto senza fallo il processo, e lo invitarono a darsi da fare per rintracciare subito i morelli, poiché, fra le risate di scherno del mondo, sarebbe stato condannato a ingrassarsi. Il barone disse, con voce debole e tremante, di essere l'uomo più miserevole di questo mondo. Giurò e spergiurò di aver saputo ben poco di tutta la malaugurata faccenda, che lo stava conducendo alla rovina, e che di tutto avevano colpa il castaldo e il fattore, i quali, a sua completa insaputa, e senza l'ombra del suo consenso, avevano adoperato i cavalli per il raccolto, e con fatiche eccessive, in parte sui loro stessi campi li avevano sfiancati. E, così dicendo, si sedette, pregandoli di non farlo ricadere di proposito, con le insinuazioni e le offese nella malattia dalla quale si era appena riavuto.
Il giorno seguente i signori Enzo e Corrado, che avevano dei possedimenti nella regione del castello incendiato di Tronka, su preghiera del barone loro cugino, poiché non restava altro da fare, scrissero ai loro affittuari e amministratori che si trovavano in zona, per ottenere notizie dei morelli che quel giorno disgraziato erano andati perduti, e che erano da allora del tutto svaniti. Ma tutto ciò che, a causa della completa devastazione del luogo, e della strage di quasi tutti gli abitanti, poterono venire a sapere fu che un servo, spinto a piattonate dall'incendiario, li aveva tratti in salvo dalla baracca in fiamme in cui si trovavano, ma in seguito, avendo chiesto dove dovesse condurli, e che dovesse fare di loro, da quell'uomo sanguinario e feroce aveva ricevuto una pedata per tutta risposta. La vecchia governante del barone, tormentata dalla gotta, che si era rifugiata a Meissen, interrogata per lettera assicurò al barone che il servo il mattino dopo quella notte di orrore, si era diretto con i cavalli verso il confine del Brandeburgo; ma tutte le indagini condotte laggiù furono vane, e quella notizia sembrò basata su un errore, poiché il barone non aveva alcun servo che avesse dimora nel Brandeburgo, e neppure lungo la strada che vi conduceva. Alcuni uomini di Dresda, che erano stati a Wilsdruf pochi giorni dopo l'incendio del castello di Tronka, riferirono che, più o meno nel periodo indicato, vi era giunto un servo che tirava due cavalli per la cavezza, e, poiché le bestie erano assai mal ridotte, e non avrebbero potuto proseguire, le aveva lasciate nella stalla di un pecoraio, che era disposto a rimettere in piedi. Sembrava molto probabile, per varie ragioni, che si trattasse proprio dei morelli oggetto dell'inchiesta; ma il pastore di Wilsdruf, così assicuravano alcuni viaggiatori che giungevano di laggiù, li aveva di nuovo rivenduti, non si sapeva a chi; e una terza diceria, di cui non si riuscì a scoprire la fonte, diceva persino che i cavalli avessero reso l'anima a Dio, e fossero sepolti nella fossa di Wilsdruf.
I signori Enzo e Corrado, per i quali questa piega degli avvenimenti era, come è facile capire, la più gradita, dal momento che veniva a liberarli, mancando al barone loro cugino una stalla propria, dalla necessità di nutrire i morelli nelle loro, desideravano tuttavia, per essere pienamente sicuri, appurare la circostanza. Il barone Venceslao di Tronka inviò pertanto uno scritto, nella sua qualità di titolare del feudo, con diritti giurisdizionali, al tribunale di Wilsdruf, in cui lo pregava con il massimo zelo, dopo una minuziosa descrizione dei morelli che come egli diceva, gli erano stati affidati, ed erano andati smarriti per un incidente, di fare indagini sul luogo dove ora si trovassero, e di intimare al proprietario, chiunque fosse, di farli recapitare, dietro generoso rimborso di tutte le spese, nelle stalle del ciambellano, il nobile Corrado, a Dresda. In seguito a ciò, pochi giorni dopo, comparve davvero l'uomo al quale il pastore di Wilsdruf li aveva ceduti, e li condusse, secchi e vacillanti, legati al montante del suo carro, sulla piazza del mercato della città; ma la cattiva sorte del nobile Venceslao, e ancor più dell'onesto Kohlhaas, volle che egli fosse lo scortichino di Döbbeln.
Non appena il nobile Venceslao, alla presenza del ciambellano suo cugino, venne a sapere, da voci vaghe, che era giunto in città un uomo con due cavalli neri, scampati all'incendio del castello di Tronka, entrambi si recarono, accompagnati da alcuni servi radunati in fretta nella casa, sulla piazza principale, dove l'uomo si trovava, per rilevarvi, nel caso fossero quelli appartenenti a Kohlhaas, previo rimborso delle spese, e condurli a casa. Ma quale fu l'imbarazzo dei due nobili quando scorsero già, intorno al barroccio al quale erano legate le bestie, un mucchio di persone, attirate dallo spettacolo, che andavano aumentando di momento in momento e gridavano le une alle altre, fra crasse risate, che ormai i cavalli che avevano fatto tremare lo Stato erano finiti nelle mani dello scortichino!
Il barone, che aveva fatto il giro del carretto, e aveva osservato quelle povere bestie, che sembravano dover morire da un momento all'altro, disse, imbarazzato, che non erano i cavalli che aveva ritirato a Kohlhaas; ma il nobile Corrado, il ciambellano, lanciandoli un'occhiata piena di muto furore, che, se fosse stata di ferro, l'avrebbe schiacciato, andò, gettando indietro il mantello, e scoprendo il collare e le insegne del suo grado, accanto allo scortichino, e gli chiese se si trattava dei morelli che il pastore di Wilsdruf si era tenuto, e che il barone Venceslao di Tronka, al quale appartenevano, aveva fatto cercare per mezzo del tribunale.
Lo scortichino, che, con un secchio d'acqua in mano, era occupato a dar da bere a uno stallone grosso e ben pasciuto, che tirava il barroccio, fece: «I neri?», tolse al cavallo, dopo aver posato il secchio a terra, il morso di bocca, e disse che i morelli legati al montante glieli aveva venduti il porcaro di Hainichen. Di dove quello li avesse avuti, e se venissero dal pecoraio di Wilsdruf, lui non lo sapeva. A lui, disse riprendendo il secchio, appoggiandolo contro la stanga e tenendolo fermo col ginocchio, a lui il messo del tribunale di Wilsdruf aveva detto di portarli a Dresda, a casa di quelli di Tronka; ma il barone al quale doveva rivolgersi si chiamava Corrado. E a queste parole si volse, rovesciando sul selciato della strada l'acqua che il suo cavallo aveva avanzato nel secchio.
Il ciambellano, sul quale erano beffardamente puntati tutti gli occhi della folla e che non riusciva a ottenere da quell'uomo, intento, con zelo imperturbabile, alle sue faccende, di farsi guardare in faccia, disse di essere lui il ciambellano, Corrado di Tronka; i morelli che egli doveva ritirare appartenevano, però, a suo cugino; erano arrivati al pecoraio di Wilsdruf per mezzo di un servo, che era fuggito in occasione dell'incendio del castello di Tronka; ma originariamente erano due cavalli di proprietà del mercante di cavalli Kohlhaas! Egli domandò all'uomo, che stava a gambe larghe, e si tirava su i calzoni, se non sapesse nulla di tutto ciò; e se il porcaro di Hainichen non se li fosse magari procurati, tutto dipendeva da questa circostanza dal pecoraio di Wilsdruf, oppure da un terzo, che a sua volta li aveva acquistati da lui.
Lo scortichino, che, messosi contro il carro, vi aveva fatto un po' d'acqua, disse che gli era stato ordinato di venire a Dresda con i morelli, e di andare a prendere in casa di quelli di Tronka il denaro che in cambio gli spettava. Di quel che gli andava raccontando, lui non capiva niente; e se prima del porcaro di Hainichen li aveva avuti Tizio, o Caio, o il pecoraio di Wilsdruf, questo per lui, dal momento che non erano rubati, era tutt'uno. E con questo si diresse, gettatasi la frusta di traverso sulle ampie spalle, verso una bettola che si trovava sulla piazza, col proposito, affamato com'era, di mangiare un boccone. Il ciambellano, che non sapeva che farsi dei cavalli che il porcaro di Hainichen aveva venduto allo scortichino di Döbbeln, se non erano quelle le bestie sulle quali il diavolo cavalcava per la Sassonia, chiese al barone di pronunciarsi; ma quando costui, con labbra pallide e tremanti, ebbe detto che la cosa più consigliabile era comprare i morelli, che appartenessero a Kohlhaas oppure no, il ciambellano maledisse il padre e la madre che l'avevano messo al mondo e, tiratosi giù il mantello, del tutto incerto su ciò che avesse da fare e non fare, uscì dalla calca. Chiamò il barone di Wenk, suo conoscente, che passava a cavallo per la strada, e, ostinandosi a non lasciare la piazza, proprio perché la marmaglia lo fissava con scherno, e, premendosi i fazzoletti sulla bocca, sembrava non aspettare altro che se ne andasse per scoppiare in risate, lo pregò di scendere dal Gran Cancelliere, conte Wrede, e per suo tramite far venire laggiù Kohlhaas, a esaminare i morelli.
Avvenne ora che Kohlhaas, mandato a chiamare da un messo del tribunale, si trovasse per l'appunto nella stanza del Gran Cancelliere, per via di certe spiegazioni che gli erano state richieste a proposito del deposito di Lützen, quando il barone di Wenk fu introdotto presso di lui con l'incarico che sappiamo; e, mentre il Gran Cancelliere si alzava dalla poltrona con il viso contrariato, e il mercante di cavalli, la cui persona era sconosciuta al barone, rimaneva in disparte, con le carte che teneva in mano, questi riferì l'imbarazzante situazione in cui si trovavano i signori di Tronka. Lo scortichino di Döbbeln, a causa di indagini troppo sommarie del tribunale di Wilsdruf, era comparso con dei cavalli in condizioni così disperate, che il barone Venceslao esitava a riconoscerli come quelli appartenenti a Kohlhaas; e di conseguenza, se si volevano rilevare lo stesso dallo scortichino, per fare il tentativo di rimetterli in forze nelle stalle dei cavalieri, era prima necessaria un'ispezione oculare da parte di Kohlhaas, per eliminare ogni dubbio dalla suddetta circostanza. «Abbiate pertanto la bontà», concluse, «di mandare a prendere da una scorta il mercante, e farlo condurre al mercato, dove si trovano i cavalli».
Il Gran Cancelliere, togliendosi gli occhiali dal naso, rispose che egli era incorso in un duplice errore: in primo luogo, se riteneva che la circostanza in questione non si potesse accertare in altro modo, se non con un'ispezione oculare del Kohlhaas; e poi se immaginava che egli, il Cancelliere, fosse autorizzato a far condurre Kohlhaas da una scorta dovunque piacesse al barone. Quindi gli presentò il mercante, che era in piedi alle sue spalle, e lo pregò, sedendosi e rimettendosi gli occhiali, di rivolgere direttamente a lui per quella faccenda. Kohlhaas, il cui volto non dava a vedere nulla di quanto avveniva nel suo cuore, disse di essere pronto a seguirlo al mercato, per esaminare i morelli che lo scortichino aveva portato in città. Mentre il barone si voltava, confuso, verso di lui, egli si avvicinò di nuovo al tavolo del Gran Cancelliere, e, dopo avergli dato, traendole dalle carte del suo portafogli, una serie di informazioni riguardanti il deposito di Lützen, prese congedo da lui; il barone che, rosso su tutto il viso, si era avicinato alla finestra, fece egualmente i suoi rispetti; e tutti e due, accompagnati dai tre lanzi assegnati dal principe di Meissen, si avviarono, col seguito di una gran folla, verso la piazza principale.
Il ciambellano, il nobile Corrado, che nel frattempo, sfidando i consigli di parecchi amici che gli si erano radunati intorno, era rimasto fermo al suo posto, in mezzo al popolo, di fronte allo scortichino di Döbbeln, non appena apparve il barone con il mercante di cavalli si accostò a quest'ultimo, e gli domandò, tenendo la spada, con superbia e ostentazione, sotto il braccio, se i cavalli che stavano dietro il carro erano i suoi. Il mercante, dopo essersi tolto, con gesto rispettoso, il cappello, di fronte al signore che gli aveva rivolto la domanda, che egli non conosceva, si avvicinò, senza rispondergli, seguito da tutti i cavalieri, al barroccio dello scortichino; e, dopo aver osservato di sfuggita, da una distanza di dodici passi, dove si fermo, gli animali, che se ne stavano la sulle gambe malferme, con le teste chine verso terra, senza toccare il fieno che lo scortichino aveva messo loro davanti, si rivolse di nuovo al ciambellano: «Vostra Grazia, lo scortichino ha proprio ragione; i cavalli legati al suo barroccio mi appartengono». E con ciò, volgendo gli occhi tutt'intorno sul cerchio dei signori, alzò un'altra volta il cappello e, accompagnato dalla sua scorta, lasciò la piazza.
A quelle parole il ciambellano si avvicinò a passi rapidi, che gli fecero ondeggiare il cimiero, allo scortichino, e gli gettò una borsa di denaro; e mentre questi, con la borsa in mano, si ravviava i capelli dalla fronte con un pettine di piombo, e contava i soldi, egli ordinò a un servo di slegare i cavalli e di condurli a casa. Il servo, che, al richiamo del padrone, si era staccato da un crocchio di amici e parenti che aveva tra la folla, si avvicinò infatti, un po' rosso in viso, ai cavalli, saltando una larga pozza di liquami che si era formata accanto a loro; ma ne aveva appena toccato la cavezza, per slegarsi, quando mastro Himboldt, suo cugino, lo afferrò per un braccio, e gridandogli: «Tu non toccherai quelle carogne!», lo scaraventò via dal barroccio. E, saltando, con qualche esitazione, la pozza di liquame, si volse indietro verso il ciambellano, che a quell'incidente era rimasto senza parole, aggiungendo che doveva procurarsi un garzone di scortichino, per fargli quel servizio!
Il ciambellano, che aveva squadrato per un momento mastro Himboldt, schiumando di rabbia, si voltò, e chiamò, al di sopra delle teste dei cavalieri che lo circondavano, la scorta; e quando, su richiesta del barone di Wenk, un ufficiale e alcuni armigeri del principe Elettore furono giunti dal palazzo, esortò questi, dopo aver brevemente esposto quali vergognose sobillazioni si permettessero i borghesi della città, ad arrestare mastro Himboldt, il caporione. E, afferratolo per il collo, lo accusò di aver scaraventato via dal carretto e malmenato il suo servo, che, per ordine suo, stava slegando i morelli. Il mastro, sfuggendo alla presa del ciambellano con un agile movimento, che lo liberò, rispose: «Vostra Grazia! Far capire a un giovanotto di vent'anni quel che deve fare non significa sobillarlo! Domandategli se, contro l'uso e la decenza, è disposto a occuparsi dei cavalli legati al barroccio. Se è disposto a farlo, dopo quello che ho detto, sia pure! Per quel che mi riguarda può anche squartarli e scorticarli!».
A queste parole il ciambellano si voltò verso il servo, e gli domandò se aveva qualche obiezione a eseguire il suo ordine, e a slegare i cavalli che appartenevano a Kohlhaas e a condurli a casa; e poiché questi rispose timidamente, cercando di confondersi fra i borghesi, che bisognava ridare l'onore ai cavalli, prima di pretendere questo da lui, il ciambellano gli corse dietro, gli strappò il cappello, ornato dallo stemma della casata, e, dopo averlo calpestato, trasse dal fodero la spada e con furibondi colpi di piatto cacciò il servo, sui due piedi, dalla piazza e dal suo servizio. «Addosso! Buttate a terra quell'assassino!», urlò mastro Himboldt; e, mentre i borghesi, indignati da quella scena, serravano le file e respingevano le guardie, afferrò da dietro il ciambellano, lo gettò a terra, gli strappò il manto, l'elmo e il colletto, gli tolse di mano la spada e la scaraventò lontano, con rabbia, attraverso la piazza. Invano il barone Venceslao, mentre si metteva in salvo dal tumulto, gridò ai cavalieri di correre in aiuto del cugino; prima di aver fatto un passo, essi erano già dispersi dalla folla che premeva, così che il ciambellano, che si era ferito al capo cadendo, restò del tutto in balia del furore popolare.
Soltanto la comparsa di uno squadrone di lanzi a cavallo, che passavano per caso nella piazza, e che l'ufficiale degli armigeri del palazzo chiamò in suo soccorso, poté salvare il ciambellano. L'ufficiale, ricacciata la folla, afferrò l'artigiano inferocito, e, mentre questi veniva condotto in prigione da alcuni soldati a cavallo, due amici sollevarono da terra il disgraziato ciambellano, coperto di sangue, e lo portarono a casa. Così disastroso fu l'esito dell'onesto e benintenzionato tentativo di dare soddisfazione al mercante di cavalli per il torto che gli era stato fatto. Lo scortichino di Döbbeln, per il quale l'affare era concluso, e che non voleva trattenersi più a lungo, quando la gente cominciò a disperdersi legò i cavalli a un lampione, dove le bestie rimasero, senza che alcuno se ne curasse, a ludibrio dei ragazzi di strada e dei perdigiorno, per tutta la giornata; tanto che, in assenza di ogni altra cura e custodia, dovette farsene carico la polizia, che, al calar della notte, andò a chiamare lo scortichino di Dresda, per farli ricoverare, fino a nuove disposizioni, nello scorticato fuori le mura cittadine.
Questo incidente, per quanto poco, in realtà, il mercante ne avesse colpa, suscitò tuttavia nel paese, anche fra gli uomini migliori e più moderati, uno stato d'animo estremamente pericoloso per il buon esito della sua causa. Si trovava del tutto intollerabile il suo rapporto con lo Stato e, nelle case private e sulle pubbliche piazze, si fece strada l'opinione che fosse meglio commettere contro di lui una palese ingiustizia, e mettere di nuovo tutto quanto a tacere, piuttosto di rendergli una giustizia estorta con azioni violente, in una questione così insignificante, soltanto per soddisfare la sua folle ostinazione. E, a completare la rovina del povero Kohlhaas, lo stesso Gran Cancelliere dovette contribuire, per eccessiva probità, e per l'odio contro la famiglia dei Tronka che ne derivava, a confermare e a diffondere questo stato d'animo. Era quanto mai improbabile che i cavalli, dei quali adesso si occupava lo scortichino di Dresda, potessero mai essere ricondotti nello stato in cui si trovavano quando erano usciti dalle stalle di Pontekohlhaas; ma, posto che ciò, con estrema perizia e cure assidue, fosse possibile, l'onta che nelle circostanze presenti ne sarebbe ricaduta sulla famiglia del barone era così grande, che, dato il peso che essa rivestiva nello Stato e nel paese, come una delle prime e più nobili, nulla sembrava più ragionevole e opportuno che cercare di procurare un indennizzo dei cavalli in denaro. Come che fosse, a una lettera, nella quale il presidente del tribunale, conte Kallheim, a nome del ciambellano, trattenuto in casa dalla sua indisposizione, faceva al Gran Cancelliere, pochi giorni dopo, questa proposta, quest'ultimo rispose bensì inviando a Kohlhaas uno scritto in cui lo esortava a non respingere una simile offerta, in caso gli venisse fatta; ma al presidente stesso replicò con un biglietto breve e poco cerimonioso, in cui lo pregava di risparmiargli incarichi privati in quella faccenda, e invitava il ciambellano a rivolgersi direttamente al mercante di cavalli, che gli dipinse come uomo ragionevole e modesto.
Il mercante di cavalli, la cui volontà era stata realmente spezzata dall'incidente avvenuto sulla piazza del mercato, non aspettava per l'appunto altro, secondo il consiglio del Gran Cancelliere, che un passo da parte del barone, o di uno dei suoi parenti, per venir loro incontro con tutta la buona volontà, perdonando quanto era accaduto; ma proprio compiere questo passo era penoso per gli orgogliosi cavalieri; i quali, profondamente amareggiati dalla risposta che avevano ricevuto dal Gran Cancelliere, la mostrarono al principe Elettore che, il mattino del giorno seguente, aveva fatto visita al ciambellano, nella stanza dove egli giaceva indisposto per le ferite riportate. Il ciambellano, con una voce che il suo stato rendeva flebile e toccante, gli domandò se egli, dopo aver messo a repentaglio la vita per risolvere quella faccenda secondo i suoi desideri, doveva ancora esporre il suo onore al biasimo del mondo, e farsi avanti con una preghiera di accomodamento e di accondiscendenza verso un uomo che aveva riversato ogni onta e vergogna immaginabile su di lui e sulla sua famiglia. Il principe Elettore, dopo aver letto la lettera, domandò imbarazzato al conte Kallheim se il tribunale non fosse autorizzato, senza ulteriori colloqui con Kohlhaas, a basarsi sulla circostanza che i cavalli non potevano essere ristabiliti, e a pronunciare quindi, come se fossero morti, una sentenza di semplice risarcimento in denaro.
«Sono morti, Vostra Grazia», rispose il conte; «sono morti in senso giuridico, poiché non hanno alcun valore e lo saranno anche fisicamente, prima che siano condotti dallo scorticatoio alle stalle dei cavalieri»; al che il principe Elettore, mettendosi in tasca la lettera, disse che ne avrebbe parlato di persona con il Gran Cancelliere, tranquillizzò il ciambellano, che si tirò su a metà, per stringergli, riconoscente, la mano, e, dopo avergli raccomandato ancora una volta di aver cura della sua salute, si alzò, con espressione di grande benevolenza, dalla poltrona, e lasciò la stanza.
Così stavano le cose a Dresda, quando sul povero Kohlhaas si addensò un'altra e più grave tempesta, proveniente da Lützen, le cui folgori gli astuti cavalieri furono abbastanza abili da dirigere sul suo capo sfortunato. Giovanni Nagelschmidt, infatti, uno dei servi arruolati dal mercante, e poi congedati dopo la pubblicazione dell'amnistia del principe Elettore, aveva pensato bene, poche settimane dopo, ai confini della Boemia, di accozzare nuovamente una parte di quella marmaglia, rotta a tutte le infamie, e di continuare per proprio conto il mestiere al quale Kohlhaas lo aveva agiato. Questo poco di buono, vuoi per incutere spavento agli sbirri, da cui era inseguito, vuoi per indurre, secondo un metodo già sperimentato, la gente delle campagne a unirsi alle sue ribalderie, si proclamava luogotenente di Kohlhaas; con l'astuzia appresa dal suo padrone, egli sparse la voce che nei confronti di molti servi che erano pacificamente ritornati alle loro case l'amnistia non era stata rispettata, e che Kohlhaas stesso, con spergiuro che gridava vendetta al cielo, al suo arrivo a Dresda era stato arrestato, e consegnato alle guardie; fino al punto che, su manifesti in tutto simili a quelli di Kohlhaas, la sua masnada di incendiari era presentata come un esercito insorto a sola gloria di Dio, e destinato a vigilare sull'osservanza dell'amnistia a loro concessa dal principe Elettore; tutto ciò, come si è già detto, niente affatto a gloria di Dio, ne per attaccamento a Kohlhaas, la cui sorte era loro del tutto indifferente, ma per poter, sotto il manto di cosiffatte finzioni, tanto più impunemente e comodamente incendiare e saccheggiare.
I nobili, non appena giunsero a Dresda le prime notizie di ciò, non seppero soffocare la loro gioia per l'incidente, che dava all'intera faccenda un aspetto ben diverso. Con sapienti e velenose allusioni essi ricordarono quale passo falso fosse stato, a dispetto dei loro pressanti e ripetuti ammonimenti, concedere a Kohlhaas l'amnistia, quasi si fosse avuta l'intenzione di dare con ciò ai ribaldi di tutte le specie l'autorizzazione a mettersi sulla stessa strada; e, non contenti di prestar fede alla pretesa del Nagelschmidt di aver preso le armi soltanto in difesa e per la sicurezza del suo perseguitato padrone, manifestarono perfino l'opinione ben precisa che la comparsa di costui altro non fosse che una trama ordita dallo stesso Kohlhaas, per mettere paura al governo, affrettare la pronuncia della sentenza e ottenerla punto per punto conforme alla sua folle ostinazione. Il coppiere, il nobile Enzo, andò addirittura tanto oltre da proclamare, di fronte ad alcuni gentiluomini di caccia e cortigiani, i quali, dopo il banchetto, si erano radunati intorno a lui nell'anticamera dell'Elettore, che lo scioglimento della banda di masnadieri a Lützen non era stato altro che una perfida commedia; e, facendosi beffe dell'amore di giustizia del Gran Cancelliere, mostrò, con una serie di elementi astutamente collegati, come la masnada fosse presente quanto prima nei boschi del principato, e aspettasse soltanto un cenno del mercante di cavalli per irrompere ancora una volta, col ferro e col fuoco.
Il principe Cristiano di Meissen, assai contrariato dalla piega che prendevano le cose, che minacciava di macchiare in modo spiacevolissimo il buon nome del suo signore, si recò immediatamente da lui a palazzo; e, ben intuendo che i nobili avevano interesse a rovinare Kohlhaas, se era possibile, a causa dei nuovi delitti, chiese al signore il permesso di sottoporre subito il mercante a un interrogatorio. Il mercante, condotto, non senza stupore, da uno sgherro, al palazzo del governo, apparve recando in braccio Enrico e Leopoldo, i suoi due piccini, poiché Sternbald, il suo servo, era giunto presso di lui il giorno prima con i suoi cinque figli dal Meclemburgo, dove essi erano rimasti fino a quel momento, e vari pensieri, che sarebbe troppo lungo esporre, l'avevano indotto a prendere in braccio i due marmocchi, i quali, quando stava per uscire, l'avevano chiesto versando lacrime infantili, e a portarseli dietro all'interrogatorio.
Il principe, dopo aver osservato benevolmente i bambini, che Kohlhaas aveva fatto sedere accanto a sé, e avere chiesto con gentilezza quanti anni avevano e come si chiamavano, gli fece presenti gli abusi che il Nagelschmidt, già suo servo, stava commettendo nelle valli dei monti Metalliferi; e, porgendogli i sedicenti mandati di costui, lo esortò a esporre ciò che poteva dire a propria giustificazione. Il mercante, per quanto realmente atterrito da quei fogli svergognati e proditori, non ebbe tuttavia, di fronte a un uomo retto qual era il principe, molta pena a dimostrare in modo soddisfacente l'infondatezza delle accuse che gli venivano contestate. Non soltanto, egli fece osservare, per come stavano andando le cose egli non aveva alcun bisogno di aiuto da parte di un terzo per la decisione della sua causa, che procedeva nel migliore dei modi; ma da alcune lettere che aveva con sé, e che mostrò al principe, emergeva come del tutto inverosimile che il Nagelschmidt potesse avere in animo di prestargli un aiuto siffatto, poiché, poco prima dello scioglimento, a Lützen, della masnada, egli era sul punto di far impiccare quel ribaldo, a causa degli stupri e di altre violenze da lui commesse nelle campagne; tanto che solo la pubblicazione dell'amnistia concessa dal principe, eliminando tra loro ogni rapporto, lo aveva salvato, e il giorno dopo i due si erano separati come nemici mortali.
Kohlhaas, su sua proposta, che il principe accettò, si sedette, e redasse una missiva per il Nagelschmidt, nella quale dichiarava che la pretesa di costui di aver preso le armi per salvaguardare l'amnistia violata a lui e alla sua banda era un'infame e scellerata invenzione; gli diceva che al suo arrivo a Dresda egli non era stato arrestato, ne consegnato alle guardie, e che anche la sua causa procedeva in modo del tutto conforme ai suoi desideri; e, per gli incendi e le stragi da lui commesse nei monti Metalliferi dopo la pubblicazione dell'amnistia, lo abbandonava, ad ammonimento della masnada raccolta intorno a lui, al pieno rigore della legge. A ciò furono allegati alcuni estratti del procedimento criminale che il mercante di cavalli aveva istruito contro di lui nel castello di Lützen, a causa delle ribalderie di cui si è detto, affinché il popolo fosse istruito sul conto di quel buono a nulla, fin da allora destinato alla forca, che, come si è già detto, soltanto il procedimento di clemenza del principe aveva salvato. In seguito a ciò il principe tranquillizzò Kohlhaas a proposito del sospetto che, costretti dalle circostanze, avevano dovuto avanzare contro di lui nell'interrogatorio gli assicurò che, fintanto che egli fosse stato a Dresda, l'amnistia che gli era stata concessa non sarebbe stata in alcun modo violata, diede ancora una volta la mano ai bambini, donando loro della frutta che si trovava sulla tavola, salutò Kohlhaas e lo congedò.
Il Gran Cancelliere, che però scorgeva il pericolo che incombeva sul mercante di cavalli, fece l'impossibile per portarne a conclusione, prima che da nuovi avvenimenti venisse complicata e confusa, la causa; ma proprio questo era il desiderio e il fine dei cavalieri, i quali, da politici consumati, anziché limitare, come prima, con tacita ammissione della loro colpa, la loro opposizione al raggiungimento di una sentenza mite, cominciarono ora, con argomentazioni speciose e cavillose, a negare quella colpa del tutto. Ora davano a intendere che i morelli di Kohlhaas erano stati trattenuti al castello di Tronka in seguito a decisioni arbitrarie del castaldo e del fattore, delle quali il barone non aveva avuto alcuna conoscenza, oppure incompleta; ora assicuravano che, sin dal momento del loro arrivo nel castello, gli animali soffrivano già di una violenta e pericolosa tosse, appellandosi a testimoni che si impegnavano a citare al momento opportuno; e quando, dopo lunghe indagini e discussioni, questi loro argomenti vennero a cadere, essi esibirono addirittura un editto del principe Elettore, con il quale, dodici anni prima, a causa di un'epidemia del bestiame, era stata, in effetti, vietata l'importazione dei cavalli dal Brandeburgo in Sassonia: prova lampante che il barone non soltanto era autorizzato, ma era tenuto a trattenere i cavalli che Kohlhaas conduceva oltre confine.
Kohlhaas, che nel frattempo aveva ricomprato dall'onesto balivo di Pontekohlhaas, in cambio di un modesto risarcimento del danno da lui subito, la sua fattoria, desiderava, a quanto sembra allo scopo di perfezionare giuridicamente quel contratto, lasciare per qualche giorno Dresda, e recarsi nella sua patria; risoluzione nella quale tuttavia, non ne dubitiamo, ebbe parte, ancor più del suddetto negozio, per quanto urgente fosse, per la necessità di procedere alle semine invernali, l'intenzione di saggiare la sua posizione, in circostanze tanto singolari e preoccupanti: e alla quale contribuirono, forse, anche ragioni di altra specie, che preferiamo lasciar indovinare a chiunque sappia vedere nel proprio cuore. Si recò dunque, lasciando a casa la guardia che gli era stata assegnata, presso il Gran Cancelliere, e gli fece sapere, le lettere del balivo in mano, che era sua intenzione, nel caso che il tribunale non avesse, come sembrava, necessità della sua presenza, lasciare la città, e, per un periodo di otto o dodici giorni, trascorsi i quali prometteva di essere di ritorno, compiere un viaggio nel Brandeburgo. Il Gran Cancelliere, guardando a terra con il volto scontento e preoccupato, obiettò che, a dire il vero, la sua presenza era proprio allora più necessaria che mai, poiché il tribunale, a causa delle insidiose e tortuose eccezioni della controparte, aveva bisogno delle sue dichiarazioni e chiarificazioni in mille casi imprevedibili; ma poiché Kohlhaas diceva di rivolgersi al suo avvocato, perfettamente al corrente della causa, e ritornava con rispettosa insistenza, promettendo di limitarsi a otto giorni, sulla sua richiesta, il Gran Cancelliere, dopo una pausa, gli disse brevemente, congedandolo, di sperare che egli richiedesse, a tale scopo, il permesso scritto al principe Cristiano di Meissen.
Kohlhaas, che sapeva leggere in volto al Gran Cancelliere, si mise, più che mai confermato nella sua decisione, immediatamente a sedere, e pregò, senza addurre alcuna ragione, il principe di Meissen, in quanto capo del Governo, di concedergli un permesso di otto giorni per recarsi a Pontekohlhaas e fare ritorno. In risposta al suo scritto, egli ricevette una risoluzione governativa, firmata dall'intendente di Palazzo, barone Sigfrido di Wenk, che suonava così: «La sua richiesta di un permesso per recarsi a Pontekohlhaas sarebbe stata presentata a Sua Altezza il principe Elettore, e, non appena fosse pervenuto il suo alto consenso, il permesso gli sarebbe stato inviato».
Quando Kohlhaas si informò, presso il suo avvocato, come mai la risoluzione governativa fosse firmata da un certo barone Sigfrido di Wenk, anziché dal principe Cristiano di Meissen, al quale egli si era rivolto, ottenne questa risposta: il principe era partito, tre giorni prima, per i suoi possedimenti, e durante la sua assenza gli affari di Governo erano stati affidati all'intendente di Palazzo, il barone Sigfrido di Wenk, cugino del nobile, di cui si è detto sopra, che portava lo stesso nome.
Kohlhaas, al quale tutti questi contrattempi cominciavano a far battere il cuore con inquietudine, attese per parecchi giorni la decisione relativa alla sua richiesta, trasmessa alla persona del sovrano con singolare lentezza; ma una settimana trascorse, e trascorsero altri giorni, senza che la decisione giungesse, né il tribunale, per quanto gli fosse stato dato per sicuro, pronunciasse la sentenza: tanto che, il dodicesimo giorno, fermamente deciso a far venire alla luce le intenzioni del Governo nei suoi confronti, fossero quelle che fossero, Kohlhaas sedette e pregò di nuovo il governo di fargli avere, sottolineandone l'urgenza, il permesso che aveva richiesto.
Ma quale fu il suo turbamento, quando egli, la sera del giorno seguente, anch'esso trascorso senza che giungesse l'attesa risposta, mentre, immerso nei suoi pensieri, rifletteva alla sua situazione, e in particolare all'amnistia che gli aveva fatto ottenere il dottor Lutero, si accostò alla finestra dello stanzino che dava sul retro, e, nel piccolo fabbricato annesso che si trovava sul cortile, e che egli aveva riservato alla scorta, per sua dimora, non vide più la guardia che il principe di Meissen, al suo arrivo, gli aveva assegnato.
Tommaso, il vecchio custode, da lui chiamato, interrogato su che cosa ciò significasse, rispose sospirando: «Padrone! Non tutto va come dovrebbe; i lanzi, che oggi sono più numerosi del solito, al calar della notte si sono distribuiti tutto intorno alla casa; due stanno, con lancia e scudo, davanti alla porta esterna, che da sulla strada; due a quella interna, sul giardino; e altri due sono coricati nell'anticamera, su un fascio di paglia, e dicono che dormiranno lì».
Kohlhaas, che scolorì a quelle parole, si voltò, e rispose che era lo stesso, purché ci fossero; e lo pregò, quando scendeva al piano terra, di portare ai lanzi un lume, perché potessero vederci. Poi, dopo aver aperto, con il pretesto di vuotare un recipiente, le imposte di una finestra esterna, ed essersi persuaso che quanto il vecchio gli aveva detto rispondeva a verità, poiché proprio allora avveniva, senza alcun rumore, il cambio della guardia, misura alla quale, fino a quel momento, da quando essa era stata istituita, nessuno aveva pensato, andò, con poca voglia di dormire, a coricarsi, e la decisione per l'indomani fu subito presa. Nulla, infatti, rimproverava, al Governo con cui aveva a che fare, quanto l'apparenza della giustizia, nel momento in cui, di fatto, esso violava nei suoi confronti l'amnistia che gli era stata giurata; e se, in realtà, doveva essere prigioniero, come non v'erano ormai più dubbi, voleva almeno costringerlo a dichiarare in modo franco ed esplicito che era così .
Perciò, non appena sorse il mattino del giorno seguente, egli ordinò a Sternbald, il suo servo, di attaccare e condurre davanti a casa la carrozza, per recarsi, così disse, a Lockewitz dal fattore, il quale, suo vecchio conoscente, gli aveva parlato, a Dresda, alcuni giorni prima, invitandolo a fargli visita con i suoi bambini. I lanzi, che, tutti in crocchio, assistevano in casa a quei preparativi, mandarono di nascosto uno di loro in città; e in pochi minuti apparve un ufficiale del Governo, alla testa di numerosi armigeri, che, come se avesse qualche affare da sbrigavi, entrò nella casa di fronte. Kohlhaas, che, occupato a vestire i ragazzi, aveva però notato quei movimenti, e a bella posta aveva fatto sostare la carrozza davanti a casa più a lungo di quanto fosse necessario, non appena vide che i preparativi della polizia erano terminati, uscì con i bambini, senza curarsene, davanti a casa, passò davanti al crocchio dei lanzi, in piedi sotto il portone, dicendo loro che non occorreva che lo seguissero, mise i bambini nella carrozza, e baciò e consolò le bambine, che piangevano perché, secondo le sue disposizioni, dovevano restare presso la figlia del vecchio portiere.
Era appena salito anche lui nella carrozza, quando l'ufficiale del Governo, con il suo seguito di armigeri, uscì dalla casa di fronte, gli si accostò e gli chiese dove aveva intenzione di andare. Alla risposta di Kohlhaas che voleva recarsi a Lockewitz, da un amico, il balivo, che alcuni giorni prima l'aveva invitato a raggiungerlo in campagna, con i suoi due figli, l'ufficiale del Governo rispose che, in tal caso, egli doveva attendere qualche minuto, poiché alcuni lanzi a cavallo, secondo gli ordini del principe di Meissen, l'avrebbero accompagnato. Kohlhaas domandò sorridendo, sporgendosi dalla carrozza, se credeva che la sua persona, in casa di un amico che si era offerto di ospitarlo per un giorno alla sua mensa, sarebbe stata poco sicura. L'ufficiale rispose, con tono allegro e amabile, che non c'era, in effetti, gran pericolo; ma, aggiunse, i soldati, del resto, non l'avrebbero disturbato in alcun modo. Kohlhaas replicò, serio, che il principe di Meissen, al suo arrivo a Dresda, l'aveva lasciato libero di servirsi della scorta oppure no; e, poiché l'ufficiale si meravigliava di questa circostanza, e con prudenti giri di frase si richiamava all'abitudine, durata per tutto il tempo del suo soggiorno, il mercante di cavalli gli raccontò i fatti che erano stati all'origine dell'insediamento della scorta. L'ufficiale l'assicurò che gli ordini dell'intendente di Palazzo, barone di Wenk che era, al momento, a capo della polizia, lo obbligavano a proteggere ininterrottamente la sua persona; e lo pregò, se proprio non voleva accettare la scorta, di recarsi personalmente al palazzo del Governo, per rimediare all'errore che doveva essere sorto. Kohlhaas, lanciando all'ufficiale uno sguardo eloquente, disse, deciso a rompere o a spuntarla, che l'avrebbe fatto, scese con il cuore che gli batteva, dalla carrozza, fece condurre i bambini in anticamera dal portiere, e, mentre il servo restava fermo davanti alla porta con il veicolo, si recò, con l'ufficiale e la sua scorta, al palazzo del Governo.
Avvenne che l'intendente di Palazzo, barone di Wenk, fosse per l'appunto occupato a esaminare una banda di accoliti del Nagelschmidt, condotti laggiù la sera precedente, e che i furfanti, che erano stati catturati nella regione di Lipsia, venissero interrogati dai cavalieri, che erano là con lui, su un certo numero di particolari che essi avrebbero voluto sapere da loro, quando il mercante di cavalli, con i suoi accompagnatori, entrò nella sala. Il barone, non appena lo scorse, andò, mentre i cavalieri, di colpo, ammutolivano, interrompendo l'interrogatorio dei prigionieri, verso di lui, e gli domandò che cosa volesse; e, quando il mercante di cavalli gli ebbe esposto, con deferenza, il suo proposito di recarsi a colazione presso il fattore, a Lockewitz, e il desiderio di lasciare a casa i lanzi, dei quali non aveva bisogno, il barone, cambiando colore, rispose, mentre sembrava inghiottire un altro discorso, che avrebbe fatto bene a restarsene tranquillo a casa sua, e a rimandare, per il momento, il banchetto presso il balivo di Lockewitz. E con queste parole, troncando di netto il discorso, si volse verso l'ufficiale, e gli disse che, per quanto era degli ordini che gli aveva dato a proposito di quell'uomo, il problema era chiuso, e che egli non aveva il permesso di allontanarsi dalla città, se non sotto scorta di sei lanzi a cavallo. Kohlhaas domandò se fosse prigioniero, e se dovesse credere che l'amnistia, che gli era stata solennemente giurata, sotto gli occhi di tutto il mondo, fosse infranta; al che il barone si giro, fattosi, tutto a un tratto, di porpora, verso di lui, gli andò vicino, lo fissò negli occhi, e, dopo avergli risposto: «Sì! Sì! Sì», gli voltò la schiena e, piantandolo in asso, ritornò agli uomini del Nagelschmidt.
Kohlhaas, a quel punto, lasciò la sala; e, pur rendendosi conto di essersi resa molto più difficile, con i passi compiuti, l'unica via di salvezza che gli restasse, vale a dire la fuga, si compiacque, tuttavia, del suo operato, poiché anch'egli ormai si vedeva liberato, dalla sua parte, dall'obbligo di rispettare le clausole dell'amnistia. Fece, giunto a casa, staccare i cavalli, e, accompagnato dall'ufficiale del Governo, si recò, assai triste e scosso, nella sua stanza; e, mentre quest'uomo, con modi che ispiravano disgusto al mercante, assicurava che tutto doveva dipendere solo da un malinteso, che in breve tempo si sarebbe risolto, gli armigeri, a un suo cenno, sbarravano tutte le uscite dell'abitazione che davano sul cortile; ma l'ufficiale assicurò che l'ingresso principale, sul davanti, gli era aperto, come prima, a suo piacimento.
Intanto il Nagelschmidt, nei boschi dei monti Metalliferi, era a tal punto incalzato da ogni parte da armigeri e lanzi, che, totalmente privo com'era di mezzi per sostenere una parte come quella che si era assunta, ebbe l'idea di tirare davvero Kohlhaas dalla sua parte; e, poiché, per mezzo di un viandante che passava per quelle strade, era stato informato in modo abbastanza preciso di come si erano messe le cose a Dresda per la sua controversia, credette, a dispetto dell'aperta inimicizia che li divideva, di poter indurre il mercante di cavalli ad accettare una nuova alleanza con lui. Di conseguenza gli inviò un servo, con uno scritto redatto in un tedesco appena leggibile, di questo tenore: «Se voleva recarsi nell'Altenburgo, e prendere di nuovo la guida della banda che là, con i resti di quella sciolta, si era radunata, egli si offriva di dargli man forte, con cavalli, uomini e denaro, per sfuggire alla prigionia di Dresda; e gli prometteva di essere in futuro più obbediente, e in generale migliore e più disciplinato che in passato, e, per dimostrare il suo attaccamento e la sua fedeltà, si impegnava a venire in persona nella zona di Dresda, per disporre la sua liberazione dal carcere». Ora, l'uomo incaricato di portare la lettera ebbe la sfortuna di cadere, in un villaggio assai vicino a Dresda, in preda a gravi convulsioni, delle quali soffriva dalla giovinezza, e in quell'occasione la lettera, che teneva nel farsetto, fu trovata da persone che gli erano venute in aiuto; e perciò, non appena si fu ripreso, venne arrestato, e, sotto buona scorta, condotto, con grande accompagnamento di popolo, al palazzo del Governo.
Non appena l'intendente, barone di Wenk, ebbe letto la lettera, si recò senza indugio dal principe Elettore, a palazzo, dove trovò presenti i signori Enzo e Corrado, quest'ultimo ristabilito dalle sue ferite, e il presidente della Cancelleria di Stato, conte Kallheim. I nobili erano dell'opinione che Kohlhaas dovesse essere senz'altro arrestato, e processato per le sue intese segrete con il Nagelschmidt; poiché, argomentavano, una lettera simile non avrebbe potuto essere scritta, se non fosse stata preceduta da altre, anche da parte del mercante di cavalli, e, comunque, senza che fosse intercorsa tra loro una scellerata e criminale intesa, per tramare nuove atrocità. Il principe Elettore si rifiutò fermamente, sulla semplice base di quella lettera, di violare il salvacondotto che aveva concesso e giurato; ed era, anzi, dell'opinione che dalla lettera del Nagelschmidt emergesse, con una certa probabilità, che fra loro non era intercorsa alcuna precedente intesa; e tutto ciò a cui, per venire in chiaro della cosa, su proposta del presidente, e non senza molta esitazione, si decise, fu di far consegnare la lettera a Kohlhaas, per mezzo del servo inviato da Nagelschmidt, come se questo fosse ancora libero, per verificare se avrebbe risposto.
Di conseguenza il servo, che era stato gettato in prigione, il mattino seguente fu condotto al palazzo del Governo, dove l'intendente gli restituì la lettera, e gli ingiunse, con la promessa della libertà e del condono della pena che si era meritata, di consegnare lo scritto, come se nulla fosse accaduto, al mercante di cavalli; il furfante si lasciò utilizzare senza difficoltà per quello stratagemma di bassa lega, e, facendo mostra di grande segretezza, con il pretesto di vendergli dei gamberi, che l'ufficiale del Governo aveva comperato per lui al mercato, entrò nella camera di Kohlhaas.
Kohlhaas, che lesse la lettera mentre i bambini giocavano con i gamberi, in altre circostanze avrebbe certo afferrato il briccone per il colletto, per consegnarlo ai lanzi di guardia alla sua porta; ma, poiché la disposizione degli animi era tale che persin quel passo avrebbe potuto essere interpretato con indifferenza, ed egli si era pienamente convinto che niente al mondo avrebbe potuto salvarlo dal pasticcio in cui era irretito, con uno sguardo triste fissò bene in faccia quell'uomo, che gli era ben noto, gli domandò dove abitasse, e lo invitò a ritornare presso di sé in capo a qualche ora, che gli avrebbe fatto sapere le sue decisioni a proposito del suo padrone. Disse a Sternbald, che entrava per caso, di comprare un po' di gamberi dall'uomo che si trovava nella stanza, e, quando l'affare fu concluso, e i due si furono allontanati, senza riconoscersi, si sedette, e scrisse a Nagelschmidt una lettera del seguente tenore: «Prima di tutto, accettava la sua proposta, riguardo al supremo comando della sua banda dell'Altenburgo; e di conseguenza, per liberarlo dalla momentanea prigionia nella quale, con i suoi cinque figli, era tenuto, che gli mandasse una carrozza con due cavalli a Neustadt, presso Dresda; inoltre aveva bisogno, per proseguire più in fretta, di un altro tiro di due cavalli sulla strada per Vittemberga, poiché soltanto attraverso quella deviazione, per ragioni che sarebbe stato troppo lungo riportare, poteva raggiungerlo; i lanzi che lo sorvegliavano credeva bensì di poterli tirare dalla sua con la corruzione; ma, nel caso che fosse necessaria la forza, voleva esser certo che fossero presenti a Neustadt un paio di servi animosi, svegli e ben armati; per far fronte alle spese richieste da tutti questi preparativi gli inviava, attraverso il suo servo, un rotolo di venti corone d'oro, sull'impiego delle quali avrebbe fatto i conti con lui a cosa finita; e, per finire, gli vietava, poiché non era necessario, di venire personalmente a Dresda per liberarlo, e anzi gli impartiva l'ordine tassativo di restare nell'Altenburgo, a comandare temporaneamente la banda, che non poteva rimanere senza un capo».
Questa lettera consegnò al servo, quando egli, verso sera, fu di ritorno, lo ricompensò con larghezza, e gli raccomandò di custodirla con cura. La sua intenzione era di recarsi ad Amburgo con i suoi cinque figli, e imbarcarsi di là per il Levante, e le Indie Orientali, o dovunque il sole splendesse su genti diverse da quelle che conosceva: poiché all'idea di far ingrassare i morelli l'animo suo, prostrato dall'amarezza, anche indipendentemente dalla ripugnanza che sentiva a far causa comune con il Nagelschmidt, aveva rinunciato.
Non appena il furfante ebbe consegnato questa risposta all'intendente del Palazzo, il Gran Cancelliere fu destituito, il presidente della Cancelleria, conte Kallheim, fu nominato, al suo posto, capo del Tribunale, e Kohlhaas venne arrestato, su mandato del gabinetto del Principe, e condotto, gravato da pesanti catene, nella torre della città. Il processo fu istruito sulla base di quella lettera, che venne affissa a tutti gli angoli della città; e, poiché egli, davanti al Tribunale, alla domanda se ne riconoscesse la scrittura rispose «Sì!», al consigliere che l'interrogava, ma alla domanda se avesse qualcosa da dire a sua difesa rispose «No!», abbassando a terra lo sguardo, fu condannato a essere straziato dagli aguzzini con tenaglie roventi e squadrato, e il suo corpo a essere arso tra la ruota e la forca.
Così stavano le cose a Dresda per il povero Kohlhaas, quando si fece avanti, per salvarlo dalle mani della prepotenza e dell'arbitrio, il principe Elettore del Brandeburgo, e, in una nota fatta pervenire laggiù, presso la Cancelleria di Stato dell'Elettore, ne pretese la consegna, quale suddito brandeburghese. Infatti l'onesto prefetto, messer Enrico di Geusau, gli aveva riferito, durante una passeggiata lungo le rive della Sprea, la storia di quell'uomo singolare, ma non spregevole, e, in quella occasione, incalzato dalle domande del suo stupito sovrano non poté fare a meno di menzionare la colpa che, a causa delle scorrettezze del suo Cancelliere supremo, il conte Sigfrido di Kallheim, gravava sulla sua stessa persona: al che il principe Elettore, profondamente indignato, dopo aver chiamato il Gran Cancelliere a rendere conto, e aver constatato che la cagione di tutto era la sua parentela con il casato dei Tronka, sui due piedi, e con molti segni del suo disappunto, lo destituì, nominando Gran Cancelliere messer Enrico di Geusau.
Avvenne che proprio allora la corona di Polonia, la quale era venuta a contesa, non sappiamo a causa di quale oggetto, con la Casa di Sassonia, rivolgesse al principe Elettore del Brandeburgo ripetute e insistenti considerazioni, per indurlo a far causa comune con essa, contro la Casa di Sassonia; e, di conseguenza, il Gran Cancelliere, messer Enrico di Geusau, che sapeva destreggiarsi in simili affari, era sicuro di poter venire incontro al desiderio del suo sovrano di rendere giustizia a Kohlhaas, costasse quello che costasse, senza mettere in gioco la pace universale in modo più rischioso di quanto fosse consentito per proteggere un solo uomo. In quel frangente il Gran Cancelliere non soltanto pretese, a causa del procedimento del tutto arbitrario, spiacente a Dio e agli uomini, al quale era stato sottoposto, l'incondizionata e immediata consegna di Kohlhaas, perché, in caso che fosse gravato da colpe, fosse giudicato secondo le leggi del Brandeburgo, in base ai capi d'accusa che la corte di Dresda avrebbe potuto presentare a Berlino per mezzo di un avvocato; ma richiese persino il lasciapassare per un avvocato che il principe Elettore del Brandeburgo intendeva mandare a Dresda, per far valere i diritti di Kohlhaas contro il barone Venceslao di Tronka, a causa dei morelli che gli erano stati sottratti in territorio sassone, e degli altri maltrattamenti e violenze da lui subiti, che gridavano al cielo.
Il ciambellano, messer Corrado, che nell'avvicendarsi delle cariche pubbliche in Sassonia era stato nominato presidente della Cancelleria di Stato, e per varie ragioni, nella spinosa situazione in cui si trovava, non voleva offendere la corte di Berlino, rispose, a nome del suo signore, profondamente abbattuto dalla nota brandeburghese pervenuta, che «si era meravigliati della mancanza di cortesia e di equità con le quali si negava alla corte di Dresda il diritto di giudicare il Kohlhaas secondo le leggi, per i delitti che aveva commesso nel paese, dal momento che era universalmente noto che il Kohlhaas possedeva un vasto terreno nella capitale, e che nemmeno egli stesso aveva negato la sua qualità di cittadino sassone». Ma poiché la corona di Polonia, per sostenere le sue pretese con le armi, aveva già riunito ai confini della Sassonia un esercito di cinquemila uomini, e il Gran Cancelliere, messer Enrico di Geusau, dichiarò che «Pontekohlhaas, la località dalla quale il mercante di cavalli aveva preso nome, si trovava nel Brandeburgo, e l'esecuzione della sentenza di morte pronunciata contro di lui sarebbe stata considerata una violazione del diritto internazionale», il principe Elettore, dietro consiglio del ciambellano, messer Corrado in persona, che desiderava tirarsi fuori dalla faccenda, richiamò dai suoi possedimenti il principe Cristiano di Meissen, e decise, ascoltate poche parole di quell'uomo ragionevole, di consegnare Kohlhaas, conformemente alla richiesta, alla corte di Berlino.
Il principe, il quale, benché poco soddisfatto delle scorrettezze compiute, aveva dovuto sobbarcarsi la direzione dell'affare Kohlhaas per desiderio del suo angustiato sovrano, gli domandò su quali basi volesse ora accusare il mercante di cavalli davanti al tribunale camerale di Berlino; e poiché alla sua infausta lettera al Nagelschmidt non ci si poteva appellare, a causa delle circostanze ambigue e poco chiare nelle quali era stata scritta, mentre non si poteva neppure fare menzione dei saccheggi e degli incendi, per via del manifesto con il quale gli erano stati perdonati, il principe Elettore decise di presentare a Sua Maestà l'imperatore, a Vienna, un rapporto sull'aggressione armata portata da Kohlhaas contro la Sassonia, in cui si lagnava della rottura della pubblica pace da lui causata, e supplicava Sua Maestà, non vincolata da alcuna amnistia, di chiederne conto a Kohlhaas davanti al tribunale di corte di Berlino per mezzo di un accusatore imperiale. Otto giorni dopo, il cavalier Federico di Malzahn, che il principe Elettore del Brandeburgo aveva inviato a Dresda con sei armati a cavallo, caricava il mercante di cavalli, incatenato com'era, su una carrozza, per tradurlo, con i suoi cinque figli, che, dietro sua preghiera, erano stati mandati a prendere dagli orfanotrofi in cui si trovavano, a Berlino.
Ora, avvenne che il principe Elettore di Sassonia, su invito del Governatore, conte Alvise di Kallheim, che aveva allora vasti possedimenti lungo il confine della Sassonia, fosse partito per il villaggio di Dahme, in compagnia del ciambellano, messer Corrado, e della sua consorte, donna Eloisa, figlia del Governatore e sorella del presidente, senza parlare dello splendido seguito di nobili, dame, gentiluomini di caccia e dignitari di corte che li accompagnava, per una grande battuta di caccia al cervo organizzata per svagarlo; e che, mentre, al riparo di padiglioni imbandierati, eretti su una collina ai due lati della strada, tutta la compagnia, ancora coperta dalla polvere della caccia, sedeva a mensa al suono di una musica gioconda, che proveniva dal tronco di una quercia, servita da paggi e da fanciulli nobili, il mercante di cavalli avanzasse lentamente, con la sua scorta di uomini a cavallo, per la strada di Dresda. Infatti la malattia di uno dei figli piccoli di Kohlhaas, di salute cagionevole, aveva costretto il cavaliere di Malzahn, che lo accompagnava, a fermarsi a Herzberg per tre giorni; misura della quale egli, tenuto a risponderne soltanto al principe che serviva, non aveva ritenuto necessario informare il governo di Dresda.
Il principe Elettore, che sedeva, con il giustacuore slacciato e il cappello piumato adorno, alla moda dei cacciatori, di rametti d'abete, accanto a donna Eloisa, la quale, nella prima giovinezza di lui, era stata il suo primo amore, disse, lietamente disposto dal gaudio raffinato della festa: «Andiamo fin là, e porgiamo a quell'infelice, chiunque esso sia, questo calice di vino!». Donna Eloisa, lanciandogli uno sguardo affettuoso, si alzò immediatamente, e, saccheggiando la tavola imbandita, riempì un vassoio d'argento, che un paggio le aveva porto, di frutta, dolci e pane; e già tutta la compagnia, con rinfreschi d'ogni genere, era sciamata fuori dalla tenda, quando il Governatore le si fece incontro, con il viso imbarazzato, e la pregò di rimanere. Alla meravigliata domanda del principe Elettore su che cosa fosse avvenuto, da turbarlo a tal punto, il Governatore rispose balbettando, rivolto al ciambellano, che nella carrozza c'era Kohlhaas; a quella notizia, per tutti incomprensibile, essendo universalmente noto che questi era partito già da sei giorni, il ciambellano, messer Corrado, prese il suo calice di vino e, voltandosi indietro, verso la tenda, lo rovesciò per terra. Il principe Elettore, fattosi tutto rosso, posò il suo sopra un piatto che un paggio nobile, a un cenno del ciambellano, gli aveva teso a questo scopo; e, mentre il cavaliere Federico di Malzahn, salutando con deferenza la compagnia, che non conosceva, passava lentamente fra le due linee di padiglioni che correvano lungo la strada, e proseguiva per Dahme, i signori, su invito del Governatore, si ritirarono, senza più curarsene, nella tenda. Il Governatore, non appena il principe ebbe preso posto, inviò segretamente a Dahme dei messaggeri, affinché le autorità locali disponessero che il mercante di cavalli fosse fatto proseguire senza indugio; ma poiché il cavaliere, essendo il giorno ormai troppo inoltrato, dichiarò che intendeva assolutamente pernottare nel villaggio, ci si dovette limitare a condurlo senza rumore in una fattoria di proprietà del municipio, che sorgeva fuori mano, nascosta in una fitta macchia.
Ora, avvenne che, verso sera, quando i signori, distratti dal vino e dai cibi di una cena sontuosa, avevano ormai del tutto dimenticato l'incidente, il Governatore tirò fuori l'idea di rimettersi alla posta, per via di un branco di cervi che era stato avvistato; tutta la compagnia accolse con gioia la proposta, e, divisa in coppie, corse, dopo essersi munita di archibugi, per fossati e per siepi nella foresta vicina: tanto che il principe Elettore e donna Eloisa, che l'aveva preso a braccetto, per assistere allo spettacolo, furono condotti, da un domestico che era stato messo al loro servizio, proprio ad attraversare, con loro meraviglia, il cortile della casa in cui si trovava Kohlhaas, con i cavalieri brandeburghesi.
La dama, quando lo seppe, disse: «Venite, Vostra Grazia, venite!»; e, tenera e scherzosa, gli nascose nel gran colletto di seta la catena che gli pendeva dal collo: «Prima che arrivi tutta la brigata, entriamo di soppiatto nella fattoria, a vedere lo strano uomo che vi pernotta!».
Il principe le prese la mano arrossendo, e disse: «Eloisa! Che vi viene in mente?». Ma poiché lei, guardandolo confusa, aggiungeva che nessuno, nell'abito da cacciatore che portava, avrebbe potuto riconoscerlo, e lo trascinava con sé, e, proprio in quell'istante, un paio di gentiluomini della caccia, che avevano già soddisfatto la propria curiosità, uscivano dalla casa, assicurando che, grazie alle misure prese dal Governatore, né il cavaliere del Brandeburgo né il mercante di cavalli sapevano chi fossero i signori riuniti nella regione di Dahme, il principe Elettore, calandosi con un sorriso il cappello sugli occhi, disse: «Follia, tu governi il mondo, e il tuo seggio è una bella bocca di donna!».
Avvenne che Kohlhaas fosse per l'appunto seduto su un mucchio di paglia, con la schiena contro la parete, e nutrisse con pane bianco e latte il bambino che si era ammalato a Herzberg, quando i signori entrarono nella fattoria per fargli visita; e quando la dama, per attaccar discorso, gli domandò chi fosse, e che cosa avesse il bambino, e anche che cosa avesse commesso, e dove fosse condotto sotto quella scorta, egli si levò davanti a lei il berretto di cuoio e diede a tutte le sue domande, continuando nella sua occupazione, concise ma soddisfacenti risposte. Il principe Elettore, che stava in piedi dietro i gentiluomini di caccia, notando una piccola capsula di piombo appesa, con un filo di seta, al collo del mercante, gli domandò, poiché non si offriva nulla di meglio per fare conversazione, quale ne fosse il significato e che cosa contenesse.
«Già, la capsula, messere illustrissimo», rispose Kohlhaas, che se la tolse, sollevando il filo dietro la nuca, l'aperse, e ne trasse un bigliettino sigillato con una goccia di ceralacca. «La storia di questa capsula è davvero strana! Saranno sette mesi fa all'incirca, proprio il giorno dopo la sepoltura di mia moglie ero partito da Pontekohlhaas, come forse vi sarà noto, per agguantare il barone di Tronka, che mi aveva fatto un gran torto, quando, per certe trattative che non conosco, il principe Elettore di Sassonia e il principe Elettore di Brandeburgo si incontrarono a Jüterbock, una borgata con diritto di fiera, per la quale doveva passare la mia spedizione; e poiché, verso sera, si erano accordati secondo i loro desideri, si incamminarono, in amichevole colloquio, per le strade della cittadina, per dare un'occhiata alla fiera annuale, che proprio allora vi si svolgeva con allegra animazione. Incontrarono così una zingara, che, seduta su uno sgabello, prediceva, dal suo lunario, l'oroscopo al popolo che la circondava, e le domandarono, con fare scherzoso, se non aveva da rivelare anche a loro qualcosa di piacevole. Io, che ero smontato da poco, con il mio drappello, in una locanda, ed ero presente sulla piazza dove questi fatti avenivano, non potevo udire, dietro a tutto il popolo, sulla soglia di una chiesa, dove mi trovavo, che cosa diceva ai signori quella strana donna; e tuttavia, siccome gli astanti si sussurravano ridendo l'un l'altro che non a tutti lei faceva parte della sua scienza e, per godersi lo spettacolo che si preparava, spingevano e si accalcavano, io, non tanto, a dir vero, per curiosità, quanto per far posto ai curiosi, salii in piedi su un sedile scolpito, dietro di me, nella parete, a fianco del portale della chiesa. Da quel posto, dal quale la vista era interamente libera, avevo appena scorto i signori e la donna, che sedeva su uno sgabello davanti a loro e sembrava scarabocchiare qualcosa, quando lei, tutto a un tratto, si alza appoggiandosi sulle stampelle, gira lo sguardo attorno, fra il popolo, lo fissa su di me, che non avevo mai scambiato una parola con lei, né mai, in tutta la mia vita, avevo desiderato servirmi della sua scienza, si spinge, facendosi strada per la fitta calca, sino a me, e dice: «Ecco! Se il signore vorrà saperlo, venga poi a chiederlo a te!» E con queste parole, messere illustrissimo, mi porse, con le sue mani secche e ossute, questo biglietto. E poiché io, stupito, mentre tutto il popolo si volta verso di me, le dico: «Nonnina, che vuol dire questo onore?», lei risponde, dopo molte parole incomprensibili, fra le quali tuttavia, con mio grande stupore, sento il mio nome: «Un amuleto Kohlhaas, mercante di cavalli; custodiscilo bene, un giorno ti salverà la vita!» e sparisce.
«Ebbene», continuò Kohlhaas con tono bonario, «a dire la verità, a Dresda, per quanto le cose si fossero messe male, non ci ho rimesso la vita; come mi andrà a Berlino, e se me la caverò anche laggiù, lo dirà il futuro».
A queste parole il principe si sedette su una panca, e, per quanto, all'ansiosa domanda della dama, che gli chiedeva che cosa avesse, rispondesse: «Nulla! Nulla!», prima ancora che lei avesse avuto il tempo di accorrere e di riceverlo tra le braccia cadde al suolo privo di sensi. Il cavaliere di Malzahn, che proprio in quel momento entrava nella stanza per un'incombenza, esclamò: «Santo Iddio! Che cos'ha il signore?». La dama gridò: «Portate dell'acqua!». I gentiluomini di caccia lo sollevarono, e lo portarono su un letto che si trovava nella stanza vicina, e la costernazione giunse al colmo quando il ciambellano, che un paggio era corso a chiamare, dopo ripetuti, inutili sforzi per richiamarlo in vita, dichiarò che mostrava tutti i segni di chi ha avuto un colpo!
Il Governatore, mentre il coppiere mandava a Lückau un messaggero a cavallo, per far venire un medico, poiché il principe aveva aperto gli occhi, lo fece portare su una carrozza, e condurre, a passo d'uomo, al suo castello di caccia, che si trovava nelle vicinanze; ma quel viaggio gli cagionò, dopo il suo arrivo, due nuovi svenimenti: tanto che si riprese un poco solo nella tarda mattinata del giorno seguente, all'arrivo del medico da Lückau, seppure con gli evidenti sintomi che si stava avvicinando una febbre nervosa.
Appena ebbe ripreso i sensi, il principe si alzò a sedere sul letto, e la sua prima domanda fu subito dove fosse Kohlhaas. Il ciambellano, fraintendendo la sua domanda, disse, prendendogli la mano, che a proposito di quell'uomo orribile poteva tranquillizzarsi, poiché, dopo quello strano e incomprensibile incidente, egli era rimasto, secondo le sue disposizioni, nella fattoria presso Dahme, sotto la scorta dei Brandeburghesi. E, fra le assicurazioni della sua vivissima partecipazione, e le sue proteste di aver fatto a sua moglie i più aspri rimproveri, per la sconsiderata leggerezza di averlo fatto incontrare con quell'uomo, gli domandò che cosa di tanto strano ed enorme l'avesse colpito, nella conversazione con lui.
Il principe Elettore disse che doveva confessargli che la vista di un insignificante foglietto, che quell'uomo portava con sé, in una capsula di piombo, era tutta la cagione dello spiacevole incidente che gli era occorso. Per spiegare la circostanza, aggiunse molte cose che il ciambellano non comprese, e a un tratto, stringendoli la mano tra le sue, gli assicurò che per lui il possesso di quel biglietto era della massima importanza, e lo pregò di montare immediatamente in sella, di raggiungere Dahme e trattare con quell'uomo, qualunque ne fosse il prezzo, l'acquisto del biglietto.
Il ciambellano, che faticava a nascondere il proprio imbarazzo, l'assicurò che, se quel biglietto aveva per lui qualche valore nulla al mondo era più necessario che tacere a Kohlhaas questa circostanza: non appena egli, per una frase imprudente, ne fosse venuto a conoscenza, neppure tutte le ricchezze che il principe possedeva sarebbero bastate a riscattarlo dalle mani di quell'uomo truce, insaziabile nella sua brama di vendetta. E, per calmarlo, aggiunse che bisognava pensare a un altro mezzo, e che forse con l'astuzia, per mezzo di una terza persona, che agisse con la massima disinvoltura, sarebbe stato possibile, poiché, in sé e per sé, il ribaldo non avrebbe dovuto tenerci molto procurarsi il possesso del biglietto che gli stava tanto a cuore.
Il principe, asciugandosi il sudore, chiese se non si poteva mandare subito qualcuno a Dahme a questo scopo, e intanto sospendere provvisoriamente la prosecuzione del viaggio del mercante, finché non ci si fosse impadroniti, in qualunque modo, del foglio.
Il ciambellano, che non credeva alle sue orecchie, replicò che, purtroppo, in base ai calcoli più verosimili, il mercante di cavalli doveva ormai aver lasciato Dahme, e trovarsi oltre confine, in territorio brandeburghese, dove l'impresa di impedire il suo proseguimento, o addirittura di farlo tornare indietro, avrebbe incontrato difficoltà spiacevolissimi di ogni genere, e forse addirittura insormontabili. E, poiché il principe, in silenzio, aveva ripagata la testa sul cuscino, con l'espressione di chi ha perso ogni speranza, gli domandò che cosa contenesse il biglietto, e per quale caso sorprendente e inspiegabile gli fosse noto che il suo contenuto lo riguardava.
Ma a queste parole il principe guardò ambiguamente il ciambellano, della cui compiacenza, in quel caso, non si fidava, e non rispose; giaceva irrigidito, con il cuore che batteva con inquietudine, fissando l'orlo inferiore del fazzoletto che teneva, pensieroso, fra le mani; e, improvvisamente, lo pregò di chiamare nella stanza il barone di Stein, gentiluomo di caccia, un nobile giovane, abile e gagliardo, del quale si era già più volte servito per affari segreti, con il pretesto che doveva sbrigare con lui un altro negozio.
Quando ebbe ragguagliato il gentiluomo sulla faccenda, e gli ebbe rivelata l'importanza del biglietto del quale Kohlhaas era in possesso, il principe gli chiese se voleva acquistarsi eterno diritto alla sua amicizia, procurandogli il biglietto prima che Kohlhaas giungesse a Berlino; e poiché il barone, non appena si fu fatto un'idea approssimativa della situazione, per strana che fosse, l'assicurò di essere pronto a servirlo con tutte le sue forze, il principe gli commise l'incarico di raggiungere Kohlhaas a spron battuto e, poiché egli, probabilmente, non si sarebbe lasciato convincere con il denaro, di offrirgli in cambio, in un abboccamento abilmente condotto, la libertà e la vita, e persino, se egli l'avesse preteso, di aiutarlo sui due piedi, per quanto con cautela, con cavalli, uomini e denaro, a evadere dalla custodia dei soldati brandeburghesi che lo scortavano.
Il gentiluomo, fattosi rilasciare dal principe un foglio di suo pugno, che attestasse la sua missione, partì immediatamente, con alcuni servi, e, non risparmiando le forze dei cavalli, ebbe la fortuna di raggiungere, in un villaggio di confine, Kohlhaas che, insieme al cavaliere di Malzahn e ai suoi cinque figli, stava consumando all'aperto, davanti alla porta di una casa, il pasto di mezzogiorno. Il cavaliere di Malzahn, al quale il barone si era presentato come un forestiero che, passando di lì nel suo viaggio, desiderava vedere coi propri occhi lo strano uomo che egli portava con sé, pieno di premura gli fece subito prendere posto a tavola, presentandogli Kohlhaas; e poiché il cavaliere, occupato nei preparativi della partenza, andava e veniva, e i soldati pranzavano a un tavolo che si trovava sull'altro lato della casa, ben presto al barone si offerse l'opportunità di rivelare al mercante di cavalli chi egli fosse, e con quale preciso incarico fosse venuto a cercarlo.
Il mercante di cavalli, che era già a conoscenza del rango e del nome di colui che, nella fattoria presso Dahme, era caduto in deliquio alla vista della capsula, e che, per coronare l'ebrezza che quella scoperta gli aveva infuso, non avrebbe avuto bisogno d'altro, se non di prendere visione dei segreti del biglietto, che egli, per molte ragioni, era deciso a non aprire per mera curiosità; il mercante di cavalli, dunque, memore del trattamento tutt'altro che magnanimo e degno di un principe che a Dresda aveva dovuto subire, malgrado la sua piena disponibilità ad accettare ogni possibile sacrificio, disse che «intendeva tenersi il biglietto».
E, quando il gentiluomo gli domandò da che cosa fosse indotto a un così strano rifiuto, quando gli si offriva, in cambio, nulla meno che la libertà e la vita, Kohlhaas rispose:
«Nobile signore! Se venisse qui il vostro sovrano, e dicesse: "Io mi voglio annientare, insieme a tutti coloro che mi aiutano a reggere lo scettro", annientare, capite, che è appunto il più gran desiderio che agiti l'anima mia, ebbene, anche allora questo foglietto, che per lui vale più della vita, io glielo rifiuterei, e direi: "Tu puoi mandarmi al patibolo, ma io posso farti soffrire, e lo farò!"».
E, con la morte sul viso, chiamò un soldato, invitandolo a servirsi di un buon boccone che era rimasto nella zuppiera; per tutto il resto del tempo che passò nel villaggio fu, per il barone seduto alla sua mensa, come se non ci fosse; soltanto quando salì in carrozza si volse di nuovo, con uno sguardo di saluto e di congedo, verso di lui.
La salute del principe Elettore, quando ricevette quella notizia, peggiorò a tal punto che, per tre fatali giornate, il medico nutrì i più gravi timori per la sua vita, attaccata nello stesso tempo da tante parti. Tuttavia, grazie alla forza della sua costituzione naturalmente sana, dopo alcune settimane di letto e di dolorosa malattia egli si ristabilì, almeno fino al punto che lo si poté mettere su una carrozza, e, ben provvisto di cuscini e coperte, riportare a Dresda e alle sue cure di governo. Non appena fu giunto in quella città, egli mandò a chiamare il principe Cristiano di Meissen, e gli domandò a che punto fosse la missione del consigliere di giustizia Eibenmayer, che si aveva intenzione di mandare a Vienna come avvocato per l'affare Kohlhaas, affinché presentasse laggiù, davanti a Sua Maestà l'imperatore, l'accusa per la rottura della pace dell'Impero.
Il principe Cristiano rispose che il consigliere, secondo gli ordini che il sovrano stesso aveva lasciato, al momento della partenza per Dahme, subito dopo l'arrivo del giurisperito Zäuner, che il principe Elettore del Brandeburgo aveva inviato a Dresda come avvocato, per portare in giudizio la sua accusa contro il barone Venceslao di Tronka a proposito dei morelli, era partito per Vienna.
Il principe Elettore si fece rosso e, accanendosi alla sua scrivania, espresse stupore per tanta fretta, poiché, a quanto ricordava, egli aveva dichiarato che si riservava di disporre con un ulteriore e più preciso ordine la partenza definitiva dell'Eibenmayer, poiché prima era necessario avere un colloquio con il dottor Lutero, che aveva fatto ottenere a Kohlhaas l'amnistia. E, nel dir questo, scompigliò, con un'espressione di malumore represso, alcuni atti e incartamenti che si trovavano sulla scrivania.
Il principe Cristiano, dopo una pausa, durante la quale l'aveva guardato con tanto d'occhi, rispose che gli dispiaceva di non averlo soddisfatto in quella incombenza; ma poteva mostrargli la delibera del Consiglio di Stato che gli faceva obbligo di far partire l'avvocato per la data suddetta. Egli aggiunse che in Consiglio di Stato non si era parlato affatto di un colloquio con il dottor Lutero; e che in precedenza, forse, avrebbe potuto essere opportuno tenere in conto l'opinione di quel religioso, per via del suo intervento a favore di Kohlhaas, ma ora non più, dopo che a lui, sotto gli occhi di tutto il mondo, era stata violata l'amnistia, ed egli era stato arrestato e consegnato ai tribunali del Brandeburgo per essere condannato e messo a morte.
Il principe Elettore disse che, in effetti, l'errore di aver fatto partire l'Eibenmayer non era grave; desiderava, tuttavia, che per il momento, fino a nuovo ordine, egli non desse esecuzione, a Vienna, al suo mandato di accusatore, e pregò il principe di fargli avere immediatamente, per mezzo di un corriere veloce, le necessarie istruzioni a questo proposito.
Il principe rispose che, purtroppo, questo ordine arrivava con un giorno di ritardo, poiché, secondo una relazione ricevuta quel giorno stesso, l'Eibenmayer aveva già presentato le sue credenziali, e aveva già sporto l'accusa presso la Cancelleria di Stato di Vienna. E aggiunse, rispondendo al principe Elettore, che domandava, costernato, come tutto ciò fosse stato possibile in un tempo così breve, che dalla partenza di quell'uomo erano già trascorse tre settimane, e che le istruzioni da lui ricevute gli facevano obbligo di dare avvio alla pratica senza indugio, non appena arrivato a Vienna. Tirare in lungo, osservò il principe, sarebbe stato in questo caso quanto mai inopportuno, tanto più che Zäuner, l'avvocato del Brandeburgo, procedeva con la più ostinata energia contro il barone Venceslao di Tronka: egli aveva già chiesto alla Corte di giustizia il ritiro provvisorio dei morelli dalle mani dello scortichino, perché potessero essere, in seguito, ristabiliti, e, a dispetto di tutte le obiezioni sollevate dalla controparte, era riuscito a ottenerlo.
Il principe Elettore, suonando il campanello, disse: «Fa lo stesso; poco importa!», e, dopo aver rivolto al principe alcune domande indifferenti, «Come andavano, per il resto, le cose a Dresda? Che cosa era avvenuto durante la sua assenza?», lo salutò, incapace di nascondere il suo stato d'animo, con la mano, e lo congedò.
Il giorno stesso gli richiese, per iscritto, con il pretesto che, data la sua importanza politica, voleva lavorare egli stesso alla cosa, tutti gli atti riguardanti Kohlhaas; e, poiché il pensiero di causare la morte dell'unico uomo dal quale avrebbe potuto ottenere ragguagli sui segreti del foglietto era per lui intollerabile, scrisse di suo pugno una lettera all'imperatore, nella quale lo pregava, con calore e con insistenza, per gravi ragioni, che forse entro breve tempo gli avrebbe spiegato in modo più preciso, di poter ritirare per il momento, fino a nuova decisione, l'accusa che l'Eibenmayer aveva presentato contro Kohlhaas.
L'imperatore, in una nota redatta dalla Cancelleria di Stato, gli rispose che "il cambiamento che sembrava essersi prodotto nel suo animo lo stupiva al massimo grado; la relazione a lui inviata da parte sassone aveva fatto della vicenda di Kohlhaas una questione che riguardava tutto il Sacro Romano Impero; e di conseguenza egli, l'imperatore, come suo reggitore supremo, si era visto obbligato a farsi avanti come accusatore presso la casa di Brandeburgo; tanto che, dal momento che l'assessore di corte Francesco Müller si era già recato a Berlino, in qualità di avvocato, per chiedere conto a Kohlhaas della sua violazione della pubblica pace, l'accusa non poteva più in alcun modo essere ritirata, e la vicenda doveva seguire il suo corso, secondo le leggi".
Da questa lettera l'Elettore fu del tutto prostrato; e poiché, a suo estremo sconforto, poco tempo dopo giunsero da Berlino rapporti riservati, nei quali si comunicava l'apertura del procedimento davanti alla Corte camerale, e si notava che, probabilmente, Kohlhaas, a dispetto di tutti gli sforzi dell'avvocato che gli era stato messo a disposizione, sarebbe finito sul patibolo, l'infelice sovrano decise di compiere ancora un tentativo, e pregò il principe Elettore del Brandeburgo, in una missiva redatta di suo pugno, di concedergli la vita del mercante di cavalli. Egli adduceva il pretesto che l'amnistia giurata a quell'uomo non consentiva contro di lui l'esecuzione legittima di una sentenza di morte; gli dava assicurazione che, malgrado l'apparente severità con la quale si era proceduto contro di lui, mai era stata sua intenzione di farlo morire; e gli spiegava, infine, che non avrebbe mai potuto perdonarsi, se la protezione che avevano promesso di fargli ottenere da parte di Berlino si fosse in conclusione risolta, per un cambiamento inaspettato, in uno svantaggio maggiore, per lui, di quel che gli sarebbe toccato se fosse rimasto a Dresda, e la causa fosse stata decisa secondo le leggi della Sassonia.
Il principe Elettore del Brandeburgo, al quale molti punti di questa lettera erano parsi ambigui e poco chiari, gli rispose che "l'energia con cui procedeva l'avvocato di Sua Maestà imperiale non consentiva in alcun modo di derogare, secondo il desiderio da lui esposto, dalla rigida applicazione della legge. Egli osservava che le preoccupazioni di cui veniva messo a parte andavano, in realtà, oltre il segno, poiché l'accusa per i delitti perdonati a Kohlhaas con l'amnistia era stata presentata alla Corte camerale di Berlino non già da lui, che aveva concesso l'amnistia al mercante, bensì dal reggitore supremo dell'Impero, che da essa non era legato in alcun modo. Inoltre gli faceva presente quanto fosse necessario, mentre perduravano le violenze del Nagelschmidt che, con inaudita impudenza, si spingevano fin sulle terre del Brandeburgo, dare un esempio che agisse come deterrente, e lo pregava, se non avesse voluto tener conto di tutto ciò, di rivolgersi direttamente a Sua Maestà l'imperatore, poiché, se un atto d'imperio doveva intervenire a favore di Kohlhaas, non sarebbe potuto giungere altrimenti che attraverso una dichiarazione da quella parte".
L'Elettore, per il dolore e la rabbia di tutti questi tentativi andati a vuoto, cadde nuovamente ammalato; e, una mattina che il ciambellano era venuto a trovarlo, gli mostrò le lettere che, per prolungare la vita di Kohlhaas e così per lo meno guadagnare tempo, per impadronirsi del foglietto che possedeva, aveva inviato alle Corti di Vienna e di Berlino. Il ciambellano si mise in ginocchio davanti a lui e lo scongiurò, per tutto ciò che aveva di sacro e di caro, di dirgli che cosa era scritto nel foglietto. L'Elettore gli disse di chiudere a chiave la stanza e di sedersi sul letto; e, dopo avergli preso la mano, ed essersela premuta sul cuore con un sospiro, cominciò nel modo che segue: «Tua moglie, ho inteso dire, ti ha già raccontato che l'Elettore del Brandeburgo e io, al terzo giorno del convegno da noi tenuto a Jüterbock, incontrammo una zingara; e poiché l'Elettore, vivace com'é di natura, aveva deciso di distruggere con uno scherzo, in presenza di tutto il popolo, la fama di quell'avventuriera, della cui arte poco prima, a mensa, si era parlato in modo sconveniente, egli si avvicinò al suo tavolino, a braccia conserte, e le chiese, a proposito della predizione che gli avrebbe fatto, un segno che si potesse verificare quel giorno stesso, avvertendola che, altrimenti, non avrebbe potuto credere alle sue parole, fosse stata pure la Sibilla romana in persona. La donna, misurandosi con un'occhiata da capo a piedi, disse che il segno sarebbe stato che il capriolo dalle grandi corna che il figlio del giardiniere allevava nel parco ci sarebbe venuto incontro sulla piazza della fiera, sulla quale ci trovavamo, prima che la lasciassimo. Ora, devi sapere che quel capriolo, destinato alla cucina della corte di Dresda, era custodito, con tanto di lucchetto e di catenaccio, in un recinto, ombreggiato dalle querce del parco, chiuso da un'alta palizzata, tanto che, siccome, per di più, l'intero parco e, al di là di esso, il giardino che vi conduceva, erano tenuti accuratamente chiusi, per via della selvaggina più piccola e dei polli che vi si trovavano, non si riusciva proprio a vedere come l'animale potesse, secondo la strana predizione, venirci incontro fin sulla piazza dove stavamo; e tuttavia l'Elettore, preoccupato che, dietro ciò, potesse celarsi una mariuoleria, dopo aver brevemente parlato con me e ben deciso, per via dello scherzo, a rovinare in modo irrimediabile tutto ciò che quella donna potesse dire, inviò a palazzo l'ordine di uccidere immediatamente il capriolo, e di prepararlo per il banchetto uno dei giorni seguenti. Poi si volse di nuovo verso la donna, di fronte alla quale tutto ciò era stato discusso ad alta voce, e le disse: "Su, avanti! Che cosa hai da rivelarmi per l'avvenire?". La donna, guardandoli la mano, disse: "Salve, mio principe Elettore e sovrano! La tua benevolenza governerà a lungo, la casa dalla quale provieni durerà ancora a lungo, i tuoi discendenti saranno grandi e splendidi, e il loro potere supererà quello di tutti gli altri principi e signori del mondo!". Il principe, dopo una pausa, durante la quale osservò la donna pensieroso, disse a mezza voce, facendo un passo verso di me, che adesso quasi gli dispiaceva aver mandato un messo per ridurre a nulla la profezia; e, mentre dalle mani dei cavalieri che lo seguivano il denaro pioveva a mucchi, fra gran grida di giubilo, in grembo alla donna, egli le domandò, infilandovi una mano in tasca, e deponendo anch'egli una moneta d'oro, se l'augurio che aveva da fare a me avesse un suono argentino come il suo. La donna, dopo aver aperto una cassetta che aveva a lato, avervi ordinato lentamente e meticolosamente il denaro diviso per specie e quantità, e aver richiuso la cassetta, si protesse dal sole con la mano, come se le desse noia, e mi guardò; e quando io le ripetei la domanda, e dissi, con fare scherzoso, al principe Elettore, mentre mi esaminava la mano: "A me, a quanto sembra, non ha proprio niente di piacevole da predire", lei diede di piglio alle grucce, si tirò, lentamente, su dal suo sgabello e, con le mani protese in un gesto pieno di mistero mi si fece vicina fino a toccarmi e mi sussurrò distintamente all'orecchio: "No!". "Ah!", dissi io, turbato, e feci un passo indietro da quella figura, che, con uno sguardo freddo e senza vita, come se avesse avuto occhi di marmo, tornò a sedersi sullo sgabello che stava dietro di lei: "Da quale parte il pericolo minaccia la mia casa?". La donna, prendendo in mano un carboncino e un foglio, e accavallando le ginocchia, domandò se doveva scrivermelo; e quando io, realmente impacciato, rispondo, semplicemente perché, in una situazione come quella, non mi restava altro da fare: "Sì, fallo!", lei aggiunse: "Va bene! Tre cose ti scriverò: il nome dell'ultimo regnante della tua casa, l'anno in cui perderà il regno, e il nome di colui che se lo conquisterà con la forza delle armi". Compiùto questo, davanti agli occhi di tutto il popolo, si solleva, sigilla il foglietto con ceralacca, inumidita nella sua bocca vizza, e vi imprime un sigillo di piombo, che porta al dito medio come anello. E quando io, curioso, come puoi facilmente immaginare, più di quanto le parole possano dire, faccio per prendere il biglietto, lei dice: "Niente affatto, Altezza!", si volta, e leva in alto una delle sue stampelle: "Da quell'uomo laggiù, quello con il cappello piumato, che sta in piedi sul sedile, dietro tutto il popolo, sulla soglia della chiesa, andrai a prendere il foglio, se lo vorrai!". E con cio, prima ancora che io abbia ben capito che cosa sta dicendo, mi pianta in asso sulla piazza, senza parole per lo stupore; e, chiusa con un colpo la cassetta che stava alle sue spalle, se la getta sulla schiena e si confonde, senza che io possa più scorgere quello che sta facendo, nel mucchio della folla che ci circonda. Proprio in quel momento, con mia grandissima consolazione, devo dire, si fece avanti il cavaliere che l'Elettore aveva inviato a palazzo, e gli comunicò, con la bocca atteggiata a un sorriso, che il capriolo era stato ucciso, e che due cacciatori, sotto i suoi occhi, l'avevano trasportato in cucina. L'Elettore, prendendomi allegramente sotto braccio, con l'intenzione di condurmi via dalla piazza, disse: "Insomma, la profezia non era altro che una delle solite fanfaronate, che non valeva il tempo e il denaro che c'é costata!" Ma quale fu il nostro stupore quando, mentre ancora pronunciava queste parole, si levò un vociare tutto intorno per la piazza, e tutti gli occhi si volsero a un grosso cane da macellaio, che si avvicinava dal cortile del palazzo, dove aveva afferrato in cucina il capriolo, come una buona preda, e, inseguito dai servi e dalle fantesche, lasciò cadere al suolo la bestia a tre passi da noi: così che davvero la profezia della donna, a garanzia di tutto ciò che aveva annunciato, si era adempiuta, e il capriolo, sia pure già morto, ci era venuto incontro sulla piazza della fiera. Il fulmine che in un giorno d'inverno cade dal cielo non può colpire in modo più devastante di quanto mi colpì quella vista, e la mia prima preoccupazione, non appena mi fui liberato della compagnia in cui mi trovavo, fu rintracciare subito l'uomo con il cappello piumato che la donna mi aveva indicato; ma nessuno dei miei uomini, mandati ininterrottamente per tre giorni a cercare informazioni, fu in grado di darsene notizia, neppure nel modo più vago: e ora, Corrado, amico mio, poche settimane fa, nella fattoria vicino a Dahme, ho visto quell'uomo con i miei occhi».
Con queste parole, lasciò andare la mano del ciambellano e, asciugandosi il sudore, ricadde sul suo giaciglio. Il ciambellano, ritenendo fatica sprecata contrapporre la sua opinione di quell'evento a quella che ne aveva il principe Elettore, per rettificarla, lo pregò di tentare un mezzo qualunque per venire in possesso del foglio, e poi di abbandonare quell'uomo al suo destino; ma il principe rispose di non vederne il mezzo in alcun modo, anche se il pensiero di doverci rinunciare, o addirittura di veder perire con quell'uomo ogni possibilità di conoscere il segreto, lo riduceva sull'orlo dello strazio e della disperazione. Alla domanda dell'amico se avesse fatto il tentativo di rintracciare la zingara in persona, il principe rispose che la polizia, in forza di un ordine che egli aveva emanato, con un falso pretesto, fino a ieri l'aveva ricercata invano in tutti gli angoli del principato: tanto che, per ragioni che, tuttavia, rifiuto di esporre nei particolari, egli dubitava persino che fosse rintracciabile in Sassonia.
Ora, avveniva che il ciambellano, per via di numerosi ed estesi possedimenti che sua moglie aveva ereditato, nella Marca Nuova, dal conte Kallheim, il Gran Cancelliere deposto, e poco tempo dopo venuto a morte, volesse appunto recarsi a Berlino; tanto che, poiché voleva dare bene al principe Elettore, dopo una breve riflessione gli domandò se voleva lasciargli mano libera in quella faccenda; e poiché il principe, premendosi con calore la sua mano sul petto, gli rispondeva: «Fa' conto di essere me stesso, e procurarmi il foglio!», il ciambellano, sbrigati i suoi affari, affrettò di qualche giorno la sua partenza e si recò, lasciando a casa la moglie, accompagnato soltanto da alcuni servi, a Berlino.
Kohlhaas, il quale nel frattempo, come si è detto, era giunto a Berlino e, per un ordine particolare del principe Elettore, era stato condotto in un carcere destinato ai nobili, che lo ricevette, insieme ai suoi cinque figli, con quanta maggior comodità era possibile, subito dopo la comparsa del procuratore imperiale da Vienna era stato chiamato a rendere conto, davanti al tribunale camerale, per il turbamento della pace pubblica, tutelata dall'imperatore, da lui causato nel paese; e, benché egli, nella sua difesa, obbiettasse che non lo si poteva processare per la sua incursione armata in Sassonia, né per le violenze allora commesse, in forza del compromesso da lui stipulato a Lützen con il principe Elettore di Sassonia, si sentì rispondere, per suo insegnamento, che Sua Maesta l'imperatore, il cui procuratore sosteneva l'accusa nel processo, non poteva tenerne conto: e ben presto, poiché la cosa gli fu spiegata in dettaglio, e gli fu dichiarato che, in compenso, avrebbe ottenuto piena soddisfazione, da parte di Dresda, nella sua causa contro il barone Venceslao di Tronka, si mise l'anima in pace. Di conseguenza, avvenne che proprio il giorno dell'arrivo del ciambellano fu pronunciata la sentenza, ed egli fu condannato a perire di spada: un verdetto alla cui esecuzione però, in una situazione così intricata, indipendentemente dalla sua mitezza, nessuno credeva, e che anzi l'intera città, data la benevolenza che il principe Elettore nutriva per Kohlhaas, sperava di veder tramutata senza fallo, per un suo atto d'imperio, in una semplice pena detentiva, magari lunga e penosa.
Il ciambellano, il quale tuttavia comprendeva che non c'era tempo da perdere, se l'incarico che il suo sovrano gli aveva affidato doveva andare a buon fine, cominciò a mettere in atto il suo piano mostrandosi a Kohlhaas, un mattino in cui questi stava in piedi, alla finestra della prigione, e osservava distrattamente i passanti, nel suo solito vestito di corte, a lungo e con intenzione; e quando, da un movimento improvviso del capo, concluse che il mercante di cavalli l'aveva notato, e, soprattutto, quando scorse, con grande soddisfazione, che egli aveva portato involontariamente la mano al petto, dove teneva la capsula, ritenne che ciò che in quel momento era avvenuto nel suo animo fosse una preparazione sufficiente per consentirgli di compiere il passo successivo, nel tentativo di impadronirsi del foglietto.
Mandò a chiamare una vecchia rigattiera, che andava in giro con le stampelle, e che egli aveva notato, per le strade di Berlino, in mezzo a un crocchio di altri straccivendoli; poiché, per l'età e per l'abito, gli sembrava corrispondere abbastanza bene a quella che il principe gli aveva descritto, supponendo che Kohlhaas non avesse potuto imprimersi profondamente nella memoria i tratti di quella che, in una fugace apparizione, gli aveva consegnato il foglietto, decise di sostituirlo con la donna da lui scelta, e di farle recitare presso Kohlhaas, se ci riusciva, la parte della zingara. Quindi, per metterla in condizione di farlo, la istruì dettagliatamente su tutto ciò che a Jüterbock era avvenuto fra il principe e la suddetta zingara, e, non sapendo fin dove si fosse spinta la zingara nelle sue rivelazioni a Kohlhaas, non dimenticò di insistere particolarmente sui tre misteriosi punti scritti sul foglio; e, dopo averle spiegato ciò che avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire, con allusioni monche e scarsamente comprensibili, a proposito di certe misure che erano state prese per impadronirsi, con l'astuzia o con la forza, del biglietto, che era di estrema importanza per la corte di Sassonia, le affidò l'incarico di farsi consegnare da Kohlhaas il foglio, con il pretesto che presso di lui non era più sicuro, per custodirlo durante alcuni giorni gravidi di pericoli. La rigattiera accettò subito, dietro promessa di una lauta ricompensa, della quale il ciambellano, su richiesta di lei, dovette pagare in anticipo una parte, di eseguire l'incarico; e, poiché la madre del servo Ersiano, caduto presso Mühlberg, andava di tanto in tanto a trovare Kohlhaas, con il permesso del Governo, e già da qualche mese conosceva quella donna, la zingara riuscì, uno dei giorni seguenti, con un piccolo obolo al capo carceriere, a ottenere accesso al mercante di cavalli.
Ma Kohlhaas, quando la donna entrò, credette, dall'anello con il sigillo che portava al dito, e dalla collana di corallo che aveva sul petto, di riconoscere in lei proprio la vecchia zingara che gli era già nota, e che a Jüterbock gli aveva consegnato il foglio; e poiché non sempre la verosimiglianza sta dalla parte della verità, caso volle che fosse appunto avvenuto un fatto che noi, bensì, riferiamo, pur essendo costretti a lasciare, a chiunque preferisca, il diritto di dubitarne: il ciambellano aveva compiuto il più clamoroso dei passi falsi e, con la vecchia rigattiera che si era procurato per le strade di Berlino, perché facesse finta di essere la zingara, si era imbattuto proprio nella misteriosa zingara che voleva far imitare da lei. Per lo meno la donna, mentre, appoggiandosi sulle stampelle, accarezzava le guance dei bambini, i quali, colpiti dal suo strano aspetto, si stringevano al padre, riferì che già da diverso tempo era ritornata dalla Sassonia nel Brandeburgo, e che, a una domanda imprudentemente arrischiata dal ciambellano, per le strade di Berlino, a proposito della zingara che, nella primavera dell'anno precedente, era stata a Jüterbock, gli si era subito avvicinata e, sotto falso nome, si era offerta di assolvere all'incarico che egli intendeva affidare.
Il mercante di cavalli, che notò una strana somiglianza fra lei e la sua defunta moglie Lisabetta, tanto che avrebbe potuto domandarle se non fosse la nonna di lei, poiché non soltanto i tratti del suo viso, e le mani, che, per quanto ossute, erano ancora belle, e soprattutto il suo modo di muoverle mentre parlava, gliela ricordavano nel modo più vivo, ma egli notò perfino sul collo di lei un neo simile a quello di sua moglie, il mercante di cavalli, dunque, la pregò, mentre in lui si incrociavano strani pensieri, di mettersi a sedere, e le domandò che cosa mai la conducesse da lui, per affari del ciambellano. La donna, mentre il vecchio cane di Kohlhaas le annusava le ginocchia, e scodinzolava alle carezze della sua mano, rispose che l'incarico che il ciambellano le aveva affidato era quello di svelargli quale fosse la misteriosa risposta contenuta nel foglietto alle tre domande importanti per la corte di Sassonia; doveva mettere in guardia lui, Kohlhaas, da un inviato, che si trovava a Berlino per impossessarsene, e pertanto chiedergli la consegna del foglio, con il pretesto che al suo collo, dov'egli lo portava, non era più sicuro. Ma l'intenzione con la quale era venuta era invece di fargli sapere che la minaccia di privarlo del biglietto con l'astuzia o con la forza era una sciocchezza, un vuoto spauracchio; che, sotto la protezione del principe Elettore di Brandeburgo, alla custodia del quale era affidato, non aveva proprio nulla da temere per il biglietto; che, anzi, il foglio era assai più sicuro presso di lui che presso di lei, e che si guardasse bene dal farsene privare, consegnandolo a chiunque, sotto qualunque pretesto. E concluse, comunque, che le pareva saggio fare del biglietto l'uso per il quale glie'aveva dato alla fiera annuale di Jüterbock: porgere orecchio alla proposta che gli era stata fatta presso il confine da parte del barone di Stein, e consegnare il foglio, che a lui ormai non serviva più, al principe Elettore di Sassonia, in cambio della libertà e della vita.
Kohlhaas, che esultava per il potere che gli era dato di ferire a morte il tallone del suo nemico, nel momento in cui ne veniva calpestato, rispose: «Per niente al mondo, nonnina; per niente al mondo!». E, premendo la mano alla vecchia, volle soltanto sapere che specie di risposte a quelle arcane domande fossero contenute nel foglietto.
La donna, prendendosi in grembo il più piccolo, che si era accoccolato ai suoi piedi, disse: «Non per il mondo, Kohlhaas: ma per questo piccolo, dolce bambino biondo!», e, nel dir questo, gli sorrise, lo strinse a sé e lo baciò, mentre il bambino la guardava con i suoi grandi occhi, e gli porse, con le sue mani ossute, una mela che portava nella bisaccia.
Kohlhaas disse, confuso, che i bambini stessi, se fossero stati grandi, l'avrebbero lodato per il suo comportamento, e che per loro, e per i loro nipoti, non avrebbe potuto fare nulla di più benefico che conservare il biglietto. Inoltre, domandò, chi, dopo l'esperienza che aveva fatto, l'avrebbe garantito da un nuovo inganno? Non avrebbe, alla fine, sacrificato invano al principe Elettore il foglio, come aveva fatto in passato con la banda da lui raccolta a Lützen?
«Con chi mi ha mancato di parola una volta», disse, «io non impegno più la mia parola; solo una tua richiesta, precisa e inequivocabile, mi separerà, nonnina, dal foglio attraverso il quale mi viene data, in modo così straordinario, soddisfazione per tutto ciò che ho sofferto».
La donna, deponendo a terra il bambino, disse che, da più di un punto di vista, aveva ragione, e che poteva fare e non fare ciò che voleva. E con queste parole riprese le sue stampelle e fece per andarsene. Kohlhaas ripeté la sua domanda, a proposito dello straordinario biglietto; e avrebbe voluto, dopo che lei ebbe brevemente risposto che, sì, poteva aprirlo, fosse pure soltanto per mera curiosità, che lei gli spiegasse ancora mille altre cose, prima di lasciarlo, chi fosse in realtà, di dove venisse la scienza che era in lei, e perché non avesse voluto dare al principe Elettore il biglietto, per il quale pure l'aveva scritto, e perché proprio a lui, che non aveva mai avuto desiderio della sua scienza, avesse consegnato, fra tante migliaia di uomini, il prodigioso foglietto. Ma avvenne che, proprio in quel momento, si udisse un rumore, prodotto da alcune guardie che stavano salendo le scale; tanto che la donna, presa dall'improvviso timore di essere colta da loro in quelle stanze, rispose: «Arrivederci Kohlhaas! Se ci incontreremo di nuovo, la risposta a tutto questo non ti mancherà!». E, voltandosi verso la porta, gridò: «Addio, bambini, addio!», baciò i piccoli, uno dopo l'altro, e se ne andò.
Nel frattempo il principe Elettore di Sassonia, in preda ai suoi tormentosi pensieri, aveva fatto venire due astrologi, di nome Oldenholm e Olearius, che erano allora in Sassonia in grande rinomanza, e li aveva consultati a proposito del contenuto del foglio misterioso, così importante per lui e per tutta la stirpe dei suoi discendenti; e poiché i due uomini, dopo un'approfondita indagine, che proseguì per molti giorni, nella torre del palazzo di Dresda, non riuscirono ad accordarsi se la profezia si riferisse ai secoli a venire o al tempo presente, e se non volesse forse alludere alla corona di Polonia, con la quale i rapporti erano ancora assai ostili, la dotta disputa, invece di dissipare l'inquietudine, per non dire la disperazione, in cui si trovava l'infelice sovrano, non fece che acuirla, accrescendola, da ultimo, a un punto tale, che divenne per il suo animo del tutto insopportabile. A ciò si aggiunse che, più o meno in quei giorni, il ciambellano incaricò sua moglie, che era sul punto di seguirlo a Berlino, di portare, con parole adatte, a conoscenza dell'Elettore, prima di partire, di quanto fossero scarse, dopo il tentativo fallito da lui compiùto per mezzo di una donna che non s'era più fatta vedere, le speranze di venire in possesso del foglio conservato da Kohlhaas, poiché la sentenza di morte pronunciata contro di lui era stata, dopo un esame minuzioso degli atti, ormai firmata dall'Elettore di Brandeburgo, e il giorno dell'esecuzione era già fissato, per il lunedì seguente la domenica delle Palme; notizia alla quale il principe, con il cuore lacerato dal dolore e dal rimorso, si chiuse, come un uomo privo di ogni speranza, nella sua camera, per due giorni, sazio della vita, non toccò cibo, e il terzo, improvvisamente, dopo aver brevemente annunciato al governo che si sarebbe recato a caccia presso il principe di Dessau, sparì da Dresda.
Dove realmente andasse, e se si fosse diretto a Dessau, è questione che lasciamo aperta, poiché le cronache dal cui confronto noi ricaviamo questa relazione si contraddicono in modo strano, e reciprocamente si annullano, su questo punto. Certo è che, a quel tempo, il principe di Dessau non era in condizione di andare a caccia, poiché giaceva malato a Braunschweig, ospite di suo zio, il conte Enrico; e che, la sera del giorno seguente, donna Eloisa arrivava a Berlino presso il ciambellano, messer Corrado, suo consorte, in compagnia di un certo conte di Königstein, presentato da lei come suo cugino.
Nel frattempo, per ordine dell'Elettore, venne letta a Kohlhaas la sentenza di morte, gli furono tolte le catene e gli furono riconsegnati i documenti relativi al suo patrimonio, che a Dresda gli erano stati tolti; e, poiché i consiglieri messi a sua disposizione dal tribunale gli domandarono in che modo volesse procedere, dopo la morte, ai beni che possedeva, egli redasse, con l'aiuto di un notaio, un testamento a favore dei figli, ed elesse, come tutore di questi, l'onesto balivo di Pontekohlhaas, suo amico. Dopo di ciò, la tranquillatà e la contentezza dei suoi ultimi giorni furono senza pari; poiché, per una particolare e straordinaria concessione del principe Elettore, pochi giorni dopo anche le porte del carcere in cui si trovava furono aperte, e fu concesso libero accesso a lui, giorno e notte, a tutti gli amici, che erano molti, che aveva in città. Ed egli ebbe perfino la soddisfazione di veder entrare nella sua prigione il teologo Giacomo Freising, inviato dal dottor Lutero, con una lettera di questi, scritta di suo pugno e senza dubbio assai notevole, la quale, però, è andata perduta, e di ricevere da questo sacerdote, alla presenza di due decani brandeburghesi, che coadiuvarono al rito, il beneficio della santa comunione.
E così, tra la generale agitazione della città, che ancora non riusciva a mettere da parte la speranza in un atto d'imperio che lo salvasse, giunse il fatale lunedì delle Palme in cui avrebbe dovuto pagare al mondo il prezzo della riconciliazione, per il troppo precipitoso tentativo di reintegrare da sé il proprio diritto. Stava per l'appunto uscendo, accompagnato da una poderosa scorta, con due dei suoi bambini in braccio (concessione che egli aveva espressamente richiesto al cospetto del tribunale), dalla porta della sua prigione, preceduto dal teologo Giacomo Freising, quando, nel fitto accalcarsi dei conoscenti che gli stringevano la mano, e prendevano, tristemente, commiato, si fece strada fino a lui, con il volto turbato, il castaldo del palazzo dell'Elettore, e gli diede un foglio che, così disse, gli era stato consegnato per lui da una vecchia. Kohlhaas, guardando con stupore quell'uomo, che conosceva appena, aprì il foglio, il cui sigillo, impresso nella ceralacca, gli ricordò immediatamente la zingara a lui ben nota. Ma chi potrebbe descrivere il suo sbalordimento, quando vi lesse il seguente messaggio: «Kohlhaas, il principe Elettore di Sassonia è a Berlino; egli ti ha preceduto sulla piazza dell'esecuzione, e, se ti preme, potrai riconoscerlo dal suo cappello, ornato da piume bianche e azzurre. L'intenzione che l'ha condotto non occorre che te la dica: vuole, non appena tu sia sepolto, far dissotterrare la capsula, e aprire il foglio che vi si trova.- La tua Lisabetta».
Kohlhaas, girandosi, del tutto sconvolto, verso il castaldo, gli domandò se sapeva chi fosse la misteriosa donna che gli aveva consegnato il foglio. Ma quando il castaldo rispose: «Kohlhaas, la donna...», e a metà del discorso, in modo strano, s'interruppe, egli, trascinato dal corteo, che proprio in quel momento si era rimesso in moto, non poté udire le parole che l'uomo, che sembrava tremare in tutto il corpo, pronunciava.
Quando giunse sulla piazza dell'esecuzione, vi trovò in attesa, fra una sterminata moltitudine, il principe Elettore del Brandeburgo a cavallo, con il suo seguito, fra il quale era presente anche il Gran Cancelliere, messer Enrico di Geusau: alla destra del principe l'avvocato imperiale, Francesco Müller, con una copia della sentenza di morte in mano; a sinistra del principe l'avvocato di questi, il giurisperito Antonio annoiare, con le conclusioni del tribunale di corte di Dresda; e, in centro al semicerchio, chiuso in fondo dal popolo, un araldo con un fagotto in mano, e i due morelli, lustri e ben pasciuti, che battevano il terreno con gli zoccoli. Infatti il Gran Cancelliere, messer Enrico, aveva vinto la causa intentata a Dresda, in nome del suo sovrano, contro il barone Venceslao di Tronka, punto per punto e senza la minima limitazione; e di conseguenza i cavalli, resi al loro onore dallo sventolio di una bandiera sopra le loro teste, e poi ritirati dalle mani dello scortichino che li nutriva, erano stati ingrassati dalla gente del barone, e, alla presenza di una commissione insediata a questo scopo, erano stati consegnati all'avvocato, sulla piazza del mercato di Dresda.
Il principe Elettore, quando Kohlhaas, accompagnato dalla sua scorta, avanzò sul rialto davanti a lui, parlò così:
«Ecco, Kohlhaas: oggi è il giorno in cui ti è resa giustizia! Guarda! Io ti riconsegno ora tutto ciò che ti fu con la violenza sottratto al castello di Tronka, e che io, come tuo sovrano, ero tenuto a farti restituire: i morelli, il fazzoletto, i fiorini, la biacheria, e anche le spese per le cure al tuo servo Erziano, caduto presso Mühlberg. Sei contento di me?».
Kohlhaas, posati a terra accanto a sé i due bambini che aveva in braccio, lesse velocemente, con gli occhi spalancati e raggianti, le conclusioni del processo, che, a un cenno del Gran Cancelliere, gli erano state consegnate; e poiché vi trovò anche una clausola con la quale il barone Venceslao era condannato a due anni di prigione, si lasciò cadere, da lontano, sopraffatto dai suoi sentimenti, in ginocchio davanti all'Elettore, con le mani incrociate sul petto. Egli assicurò con voce lieta al Gran Cancelliere, alzandosi e portandosi la mano al petto, che il più gran desiderio che aveva in terra era adempiuto; si avvicinò ai cavalli, li esaminò, ne palpò il collo sodo; e dichiarò allegramente al Cancelliere, ritornando verso di lui, che «li regalava ai suoi due figli, Enrico e Leopoldo».
Il Cancelliere, messer Enrico di Geusau, volgendosi a lui benevolmente da cavallo, gli promise, in nome del principe Elettore, che la sua ultima volontà sarebbe stata religiosamente rispettata, e lo invitò a disporre come meglio riteneva anche delle altre cose contenute nel fagotto. Allora Kohlhaas invitò la vecchia madre di Ersiano, che aveva scorto sulla piazza, a uscire dalla folla che aveva intorno, e consegnandole il fagotto le disse: «Ecco, nonna, tutto ciò ti appartiene»; aggiungendo al denaro che si trovava nel fagotto anche la somma che aveva ricevuto come proprio indennizzo, che volle darle in regalo, a sostegno e conforto dei suoi tardi giorni.
«Adesso, Kohlhaas, mercante di cavalli», esclamò il principe Elettore, «al quale è stata data in questo modo soddisfazione, preparati a dare a tua volta soddisfazione a Sua Maestà l'imperatore, l'avvocato del quale è al mio fianco, per la rottura della pubblica pace!».
Kohlhaas, levandosi il cappello e gettandolo al suolo, disse che era pronto! Affidò i suoi bambini, dopo averli presi su da terra ancora una volta, e stretti al petto, al balivo di Pontekohlhaas, e, mentre questi, con lacrime silenziose, li conduceva via dalla piazza, si avvicinò al ceppo. Stava per l'appunto sciogliendosi il fazzoletto dal collo, e aprendosi il giustacuore, quando, a uno sguardo fuggevole sul cerchio formato dal popolo, scorse, a breve distanza da sé, fra due cavalieri che lo coprivano a metà coi loro corpi, l'uomo ben noto dalle piume bianche e azzurre. Con uno scarto improvviso, che sorprese la scorta che lo circondava, Kohlhaas gli andò proprio davanti, si sciolse dal petto la capsula, ne trasse il foglio, ruppe il sigillo e lo scorse: e, con gli occhi fissi sull'uomo dalle piume bianche e azzurre, che già cominciava a dar corso a dolci speranze, lo mise in bocca e lo inghiottì. L'uomo dalle piume bianche e azzurre, a quella vista, preso da convulsioni, cadde svenuto. Kohlhaas, mentre gli accompagnatori di quell'uomo si chinavano, affranti, su di lui, e lo tiravano su da terra, si volse verso il patibolo, dove il suo capo cadde sotto la scure del boia.
Qui finisce la storia di Kohlhaas. Si depose la salma nella bara, fra il compianto unanime del popolo; e, mentre i necrofori la sollevavano, per darle degna sepoltura nel camposanto fuori città, il principe Elettore chiamò a sé i figli del defunto e, dichiarando al Gran Cancelliere che dovevano essere educati nella scuola dei paggi di corte, li armò cavalieri. Il principe Elettore di Sassonia ritornò poco dopo, straziato nel corpo e nell'anima, a Dresda, e ciò che segue va letto nella storia. Ma di Kohlhaas nel secolo scorso vivevano ancora nel Meclemburgo alcuni lieti e gagliardi discendenti.




LA MARCHESA DI O...


A M..., un'importante città dell'Alta Italia, la vedova del marchese di O..., signora di eccellente reputazione, madre di ben educati fanciulli, rese noto, attraverso i giornali, che si trovava, senza sapere come, in stato interessante. e che, se il padre del bambino che stava per dare alla luce si fosse presentato, lei, per ragioni di famiglia, era decisa a sposarlo. La signora che faceva con tanta sicurezza un passo così strano, destinato a suscitare lo scherno del mondo, era la figlia del signore di G..., comandante della cittadella nei pressi di M... Circa tre anni prima, aveva perso il marito, il marchese di O..., al quale era legata dal più intimo e tenero affetto, durante un viaggio a Parigi che egli aveva compiuto per affari di famiglia. Per desiderio della madre, la degna signora di G..., ella aveva lasciato, dopo la morte di lui, la tenuta presso V..., dove aveva fino a quel momento abitato, ed era tornata, con i suoi due figli, nella casa del padre, presso il comando della fortezza. Qui aveva condotto, negli anni seguenti, una vita estremamente ritirata, dedicandosi all'arte, alla lettura, all'educazione dei figli e alla cura dei genitori: finché la guerra di ... riempì improvvisamente la regione degli eserciti di quasi tutte le potenze, compresa la Russia.
Il colonnello di G..., che aveva ordine di difendere la cittadella, chiese alla consorte e alla figlia di ritirarsi nella tenuta di quest'ultima, o in quella del figlio di lui, che si trovava presso V... Ma, prima che la valutazione, qui dei pericoli ai quali potevano essere esposte nella fortezza, là degli orrori nei quali potevano incorrere in aperta campagna, fosse stata soppesata e decisa sulla bilancia della riflessione femminile, la cittadella era già presa d'assalto dalle truppe russe, e invitata alla resa. Il colonnello dichiarò, nei confronti della sua famiglia, che ormai si sarebbe comportato come se non ci fosse; e rispose con palle e granate. Il nemico, da parte sua, bombardò la cittadella. Appiccò il fuoco ai magazzini, espugnò un baluardo esterno, e, quando il comandante, a una nuova intimazione, esitò ad arrendersi, ordinò un attacco notturno ed espugnò d'assalto la fortezza.
Proprio mentre le truppe russe, sotto un violento tiro di obici, irrompevano dall'esterno, l'ala sinistra dell'abitazione del comandante prese fuoco, costringendo le donne ad abbandonarla. La moglie del colonnello, correndo dietro alla figlia, che scendeva la scala a precipizio con i bambini, gridò che dovevano restare unite e rifugiarsi nelle cantine; ma una granata che, proprio in quel momento, scoppiò nella casa vi portò al culmine e vi rese totale la confusione. La marchesa giunse, coi due bambini, sul piazzale antistante l'edificio, dove gli spari che già lampeggiavano nella notte e la mischia violentissima la ricacciarono, incapace di riflettere dove fuggire, nella casa in fiamme.
Qui, sfortunatamente, proprio mentre stava per sgusciare per la porta posteriore, si imbatté in un manipolo di fucilieri nemici, che, vedendola, si fermarono di colpo, si gettarono i fucili in spalla, e, con gesti osceni, la trascinarono con sé. Invano la marchesa, tirata in qua e in là dall'orribile masnada, che se la strappava di mano, chiamò in aiuto le sue domestiche tremanti, che fuggivano dal portone. La trascinarono nel cortile posteriore, dove, barbaramente malmenata, stava per cadere al suolo, quando, chiamato dalle grida acute della donna, apparve un ufficiale russo, che disperse con furibonde sciabolate quei cani avidi di violenza. Alla marchesa parve un angelo del cielo. All'ultimo bestiale ribaldo che teneva abbracciato il suo corpo snello sbatté in pieno viso l'impugnatura della sciabola, facendolo arretrare barcollante, con il sangue che gli sgorgava dalla bocca, offrì poi il braccio alla donna, rivolgendosi a lei in francese, con grande cortesia, e la condusse, incapace di dire parola, dopo quelle scene, nell'altra ala del castello, non ancora attaccata dal fuoco, dove lei cadde al suolo, priva di conoscenza. Qui, quando apparvero, poco tempo dopo, le fantesche spaventate, egli diede disposizioni perché fosse chiamato un medico, si assicurò, rimettendosi il cappello, che presto si sarebbe ripresa e tornò alla lotta.
La piazzaforte fu in breve tempo interamente conquistata, e il comandante, che continuava a difendersi soltanto perché non volevano dargli quartiere, si stava ritirando, mentre le forze gli venivano meno, verso il portone della casa, quando l'ufficiale russo, con il viso in fiamme, ne uscì, e gli gridò di arrendersi. Il comandante rispose che non aspettava per l'appunto che quell'invito, gli porse la sciabola e gli chiese licenza di recarsi nel castello, a cercare la sua famiglia. L'ufficiale russo, che, a giudicare dal ruolo svolto, sembrava uno dei capi dell'assalto gliene diede facoltà, facendolo accompagnare da una scorta, si mise, con una certa fretta, alla testa di un distaccamento, decise, dove poteva ancora essere in forse, il combattimento, e presidiò rapidamente i punti forti della cittadella. Poco dopo ritornò sulla piazza d'armi, comandò di arrestare le fiamme, che cominciavano a dilagare furiosamente, e compì egli stesso sforzi prodigiosi, quando i suoi ordini non furono eseguiti con il dovuto zelo. Ora si arrampicava, con il tubo di canapa in mano, fra i comignoli in fiamme, e dirigeva il getto d'acqua; ora entrava, riempiendo di terrore quelle nature asiatiche, negli arsenali, e ne faceva rotolare fuori barili di polvere e bombe cariche.
Il comandante, entrato nel frattempo nella casa, quando seppe dell'incidente occorso alla marchesa ne fu gravemente sconvolto. La marchesa, che, senza l'aiuto del medico, come aveva predetto l'ufficiale russo, si era ripresa dal suo svenimento, e nella gioia di vedere tutti i suoi sani e salvi, restava a letto soltanto per tranquillizzare le loro eccessive preoccupazioni, assicurò al padre di non avere altro desiderio, se non di potersi alzare, per testimoniare la sua gratitudine al suo salvatore. Sapeva già che era il conte F..., tenente colonnello dei cacciatori di ..., e cavaliere di un Ordine al merito e di vari altri. La marchesa pregò il padre di insistere presso di lui, affinché non lasciasse la cittadella prima di essersi mostrato un momento nel castello. Il comandante, rispettando il sentimento della figlia, tornò senza indugio nella fortezza, e, poiché l'ufficiale correva avanti e indietro, occupato da incessanti disposizioni militari, e non poteva trovarsi occasione migliore, gli commise là, sui bastioni, dove stava passando in rivista i plotoni decimati, il desiderio della figlia commossa. Il conte l'assicurò che aspettava solo il momento in cui avrebbe potuto liberarsi dalle incobenze, per portarle i suoi omaggi. E voleva ancora farsi dire come stava la signora marchesa, quando i rapporti di numerosi ufficiali lo trascinarono di nuovo nel groviglio della guerra.
Quando spuntò il giorno, comparve il generale che comandava le truppe russe, e ispezionò la fortezza. Egli espresse al comandante la sua stima, si dolse che la fortuna non avesse meglio secondato il suo coraggio, e gli diede, dietro parola d'onore, facoltà di recarsi dove volesse. Il comandante l'assicurò della sua gratitudine, e gli disse quale fosse stato, quel giorno, il suo debito nei confronti dei russi, e in particolare del giovane conte F..., tenente colonnello dei cacciatori di ... Il generale domandò che cosa fosse successo; e, quando fu informato dell'infame aggressione alla figlia del suo interlocutore, mostrò la massima indignazione, e chiamò per nome il conte F... fuori dai ranghi. Dopo avergli rivolto un breve elogio per il suo nobile comportamento, al quale il conte si fece rosso su tutto il viso, concluse dicendo che avrebbe fatto fucilare i miserabili che avevano macchiato il nome dell'imperatore; e gli ordinò di dire chi fossero.
Il conte F... rispose, con un discorso confuso di non essere in grado di indicarne i nomi, poiché, al fioco barlume delle lanterne, nel cortile del castello, gli era stato impossibile riconoscere i loro volti. Il generale, che aveva udito come in quel momento il castello fosse già in fiamme, se ne stupì; osservò che le persone ben note si possono riconoscere, di notte, anche dalle voci, e, poiché egli alzava le spalle con viso imbarazzato, gli ordinò di compiere indagini con la massima solerzia e severità. In quel momento un soldato, fattosi avanti dalle ultime file, riferì che uno dei malfattori feriti dal conte F..., essendo caduto nel corridoio, era stato portato dagli uomini del comandante in un ripostiglio, dove ancora si trovava. Il generale mandò immediatamente una scorta a prelevarlo, lo fece sottoporre a un breve interrogatorio, e tutto il gruppo, quando il primo ebbe fatto i nomi, cinque soldati in tutto, venne fucilato. Fatto ciò il generale, dopo aver lasciato una piccola guarnigione, diede ai resto delle truppe l'ordine della partenza: gli ufficiali si dispersero, correndo, verso i loro reparti; il conte, nella confusione di coloro che si affrettavano in tutte le direzioni, si avvicinò al comandante, e si rammaricò di poter soltanto, in quella circostanza, inviare i suoi deferenti ossequi alla marchesa; e in meno di un'ora l'intera fortezza fu sgombra dai russi.
La famiglia pensò allora come avrebbe potuto trovare in futuro un'occasione per far pervenire al conte un segno della sua riconoscenza; ma quale fu il suo orrore quando venne a sapere che egli, il giorno stesso della sua partenza dal forte, aveva trovato la morte in un combattimento con le truppe nemiche. Il corriere che portò a M... la notizia l'aveva visto con i suoi occhi trasportare, mortalmente ferito al petto da una fucilata, in direzione di P..., dove, come risultava da notizie sicure, nel momento in cui i portantini stavano per deporlo era spirato. Il comandante, che si recò di persona alla stazione di posta, a informarsi dei particolari dell'avvenimento venne inoltre a sapere che il conte, sul campo di battaglia, nei momento in cui veniva colpito dalla fucilata, avrebbe gridato: «Giulietta! Questa palla ti vendica!»; poi le sue labbra si erano chiuse per sempre. La marchesa non sapeva consolarsi di aver lasciato passare l'occasione per gettarsi ai suoi piedi. Si faceva i più vivi rimproveri per non essere andata lei stessa a cercarlo, quando egli, forse per modestia, come lei pensava, aveva rifiutato di ripresentarsi al castello; compiangeva l'infelice, che portava il suo stesso nome, alla quale egli aveva pensato nel momento della morte e si sforzò invano di rintracciare dove vivesse, per informarla di quell'evento doloroso e commovente; e passarono molti mesi, prima che lei stessa potesse dimenticarlo.
La famiglia, intanto, aveva dovuto sgomberare l'abitazione del comandante, per far posto al generale russo. Pensarono, all'inizio, di stabilirsi nella tenuta del comandante, soluzione alla quale la marchesa era assai propensa; ma, poiché il colonnello non amava la vita di campagna, la famiglia si trasferì in una casa di città, adattandola a dimora permanente. Ogni cosa riprese il vecchio corso. La marchesa tornò a occuparsi dell'istruzione dei bambini, da lungo tempo interrotta, e, per le ore libere tirò fuori il suo cavalletto e i libri: fino a quando, lei che era ia salute fatta persona, cominciò a sentirsi colpita da reiterati malesseri, che per settimane intere le impedivano di partecipare alla vita di società. Soffriva di nausee, capogiri e mancamenti improvvisi, e non sapeva spiegarsi le ragioni di quella strana condizione.
Un mattino, mentre la famiglia prendeva il tè, e il padre si era allontanato, per un momento, dalla stanza, la marchesa, destandosi da una lunga pausa, in cui era stata soprapensiero, disse alla madre: «Se una donna mi dicesse di aver avuto una sensazione come quella che ho avuto io, proprio adesso, prendendo in mano la tazza, penserei, fra me e me, che è in stato interessante». La signora di G... disse che non la capiva. La marchesa spiegò, di nuovo, di aver avuto, un momento prima, una sensazione come quella di allora, quando era incinta della sua seconda figlia. La signora di G... disse che forse avrebbe partorito un fantasma, e si mise a ridere. Forse Morfeo, continuò la marchesa, scherzando a sua volta, oppure uno dei sogni del suo corteggio, sarà il padre. Ma il colonnello rientrò, il colloquio venne interrotto, e tutto l'argomento, poiché in pochi giorni la marchesa si ristabilì, fu dimenticato.
Poco tempo dopo la famiglia, proprio nei giorni in cui si trovava in casa anche il figlio del comandante, l'ispettore forestale di G..., provò lo strano spavento di udire un domestico, entrato nella stanza, annunciare la visita del conte F... «Il conte F...!», esclamarono contemporaneamente il padre e la figlia; e lo stupore lasciò tutti senza parole. Il domestico assicurò che aveva visto e udito bene, e che il conte era già nell'anticamera, in attesa. Il comandante balzò subito in piedi, per aprirgli la porta di persona, ed egli entrò, bello come un giovane dio, un po' pallido in volto. Quando la prima scena di inconcepibile meraviglia fu trascorsa, e il conte ebbe assicurato ai genitori, che ripetevano che lui era morto, di essere proprio vivo, egli si volse, con il viso intensamente commosso, alla figlia, e le domandò, prima di ogni altra cosa, come stava. La marchesa rispose: «Benissimo!», e voleva sapere soltanto in che modo lui era tornato alla vita. Ma lui, insistendo nell'argomento, rispose che lei non gli diceva la verità; il suo volto esprimeva una strana spossatezza, e, se tutto non l'ingannava, doveva essere indisposta e sofferente. La marchesa, convinta dal calore con cui egli disse queste parole, rispose che sì, quella spossatezza, se voleva poteva essere la traccia di un malessere di cui aveva sofferto qualche settimana prima; ma non aveva più alcun timore che dovesse avere altre conseguenze. Nemmeno lui, rispose il conte empiendo di gioia; e le chiese se voleva sposarlo.
La marchesa non sapeva che cosa pensare di quella dichiarazione. Guardò, facendosi sempre più rossa, la madre, quest'ultima, con imbarazzo, guardò il marito e il figlio, mentre il conte si avvicinava alla marchesa e, prendendone la mano, come se volesse baciarla, domandò se l'aveva compreso. Il comandante disse se non voleva accomodarsi, e gli porse, con gentilezza, ma anche con una certa gravità, una sedia. La moglie del colonnello disse: «In verità, continueremo a credere che voi siate un fantasma, finché non ci avrete rivelato in che modo siete risorto dalla tomba in cui eravate deposto a P...».
Il conte sedette, lasciando la mano della marchesa, e disse che, incalzato dalle circostanze, era costretto a essere breve: ferito mortalmente al petto, era stato portato a P..., e per parecchi mesi laggiù aveva disperato di sopravvivere; per tutto quel tempo la signora marchesa era stata il suo unico pensiero, e non poteva descrivere la gioia e il dolore che aveva provato pensando a lei; alla fine, una volta ristabilito, aveva raggiunto l'armata, laggiù aveva provato la più viva inquietudine, e più volte aveva preso la penna, per aprire il suo cuore in una lettera al signor colonnello e alla signora marchesa; improvvisamente era stato inviato a Napoli con dei dispacci, e non sapeva se di là avrebbe ricevuto l'ordine di continuare per Costantinopoli, o forse avrebbe dovuto recarsi addirittura a San Pietroburgo; nel frattempo gli era impossibile vivere, senza aver chiarito un'impellente richiesta del suo cuore, e, venendo a passare per M..., non aveva potuto resistere all 'impulso di compiere qualche passo a questo scopo; in breve, era suo desiderio essere reso felice dalla mano della signora marchesa, e pregava, nel modo più deferente, più fervido e più urgente, che gli fosse data una risposta benevola.
Il comandante, dopo una lunga pausa, rispose di essere, bensì, assai lusingato dalla proposta, se, come non dubitava, era intesa seriamente. Ma, alla morte del marito, il marchese di O..., sua figlia aveva deciso di non addivenire a seconde nozze. Poiché tuttavia di recente il gesto del signor conte l'aveva a tal punto obbligata, non era impossibile che, grazie a ciò, la sua decisione subisse un cambiamento conforme ai suoi desideri nel frattempo gli chiedeva, a nome di lei, il permesso di riflettere con calma per qualche tempo.
Il conte assicurò che quella risposta benevola soddisfaceva tutte le sue speranze e che, in altre circostanze, l'avrebbe reso pienamente felice; sentiva tutta la sconvenienza di non appagarsene, e tuttavia una situazione di urgenza, sulla quale non era in grado di fornire maggiori particolari, lo spingeva a desiderare una dichiarazione più precisa; i cavalli che dovevano condurlo a Napoli erano già attaccati alla carrozza, e pregava nel modo più fervido, se alcunché in quella casa poteva parlare in suo favore - e dicendo queste parole guardò la marchesa - di non lasciarlo partire senza una benevola risposta su questo punto.
Il colonnello, un po' turbato da questo comportamento, rispose che la gratitudine che la marchesa sentiva per lui lo autorizzava, bensì, a grandi attese: ma non a così grandi; essa non si sarebbe risolta a un passo dal quale dipendeva la felicità della sua vita senza la necessaria prudenza. Era indispensabile che sua figlia, prima di dichiararsi, avesse la fortuna di conoscerlo più da vicino. Egli lo invitava, dopo la conclusione del suo viaggio di servizio, a fare ritorno a M... ed essere per qualche tempo ospite in casa sua. Se, allora, la signora marchesa avesse potuto sperare di essere felice con lui, anche il colonnello, ma non prima, avrebbe ascoltato con gioia sua figlia dare la risposta definitiva.
Il conte rispose, mentre al viso gli saliva il rossore, che per tutto il viaggio aveva previsto che i suoi desideri impazienti sarebbero andati incontro a quel destino, e tuttavia da esso si vedeva gettato nel più profondo sconforto; nella parte sfavorevole che si vedeva, in quel frangente, costretto a rappresentare, una conoscenza più approfondita non poteva essere altro che vantaggiosa; per il suo buon nome, se proprio questa qualità, di tutte la più ambigua, doveva essere presa in considerazione, credeva di potersi rendere garante; l'unica azione indegna che aveva commesso in vita sua era ignota al mondo, ed egli era già in procinto di ripararla; egli era, in una parola, uomo d'onore, e pregava di accettare l'assicurazione che questa asserzione era veritiera.
Il comandante replicò, con un leggero sorriso, sia pure privo d'ironia, di esser pronto a sottoscrivere tutte quelle dichiarazioni. Non aveva mai fatto la conoscenza di un giovane che, in così breve tempo, avesse dato prova di tante eccellenti qualità di carattere. Era quasi convinto che un breve periodo di riflessione avrebbe superato le incertezze che ancora rimanevano; ma, prima di essersi consigliato con la propria famiglia, e con quella del signor conte, non avrebbe potuto pronunciare una dichiarazione diversa da quella già data. Il conte rispose di essere libero e senza genitori. Suo zio era il generale K..., ed egli garantiva il suo consenso. Aggiunse che era proprietario di un cospicuo patrimonio, e avrebbe potuto risolversi a fare dell'Italia la sua patria. Il comandante si inchinò cortesemente, dichiarò ancora una volta la sua volontà, e lo pregò di non parlarne più, fino alla fine del suo viaggio.
Il conte, dopo una breve pausa, in cui aveva dato tutti i segni della più viva inquietudine, disse, volgendosi verso la madre, che aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare quel viaggio di servizio; i passi che aveva fatto a questo scopo presso il comandante in capo e il generale K..., suo zio, erano stati i più decisi che fosse possibile compiere; tuttavia essi avevano creduto di scuoterlo, così, da una malinconia considerata uno dei postumi della sua infermità, mentre egli da ciò si vedeva ora precipitato nella più completa disperazione.
La famiglia non sapeva che cosa rispondere a queste parole. Il conte proseguì, soffregandosi la fronte: se vi era qualche speranza di assonnarsi alla meta dei suoi desideri, avrebbe rimandato di un giorno, e magari qualcosa di più, la partenza, per fare questo tentativo. E, dicendo ciò, fissò il comandante, la marchesa e la madre. Il comandante guardava a terra, scontento, davanti a sé, e non gli rispose. Sua moglie disse: «Andate, andate, signor conte; partite pure per Napoli e, quando sarete di ritorno, concedeteci per un poco la gioia della vostra presenza; il resto verrà».
Il conte restò per un momento seduto, e sembrò riflettere a che cosa dovesse fare. Poi, alzandosi e allontanando la sedia, disse che, poiché doveva riconoscere che le speranze con le quali era entrato in quella casa erano state troppo precipitose, e la famiglia, cosa che egli non disapprovava, insisteva per conoscerlo meglio, avrebbe rispedito i suoi dispacci a Z..., al quartiere generale, perché proseguissero per altra via, e avrebbe accettato la benevola offerta di essere ospite della casa per alcune settimane. Detto questo, attese ancora un momento in piedi, con la mano appoggiata alla sedia, accanto alla parete, guardando il comandante. Il comandante rispose che gli sarebbe rincresciuto moltissimo se la passione che egli sembrava aver concepito per sua figlia avesse dovuto attirare su di lui spiacevoli conseguenze di gravità estrema: ma poiché stava a lui decidere ciò che doveva fare o non fare, mandasse pure i dispacci, e prendesse possesso delle stanze che gli erano destinate. A quelle parole si vide il conte impallidire, baciare con deferenza la mano alla madre, inchinarsi agli altri e uscire.
Quando ebbe lasciato la stanza, la famiglia non sapeva come giudicare il suo comportamento. La madre disse che non era possibile che volesse rispedire a Z... i dispacci con i quali doveva recarsi a Napoli soltanto perché non era riuscito, passando per M..., in cinque minuti di conversazione, a ottenere un sì da una signora del tutto sconosciuta. L'ispettore forestale osservò che una simile leggerezza sarebbe stata punita per lo meno con gli arresti in fortezza! E anche con la degradazione, aggiunse il comandante. Ma di questo non c'era pericolo, proseguì. Era soltanto un falso allarme; senza dubbio, prima di rispedire i dispacci, ci avrebbe ripensato. La madre, quando fu informata di quel pericolo, manifestò la più viva preoccupazione che li rispedisse davvero. La sua impulsiva volontà, tutta tesa a un solo scopo, le sembrava, disse, senz'altro capace di un simile gesto. E pregò con insistenza l'ispettore di seguirlo immediatamente, per trattenerlo da un'azione dalle così minacciose conseguenze. L'ispettore rispose che un simile passo avrebbe sortito l'effetto contrario, e non avrebbe fatto altro che rafforzarlo nella speranza di vincere con il suo stratagemma. La marchesa era della stessa opinione, e tuttavia era sicura che, senza l'intervento del fratello, avrebbe spedito immancabilmente i dispacci, perché avrebbe preferito rovinarsi, piuttosto di fare una brutta figura. Tutti convenivano che il suo comportamento era molto strano, e che sembrava avvezzo a conquistare i cuori femminili d'assalto, come le fortezze.
In quel momento il comandante notò davanti al portone la carrozza del conte, con i cavalli attaccati. Chiamò la famiglia alla finestra, e domandò con stupore a un domestico, che stava appunto entrando, se il conte fosse ancora in casa. Il domestico rispose che era da basso, nella stanza della servitù, in compagnia di un aiutante, a scrivere lettere e sigillare pacchi. Il comandante, nascondendo la sua costernazione, scese in fretta le scale con l'ispettore e chiese al conte, poiché lo vedeva sbrigare la sua corrispondenza a un tavolo poco adatto, se non voleva accomodarsi nelle sue stanze, e se non aveva altri ordini. Il conte rispose, continuando a scrivere con precipitazione, che ringraziava umilmente, ma la sua corrispondenza era terminata domandò, sigillando la lettera, che ora fosse, e augurò all'aiutante, dopo avergli consegnato l'intero plico, buon viaggio.
Il comandante, che non credeva ai suoi occhi, disse, mentre l'aiutante usciva di casa: «Signor conte! Se non avete ragioni molto importanti...».
«Decisive!», lo interruppe il conte, accompagnando l'aiutante alla carrozza e tenendogli aperto lo sportello.
«In questo caso», proseguì il comandante, «almeno per quanto riguarda i dispacci...».
«Non è possibile», rispose il conte, facendo sedere l'aiutante. «I dispacci non servirebbero a nulla a Napoli senza di me. Ci avevo pensato. Via!».
«E le lettere del suo signor zio?», gridò l'aiutante, sporgendosi dallo sportello.
«Mi troveranno», rispose il conte, «a M...».
«Via!», disse l'aiutante, e la carrozza si mosse.
A questo punto il conte F..., volgendosi verso il comandante, gli domandò se voleva avere la bontà di fargli indicare la sua stanza. Il colonnello, confuso, rispose che avrebbe avuto egli stesso l'onore; chiamò i suoi domestici e quelli del conte, perché portassero su i bagagli, e lo condusse nelle stanze destinate agli ospiti, dove si accomiatò da lui con il viso corrucciato. Il conte si cambiò; lasciò la casa, per presentarsi al governatore della piazza, e per tutto il resto della giornata non si fece più vedere in casa, ritornando soltanto poco prima di cena.
Nel frattempo la famiglia era nella più viva inquietudine. L'ispettore forestale raccontò quanto erano state recise, ad alcune osservazioni del comandante, le risposte che il conte gli aveva dato; disse che il suo comportamento aveva tutta l'apparenza di un passo ben ponderato e si chiese quali potessero essere, in nome del cielo, le ragioni di una domanda di matrimonio fatta in quel modo a briglia sciolta. Il comandante disse che non ci capiva nulla, e invitò la famiglia a non parlarne più in sua presenza. La madre guardava ogni momento dalla finestra, per vedere se non stesse ritornando, pentito della sua leggerezza e deciso a ripararla. Alla fine, quando si fece buio, si sedette accanto alla marchesa, che lavorava, tutta assorta, a un tavolino, e sembrava voler evitare la conversazione, e le domandò a mezza voce, mentre il padre camminava avanti e indietro, se sapeva come sarebbe andata a finire. La marchesa rispose, lanciando una timida occhiata al comandante, che tutto sarebbe stato risolto se suo padre fosse riuscito a indurlo a partire per Napoli.
«Per Napoli!», gridò il comandante, che aveva sentito. «Dovevo mandare a chiamare il prete? O dovevo farlo mettere agli arresti, e inviare a Napoli sotto scorta?».
«No», rispose la marchesa. «Ma pressanti e vivaci raccomandazioni fanno pure il loro effetto». E riabbassò gli occhi, un po' risentita, sul suo lavoro.
Finalmente, a notte, il conte apparve. Si aspettava soltanto, dopo i primi convenevoli, che la conversazione cadesse sull'argomento, per andare tutti insieme all'assalto e indurlo a ritirare, se era ancora possibile, il passo che aveva arrischiato. Ma invano, per tutta la cena, si attese quel momento. Evitando intenzionalmente tutto ciò che poteva condurvelo, egli intrattenne il comandante parlando di guerra e l'ispettore parlando di caccia. Quando nominò il combattimento nei pressi di P..., nel quale era stato ferito, la madre lo indusse a raccontare la storia della sua degenza, domandandogli come si era trovato in quella piccola località, e se vi aveva trovato le comodità necessarie. Allora egli raccontò numerosi particolari, interessanti perché riguardavano la sua passione per la marchesa: come, durante la malattia, lei sedesse costantemente accanto al suo letto, ed egli, nel calore della febbre, confondesse sempre la visione di lei con la visione di un cigno che aveva visto da ragazzo nella tenuta di suo zio, soprattutto l'aveva commosso un ricordo: un giorno aveva gettato del fango contro quel cigno, e l'animale si era tuffato sott'acqua, in silenzio, ed era riemerso bianco e puro dalle onde; lei nuotava sempre su onde infuocate, ed egli la chiamava Thinka, che era appunto il nome di quel cigno; ma non riusciva mai ad attrarla vicino a sé, poiché le piaceva soltanto scivolare, gonfiando le piume; e, tutto a un tratto, facendosi di brace, assicurò che l'amava in modo straordinario, riabbassò gli occhi sul piatto e tacque.
Alla fine dovettero alzarsi da tavola; e poiché il conte, rivolta qualche parola alla madre, fece subito un inchino alla compagnia e si ritirò nella sua camera, tutti gli altri restarono lì, senza sapere che cosa pensare.
Il comandante disse che bisognava lasciare le cose al loro corso. Probabilmente per quel passo egli faceva conto sui suoi parenti. Altrimenti il disonore della degradazione era inevitabile. La signora di G... domandò alla figlia che opinione si fosse fatta di lui. E se avrebbe potuto acconsentire a una qualche dichiarazione che evitasse una disgrazia.
«Mamma carissima!», rispose la marchesa. «Non è possibile. Mi rincresce che la mia riconoscenza sia messa a una così dura prova, ma la mia decisione era di non riposarmi. Non voglio mettere in gioco una seconda volta, e in modo così avventato, la mia felicità».
L'ispettore forestale osservò che, se questa era la sua ferma volontà, anche questa dichiarazione poteva giovare al conte, e che sembrava pressoché necessario fargli una dichiarazione precisa, quale si fosse. La moglie del colonnello aggiunse che, poiché quel giovane, raccomandato da tante qualità fuori dell'ordinario, aveva dichiarato di volersi stabilire in Italia, la sua proposta, a giudizio di lei, meritava qualche riguardo, e la decisione della marchesa andava messa alla prova. L'ispettore forestale, sedendosi accanto a lei, le domandò se, quanto alla persona, le piacesse.
«Mi piace, e non mi piace», rispose la marchesa, con un certo imbarazzo; e si appellò alle sensazioni degli altri.
«Se ritornasse da Napoli», disse la moglie del colonnello, «e le informazioni che noi, nel frattempo, potremmo prendere su di lui non smentissero l'impressione generale che ne hai ricevuto, quale risposta gli daresti, se ripetesse la sua domanda?».
«In questo caso», rispose la marchesa, «io... poiché il suo desiderio sembra, in verità, così forte, io questo desiderio», e nel dire così si fermò, e le brillarono gli occhi, «per la gratitudine che gli devo, l'esaudirei».
La madre, che aveva sempre desiderato che sua figlia passasse a nuove nozze, stentò a nascondere la sua gioia per quella dichiarazione, e si mise a riflettere a come trarne profitto. L'ispettore forestale, alzandosi nuovamente con inquietudine, disse che, se la marchesa pensava a una possibilità di concedergli, un giorno, la sua mano, era necessario compiere subito un passo per prevenire le conseguenze della sua azione sconsiderata. La madre era della stessa opinione e affermò che, in fin dei conti, il rischio non era poi così grande: date le eccellenti qualità che gli aveva dimostrato quella notte, quando la fortezza era stata assalita dai russi, non vi era quasi da temere che il resto della sua condotta non dovesse corrispondervi. La marchesa, con l'espressione della più viva inquietudine, guardava a terra davanti a sé.
«Potremmo magari», continuò la madre, prendendone la mano, «fargli avere una dichiarazione che tu, fino al suo ritorno da Napoli, non ti legheresti a nessun altro».
«Questa dichiarazione, mamma carissima», disse la marchesa, «posso dargliela; temo soltanto che non valga a tranquillizzarlo, e metta noi in una situazione difficile».
«A questo penso io!», replicò la madre, con viva gioia; e girò gli occhi verso il comandante. «Lorenzo», domandò, «che cosa ne pensi?». E si accinse ad alzarsi dalla sedia. Il comandante, che aveva udito tutto, in piedi accanto alla finestra, guardava la strada e non disse nulla. L'ispettore assicurò che si impegnava, con quella innocua dichiarazione, a far partire il conte.
«Ebbene, fate, fate, fate!», gridò il padre, girandosi. «È già la seconda volta che devo arrendermi a questo russo!».
A quelle parole la madre balzò in piedi, baciò lui e la figlia e domandò, mentre il padre sorrideva di quel suo affaccendarsi, come si potesse ora far pervenire immediatamente al conte la dichiarazione. Si decise, su proposta dell'ispettore forestale, di farlo pregare, se non si era ancora svestito, di avere la compiacenza di dedicare un momento alla famiglia.
Avrebbe avuto subito l'onore di comparire, fece rispondere il conte, e il servitore era appena ritornato con questa risposta che già egli stesso, con passi ai quali la gioia aveva messo le ali, entrava nella stanza e si gettava, con la più viva commozione, ai piedi della marchesa. Il comandante voleva dire qualcosa ma egli, alzandosi, disse che ne sapeva abbastanza, baciò la mano a lui e alla madre, abbracciò il fratello, e lo pregò soltanto della cortesia di aiutarlo a trovare subito una carrozza da viaggio.
La marchesa, benché commossa da quella scena, disse tuttavia: «Non vorrei, signor conte, che la vostra precipitosa speranza vi spingesse troppo oltre...».
«No, no», rispose il conte. «Nulla sarà accaduto, se le informazioni che vorrete prendere su di me smentiranno il sentimento che mi ha richiamato a voi in questa stanza».
A queste parole il comandante lo abbracciò nel modo più cordiale, l'ispettore gli offrì immediatamente la propria carrozza da viaggio, un soldato corse alla posta, a ordinare, offrendo premi, dei cavalli veloci, e quella partenza suscitò una gioia che non ha mai accompagnato alcun arrivo.
Sperava, disse il conte, di raggiungere i dispacci a B..., da cui avrebbe preso una via per Napoli più diretta di quella che passava per M...; a Napoli avrebbe fatto il possibile per evitare l'ulteriore viaggio per servizio a Costantinopoli; e, poiché, in caso estremo, si diceva deciso a darsi ammalato, assicurò che, se non l'avessero trattenuto ostacoli insormontabili, in un tempo compreso tra le quattro e le sei settimane sarebbe stato immancabilmente di ritorno a M...
In quel momento il suo attendente annunciò che i cavalli erano attaccati, e tutto era pronto per la partenza. Il conte prese il cappello, si avvicinò alla marchesa e le prese la mano.
«Adesso, Giulietta», disse, «sono un poco più tranquillo», e mise la sua mano in quella di lei. «Anche se il mio più ardente desiderio era sposavi prima della mia partenza».
«Sposarla!», esclamarono tutti i membri della famiglia.
«Sposarla!», ripeté il conte, baciò la mano alla marchesa, e assicurò, poiché lei gli chiedeva se fosse in sé, che sarebbe venuto un giorno in cui lo avrebbe compreso! La famiglia voleva adirarsi con lui; ma egli prese subito congedo da tutti con il più grande calore, la pregò di non pensare più a quanto aveva detto e partì.
Passarono alcune settimane, durante le quali la famiglia, con sentimenti molto diversi, fu tutta tesa all'esito di quella singolare vicenda. Il comandante ricevette dal generale K..., zio del conte, una cortese missiva, il conte stesso scrisse da Napoli, le informazioni assunte su di lui parlavano in suo favore: in breve, il fidanzamento era dato ormai per cosa fatta, quando le indisposizioni della marchesa ripresero, più forti di prima. La marchesa notò nella propria figura un mutamento incomprensibile. Si aperse allora alla madre, con la più completa franchezza, dicendo che non sapeva che cosa pensare del suo stato. La madre, che quel seguito di strani eventi aveva reso estremamente apprensiva per la salute della figlia, le chiese di consultare un medico. La marchesa, sperando che la sua fibra avesse la meglio, era riluttante, e aspettò ancora parecchi giorni senza seguire il consiglio della madre, tra sofferenze sempre più fastidiose: finché alcune sensazioni sempre ripetute, di tipo assai singolare, la precipitarono nella più viva inquietudine.
Fece chiamare un medico che godeva della fiducia di suo padre, lo invitò, in un momento in cui sua madre era assente, a prendere posto sul divano, e gli confidò, dopo un breve preambolo, scherzosamente, che cosa pensava del suo stato. Il medico le gettò un'occhiata indagatrice; tacque, dopo aver portato a termine una visita accurata, ancora per un po', e infine rispose serissimo in volto, che la signora marchesa aveva perfettamente ragione. Quando lei ebbe domandato che cosa intendesse dire con quelle parole, e il medico si fu spiegato in modo del tutto esplicito, aggiungendo, con un sorriso che non poté reprimere, che era sanissima e non aveva nessun bisogno di un dottore, la marchesa suonò, guardandolo severamente, il campanello, e lo pregò di andarsene. E aggiunse a mezza voce, come se non fosse degno che lei gli rivolgesse la parola, mormorando, con il capo chino davanti a sé, che non aveva alcuna intenzione di scherzare con lui su simili argomenti.
Il dottore rispose, offeso, che non poteva che augurare di essere sempre stata così poco disposta allo scherzo come in quel momento; prese il bastone e il cappello e fece l'atto di accomiatarsi. La marchesa assicurò che avrebbe informato il padre di quelle offese. Il medico rispose che avrebbe potuto ripetere il suo responso in tribunale sotto giuramento, aperse la porta, si inchinò e fece per uscire dalla stanza. La marchesa mentre egli raccoglieva da terra un guanto che aveva lasciato cadere, domandò: «Ma come è possibile, dottore?». Il medico replicò che non c'era bisogno che lui le spiegasse le ragioni ultime delle cose, si inchinò ancora una volta e se ne andò.
La marchesa rimase in piedi, come colpita dal fulmine. Si fece forza, e voleva correre da suo padre; ma la strana serietà dell'uomo dal quale si era vista offesa le paralizzava le membra. Nella più grande agitazione, si lasciò cadere sul divano. Percorse, diffidando di se stessa, tutti i momenti dell'anno passato, e si credette pazza, quando pensò all'ultimo. Alla fine comparve sua madre, e le domandò costernata che cosa la rendesse tanto inquieta; la figlia le raccontò quanto il medico le aveva appena rivelato.
La signora di G... gli diede dello svergognato e dell'infame e incoraggiò la figlia nella decisione di riferire al padre quell'offesa. La marchesa assicurò che era stato serissimo, e che sembrava deciso a ripetere la sua folle affermazione in faccia al padre. La signora di G..., non poco spaventata, le domandò se non credeva alla possibilità di un simile stato.
«Piuttosto», rispose la marchesa, «crederei che possa essere fecondata una tomba, e che una nascita si sviluppi nel grembo di un cadavere!».
«Allora, mia cara e stravagante creatura», disse la moglie del colonnello, stringendola forte a sé, «che cosa ti angustia? Se la tua coscienza ti assolve, che cosa ti può importare di un responso, anche se fosse di un'intera consulta di medici ? Se il suo sia stato il frutto di errore o di cattiveria, non è per te del tutto indifferente? Comunque, è opportuno dire tutto a tuo padre».
«Oh, Dio!», disse la marchesa, con un movimento convulso. «Come posso mettermi l'anima in pace? Non ho forse contro di me la mia propria sensazione interna, che mi è anche troppo nota? Se sapessi che un'altra donna ha le mie stesse sensazioni non giudicherei io stessa che le cose stanno proprio così?».
«È orribile», rispose la moglie del colonnello.
«Cattiveria! Errore!», proseguì la marchesa. «Quali motivi può avere quell'uomo, che fino a oggi ci è apparso degno di stima, per offendermi in modo così indegno, e di proposito? Me, che non gli ho mai fatto nulla? Che l'ho accolto con fiducia, e mi preparavo a testimoniargli la mia gratitudine? Lui che si presentò a me, come dimostravano le sue prime parole, con l'intenzione più schietta e sincera di aiutarmi, e non di suscitare dolori più atroci di quelli che provavo? E se, dovendo scegliere a ogni costo», proseguì, mentre la madre la guardava impassibile, «volessi credere a un errore: è forse possibile che un medico, fosse pure di capacità mediocre, sbagli in un caso simile?».
«Eppure», disse la moglie del colonnello, con voce tagliente, «deve essere per forza o una cosa o l'altra».
«Sì», riprese la marchesa, «madre mia carissima». E, con l'espressione della dignità offesa, facendosi tutta rossa in volto, le baciò la mano. «Deve esserlo! Benché le circostanze siano così straordinarie che mi è lecito dubitarne. Giuro, poiché c'è pur bisogno di un'assicurazione, che la mia coscienza è come quella dei miei bambini; più illibata non può essere la vostra, madre mia venerata. E tuttavia vi prego di mandare a chiamare una levatrice, perché mi convinca di come stanno le cose, e allora, comunque stiano, mi metta l'anima in pace».
«Una levatrice!», esclamò la signora di G... con indignazione. «La coscienza illibata e la levatrice!». E le mancò la parola.
«Una levatrice, madre carissima», ripeté la marchesa, mettendosi in ginocchio davanti a lei; «e sul momento, se no divento pazza».
«Oh, molto volentieri», ribatté la moglie del colonnello; «ti prego soltanto di non sgravare in casa mia». E con queste parole si alzò e fece per lasciare la stanza. La marchesa la seguì a braccia aperte, cadde, prostrando il viso al suolo, e le strinse le ginocchia.
«Se una vita senza macchia», gridò, con l'eloquenza del dolore, «una vita condotta secondo il vostro modello, mi dà qualche diritto alla vostra stima; se anche soltanto un sentimento materno parla per me, finché la mia colpa non sia lampante alla luce del sole, nel vostro petto, non abbandonatemi in questi orribili momenti!».
«Che cos'è che ti angustia?», domandò la madre. «Proprio nient'altro che il responso del medico? Nient'altro che la tua sensazione interna?».
«Nient'altro, madre mia», rispose la marchesa, ponendosi una mano sul petto.
«Niente, Giulietta?», proseguì la madre. «Pensavi. Un tuo sbaglio, che pure mi addolorerebbe immensamente, si potrebbe, e alla fine dovrei per forza, perdonarlo; ma se tu, per sfuggire al rimprovero materno, giungessi al punto di inventare la favola di uno sconvolgimento dell'ordine universale, e di accumulare giuramenti sacrileghi per imporla al mio cuore, anche troppo disposto a crederti, questa sarebbe un'infamia, e non potrei volerti bene mai più».
«Possa il regno della redenzione essere un giorno così aperto davanti a me, come lo è la mia anima davanti a voi», gridò la marchesa. «Non vi ho taciuto nulla, mamma».
Queste parole, dette con tanta passione, scossero la madre.
«O cielo!», esclamò. «Bambina adorata, che pena mi fai!». E la tirò su, la baciò, e se la strinse al petto. «Ma di che cosa hai paura, insomma? Vieni, tu stai molto male».
E voleva metterla a letto. Ma la marchesa, che non riusciva a trattenere le lacrime, assicurò che era sanissima, e non provava alcun malessere, se non quello stato singolare e inspiegabile.
«Stato!», gridò di nuovo la madre. «Quale stato? Se la tua memoria è così sicura del passato, che follia, che paura ti ha presa? Una sensazione interna, che si fa sentire solo in modo indistinto, non può forse trarre in inganno?».
«No, no!», disse la marchesa. «Non mi inganna! E se farete chiamare la levatrice, sentirete che questa cosa orribile, che mi annienta, è la verità».
«Vieni, figlia mia cara», disse la signora di G. ., che cominciava a nutrire timori per il suo stato mentale. «Vieni, vieni con me, e mettiti a letto. Cosa dicevi che ti ha detto il dottore?
Come scotta la tua faccia! Come tremi in tutto il corpo. Che cos'era già che ti ha detto il dottore?». E, nel dir così, conduceva con sé la marchesa, non credendo più, ormai, a tutta la scena che le aveva raccontato.
«Cara, eccellente madre!», diceva la marchesa, sorridendo con gli occhi pieni di lacrime. «Non sono fuori di me. Il dottore mi ha detto che sono in stato interessante. Fate chiamare la levatrice, e appena avrà detto che non è vero, mi calmerò».
«Bene, bene!», rispose la moglie del colonnello, reprimendo la sua angoscia. «Verrà subito; arriverà subito, se proprio vuoi che rida di te, e ti dica che sogni, che non ci stai con la testa». E così dicendo suonò il campanello e mandò sui due piedi un domestico a chiamare la levatrice.
La marchesa era ancora distesa, con il petto ansante per l'inquietudine, fra le braccia della madre, quando arrivò la donna e la moglie del colonnello le confidò a causa di quali strane fantasie sua figlia fosse a letto malata. La signora marchesa giurava di essersi comportata virtuosamente, eppure, tratta in inganno da una sensazione incomprensibile, riteneva necessario che una donna esperta controllasse il suo stato. La levatrice, mentre la andava esaminando, parlò di sangue giovane e della perfidia del mondo; spiegò, quando ebbe finito, che di casi simili gliene erano già capitati; le giovani vedove che si venivano a trovare nelle sue condizioni dicevano tutte di essere vissute su un'isola deserta; e intanto tranquillizzava la signora marchesa, assicurandola che l'allegro corsaro approdato nottetempo prima o poi si sarebbe trovato.
A queste parole la marchesa svenne. La moglie del colonnello, che non poté reprimere il suo sentimento materno, la richiamò bensì, con l'aiuto della levatrice, alla vita; ma, quando
si fu ridestata, l'indignazione vinse.
«Giulietta», gridò la madre con il più profondo dolore, «vuoi aprirti a me, vuoi dirmi il nome del padre?». E sembrava ancora propensa al perdono. Ma quando la marchesa disse che sarebbe diventata pazza, la madre alzandosi dal divano disse: «Vattene! Vattene! Sei un'indegna! Maledetta sia l'ora che ti ho messo al mondo!». E lasciò la stanza.
La marchesa, alla quale parve di nuovo svanire la luce del giorno, attirò a sé la levatrice e, tremando con violenza, appoggiò il capo sul suo petto. Con la voce rotta, le domandò come procedesse la natura per le sue vie, e se vi fosse la possibilità di concepire senza saperlo.
La levatrice sorrise, la liberò del fazzoletto e disse che quello non era certo il caso della signora marchesa. No, no, rispose la marchesa, non aveva concepito senza saperlo; voleva solo sapere, così, in generale, se un simile evento può avvenire in natura. La levatrice rispose che questo, all'infuori che alla santa Vergine, non era mai successo a nessuna donna sulla terra.
La marchesa tremava sempre più violentemente. Credeva di doversi sgravare di momento in momento e pregava la levatrice, stringendosi a lei con angoscia convulsa, di non abbandonarla. La levatrice la tranquillizzò. L'assicurò che il momento del parto era ancora lontano, le consigliò i mezzi con i quali, in simili casi, si può sfuggire alla maldicenza del mondo e disse che tutto sarebbe finito bene. Ma poiché quelle ragioni di consolazione erano altrettante stilettate al cuore dell'infelice marchesa, essa si fece forza, disse che si sentiva meglio e pregò la donna di allontanarsi.
La levatrice era appena uscita della stanza, quando alla marchesa fu recato un biglietto della madre, nella quale essa si esprimeva così: «Il signor di G... desiderava, nelle attuali circostanze, che lei abbandonasse la sua casa, le inviava, acclusi, i documenti riguardanti il suo patrimonio, e sperava che Dio gli risparmiasse la sventura di rivederla». La lettera era bagnata di lacrime, e in un angolo c'era una parola cancellata: «dettata».
Il dolore proruppe dagli occhi della marchesa. Corse, singhizzando per l'errore dei genitori e per l'ingiustitia che quelle persone eccellenti erano indotte a commettere, nelle stanze della madre. Le dissero che era dal padre. Vacillando, raggiunse le stanze del padre. E, quando trovò le porte chiuse a chiave, vi si accasciò davanti, invocando, con voce piangente, tutti i santi a testimoni della propria innocenza.
Poteva essere rimasta là alcuni minuti, quando l'ispettore forestale uscì e le disse, con il viso in fiamme, che aveva sentito che il comandante non voleva vederla! La marchesa gridò singhiozzando: «Fratello mio caro!», si spinse nella stanza e gridò: «Padre carissimo!», tendendo le braccia verso di lui.
Il comandante, non appena la vide, le volse la schiena e corse nella camera da letto. «Via!», urlò, quando lei lo seguì, e cercò di sbatterle le porte in faccia; ma poiché lei, piangendo e supplicando, gli impedì di chiuderle, di colpo cedette e corse, mentre la marchesa entrava dietro di lui, verso la parete di fondo. La marchesa si gettò ai piedi del padre, che le aveva voltato la schiena, e gli abbracciò le ginocchia tremando; ma in quell'attimo una pistola, che egli aveva afferrato, nel momento in cui la strappava dalla parete sparò, e la palla si conficcò nel soffitto con fracasso.
«Signore Iddio!», esclamò la marchesa. Si levò dalle ginocchia, pallida come un cadavere, e lasciò a passi rapidi le stanze di suo padre.
«Fate attaccare immediatamente», disse, rientrando nelle sue stanze; sedette, mortalmente sfinita, in una poltrona, vestì rapidamente i bambini e ordinò di fare i bagagli. Teneva per l'appunto fra le ginocchia la più piccola, e stava avvolgendola in uno scialle, preparandosi, ora che tutto era pronto per la partenza, a montare in carrozza, quando entrò l'ispettore forestale, che le chiese, per ordine del comandante, di lasciare la casa e consegnargli i bambini. «Questi bambini?», domandò lei, e si alzò. «Di' al tuo inumano padre che può venire qui a uccidermi, ma non strapparmi i miei figli!». E, armata di tutto l'orgoglio dell'innocenza, prese in braccio i bambini, li portò, senza che il fratello osasse fermarla, nella carrozza, e partì.
Rivelatasi, attraverso questa bella prova di energia, a se stessa, si sollevò tutto a un tratto, come per propria mano, dall'abisso nel quale l'aveva precipitata il destino. Il tumulto che le lacerava il petto si placò. Quando fu all'aria libera, baciò più volte i bambini, le sue care prede, e ripensò, con grande soddisfazione, a quale vittoria la forza della sua immacolata coscienza avesse riportato sul fratello. Il suo intelletto, abbastanza forte per non spezzarsi in quella singolare situazione, si diede interamente per vinto di fronte al grande, santo e inspiegabile ordine dell'universo. Vide l'impossibilità di persuadere la famiglia della propria innocenza, comprese che doveva rassegnarsi, se non voleva perire, e pochi giorni soltanto erano trascorsi dal suo arrivo a V... che il suo dolore cedeva di fronte all'eroico proposito di armarsi di orgoglio contro gli attacchi del mondo.
Decise di ritirarsi del tutto in se stessa, dedicarsi con zelo esclusivo all'educazione dei suoi due figli, e curare con tutto il suo amore materno il dono che Dio le aveva fatto di un terzo. Si preparò a rimettere in ordine in poche settimane, non appena si fosse rimessa dal parto, la sua bella casa di campagna, un po' decaduta per la lunga assenza. Sedeva nel giardino, sotto la pergola, pensando, mentre lavorava a maglia piccole cuffie e calzette per piccole gambe, a come avrebbe diviso le stanze, a dove avrebbe collocato la libreria, e in quale stanza sarebbe stato meglio il cavalletto. E il giorno in cui il conte F... avrebbe dovuto fare ritorno da Napoli non era ancora trascorso, che già ella si era del tutto abituata al pensiero di vivere in un perpetuo ritiro monacale. Il portiere ricevette l'ordine di non ammettere in casa nessuno.
Le era soltanto intollerabile il pensiero che il piccolo essere da lei concepito nella più grande innocenza e purezza, e la cui origine, proprio perché più misteriosa, sembrava anche più divina di quella degli altri uomini, dovesse essere segnato, nella società civile, da una macchia di vergogna. Uno strano mezzo le era venuto in mente per scoprire il padre: un mezzo che, quando ci pensò per la prima volta, le fece cadere di mano il lavoro a maglia per lo spavento. Per notti intere, vegliate senza chiudere occhio nell'inquietudine, lo girò e lo rigirò nella mente, per abituarsi alla sua strana natura, che offendeva i suoi più intimi sentimenti. Continuava a rifiutare l'idea di entrare con l'uomo che aveva carpito a quel modo la sua buona fede in un rapporto qualsiasi, poiché riteneva, molto giustamente, che dovesse necessariamente appartenere, senza remissione, alla feccia della sua specie e che, in qualunque posizione sociale lo si fosse voluto immaginare, non potesse essere nato che dal fango più calpestato e immondo. Ma poiché si faceva sempre più vivo dentro di lei il sentimento della sua autonomia, ed ella rifletteva che la gemma conserva il suo valore in qualunque modo sia incastonata, un mattino in cui la giovane vita tornava a muoversi dentro di lei prese il coraggio a due mani e fece inserire nelle gazzette di M... lo strano invito che si è letto all'inizio di questo racconto.
Il conte di F..., trattenuto a Napoli da incarichi ai quali non poteva sottrarsi, aveva nel frattempo scritto per la seconda volta alla marchesa, invitandola, qualunque circostanza estranea potesse sopravvenire, a restare fedele alla tacita dichiarazione che gli aveva fatto. Non appena gli riuscì di declinare l'ulteriore viaggio di servizio a Costantinopoli, e i rimanenti impegni glielo permisero, eglì partì immediatamente da Napoli e arrivò puntualmente a M..., con pochi giorni di ritardo sul termine fissato. Il comandante lo ricevette con un'espressione imbarazzata sul volto, gli disse che una questione urgente lo costringeva ad assentarsi e invitò l'ispettore forestale a intrattenerlo.
L'ispettore lo condusse nella sua stanza e gli domandò, dopo un breve saluto, se già sapesse ciò che era successo, durante la sua assenza, in casa del comandante. Il conte, per un attimo, si fece pallido, e rispose di no. L'ispettore lo mise allora al corrente della vergogna di cui la marchesa aveva ricoperto la famiglia, e gli raccontò tutta la storia che i nostri lettori conoscono.
Il conte si batté la mano sulla fronte «Perché mi si opposero tanti ostacoli!», esclamò, dimentico di se stesso. «Se il matrimonio fosse avvenuto, ogni vergogna, ogni sventura ci sarebbe stata risparmiata!».
L'ispettore, guardandolo con gli occhi spalancati, gli domandò se fosse così pazzo da desiderare di essere maritato a quella donna indegna. Il conte rispose che lei valeva più di tutto il mondo che la disprezzava, che nella sua dichiarazione di innocenza aveva piena fiducia e che quel giorno stesso si sarebbe recato a V..., per ripetere davanti a lei la sua domanda. E immediatamente afferrò il cappello, si raccomandò all'ispettore, che lo reputava del tutto uscito di senno, e se ne andò.
Saltò su un cavallo e partì al galoppo per V... Quando, sceso di sella al portone, fece per entrare nel cortile, il custode gli disse che la signora marchesa non riceveva nessuno. Il conte domandò se tale disposizione, data per gli estranei, valesse anche per un amico di famiglia, ma questi rispose di non essere a conoscenza di eccezione alcuna, e subito dopo aggiunse, con un'espressione ambigua: egli non era, per caso, il conte F...? Il conte, dopo avergli lanciato un'occhiata indagatrice, rispose di no e, voltandosi verso il proprio domestico, ma in modo che il portiere potesse udire, dichiarò che, in tal caso, sarebbe sceso a una locanda, annunciandosi poi per iscritto alla signora marchesa.
Ma, non appena uscì dalla vista del custode, girò l'angolo e cominciò a rasentare cautamente il muro di un ampio giardino che si stendeva dietro la casa. Per una porticina, che trovò aperta, entrò nel giardino, seguì il viottolo fino in fondo, ed era sul punto di salire dalla scala posteriore, quando, sotto una pergola laterale, vide la marchesa, con la sua dolce e misteriosa figura, seduta a un tavolinetto e tutta assorta nel suo lavoro a maglia.
Il conte le si avvicinò, in modo che non potesse scorgerlo fino a quando non fosse giunto davanti alla pergola, a tre piccoli passi dai suoi piedi. «Il conte F...!», disse la marchesa alzando gli occhi, e il rossore della sorpresa le si sparse sul viso. Il conte sorrise, e per un po' restò in piedi senza muoversi; poi, con indiscrezione tanto umile quanto era necessario per non spaventarla, si sedette accanto a lei e, prima ancora che la marchesa, nella singolare circostanza in cui si trovava, avesse preso una decisione, ne cinse dolcemente con il braccio il corpo amato.
«Da dove, signor conte... È mai possibile...», domandò la marchesa, guardando timidamente al suolo davanti a sé. «Da M...», disse il conte, e la premette contro di sé appena appena; «attraverso una porticina che ho trovato aperta. Ho creduto di poter contare sul vostro perdono, e sono entrato».
«E non vi hanno detto a M...?», domandò lei, ancora immobile tra le sue braccia.
«Tutto, donna adorata», rispose il conte. «Ma pienamente convinto della vostra innocenza...».
«Come!», gridò la marchesa, balzando in piedi e sciogliendosi da lui. «E venite lo stesso?».
«A dispetto del mondo», proseguì egli, trattenendola, «a dispetto della vostra famiglia, e perfino a dispetto di questa dolce creatura», e nel dir così le impresse un ardente bacio sul petto.
«Andate via!», gridò la marchesa.
«Così convinto, Giulietta, come se fossi onnisciente, come se la mia anima abitasse nel tuo petto...».
«Lasciatemi!», gridò la marchesa.
«Vengo», concluse lui senza lasciarla, «a ripetere la mia domanda, e a ricevere dalle vostre mani, se vorrete esaudirmi, il paradiso dei beati».
«Lasciatemi immediatamente!», gridò la marchesa. «Ve lo ordino!». E strappatasi con forza dalle sue braccia, scappò via.
«Adorata! Meravigliosa creatura!», sussurrò lui, alzandosi e andandole dietro. «Non avete sentito?», gridò la marchesa; e voltandosi, gli sfuggì.
«Una parola, una sola, sussurrata in segreto... !», disse il conte, cercando precipitosamente di afferrare il braccio levigato che scivolava via.
«Non voglio sapere nulla», ribatté la marchesa, lo spinse via con violenza, con un colpo sul petto, corse su per la scala e sparì.
Egli era già a metà della rampa, deciso a ottenere ascolto a qualunque costo, quando la porta che aveva davanti sbatté e il catenaccio, tirato con violenza da una fretta angosciosa, stridette sbarrandogli il passo. Indeciso, per un momento, su ciò che dovesse fare in quella circostanza, restò immobile, riflettendo se arrampicarsi da una finestra laterale, che era rimasta aperta, e perseguire il suo scopo finché non l'avesse raggiunto; ma, per quanto penoso gli fosse, da ogni punto di vista, tirarsi indietro, per quella volta la necessità sembrava richiederlo, e, amaramente indispettito con se stesso per essersela lasciata sfuggire via dalle braccia, scese lentamente la scala, uscì dal giardino e andò in cerca dei suoi cavalli. Sentiva che il tentativo di spiegarsi a tu per tu era fallito per sempre e, meditando la lettera che era ormai condannato a scrivere, ripercorse, al passo, tutta la strada fino a M...
La sera, mentre sedeva a mensa in una locanda, nello stato d'animo più nero che si potesse immaginare, incontrò l'ispettore forestale, che immediatamente gli chiese se a V... avesse felicemente presentato la sua domanda. Il conte rispose brevemente: «No», e aveva una gran voglia di liquidarlo con una frase tagliente; ma, per non essere troppo scortese, aggiunse, dopo una pausa, che aveva deciso di rivolgersi a lei per iscritto, e in breve tempo tutto sarebbe stato chiarito. L'ispettore disse di vedere con profondo rammarico come la passione per la marchesa lo privasse della ragione. Si sentiva, tuttavia, in dovere di avvertirlo che lei era ormai sul punto di fare una scelta diversa; suonò, si fece portare i giornali recenti, e gli porse il foglio in cui la marchesa aveva fatto pubblicare l'annuncio al padre del suo bambino. Il conte scorse, mentre il sangue gli affluiva al volto, lo scritto. Un susseguirsi di sentimenti lo attraversava. L'ispettore gli domandò se credeva che la persona ricercata dalla signora marchesa si sarebbe trovata.
«Senza dubbio», rispose il conte, chino con tutta l'anima sul giornale, di cui beveva avidamente il senso.
Poi, dopo essersi avvicinato per un momento alla finestra, ripiegando il foglio disse: «Ora è tutto chiaro. Ora so quel che debbo fare». Si voltò di colpo, domandò ancora, con studiata cortesia, all'ispettore forestale se lo si sarebbe potuto rivedere presto, porse i suoi rispetti e, pienamente riconciliato con il suo destino, si allontanò.
Nel frattempo in casa del comandante erano avvenute le scene più burrascose. La moglie del colonnello era al massimo grado amareggiata per la distruttiva violenza del suo consorte e per la debolezza con la quale lei stessa si era lasciata soggiogare nel tirannico ripudio della figlia. Quando, nella camera da letto del comandante, era echeggiato lo sparo, e la figlia ne era uscita a precipizio, lei aveva perso conoscenza. A dire il vero, si era presto riavuta; ma, nel momento in cui riapriva gli occhi, il comandante non aveva detto altro se non che gli dispiaceva che lei si fosse spaventata inutilmente, e aveva gettato sul tavolo la pistola scarica. Più tardi, quando si parlò di farsi consegnare i bambini, lei osò dichiarare timidamente che non si aveva diritto di compiere un passo simile, e pregò, con voce che il recente svenimento rendeva debole e commovente, di evitare scene violente in casa; ma il comandante non aggiunse altro se non voltandosi verso l'ispettore forestale con la bocca schiumante di rabbia: «Vai, e portarmeli qui!».
Quando era giunta la seconda lettera del conte F..., il comandante aveva ordinato di mandarla a V... alla marchesa, la quale, come si venne poi a sapere dall'incaricato, l'aveva messa da parte dicendo: «Va bene così». La moglie del colonnello, per la quale in tutta la vicenda tante cose erano oscure, e soprattutto la disponibilità della marchesa ad acconsentire a un nuovo matrimonio a lei del tutto indifferente, cercava invano di portare il discorso su questa circostanza. Ma il comandante la pregava sempre, in un modo che assomigliava a un ordine, di tacere; e una volta, in una di quelle occasioni, l'assicurò, staccando dalla parete un ritratto della figlia che ancora ne pendeva, che egli cercava di cancellarla del tutto dalla sua memoria. «Non ho più una figlia», affermò.
Poco tempo dopo apparve sui giornali lo strano appello della marchesa. La moglie del colonnello, che ne era stata colpita nel modo più vivo, si recò con il foglio, che aveva ricevuto dal comandante, nella stanza di lui, lo trovò al suo tavolo che lavorava, e gli domandò che cosa pensasse di tutto ciò.
«Oh, è innocente», disse il comandante, continuando a scrivere.
«Come?», gridò la signora di G..., al colmo dello sbalordimento. «Innocente?».
«L'ha fatto nel sonno», disse il comandante, senza alzare gli occhi.
«Nel sonno!», continuò la signora di G... «E un caso così enorme sarebbe ...?».
«Ingenua!», gridò il comandante, ammucchiò le carte e se ne andò.
Il giorno in cui uscì il numero successivo della gazzetta, la moglie del colonnello, mentre faceva colazione con il marito, lesse in un foglio che veniva allora allora dalla stamperia, umido d'inchiostro, la risposta che segue:

«Se la signora marchesa di O... il giorno 3 di ..., alle undici del mattino, vorrà trovarsi in casa del signor di G..., suo padre, colui che ella cerca verrà a gettarsi ai suoi piedi».

Prima ancora di essere giunta a metà dell'inaudita inserzione, alla moglie del colonnello venne a mancare la parola; scorse a volo l'ultima parte e porse il foglio al comandante. Il comandante lo lesse tre volte da cima a fondo, come se non si fidasse dei propri occhi.
«Lorenzo, dimmi, per l'amor del cielo», gridò la moglie del colonnello, «che cosa ne pensi?».
«Oh, la svergognata!», rispose il comandante, alzandosi in piedi. «Oh, la furba, l'ipocrita! Dieci volte la spudoratezza di una cagna e dieci volte l'astuzia di una volpe non arrivano alla sua! Con quella faccia compunta! Con quegli occhi! Un cherubino non li ha più fidati!». E si disperava, senza riuscire a calmarsi.
«Ma in nome del cielo», domandò sua moglie, «se è un'astuzia, quale può essere il suo scopo?».
«Qual è il suo scopo? Il suo ignobile inganno vuole imporcelo a viva forza!», rispose il colonnello. «La sanno già a memoria, la favoletta che quei due, lei e lui, pretendono di darci a bere alle undici di mattina del giorno 3. Cara figliola, dovrei dire, non lo sapevo, chi poteva immaginarlo, perdonami, accetta la mia benedizione e non avercela con me. Una pallottola a chi varcherà la mia soglia, la mattina del giorno 3! O meglio ancora, per la decenza, farlo cacciare fuori di casa dai domestici!».
La signora di G... disse, dopo aver letto ancora una volta il foglio di giornale, che se di due cose incomprensibili doveva per forza crederne una, preferiva credere a un inaudito gioco del destino, piuttosto che a una simile bassezza da parte di sua figlia, che era sempre stata una creatura eccellente. Ma ancor prima che finisse di parlare il comandante gridò di nuovo: «Fammi il piacere di star zitta!». E lasciò la stanza. «Mi è odioso anche soltanto sentirne parlare».
Pochi giorni dopo, il comandante ricevette, in riferimento all'annuncio pubblicato sul giornale, una lettera della marchesa, nella quale lei, poiché le era negata la grazia di metter piede in casa sua, lo pregava con parole rispettose e toccanti di avere la compiacenza di inviare da lei a V... la persona che fosse comparsa la mattina del 3, in casa sua. La moglie del colonnello era presente quando il comandante ricevette questa lettera; e, poiché gli lesse chiaramente in viso la confusione dei suoi sentimenti (se, infatti, si tratta, di un inganno, quale scopo poteva ormai attribuirgli, dal momento che lei non sembrava avanzare alcuna pretesa al suo perdono?), prendendo ardire da quella circostanza tirò fuori un progetto che stava covando già da parecchio tempo, nel suo animo agitato dai dubbi. Mentre il colonnello continuava a guardare il foglio con un'espressione dalla quale nulla trapelava, disse che le era venuta un'idea. Voleva darle il permesso di recarsi a V... per un giorno o due? Se davvero la marchesa conosceva già la persona che le aveva risposto attraverso i giornali come uno sconosciuto, ella avrebbe saputo metterla in una situazione tale, da costringerla a tradirsi e a rivelarsi, anche se fosse stata la più consumata delle traditrici.
Il comandante rispose, mentre, con un movimento improvviso e violento, strappava la lettera, che sapeva come lui non volesse aver nulla a che fare con lei, e le vietò di avere con la figlia qualsiasi tipo di contatto. Sigillò in una busta i pezzi strappati, vi scrisse sopra l'indirizzo della marchesa, e la diede a un corriere per riconsegnarla, come tutta risposta.
La signora, segretamente amareggiata da quella caparbia ostinazione, che mandava a monte ogni possibilità di chiarimento, decise allora di mettere in atto il suo progetto anche contro la volontà del marito. Prese con sé uno degli attendenti del comandante e il mattino seguente, quando egli era ancora a letto, partì con lui per V...
Quando fu giunta al portone della casa di campagna, il custode le disse che nessuno poteva entrare dalla signora marchesa. La signora di G... rispose che era informata di quella disposizione, e tuttavia lo pregava di andare subito ad annunciare la signora di G... Ma l'uomo rispose che era inutile, perché la signora marchesa non riceveva assolutamente nessuno. La signora di G... rispose che lei l'avrebbe ricevuta, poiché era sua madre: non perdesse altro tempo, e facesse quello che doveva!
Ma il portiere era appena entrato in casa per fare quel tentativo, il quale, diceva, sarebbe stato del tutto inutile, quando si vide la marchesa uscirne, correre al portone e cadere in ginocchio davanti alla carrozza della moglie del colonnello. La signora di G... ne scese, aiutata dall'attendente e, con una certa commozione, fece alzare da terra la marchesa. La marchesa, sopraffatta dai suoi sentimenti, si piegò, premette forte contro di sé la mano di lei e la condusse con deferenza, mentre le sgorgavano copiose lacrime, nelle stanze della casa.
«Mamma mia carissima!», esclamò, dopo averle indicato il divano, ma restando ancora in piedi di fronte a lei, e asciugadosi le lacrime. «A quale caso felice debbo la vostra presenza per me inestimabile?».
La signora di G..., prendendo la mano della figlia con confidenza, le disse che veniva soltanto per chiederle perdono della durezza con la quale era stata scacciata dalla casa paterna.
«Perdono!», la interruppe la marchesa, e voleva baciarle la mano. Ma la madre, impedendo quel gesto, continuò:
«Perché, non soltanto la risposta recentemente pubblicata dalle gazzette all'appello che sappiamo ha restituito, sia a me che a tuo padre, la convinzione della tua innocenza; ma devo anche rivelarti che lui stesso, con nostro grande e lieto stupore, si è presentato ieri in casa nostra».
«Chi si è...?», domandò la marchesa, sedendosi accanto alla madre. «Lui stesso chi? Chi si è presentato...?», e l'attesa le contraeva ogni lineamento del viso.
«Lui», continuò la signora di G..., «l'autore di quella risposta, proprio lui in persona, l'uomo al quale era rivolto il tuo appello».
«Ma insomma», disse la marchesa, mentre il suo petto ansimava per l'agitazione, «chi è? Ancora una volta: chi è?».
«Questo», replicò la signora di G..., «vorrei lasciartelo indovinare. Pensa un po' che ieri, mentre stavamo prendendo il tè, e stavamo per l'appunto leggendo quello strano annuncio sul giornale, una persona che conosciamo benissimo si precipita con gesti di disperazione, nella stanza, e si getta ai piedi di tuo padre, e subito dopo ai miei. Noi, non sapendo che cosa pensare, lo invitiamo a parlare. E allora lui dice che la sua coscienza non gli dà pace, che è lui l'infame che ha approfittato della signora marchesa; vuole sapere come verrà giudicato il suo delitto, e, se dovrà pagarne il fio, viene spontaneamente a subire il castigo».
«Ma chi? Chi? Chi?», interruppe la marchesa.
«Come ho detto», proseguì la signora di G..., «un giovane altrimenti ben educato, al quale mai e poi mai avremmo pensato di attribuire una simile azione indegna. Ma non devi spaventarti, figlia mia, se verrai a sapere che è di bassa condizione privo di tutti i requisiti che altrimenti si richiederebbero all'uomo che deve sposarti».
«Non importa, mia eccellente madre», disse la marchesa; «non può essere del tutto indegno, dal momento che è andato a gettarsi ai vostri piedi, prima che ai miei. Ma chi? Chi? Ditemi soltanto: chi?».
«Ebbene», disse la madre, «è Leopardo, l'attendente che tuo padre si è fatto recentemente assegnare dal Tirolo, e che io, se l'hai visto, ho già portato qui con me, per presentartelo come sposo».
«Leopardo, l'attendente!», gridò la marchesa, e, con la disperazione dipinta sul volto si premette la mano sulla fronte.
«Che cosa ti spaventa?». domandò la moglie del colonnello. «Hai motivi per dubitarne?».
«Ma come? Dove? Quando?», domandò la marchesa, confusa.
«Questo», rispose lei, «vuole confidarlo soltanto a te. Vergogna e amore, ha detto gli hanno reso impossibile rivelarlo ad altri, all'infuori di te. Ma, se vuoi, apriamo l'anticamera, dove egli, con il cuore in tumulto, attende l'esito di questo colloquio, e vedrai se riuscirai a fargli rivelare il suo segreto, mentre io mi allontanerò».
«Signore Iddio!», gridò la marchesa. «Un giorno, nell'afa del mezzodì, mi ero assopita, e svegliandomi lo vidi allontanarsi dal mio divano!». E dicendo questo si coprì con le piccole mani il viso che avvampava di vergogna.
A queste parole la madre cadde in ginocchio davanti a lei.
«Oh, figlia mia!», gridò. «Oh, figlia eccellente!», e la cingeva con le braccia. «Oh, io indegna!», e le nascose in grembo il viso.
«Mamma, che avete?», domandò la marchesa, sconvolta.
«Sappi», continuò lei, «sappi, tu, più pura di un angelo, che di tutto quel che ti ho detto non è vero nulla; che la mia anima corrotta non sapeva credere a un'innocenza come quella che ti splende sul viso, e ha avuto bisogno di questa astuzia indegna, per convincersene».
«Mamma carissima!», esclamò la marchesa, chinandosi verso di lei piena di lieta commozione, e cercando di sollevarla. Ma lei rispose: «No, non mi muovere dai tuoi piedi, se prima non mi dirai se puoi perdonare, tu, meravigliosa, sovrumana creatura, la bassezza del mio comportamento».
«Io perdonarvi, mamma? Alzatevi», gridò la marchesa, «vi scongiuro...».
«Hai sentito», proseguì la signora di G..., «voglio sapere se puoi ancora amarmi e rispettarmi sinceramente, come prima».
«Madre mia adorata!», gridò la marchesa, mettendosi a sua volta in ginocchio davanti a lei. «Rispetto e amore non sono mai venuti meno nel mio cuore. Chi avrebbe potuto, in circostanze così inaudite, accordarmi fiducia? Come sono felice che siate convinta della mia innocenza!».
«Ebbene», rispose la signora di G... alzandosi, sorretta dalla figlia, «ti porterò in palmo di mano, figlia mia carissima. Verrai a partorire da me; e se le cose stessero in modo che aspettassi da te un principino, non mi occuperei di te con più tenerezza e con più rispetto. Per quanti giorni mi restano, non mi allontanerò più dal tuo fianco. Sfiderò il mondo intero. Non voglio altro onore che la tua vergogna, purché tu mi voglia di nuovo bene, e dimentichi la durezza con la quale ti scacciai».
La marchesa cercò di consolarla con carezze e giuramenti senza fine; ma venne la sera, e suonò la mezzanotte, prima che ci riuscisse. Il giorno seguente, placatasi un poco l'emozione dell'anziana signora, che durante la notte le aveva causato un attacco di febbre, la madre, la figlia e il nipotino fecero ritorno a M... come in trionfo. Durante il viaggio erano allegrissime, e scherzavano su Leopardo, l'attendente, che sedeva davanti, a cassetta; e la madre disse alla marchesa di aver notato che lei arrossiva ogni volta che l'occhio le cadeva sulle sue larghe spalle. La marchesa rispose, con un'espressione che era per metà un sospiro e per metà un sorriso: «Chi sa chi verrà, alla fine, a presentarsi da noi, alle undici del giorno 3!».
Intanto, man mano che si avicinavano a M..., gli animi tornavano a farsi più seri, nel presentimento delle scene decisive che ancora le attendevano. La signora di G..., senza lasciar trapelare nulla dei suoi piani, condusse la figlia, quando furono smontate, nella sua vecchia stanza; le disse di cambiarsi e riposarsi, assicurò che sarebbe tornata subito da lei, e sgusciò via. Un'ora dopo, ritornò con il viso tutto accaldato.
«Il san Tommaso!», disse, celando la gioia del suo animo.
«Incredulo come san Tommaso! Un'ora d'orologio mi ci è voluta, per convincerlo. Ma adesso è là seduto, che piange».
«Chi?», domandò la marchesa.
«Lui», rispose la madre. «E chi, se non chi ne ha più ragione di tutti no?».
«Non sarà il babbo?», gridò la marchesa.
«Come un bambino», rispose la madre. «Tanto che, se non avessi dovuto asciugarmi anch'io le lacrime dagli occhi, mi sarei messa a ridere, appena uscita dalla stanza».
«E per causa mia?», domandò la marchesa, alzandosi. «E dovrei restare...».
«Non ti muovere!», disse la signora di G... «Perché mi dettò quella lettera? Dovrà venire a cercarti qui, se vuol ritrovare me, finché vivo».
«Mamma carissima...», supplicò la marchesa.
«Nessuna pietà!», l'interruppe la moglie del colonnello.
«Perché prese in mano la pistola?».
«Ma vi scongiuro..».
«Assolutamente no», rispose la signora di G..., costringendo la figlia a sedere di nuovo. «E se non viene oggi, prima di sera, domattina me ne vado via con te».
La marchesa disse che un simile modo di comportarsi era crudele e ingiusto. Ma la madre rispose: «Calmati!» poiché aveva appena sentito qualcuno avvicinarsi, da lontano, singhiozzando. «È già qui che arriva».
«Dove?», domandò la marchesa, e si mise in ascolto. «C'e qualcuno fuori, davanti alla porta; questi singhiozzi ...?».
«Ma sì», rispose la signora di G... «Vuole che gli apriamo».
«Lasciatemi!», gridò la marchesa; e si strappò dalla sedia.
«No!», disse la moglie del colonnello. «Se mi vuoi bene, Giulietta, resta dove sei!». In quel momento entrò il comandante, tenendosi il fazzoletto davanti al viso. La madre si mise di traverso davanti a sua figlia, e gli voltò le spalle.
«Padre mio carissimo!», gridò la marchesa, e tese le braccia verso di lui.
«Non ti muovere!», disse la signora di G... «Hai sentito!». Il comandante stava in piedi nella stanza, e piangeva. «Deve chiederti scusa», proseguì la signora di G... «Perché è così violento? Perché è così testardo? Gli voglio bene, ma ne voglio anche a te; lo rispetto, ma rispetto anche te. E, se devo scegliere, tu sei migliore di lui, e resto con te».
Il comandante si curvava sempre di più, e singhiozzava così forte che le pareti ne risuonavano. «Ma Dio mio!», gridò la marchesa, e cedendo improvvisamente alla madre prese il fazzoletto, per dare sfogo alle sue lacrime.
«È che non può parlare!», disse la signora di G..., e si tirò un poco da parte.
Allora la marchesa si alzò, abbracciò il comandante e lo pregò di calmarsi. Lei stessa piangeva forte. Gli domandò se non voleva sedersi, cercò di farlo accomodare su una poltrona e ne spinse una verso di lui, perché sedesse. Ma egli non rispose. Era impossibile smuoverlo, e non sedette; restava in piedi dov'era, con il volto profondamente chino verso terra, e piangeva.
La marchesa, che lo sorreggeva, disse, voltandosi a mezzo verso la madre: «Si ammalerà!». E la madre stessa, di fronte a quell'atteggiamento convulso, sembrava sul punto di perdere la sua fermezza. Ma quando il comandante, alla fine, alle ripetute insistenze della figlia, sedette, e lei gli cadde ai piedi, colmandolo di carezze, la signora riprese la parola, disse che ben gli stava, così finalmente avrebbe messo giudizio, e si allontanò dalla stanza, lasciandoli soli.
Non appena fu uscita, si asciugò ella stessa le lacrime; rifletté se la violenta commozione che aveva provocato non avrebbe potuto essere pericolosa per lui, e se non fosse consigliabile far chiamare un medico. Gli cucinò per la cena tutto ciò che di più corroborante e calmante le riuscì di trovare in dispensa, gli scaldò il letto, per farlo coricare subito, non appena fosse comparso, al braccio della figlia, e, poiché ancora non veniva, benché la cena fosse già in tavola, si avvicinò silenziosamente alla camera della marchesa, per sentire che cosa stava succedendo.
Accostando piano piano l'orecchio alla porta, udì un leggero sussurro, subito spento, che le sembrò venire dalla marchesa; e, guardando dal buco della serratura, vide che lei stava in braccio al comandante, cosa che egli prima non aveva mai permesso in vita sua. Allora, finalmente, aprì la porta, e vide, mentre il cuore le traboccava di gioia, che la figlia giaceva silenziosa, con il capo reclinato e gli occhi chiusi, fra le braccia del padre; e lui, seduto sulla poltrona, con gli occhi dilatati gonfi di lacrime luccicanti, le premeva sulla bocca lunghi, ardenti, avidi baci: proprio come un innamorato! La figlia non parlava, lui non parlava; stava seduto con il volto chino sopra di lei, come sulla fanciulla del suo primo amore e, volgendo la bocca di lei verso di sé, la baciava.
La madre si sentiva beata: non vista, perché stava in piedi dietro la sedia del marito, indugiava a turbare la gioia della celestiale riconciliazione discesa sulla sua casa. Alla fine si avvicinò al padre e, proprio mentre lui ricominciava ad accarezzare con gioia indicibile, con le dita e con le labbra, la bocca della figlia, lo guardò di lato, curvandosi sopra la poltrona. Il comandante, quando la vide, abbassò di nuovo il viso, corrugando la fronte, e voleva dire qualcosa; ma lei esclamò «Via, che viso mi fai?», glielo spianò, a sua volta, con un bacio, e scherzando mise fine alla commozione. Poi invitò e condusse tutti e due, che camminavano come due sposini, a cena, durante la quale il comandante fu bensì assai allegro, ma singhiozzò ancora, di tanto in tanto, mangiò e parlò poco, e tenne gli occhi bassi sul piatto, giocando con la mano della figlia.
Al sorgere del giorno seguente ci si pose la domanda chi mai si sarebbe presentato, l'indomani, alle undici del mattino. Perché l'indomani era il temuto 3. Il padre, la madre e il fratello, che era venuto anch'egli a riconciliarsi, si pronunziarono senz'altro, purché la persona fosse appena tollerabile, per il matrimonio; doveva essere fatto tutto il possibile per rendere felice la situazione della marchesa. Ma, se le condizioni di quell'uomo fossero state tali da rimanere, anche dopo ogni aiuto e facilitazione, troppo inferiori a quelle della marchesa, i genitori erano contrari alle nozze, ed erano decisi a continuare a tenere con sé la marchesa, adottando il bambino. La marchesa, invece sembrava propensa a tener fede in qualunque caso, purché quell'uomo non fosse uno scellerato, alla parola data, per dare, costasse quello che costasse, un padre al bambino.
Verso sera la madre domandò come ci si sarebbe dovuti comportare nel riceverlo. Il comandante disse che la cosa più opportuna sarebbe stata, l'indomani alle undici, lasciare la marchesa da sola. La marchesa insisteva, invece, perché entrambi i genitori, e anche il fratello, fossero presenti, poiché non voleva dividere con quell'uomo alcun segreto. E aggiunse che un simile desiderio le sembrava espresso persino nella risposta di lui, dal momento che aveva proposto la casa del comandante come luogo dell'incontro. Proprio a causa di quel particolare, per sincerità doveva ammetterlo, la risposta le era assai piaciuta. La madre osservò quanto fosse imbarazzante la parte che il padre e il fratello avrebbero dovuto sostenere, e pregò la figlia di consentire che gli uomini si tenessero da parte; lei, invece, avrebbe obbedito al suo desiderio, e sarebbe stata presente al momento dell'arrivo. Dopo qualche attimo di riflessione della marchesa, quest'ultima proposta fu infine accettata.
E venne, dopo una notte trascorsa nelle ansie dell'attesa, la mattina del temuto 3. Quando la pendola suonò le undici, le due donne sedevano, vestite a festa, come per un fidanzamento, nella stanza delle visite, con il cuore che batteva così forte che lo si sarebbe sentito, se fossero ammutoliti i rumori del giorno. L'undicesimo rintocco vibrava ancora, quando entrò Leopardo, l'attendente che il padre aveva fatto venire dal Tirolo. A quella vista le due donne sbiancarono.
«Il conte F...», disse, «è arrivato, e si fa annunciare».
«Il conte F... !», esclamarono le due donne a una voce, colpite, dopo il primo, da un nuovo e diverso sgomento.
«Chiudete le porte!», gridò la marchesa. «Per lui non siamo in casa».
Si alzò, per chiudere subito lei stessa la porta a chiave, e stava per spingere fuori l'attendente, che le sbarrava la via, quando il conte, nella stessa uniforme da battaglia, con gli ordini e le decorazioni, che aveva indossato durante l'assalto alla fortezza, entrò e venne verso di lei. La marchesa credette di sprofondare per la vergogna; afferrò uno scialle, che aveva lasciato sulla sedia, e si mosse per fuggire in una stanza laterale. Ma la signora di G..., afferrandole la mano, gridò: «Giulietta!», e la parola, come soffocata dai pensieri, le mancò. Fissò intensamente il conte, e ripeté: «Ti prego, Giulietta!», tirandola verso di sé.
«Chi aspettiamo dunque?».
«Che?», gridò la marchesa, voltandosi di colpo. «Non lui...», e gli gettò uno sguardo fiammeggiante come la folgore, mentre un pallore mortale le sbiancava il viso.
Il conte aveva piegato un ginocchio davanti a lei; con la mano destra appoggiata sul cuore, e il capo leggermente chino sul petto, guardava per terra davanti a sé, con il volto acceso, e taceva.
«E chi altri?», esclamò la moglie del colonnello, con voce soffocata. «Chi altri, dissennate che siamo, se non lui...».
«Mamma, io impazzisco!», disse la marchesa rigida, in piedi, al di sopra di lui.
«Sciocchina», rispose la madre, l'attirò a sé e le sussurrò qualcosa all'orecchio. La marchesa si voltò e cadde, con le mani davanti al viso, sul divano.
«Infelice, che hai?», gridò la madre. «Che cosa è accaduto, a cui tu non fossi preparata?».
Il conte non si staccava dal fianco della moglie del colonnello. Afferrò, sempre con un ginocchio a terra, l'orlo estremo della sua veste, e lo baciò. «Cara, misericordiosa, venerata», mormorò; una lacrima gli scese lungo le guance.
«Alzatevi, signor conte, alzatevi!», disse la moglie del colonnello. «Andate a consolarla. Allora saremo tutti riconciliati, e tutto sarà perdonato e dimenticato».
Il conte si alzò piangendo. Si inginocchiò di nuovo davanti alla marchesa, le prese lievemente la mano, come se fosse d'oro, e il contatto con la sua potesse macchiarla. Ma lei gridò: «Andatevene! Andatevene! Andatevene!», alzandosi in piedi.
«Ero disposta ad affrontare uno scellerato, ma non un... demonio!». E, scostandosi da lui come da un appestato, aprì la porta della stanza dicendo: «Chiamate il colonnello!».
«Giulietta!», gridò la moglie del colonnello con stupore. La marchesa lanciava occhiate selvagge, feroci, ora al conte, ora alla madre, il petto ansante, il volto in fiamme; non è più terribile l'occhio di una Furia. Arrivarono il colonnello e l'ispettore forestale.
«Quest'uomo, padre mio», disse la marchesa, mentre erano ancora sulla soglia, «non lo posso sposare!». Immersa la mano in un'acquasantiera infissa al lato interno della porta, spruzzò con un gran getto, il padre, la madre e il fratello, e scomparve.
Il comandante, scosso dall'insolita scena, domandò cosa fosse accaduto, e impallidì quando, in quel momento cruciale, scorse nella stanza il conte F... La madre prese il conte per la mano e disse: «Non domandare. Questo giovane è pentito con tutto il cuore di ciò che è avvenuto. Dagli la tua benedizione. Su, dagliela! E tutto finirà bene».
Il conte stava in piedi, come annientato. Il comandante gli pose la mano sul capo; le ciglia gli tremavano, le sue labbra erano bianche come gesso. «Possa la maledizione del cielo risparmiare questo capo!», esclamò. «Quando pensate di sposare?».
«Domani», rispose la madre per lui, poiché egli non era in grado di proferire parola. «Domani; oppure oggi, come vorrai. Al signor conte, che ha mostrato tanto nobile zelo nel riparare il fallo commesso, l'ora più vicina sarà sempre la più gradita».
«Allora avrò il piacere di incontrarvi domani alle undici, nella chiesa degli Agostiniani», disse il comandante; si inchinò, chiamò a sé la moglie e il figlio, per recarsi nella camera della marchesa, e lo lasciò là in piedi.
Invano ci si sforzò di sapere dalla marchesa le ragioni del suo strano comportamento; era coricata, in preda a una violenta febbre, non voleva saperne di matrimonio, e pregava di essere lasciata sola. Quando le domandarono perché avesse improvvisamente mutato la sua decisione, e che cosa le rendesse il conte più odioso di altri, guardò il padre con grandi occhi distratti e non rispose. La moglie del colonnello le disse se aveva dimenticato di essere madre; ma lei rispose che in quel caso doveva pensare più a sé che al suo bambino, e ancora una volta, invocando tutti gli angeli e i santi a testimoni, giurò che non si sarebbe sposata. Il padre, vedendola in uno stato d'animo di palese sovraeccitazione, dichiarò che doveva tener fede alla parola data; la lasciò e preparò ogni cosa, dopo aver preso per iscritto i dovuti accordi con il conte, per le nozze.
Propose al conte un contratto di matrimonio nel quale questi rinunciava a tutti i diritti di consorte, mentre si impegnava a osservare tutti gli obblighi che gli venissero richiesti. Il conte rinviò il foglio, tutto bagnato di lacrime, con la propria firma. Quando il comandante, il mattino seguente, porse il documento alla marchesa, l'animo di lei si era un poco calmato. Lo lesse tutto, seduta sul letto, più volte, lo ripiegò pensierosa, lo aprì, e lo lesse di nuovo tutto ancora una volta; poi dichiarò che alle undici si sarebbe trovata nella chiesa degli Agostiniani. Si alzò, si vestì, senza dire una parola, salì, quando venne l'ora, nella carrozza con i suoi, e uscì di casa.
Solo al portale della chiesa fu permesso al conte di unirsi alla famiglia. La marchesa, durante il rito, tenne gli occhi fissi sull'immagine all'altare, senza gettare neppure uno sguardo fuggevole all'uomo con il quale scambiava gli anelli. Il conte, compiuta la cerimonia, le offrì il braccio; ma, non appena furono usciti dalla chiesa, la contessa lo salutò con un inchino; il comandante chiese se avrebbe avuto l'onore di vederlo, di tanto in tanto, nell'appartamento di sua figlia; il conte balbettò qualcosa che nessuno intese, si levò il cappello davanti alla compagnia, e scomparve.
Prese un appartamento a M..., e vi passò parecchi mesi senza mettere neppure il piede nella casa del comandante, nella quale era rimasta la contessa. Solo grazie al contegno delicato, dignitoso e del tutto irreprensibile da lui tenuto ogni volta che venne a contatto con la famiglia, per qualsiasi ragione, dopo che la contessa ebbe dato alla luce un figlioletto egli fu invitato al battesimo. La contessa, seduta sul letto puerperale, avvolta nelle coperte, non lo vide che per un attimo, quando si mostrò nel vano della porta, e la salutò con deferenza da lontano. Fra i doni con i quali gli ospiti diedero il benvenuto al neonato egli lasciò cadere nella culla due documenti, uno dei quali, come si vide quando se ne fu andato, era una donazione di ventimila rubli al fanciullo, e l'altro un testamento con il quale egli, in caso di morte, istituiva la madre erede universale del suo patrimonio.
Da quel giorno, per iniziativa della signora di G..., venne invitato più spesso; la casa gli fu aperta, e presto non passò sera senza che egli vi comparisse. Ricominciò da capo, quando il suo sentimento gli disse che da parte di tutti, grazie al fragile assetto del mondo, gli era stato perdonato, il suo corteggiamento della contessa, sua consorte, e ottenne da lei, trascorso un anno, un secondo sì; si celebro così un secondo sposalizio, più lieto del primo, dopo il quale tutta la famiglia si trasferi a V...
Al primo seguì poi tutta una schiera di piccoli russi; e quando il conte, in un'ora felice, domandò una volta alla moglie perché, in quel terribile giorno 3, quando pareva disposta ad affrontare qualunque scellerato, fosse fuggita da lui come da un demonio, lei rispose, gettandogli le braccia al collo, che non le sarebbe sembrato allora un demonio, se la prima volta che lo vide non le fosse apparso come un angelo.




IL TERREMOTO IN CILE

A Santiago, capitale del regno del Cile, proprio nel momento del grande terremoto dell'anno 1647, nel quale trovarono la morte molte migliaia di persone, un giovane spagnolo accusato di un delitto, che si chiamava Jerónimo Rugera, stava ritto accanto a un pilastro della prigione nella quale era stato rinchiuso, e voleva impiccarsi.
Don Enrique Asterón, uno dei nobili più ricchi della città, lo aveva allontanato, all'incirca un anno prima, dalla sua casa, dove svolgeva l'incarico di precettore, perché tra lui e donna Josefe, la sua unica figlia, era sorto un tenero legame. Un incontro segreto, rivelato all'anziano don, che aveva già energicamente ammonito la figlia, dalla perfida vigilanza del suo orgoglioso figlio, lo indignò a tal punto che egli la chiuse nel monastero di Nostra Signora del monte Carmelo. Per un caso felice, Jerónimo riuscì a riannodare laggiù il suo legame e, in una notte silenziosa, fece del giardino del convento il teatro della sua piena felicità.
Era la festa del Corpus Domini, e la solenne processione delle monache, alle quali seguivano le novizie, si era appena mossa quando l'infelice Josefe, al suono delle campane, cadde in preda alle doglie sui gradini della cattedrale. L'avvenimento destò enorme scalpore; la giovane peccatrice, senza riguardo al suo stato, venne subito gettata in prigione e, non appena rimessa dal parto, fu sottoposta, per ordine dell'arcivescovo, a un processo severissimo. In città si parlava con tanta indignazione dello scandalo, e le lingue furono così taglienti con tutto il monastero in cui era avvenuto, che né l'intercessione della famiglia Asterón, né lo stesso desiderio della badessa, che aveva preso a benvolere la fanciulla, per il suo contegno altrimenti irreprensibile, poterono mitigare la severità della legge Convetuale che la minacciava. Tutto ciò che si poté ottenere fu che il rogo, al quale venne condannata, fosse commutato, per atto d'imperio del vinceré e con gran disappunto delle matrone e delle vergini di Santiago, nella decapitazione. Nelle strade per le quali doveva passare il corteo dell'esecuzione si affittarono le finestre, si scoperchiarono i tetti delle case, e le pie fanciulle della città invitarono le loro amiche, per assistere fraternamente, fianco a fianco, allo spettacolo concesso alla vendetta divina.
Jerónimo, che nel frattempo era stato anch'egli messo in prigione, uscì quasi di senno quando venne a sapere quale mostruosa piega avessero preso le cose. Invano pensò a una via di salvezza; dovunque lo portassero le ali dei più folli pensieri, urtava contro mura e chiavistelli; e un tentativo di segare l'inferriata gli valse, quando fu scoperto, un regime ancora più severo. Egli si gettò in ginocchio davanti all'immagine della santa Madre di Dio, e la pregò con infinito fervore, come l'unica dalla quale sarebbe ormai potuta venire la salvezza. Ma il temuto giorno apparve e con esso la convinzione, nel suo cuore, che la situazione era ormai senza speranza. Le campane che accompagnavano Josefe al luogo dell'esecuzione risuonarono, e la disperazione s'impadronì della sua anima. La vita gli parve odiosa, e decise di darsi la morte con una corda che il caso gli aveva lasciata.
Stava appunto ritto, come si è detto, accanto a un pilastro, e assicurava a un arpione di ferro, infisso sotto il cornicione, la corda che avrebbe dovuto strapparlo a questa valle di lacrime, quando improvvisamente la maggior parte della città, con un rombo, come se precipitasse la volta celeste, sprofondò, seppellendo sotto le macerie ogni essere vivente. Jerónimo Rugera restò impietrito dall'orrore; e, come se anche la sua coscienza fosse stata schiacciata, per non cadere si tenne al pilastro accanto al quale aveva voluto morire. Il suolo vacillò sotto i suoi piedi, le pareti della prigione si spaccarono; l'intero edificio s'inclinò, per abbattersi sulla via; e solo la caduta dell'edificio di fronte, che incontrò la sua lenta caduta, gli impedì, formando casualmente una volta, di rovinare interamente al suolo.
Tremando, con i capelli dritti e le ginocchia che gli si piegavano, Jerónimo strisciò, sul pavimento inclinato, verso l'apertura che il cozzo dei due fabbricati aveva prodotto nella parete esterna della prigione. Appena si trovò all'aperto, la strada intera, già scossa, crollò completamente per un secondo movimento tellurico. Incapace di pensare a come salvarsi da quella generale rovina, si mise a correre, saltando fra le macerie e le travi, mentre la morte lo assaliva da ogni parte, verso una delle più vicine porte della città. Qui una casa crollava e, scagliando lontano intorno a sé i rottami, lo sospingeva in una via laterale, là le fiamme, balenando tra nubi di fumo, lambivano i comignoli, ricacciandola, terrorizzato, in un'altra via; là il rio Mapocho, strappato al suo letto, saliva gonfio verso di lui, e ribollendo lo trascinava in una terza. Qui giaceva un mucchio di persone schiacciate, là una voce gemeva ancora sotto le macerie; qui giungevano le urla della gente dai tetti in fiamme, là uomini e animali lottavano contro i flutti; qui un coraggioso salvatore cercava di dare aiuto, là un uomo stava in piedi, pallido come la morte, e protendeva muto verso il cielo le mani tremanti.
Quando Jerónimo ebbe raggiunto la porta, e salito un colle fuori città cadde al suolo svenuto. Giaceva disteso, da un quarto d'ora almeno, nella più profonda incoscienza, quando finalmente si ridestò e, volgendo le spalle alla città si tirò su a mezzo. Si toccò la fronte e il petto, senza sapere che cosa fare di se stesso, un indicibile senso di benessere lo invase quando un vento di ponente, dal mare, investì con un soffio la sua vita che ritornava, e il suo occhio percorse, in tutte le direzioni, la fiorente regione di Santiago. Solo i gruppi di uomini sconvolti che si vedevano dappertutto gli stringevano il cuore; non capiva che cosa avesse potuto spingere lassù lui e loro, e soltanto quando si volse, e vide dietro di sé la città rasa al suolo, si rammentò del momento terribile che aveva vissuto. Si prosternò così profondamente che la sua fronte toccò terra, e ringraziò Dio di averlo così prodigiosamente salvato; e, come se l'orrenda esperienza impressa nel suo animo ne avesse scacciato tutte le precedenti, pianse di gioia, perché la vita era bella, colorata, varia, ed egli ne godeva ancora. Poi, scorgendo alla sua mano un anello, si rammentò di colpo di Josefe; e con lei della prigione, delle campane che aveva udito laggiù e del momento che aveva preceduto il crollo. Una profonda tristezza riempì di nuovo il suo cuore, rimpianse la sua preghiera, e tremendo gli parve l'Essere che regna sopra le nubi. Si mescolò alla folla che dappertutto, occupata a salvare i propri averi, sciamava dalle porte cittadine, e si arrischiò timidamente a chiedere della figlia di Asterón, e se l'esecuzione avesse avuto luogo; ma nessuno gli sapeva dare notizie precise.
Una donna, che portava sulla schiena, curva quasi fino al suolo, un enorme peso di suppellettili, e teneva due bambini in collo, disse passando, come se l'avesse visto con i propri occhi, che era stata decapitata. Jerónimo si voltò; e poiché, calcolando il tempo, non poteva in realtà dubitare che l'esecuzione fosse avvenuta, andò a sedersi in un bosco solitario e si abbandonò al suo dolore.
Desiderava che la violenza distruttrice della natura si scatenasse di nuovo su di lui. Non capiva perché, in quei momenti, nei quali la morte, che la sua anima straziata stava cercando, gli era apparsa spontaneamente intorno da ogni parte come una salvezza, egli l'avesse sfuggita. E si propose fermamente di non vacillare, se ora dovessero essere sradicate le querce, e le loro cime precipitare su di lui. Dopo che ebbe pianto tutte le sue lacrime, e fra le più cocenti si fu affacciata di nuovo la speranza, si alzò e batté la campagna in tutte le direzioni. Esplorò ogni altura dove si fossero radunate delle persone; le andò a cercare su tutti i sentieri dove ancora si muoveva la corrente degli scampati; dovunque una veste femminile si agitasse al vento, la lo portava il suo piede tremante: ma nessuna copriva l'amata figlia di Asterón.
Il sole calava di nuovo, e con esso la speranza, verso il tramonto, quando salì sull'orlo di una rupe, e gli si aprì la vista su un'ampia valle, in cui solo poche persone avevano trovato rifugio. Indeciso sul da farsi, passò in fretta da un gruppo all'altro, e stava già per tornare indietro, quando improvvisamente, presso un ruscello che scendeva lungo il ripido pendio, scorse una giovane donna intenta a lavare un bambino nelle sue acque. A quella vista ebbe un tuffo al cuore; corse giù, presago, saltando di pietra in pietra, gridò: «Santa madre di Dio!», e riconobbe Josefe, che al rumore si era guardata intorno timorosa.
Con quale beatitudine si abbracciarono gli infelici, che un prodigio del cielo aveva salvato! Nel suo cammino verso la morte Josefe era già vicinissima al luogo dell'esecuzione, quando improvvisamente il crollo assordante degli edifici aveva disperso il corteo che la conduceva al supplizio. I primi passi inorriditi l'avevano portata verso la più vicina porta della città; ma presto tornò in sé, e si voltò per correre al monastero, dove era rimasto il suo piccolo bambino indifeso. Trovò l'intero convento già in fiamme, e la badessa, la quale, nei momenti che per Josefe sarebbero dovuti essere gli ultimi, le aveva promesso di prendersi cura del neonato, stava appunto chiamando, davanti alle porte dell'edificio, aiuto per salvarlo. Josefe si precipitò impavida, attraverso il fumo spesso che l'elogiava, nel fabbricato, che già crollava da ogni parte, e subito, come se la proteggessero tutti gli angeli del cielo, ne uscì fuori con il bimbo, illesa, dalla porta principale. Stava per precipitarsi nelle braccia della badessa, che si era coperta il capo con le mani, quando costei, con quasi tutte le sue monache, venne miseramente uccisa dal crollo del cornicione del palazzo. Josefe arretrò, tremando, di fronte all'orribile spettacolo, chiuse in fretta gli occhi alla badessa e fuggì, piena di terrore, per strappare alla rovina la cara creatura che il cielo le aveva donato per la seconda volta.
Aveva fatto solo pochi passi, quando s'imbatté nella salma dell'arcivescovo, che avevano appena estratto, sfracellata, dalle macerie della cattedrale. Il palazzo del vinceré era crollato, il tribunale, nel quale era stata pronunciata la sua condanna, era in fiamme, e sul luogo dove era sorta la sua casa paterna si era formato un lago che, ribollendo, esalava vapori rossastri. Josefe fece appello a tutte le sue forze per non cadere. Di strada in strada, allontanando dal suo cuore lo strazio, camminava coraggiosamente con la sua preda, ed era già vicina alla porta della città, quando vide anche la prigione, nella quale aveva languito Jerónimo, ridotta in macerie. A quella vista vacillò, e stava per cadere in un angolo priva di sensi; ma, in quel momento, il crollo di un edificio alle sue spalle, già pericolante per le scosse, la costrinse ad alzarsi, e il terrore le diede nuove forze: baciò il bambino, si asciugò le lacrime, e, senza badare più agli orrori che la circondavano, raggiunse la porta della città.
Quando si vide in aperta campagna, si disse ben presto che non tutti coloro che avevano abitato in una casa distrutta ne dovevano essere stati per forza schiacciati. Al primo incrocio si fermò, e restò in attesa, per vedere se non comparisse la persona che, dopo il piccolo Filippo, aveva più cara al mondo. Ma non venne nessuno e, poiché la confusione aumentava, proseguì; poi si voltò di nuovo indietro, e attese di nuovo; e, versando molte lacrime, si addentrò così in una valle scura, ombreggiata di pini, a pregare per l'anima di lui, che credeva fuggita; e qui, nella valle, aveva trovato l'uomo amato e il paradiso, come se fosse stata la valle dell'Eden.
Tutto questo raccontava ora, piena di commozione, a Jerónimo; e, quando ebbe finito, gli porse il bambino da baciare. Jerónimo lo prese, lo accarezzò con indicibile gioia paterna e gli chiuse la bocca, poiché si era messo a piangere di fronte al viso sconosciuto, con baci senza fine. Nel frattempo era scesa una notte bellissima, carica dei più dolci profumi, argentea e silenziosa come solo un poeta la può sognare. Dappertutto, lungo il ruscello, si erano stesi gli uomini, al lume della luna, preparandosi soffici giacigli di fronde e di muschio, per riposare, dopo una giornata così atroce. E poiché i miseri continuavano a compiangere chi la perdita della casa, chi della moglie e dei figli, chi di tutto ciò che aveva, Jerónimo e Josefe si addentrarono in una macchia più fitta, per non turbarli con l'esultanza segreta delle loro anime.
Trovarono uno stupendo melograno, che allargava intorno i suoi rami carichi di frutti profumati; sulla cima l'usignuolo zufolava il suo canto voluttuoso. Jerónimo si coricò là, appoggiandosi al tronco; e anche Josefe, contro il suo petto, e Filippo, su quello di lei, si distesero, coperti dal suo mantello, e riposarono. L'ombra dell'albero, con i suoi riflessi di luce, passò sopra di loro e si dileguò; e la luna impallidiva già davanti all'aurora prima che si addormentassero. Infinite cose avevano da dirsi: del convento, della prigione, di ciò che avevano sofferto l'uno per l'altra. E si commuovevano pensando a quanta sofferenza aveva dovuto colpire il mondo, perché potessero essere di nuovo felici! Decisero, non appena le scosse fossero cessate, di andare a La Concepción, dove Josefe aveva un'amica fidata, e, con un piccolo prestito che sperava di ottenere da lei, di imbarcarsi di là per la Spagna, dove vivevano i parenti materni di Jerónimo; laggiù avrebbero finito la loro vita felice. Poi, tra molti baci, si addormentarono.
Quando si destarono il sole era già alto nel cielo, ed essi videro, tutto intorno, numerose famiglie che preparavano, accanto al fuoco, un po' di colazione. Jerónimo stava appunto pensando a come procurarsi del cibo per i suoi, quando un uomo giovane e ben vestito, con un bambino in braccio, si avvicinò a Josefe, e le chiese rispettosamente se non voleva offrire per poco tempo il seno a quel povero piccino, la cui madre giaceva ferita sotto gli alberi, non molto lontano. Josefe ne fu turbata, ravvisando in lui un conoscente. Ma quando egli, fraintendendo il suo turbamento, proseguì dicendo: «Solo per pochi momenti, donna Josefe; questo bambino non ha più toccato nulla, dall'ora che ci ha reso tutti infelici», ella rispose: «Tacevo... per un'altra ragione, don Fernando; in queste ore terribili nessuno rifiuta di dividere ciò che possiede». Prese il piccolo estraneo, porgendo il suo bambino al padre, e se lo mise al petto.
Don Fernando, assai grato per la sua bontà, chiese se non volevano raggiungere con lui la sua compagnia, dove si stava per l'appunto cuocendo una piccola colazione. Josefe rispose che accettava l'offerta con piacere; e poiché neppure Jerónimo ebbe nulla da obiettare, lo seguì presso la sua famiglia, dove fu accolta nel modo più affettuoso e delicato dalle due cognate di don Fernando, due giovani ed eccellenti signore che conosceva. Donna Elvira, la moglie di don Fernando, che era coricata per terra, ferita gravemente ai piedi, attirò a sé Josefe con molta amicizia, quando le vide al petto il suo bambino sfinito. Anche don Pedro, il suocero di don Fernando, ferito a una spalla, le accennò cordialmente col capo.
Nel petto di Jerónimo e di Josefe si agitavano strani pensieri. Vedendosi trattati con tanta confidenza e bontà, non sapevano che cosa pensare del passato: del patibolo, della prigione, della campana. O tutto ciò l'avevano soltanto sognato? Era come se gli animi dal colpo terribile che li aveva percossi fossero stati tutti riconciliati, e nel ricordo non potessero risalire al di là di esso. Solo donna Elisabetta, che era stata invitata da un'amica allo spettacolo del mattino precedente, ma non aveva accettato l'invito, posava di tanto in tanto su Josefe uno sguardo trasognato; ma il racconto di nuove orribili sciagure trascinò di nuovo sul presente la sua anima, che se ne era appena staccata. Raccontavano come la città, subito dopo la prima e più violenta scossa, si fosse riempita di donne che partorivano sotto gli occhi di tutti gli uomini; come i monaci si fossero messi a correre ovunque, con il crocefisso in mano, gridando che era venuta la fine del mondo; come a una pattuglia che, per ordine del vinceré, aveva chiesto di sgomberare una chiesa dalle macerie, fosse stato risposto che non c'era più un vinceré del Cile; come il viceré, nei momenti più terribili, avesse dovuto far innalzare le forche per frenare le ruberie; e un innocente, che si era salvato, fuggendo, sul retro di una casa in fiamme, era stato precipitosamente acciuffato dal proprietario, e subito impiccato.
Donna Elvira, mentre Josefe faceva il possibile per dare sollievo alle sue ferite, aveva approfittato di un momento nel quale i racconti si incrociavano in modo più che mai concitato per domandarle che cosa le fosse successo, in quella giornata terribile. E quando Josefe le riferì, con il cuore stretto, le vicende principali, ebbe la gioia di vedere le lacrime negli occhi della dama. Donna Elvira le prese la mano, la strinse, e le fece cenno di tacere. A Josefe sembrava di essere in paradiso. Un sentimento che non sapeva reprimere la induceva a considerare la giornata trascorsa, per quanto dolore avesse causato al mondo, come una grazia quale il cielo non le aveva mai concesso. E davvero, nel mezzo di quei momenti orribili, in cui tutti i beni terreni degli uomini andavano in rovina e la natura intera minacciava d'inabissarsi, lo spirito di umanità sembrava sbocciare come un bel fiore. Sui campi, fin dove l'occhio arrivava, si vedevano persone di tutti i ceti sparse le une accanto alle altre: principi e mendicanti, matrone e contadine, funzionari e braccianti, monache e frati; e tutti si compiangevano a vicenda, si davano reciprocamente aiuto, dividevano con gioia cio che erano riusciti a salvare per conservarsi in vita, come se la comune sventura avesse fatto una sola famiglia di quanti ne erano scampati. Al posto delle insulse conversazioni alle quali il mondo soleva offrire argomento ai tavoli da té, si raccontavano ora esempi di azioni inaudite; persone che di solito in società passavano inosservate avevano mostrato una magnanimità da antichi romani; esempi a non finire di impalidità, di gioioso disprezzo del pericolo, di abnegazione e divino sacrificio di sé di prontezza nel far dono della vita, come se fosse un bene da nulla, che si potesse ritrovare qualche passo più in là. E poiché non vi era nessuno che in quel giorno non avesse ricevuto un gesto commovente, o non avesse compiuto egli stesso un'azione magnanima, il dolore era mescolato, nel cuore di ogni uomo, a una gioia tanto dolce che, pensava Josefe, non si poteva affatto dire se la somma del bene universale non fosse tanto cresciuta da una parte, quanto era diminuita dall'altra.
Quando ebbero finito di fare tacitamente, ognuno fra sé e sé, queste considerazioni, Jerónimo prese Josefe sotto braccio e la portò a passeggiare avanti e indietro, con inesprimibile serenità, sotto il fogliame ombroso del bosco di melograni. Le disse che, in quella disposizione degli animi, e nel capovolgimento di tutte le relazioni sociali, rinunciava alla sua decisione di imbarcarsi per l'Europa; avrebbe corso il rischio di gettarsi ai piedi del viceré, il quale era stato sempre favorevole alla sua causa, se era ancora in vita, e sperava (nel dir questo le diede un bacio) di restare con lei in Cile. Josefe rispose che pensieri simili erano venuti anche a lei; neppure lei dubitava, se suo padre era ancora vivo, di riconciliarsi con lui, ma consigliava, invece di gettarsi ai piedi del viceré, di andare piuttosto a La Concepción e condurre di là, per iscritto, il tentativo di riconciliazione con il sovrano; là si era, per ogni evenienza, nelle vicinanze del porto, e nel migliore dei casi, se la faccenda prendeva la piega desiderata, si sarebbe potuti ritornare facilmente a Santiago. Dopo una breve riflessione, Jerónimo diede il suo consenso a quella misura di prudenza, la condusse ancora un poco a passeggio sotto le piante, percorrendo a volo i sereni giorni a venire, e ritornò con lei verso la compagnia.
Intanto era venuto il pomeriggio, e gli animi dei profughi sparsi dappertutto si erano appena, poiché le scosse diminuivano, un poco tranquillizzati, quando si propagò la notizia che nella chiesa dei Domenicani, l'unica che il terremoto avesse risparmiato, il priore del convento avrebbe celebrato di persona una messa solenne, per implorare dal cielo protezione da ulteriori sventure. Il popolo era già in movimento da ogni parte, e accorreva fitto verso la città. Nella compagnia di don Fernando si sollevò la domanda se non si dovesse partecipare alla solennità, e unirsi al corteo generale. Donna Elisabetta ricordò, con una certa apprensione, la sciagura avenuta in chiesa il giorno prima; le cerimonie di ringraziamento si sarebbero ripetute, e allora, con il pericolo già più lontano, ci si sarebbe potuti abbandonare alla commozione con tanta maggiore serenità e tranquillità. Josefe, balzando subito in piedi con entusiasmo, affermò di non aver mai sentito l'impulso di chinare il volto nella polvere davanti al Creatore più vivo che in quel momento, quando egli dispiegava così la sua incomprensibile, sublime potenza. Donna Elvira si dichiarò con vivacità della stessa opinione di Josefe. Essa insisté che ci si recasse alla messa, e pregò don Fernando di guidare la compagnia.
Tutti si alzarono, anche donna Elisabetta. Ma quando videro che quest'ultima, con il petto ansante, esitava a fare i piccoli preparativi per la partenza, e le domandarono che cosa si sentisse, lei rispose di avere non sapeva quale infausto presentimento, e donna Elvira la tranquillizzò, invitandola a restare con lei e con il padre infermo.
«Allora, donna Elisabetta», disse Josefe, «volete prendere voi questo piccolo tesoro, che, come vedete, si è già di nuovo attaccato a me?».
«Volentieri», rispose donna Elisabetta, e fece l'atto di prenderlo; ma poiché lui strillava, protestando per il torto che gli si faceva, e in nessun modo si rassegnava, Josefe disse sorridendo che l'avrebbe tenuto, e baciandolo lo calmò. Allora don Fernando, al quale molto piacevano la dignità e la grazia di tutto il suo contegno, le offerse il braccio; Jerónimo, che portava in braccio il piccolo Filippo, conduceva donna Costanza; le altre persone che si trovavano con la compagnia vennero dietro, e in quest'ordine il gruppetto si avviò verso la città.
Non avevano ancora fatto cinquanta passi, quando si udì donna Elisabetta, che nel frattempo aveva parlato animatamente con donna Elvira, prendendola da parte, gridare: «Don Fernando!», e affrettarsi verso il gruppo con fare preoccupato. Don Fernando si fermò, si volse, e attese, senza lasciare il braccio di Josefe; e poiché lei si era fermata a una certa distanza, come se aspettasse che egli le andasse incontro, le domandò che cosa volesse. Allora donna Elisabetta gli si avvicinò, benché, sembrava, a malincuore, e gli bisbigliò in modo che Josefe non potesse sentire, alcune parole all'orecchio.
«Ebbene?», domandò don Fernando. «Ne può forse venire qualcosa di male?».
Donna Elisabetta continuò a sussurrargli all'orecchio, con il viso turbato. Un rossore di disappunto salì al volto di don Fernando.
«Sta bene così», rispose. «Donna Elvira può star tranquilla». E proseguì con la sua dama. Quando giunsero nella chiesa dei Domenicani, si udiva già, maestosa, la musica dell'organo, e una folla sterminata, a ondate, vi si accalcava. La ressa si estendeva per un buon tratto, oltre i portali, sul sagrato della chiesa; i ragazzi si erano arrampicati in alto sulle pareti, tenendosi alle cornici dei quadri, e guardavano, con i berretti in mano e occhi pieni di attesa. La luce raggiava da tutti i lampadari, i pilastri gettavano, nell'incipiente crepuscolo, ombre misteriose, il grande rosone di vetro colorato in fondo alla navata ardeva, rosso come il sole del tramonto che lo illuminava, e il silenzio, quando l'organo tacque, calò sulla folla come se nessuno avesse voce nel petto. Mai, da un tempio cristiano, salì verso il cielo una tale fiamma di devozione, come in quel giorno nella chiesa dei Domenicani di Santiago; e nessun cuore umano vi partecipava con maggior ardore di Jerónimo e di Josefe.
La cerimonia cominciò con una predica che uno dei canonici più anziani, vestito con i paramenti solenni, tenne dal pulpito. Egli cominciò subito distendendo alte verso il cielo le mani tremanti, che uscivano dalle ampie maniche della cotta, lodando e ringraziando che ci fossero ancora uomini, in quella parte del mondo che precipitava in macerie, capaci di innalzare a Dio i loro balbettamenti. Poi descrisse ciò che, a un cenno dell'Onnipotente, era avvenuto, il Giudizio Universale non può essere più tremendo; e quando chiamò il terremoto del giorno precedente, indicando una fessura che si era aperta nella parete del tempio, un semplice preannuncio di quel Giudizio, un brivido percorse l'intera adunanza. Quindi, trascinato dalla sua eloquenza sacerdotale, egli venne a parlare della corruzione morale della città; ne condannò gli orrori, quali non videro mai né Sodoma né Gomorra, e attribuì soltanto all'infinita clemenza di Dio se non era stata del tutto cancellata dal terremoto. Ma come un pugnale trafisse i cuori, già straziati da quella predica dei nostri due infelici, quando il canonico, in quel punto, ricordò con tutti i particolari il delitto che era stato commesso nel giardino del convento delle Carmelitane, chiamò empia l'indulgenza che quel delitto aveva trovato nel mondo e, in un inciso carico di maledizioni, consegnò le anime dei suoi autori, chiamati per nome, a tutti i prìncipi dell'Inferno!
Donna Costanza, rabbrividendo al braccio di Jerónimo, gridò: «Don Fernando!». Questi, con tutta l'energia e la segretezza che fu possibile conciliare, rispose: «Tacete, donna Costanza! Non muovetevi, e fate finta di svenire; così usciremo dalla chiesa».
Ma, prima che donna Costanza mettesse in atto l'ingegnoso stratagemma ideato per la salvezza, una voce già gridava, sovrastando e interrompendo la predica del canonico: «Allontanatevi, cittadini di Santiago! Gli empi sono qui!». Mentre intorno a loro si formava un ampio cerchio di orrore, un'altra voce chiese, piena di spavento: «Dove?». «Qui!», rispose un terzo, e, invasato di santa crudeltà, afferrò e tirò per i capelli Josefe, che sarebbe caduta a terra con il figlio di don Fernando, se questi non l'avesse sorretta.
«Siete impazziti?», gridò il giovane, e cinse Josefe con il braccio. «Io sono don Fernando Ormez, figlio del comandante della città, che tutti conoscete».
«Don Fernando Ormez?», gridò, piantandoglisi proprio davanti, un ciabattino che aveva lavorato per Josefe, e la conosceva non meno bene dei suoi piccoli piedi. «Chi è il padre di questo bambino?», e si volse, con aria insolente di sfida, verso la figlia di Asterón.
Don Fernando, alla domanda, impallidì. Ora guardava con timore Jerónimo, ora percorreva con gli occhi la folla, cercando qualcuno che lo conoscesse.
Schiacciata dall'orribile situazione, Josefe gridò: «Questo non è il mio bambino, mastro Pedrillo, come voi credete». E, guardando don Fernando, aggiunse, con l'anima piena di infinita angoscia: «Questo giovane signore è don Fernando Ormez, figlio del comandante della città, che tutti conoscete!».
«Chi di voi, cittadini, conosce questo giovane?», domandò il calzolaio. E molti degli astanti ripeterono: «Chi conosce Jerónimo Rugera? Si faccia avanti!».
Ora, avvenne che in quel momento il piccolo Juán, spaventato dal tumulto, si protendesse dal petto di Josefe verso don Fernando, per farsi prendere in braccio. «È lui il padre!», urlò
una voce. «È lui Jerónimo Rugera!», urlò un'altra. «Sono loro i sacrileghi!», urlò una terza. «A morte! A morte!», urlarono tutti i cristiani radunati nel tempio di Gesù.
«Barbari, fermatevi!», gridò allora Jerónimo. «Se cercate Jerónimo Rugera, eccolo! Lasciate andare quest'uomo, che non ha alcuna colpa!».
La folla inferocita, confusa dalle parole di Jerónimo, esitò, e molte mani lasciarono don Fernando. E poiché in quel momento cercò di raggiungerli un ufficiale di Marina d'alto grado, che, facendosi largo nel tumulto, domandò: «Don Fernando Ormez, che cosa vi è successo?», questi, ora completamente libero, rispose, con freddezza veramente eroica: «Vedete, don Alonzo, questi assassini! Sarei stato perduto, se quest'uomo coraggioso, per calmare i forsennati, non si fosse denunciato come Jerónimo Rugera. Aristoteli, se volete avere questa bontà, insieme a questa giovane signora, per la sicurezza di entrambi; e anche questo miserabile», aggiunse afferrando mastro Pedrillo, «che ha scatenato tutta questa rivolta!».
«Don Alonzo Onoreja», gridò il ciabattino, «ve lo chiedo sulla vostra coscienza, questa ragazza è o non è Josefe Asterón?».
E poiché don Alonzo, che conosceva benissimo Josefe, esitava a rispondere, e molte voci, vedendo questo, urlarono con rinnovato furore: «È lei! È lei! A morte! A morte!», Josefe mise il piccolo Filippo, che fino a quel momento era stato portato da Jerónimo, in braccio a don Fernando, insieme al piccolo Juán, e disse: «Andate, don Fernando, salvate i vostri due bambini e lasciateci al nostro destino!».
Don Fernando prese i bambini e disse che sarebbe morto, piuttosto di permettere che qualcosa di male accadesse a chi era con lui. Offerse a Josefe, dopo aver pregato l'ufficiale di Marina di dargli la sua sciabola, il braccio, e invitò Jerónimo e donna Costanza a seguirlo.
Riuscirono davvero, poiché, dopo quei preparativi, la gente faceva largo con una certa deferenza, ad arrivare fuori della chiesa, e si credettero salvi. Ma, non appena furono sul sagrato, non meno gremito di gente, una voce si levò dal gruppo dei forsennati che li aveva seguiti: «Questo è Jerónimo Rugera, cittadini, perché io sono suo padre!» e con un'orrenda mazzata lo stese al suolo, a lato di donna Costanza.
«Gesù Maria!», gridò donna Costanza, stringendosi al cognato.
«Sgualdrina di convento!» risuonò, e una seconda mazzata, da un altro lato, la stese senza vita accanto a Jerónimo.
«Orrore!», urlò uno sconosciuto. «Quella era donna Costanza Xares!».
«Perché ci hanno mentito?», urlò il calzolaio. «Cerchiamo quella vera, e accoppiamola!».
Don Fernando, alla vista del cadavere di donna Costanza avvampò d'ira; sguainò la sciabola, la brandì e vibrò un tal fendente al fanatico assassino che aveva scatenato quelle atrocità che l'avrebbe diviso in due, se questi, con un balzo, non si fosse sottratto alla furia del colpo. Ma non poteva resistere alla folla che gli si gettava addosso. «Salvate i bambini, don Fernando, addio!», gridò Josefe. «Uccidetemi, tigri assetate di sangue!». E si gettò spontaneamente in mezzo a loro, per porre fine alla lotta.
Mastro Pedrillo l'abbatté con la mazza, e tutto spruzzato del suo sangue, urlò: «Mandatele dietro all'inferno il suo bastardo!». E si fece di nuovo avanti, non ancora sazio di uccidere.
Don Fernando, eroe divino, stava ora con le spalle appoggiate alla chiesa; con la sinistra teneva i bambini, con la destra la sciabola; a ogni colpo, un uomo cadeva al suolo fulminato; non si difende meglio un leone. Sette di quei sanguinari giacevano morti davanti a lui, lo stesso principe della masnada satanica era ferito. Mastro Pedrillo, tuttavia, non si fermò finché non ebbe strappato dal suo petto, afferrandolo per le gambe, uno dei due bambini, e, descritto in aria un gran cerchio, non l'ebbe sfracellato contro l'angolo di un pilastro. Allora tornò la calma, e tutti si allontanarono.
Don Fernando, quando vide steso davanti a sé il suo piccolo Juán, con il cervello che usciva dalla fronte, levò gli occhi al cielo, in un dolore senza nome. L'ufficiale di Marina gli si avvicinò, cercò di consolarlo, e gli assicurò che gli rincresceva della propria inerzia in quella sventura, benché giustificata da varie circostanze; ma don Fernando gli disse che non aveva nulla da rimproverargli, e lo pregò soltanto di aiutare a portar via le salme.
Furono portate, nell'oscurità della notte che avanzava, in casa di don Alonzo, e don Fernando le seguì, versando molte lacrime sul viso del piccolo Filippo. Passò la notte in casa di don Alonzo e indugiò a lungo, con falsi pretesti, a informare sua moglie dei particolari della sciagura; un po' perché era inferma, e un po' perché non sapeva come avrebbe giudicato il suo comportamento in quella circostanza. Ma poco tempo dopo, informata per caso da un visitatore di tutto ciò che era successo l'eccellente dama sfogò piangendo in silenzio il suo dolore materno, e un mattino, con un'ultima lacrima che le brillava negli occhi, gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Don Fernando e donna Elvira adottarono il piccolo estraneo; e, paragonando Filippo a Juán, e come li aveva avuti, don Fernando sentiva quasi di doversene rallegrare.




FIDANZAMENTO A SANTO DOMINGO

A Port-au-Prince, nella parte francese dell'isola di Santo Domingo, all'inizio di questo secolo, quando i neri assassinavano i bianchi, viveva, nella piantagione del signor Guillaume de Villeneuve, un vecchio negro terribile, di nome Congo Hoango. Originario della Costa d'Oro africana, quest'uomo, che in gioventù sembrava di indole fedele e onesta, era stato colmato dal suo padrone, poiché una volta, durante un viaggio a Cuba, gli aveva salvato la vita, di infiniti benefici. Non soltanto il signor Guillaume gli fece sui due piedi dono della libertà e, ritornato a Santo Domingo, gli assegnò una casa e un podere; ma pochi anni dopo lo nominò, contro l'usanza del paese, sorvegliante dei suoi vasti possedimenti, e gli mise accanto come compagna, poiché non voleva risposarsi, una vecchia mulatta della sua piantagione, di nome Babecan, lontana parente della prima moglie di Hoango. Poi, quando il negro ebbe raggiunto i sessant'anni, lo collocò a riposo con una cospicua pensione, e coronò i suoi benefici ricordandolo anche nel suo testamento con un legato; eppure tutte queste prove di gratitudine non poterono proteggere il signor de Villeneuve dal furore di quell'uomo truce.
Congo Hoango fu, nel generale delirio di vendetta fomentato in quelle piantagioni dai passi sconsiderati della Convenzione Nazionale, uno dei primi che impugnò la carabina e, memore della tirannide che l'aveva strappato alla sua patria, cacciò una palla in testa al suo padrone. Incendiò la casa, nella quale avevano cercato rifugio la moglie di lui, con i suoi tre figli, e gli altri bianchi della colonia, devastò da cima a fondo la piantagione, che gli eredi, i quali abitavano a Port-au-Prince, avrebbero potuto rivendicare, e, rasi al suolo tutti gli edifici che facevano parte della fattoria, si mise a battere la campagna circostante, con i negri che aveva raccolto e armato, per sostenere i confratelli nella lotta contro i bianchi.
Ora tendeva imboscate ai viaggiatori che attraversavano il paese in gruppi armati; ora assaliva in pieno giorno i piantatori barricati nelle loro fattorie, passando a fil di spada quanti vi si trovavano. E, nella sua disumana sete di vendetta, volle che anche la vecchia Babecan, e la figlia di lei, una giovane meticcia di quindici anni, di nome Toni, prendessero parte a quella guerra crudele, nella quale egli si sentiva ritornato giovane. E poiché l'edificio principale della piantagione, nel quale egli adesso abitava, sorgeva solitario sulla strada maestra, e spesso durante la sua assenza, passavano di là fuggiaschi bianchi o creoli, che vi cercavano cibo o ricovero, egli instruì le due donne a trattenere quei cani di bianchi, come li chiamava con soccorsi e gentilezze, fino al suo ritorno. Babecan, la quale, a causa di una crudele punizione subita in gioventù, soffriva di tubercolosi, in simili casi soleva abbigliare la giovane Toni, che, per il colorito chiaro del suo volto, era particolarmente adatta a quell'orribile astuzia, con le sue vesti più belle, e la incoraggiava a non rifiutare ai forestieri i suoi abbracci, tranne l'ultimo, che le era vietato, pena la morte; e, quando Congo Hoango ritornava con la sua banda di negri dalle scorrerie compiute nella zona, la morte immediata era il destino che toccava ai miseri che si erano lasciati ingannare da quelle arti.
Nell'anno 1803, quando, come ognuno sa, il generale Dessalines avanzò con trentamila negri contro Port-au-Prince, tutti coloro che avevano la pelle bianca corsero a difenderla, poiché era l'ultimo baluardo della potenza francese nell'isola e, se fosse caduta, tutti i bianchi che vi si trovavano sarebbero stati perduti senza scampo. Così avvenne che, in assenza del vecchio Hoango, il quale era partito, con i neri che aveva con sé, per consegnare al generale Dessalines un carico di piombo e polvere da sparo attraverso la linea dei presidi francesi, nell'oscurità di una notte piovosa e tempestosa qualcuno bussasse alla porta posteriore della sua casa. La vecchia Babecan, che era già a letto, si alzò, aprì la finestra, avvolgendosi una gonna intorno ai fianchi, e domandò chi fosse.
«In nome di Maria e di tutti i santi», disse lo sconosciuto a voce bassa, mettendosi sotto la finestra, «rispondete, prima che ve lo dica, a una domanda». E, allungata la mano, nell'oscurità della notte, per afferrare la mano della vecchia, domandò: «Siete negra?».
«Be', voi siete di certo un bianco», disse Babecan, «se preferite guardare in faccia questa notte buia come la pece, piuttosto di una negra! Entrate», aggiunse, «e non abbiate paura. Qui abita una mulatta, e l'unica che si trova in casa, oltre a me, è mia figlia, una meticcia».
E chiuse la finestra, come se volesse scendere ad aprirgli la porta; ma, con il pretesto che non riusciva a trovare subito la chiave, salì silenziosamente, con alcune vesti strappate in fretta dall'armadio, nella stanza di sopra, e svegliò la figlia.
«Toni!», chiamò. «Toni!».
«Che c'è, mamma?».
«Presto! Alzati e vestiti! Ecco i vestiti, la biancheria e le calze. Un bianco inseguito è alla porta e chiede di entrare!».
«Un bianco?», domandò Toni, tirandosi su a sedere sul letto. Prese i vestiti che la vecchia aveva in mano, e disse: «Ma è solo, mamma? Se lo facciamo entrare, non avremo nulla da temere?».
«Nulla, nulla!», rispose la vecchia, mentre faceva luce. «È disarmato, solo, e trema di paura che vogliamo saltargli addosso!»
E, mentre Toni si alzava e si infilava la gonna e le calze, accese la lanterna grande, che si trovava in un angolo della stanza, annodò in fretta i capelli sul capo della ragazza, secondo l'usanza del paese, le strinse il corpetto, la coprì con un cappello, gli mise in mano la lanterna e le ordinò di scendere nel cortile e fece entrare il forestiero.
Nel frattempo, all'abbaiare dei cani del cortile, si era destato un ragazzo, di nome Nanky, che Hoango aveva avuto dall'unione illegittima con una negra e che dormiva, con il fratello Seppy, in uno degli edifici adiacenti; e quando, al lume della luna, vide un uomo solo, in piedi, sui gradini posteriori della casa, corse subito, com'era istruito a fare in simili casi, verso il portone del cortile, dal quale era entrato lo sconosciuto, per sbarrarlo. Lo straniero, che non capiva che cosa questo significasse, domandò al ragazzo, nel quale riconobbe, con orrore, quando gli fu vicino, un negro, chi abitasse nella fattoria; e alla sua risposta che, alla morte del signor Villeneuve, la piantagione era venuta in possesso del negro Hoango, stava già per gettarsi su di lui, strappargli la chiave del portone, che teneva in mano, e fuggire all'aperto, quando Toni, con la lanterna in mano, apparve davanti alla casa.
«Presto!», disse, prendendolo per mano, e tirandolo verso la porta. «Di qua». E dicendo questo ebbe cura di tenere la lanterna in modo che la luce le battesse in pieno sul viso
«Chi sei?», gridò il forestiero, tirandosi indietro, mentre, disorientato da tante sorprese, osservava la sua giovane e graziosa figura. «Chi abita in questa casa, dove, a quel che dai a intendermi, dovrei trovare la mia salvezza?».
«Nessuno, per la luce del sole!», disse la fanciulla. «Nessuno, tranne me e mia madre!». E faceva forza per tirarselo dietro.
«Come, nessuno!», gridò il forestiero, arretrando di un passo, e liberando la mano. «Questo ragazzo mi ha appena detto che vi si trova un negro di nome Hoango».
«Se dico di no!», continuò la fanciulla, battendo il piede con espressione di contrarietà. «Anche se la casa appartiene a un malvagio che porta questo nome, in questo momento non c'è, è dieci miglia lontano da qui». E dicendo questo tirò in casa lo sconosciuto con tutte e due le mani, ordinò al ragazzo di non dire a nessuno chi era venuto, prese, quando ebbe raggiunto la porta, la mano dell'uomo e lo guidò su per la scala, in camera della madre.
«Be'», disse la vecchia, che dalla finestra aveva ascoltato l'intero colloquio, e alla luce della lanterna aveva notato che l'uomo era un ufficiale, «che vuol dire quella sciabola che tenere sotto il braccio, pronto a usarla? Noi», aggiunse mettendosi gli occhiali, «vi abbiamo offerto rifugio in casa nostra, con pericolo della nostra vita; siete entrato per ricambiare il beneficio con il tradimento, secondo l'uso dei vostri compatrioti?».
«Il cielo me ne guardi!», rispose il forestiero, che si era avvicinato alla sua sedia. Prese la mano della vecchia, se la premette sul petto e, dopo aver gettato intorno per la stanza alcune occhiate timorose, slacciò la sciabola che portava al fianco e disse: «Vedete davanti a voi il più infelice degli uomini, ma non un ingrato, né un malvagio».
«Chi siete?», domandò la vecchia, spingendo verso di lui una seggiola con il piede, e ordinò alla ragazza di andare in cucina, a preparargli alla meglio, in fretta, un po' di cena.
«Sono un ufficiale dell'esercito francese», rispose lo straniero, «benché, come potete giudicare da sola, io non sia francese; la mia patria è la Svizzera, e il mio nome Gustavo von der Ried. Ah, non l'avessi mai abbandonata, per venire in quest'isola sventurata! Vengo da Fort Dauphin, dove, come sapete, tutti i bianchi sono stati trucidati, e sto cercando di raggiungere Port-au-Prince, prima che il generale Dessalines riesca a circondarla e assediarla, con le truppe che conduce».
«Da Fort Dauphin!», esclamò la vecchia. «E con il colore che avete in viso avete percorso senza danno tutta questa strada, in un paese pieno di negri in rivolta?».
«Dio e tutti i santi», rispose lo straniero, «mi hamo protetto. E non sono solo, buona donna; nel gruppo che mi segue, che ho lasciato indietro, si trovano un venerabile vecchio, mio zio, con sua moglie e cinque figli, per non parlare dei domestici e delle serve della famiglia; un drappello di dodici persone in tutto, che devo condurre con me, con l'aiuto di due miseri muli, in marce notturne che sono una fatica indescrivibile, perché di giorno non possiamo mostrarci sulla strada maestra».
«In nome del cielo!», esclamò la vecchia; e, scuotendo il capo con commiserazione, aspirò una presa di tabacco. «E dove si trovano, in questo momento, le persone che viaggiano con voi ?».
«Di voi», riprese lo straniero, dopo aver riflettuto un poco, «di voi posso fidarmi; nel colore del vostro viso vedo trasparire un raggio del mio. La famiglia, sappiatelo, si trova a un miglio da qui, vicino allo Stagno dei Gabbiani, nel folto della foresta montuosa che lo circonda; la fame e la sete ci costrinsero, l'altro ieri, a cercare quel rifugio. Invano, la notte scorsa, abbiamo mandato i nostri servi a cercare un po' di pane e di vino tra gli abitanti della zona; la paura di essere presi e uccisi li trattenne dall'esporsi. Per questo oggi ho dovuto lasciare il rifugio io stesso, a rischio della vita, per tentare la fortuna. E il cielo, se non è tutto un inganno», proseguì, stringendo la mano della vecchia, «mi ha guidato presso gente misericordiosa, che non partecipa all'inaudito, crudele accanimento che ha travolto tutti gli abitanti di quest'isola. Abbiate la bontà, in cambio di un generoso compenso, di riempiermi qualche cesta di viveri e bevande; ci mancano soltanto cinque giorni di viaggio per Port-au-Prince, e, se ci procurate i viveri per raggiungere quella città, vi considereremo per sempre i salvatori della nostra vita».
«Sì, questo folle accanimento», disse ipocritamente la vecchia. «Non è come se le mani di uno stesso corpo, o i denti di una stessa bocca, infierissero gli uni contro gli altri, perché non sono fatti tutti nello stesso modo? Che ci posso fare se mio padre è nato a Santiago, nell'isola di Cuba, e se, quando fa giorno, un barlume di luce affiora sul mio viso? E che ne può mia figlia, concepita e nata in Europa, se dal suo viso traspare il giorno pieno di quel continente?».
«Come», esclamò il forestiero, «voi, che in ogni tratto del volto siete una mulatta, e dunque di origine africana, e la graziosa giovane meticcia che mi ha aperto la porta, subite la stessa condanna di noi europei?».
«Per tutti i santi!», rispose la vecchia, levandosi gli occhiali.
«Credete che la piccola proprietà che ci siamo guadagnate in anni di fatica e di sofferenze, con il lavoro delle nostre mani, non faccia gola a questa feroce accozzaglia di ladri, uscita dall'inferno? Se non sapessimo metterci al riparo dalle loro persecuzioni con l'astuzia, e con tutte le arti che la necessità di difendersi insegna ai deboli, l'ombra di parentela che abbiamo sul viso, potete starne certo, non servirebbe a nulla!».
«Non è possibile!», esclamò il forestiero. «E chi vi perseguita su quest'isola?».
«Il padrone di questa casa», rispose la vecchia. «Il negro Congo Hoango. Dalla morte del signor Guillaume, che era il proprietario di questa piantagione, e che allo scoppio della rivolta è stato abbattuto dalla sua mano feroce, noi che, come suoi parenti, amministriamo il podere, siamo in balia del suo arbitrio e della sua violenza. Ogni pezzo di pane, ogni sorso d'acqua che, per umanità, concediamo all'uno o all'altro dei bianchi in fuga, che di tanto in tanto passano lungo la strada, ce lo ricambia con insulti e maltrattamenti; e il suo più gran desiderio sarebbe scatenare contro di noi, cani bastardi bianchi e creoli, come ci chiama, la vendetta dei neri; sia per liberarsi di noi, che gli rimproveriamo la sua crudeltà verso i bianchi, sia per venire in possesso della piccola proprietà che lasceremmo».
«Infelici!», disse il forestiero. «Vi compatisco. E dove si trova in questo momento quel sanguinario?».
«Con le truppe del generale Dessalines», rispose la vecchia.
«Insieme agli altri negri della piantagione gli ha portato un carico di munizioni del quale il generale aveva bisogno. Se non si mette in altre imprese, lo aspettiamo fra una decina di giorni. E se allora, Dio ne scampi, viene a sapere che abbiamo concesso protezione e rifugio a un bianco in viaggio per Port-au-Prince, mentre egli partecipa con tutte le sue forze alla lotta per cancellare dall'isola tutta la vostra razza, saremmo tutte e due, potete crederei, votate alla morte».
«Il cielo, che ama l'umanità e la compassione», rispose lo straniero, «vi proteggerà, per l'aiuto che date a un infelice! E poiché, in tal caso», aggiunse, avvicinandosi di più alla vecchia, «vi sareste ormai attirate la collera del negro e l'obbedienza, anche se voleste fare marcia indietro, non vi gioverebbe più a nulla, non potreste risolvervi, per qualunque compenso vogliate stabilire, a dare ricovero per un giorno o due, in casa vostra, a mio zio e alla sua famiglia, ridotta allo stremo dal viaggio, in modo che si riprendano un poco?».
«Signore!», disse la vecchia, sorpresa. «Che cosa mi chiedete? Come è possibile ospitare in una casa che si trova sulla strada maestra un gruppo numeroso come il vostro, senza che la gente dei dintorni lo venga a sapere?».
«Perché no», insistette lo straniero, «se io stesso partissi subito per lo Stagno dei Gabbiani, e guidassi la mia gente nella fattoria, prima che faccia giorno? Potremmo alloggiare tutti, padroni e servitù, in una sola stanza, e magari, per timore del peggio, usare la precauzione di tenere ben chiuse le porte e le finestre».
La vecchia, dopo aver riflettuto alquanto sulla proposta, rispose che, se avesse cercato, quella notte stessa, di condurre il suo drappello dalle forre montane nella fattoria, sulla via del ritorno si sarebbe immancabilmente imbattuto in una banda di negri armati, che era stata annunciata sulla strada maestra da alcuni tiratori mandati in avanscoperta.
«Ebbene», replicò lo straniero, «accontentiamoci, per ora, di mandare a quegli infelici una cesta di viveri, e rimandiamo il tentativo di portarli nella fattoria alla notte prossima. Volete far questo, buona donna?».
«Ma sì», disse la vecchia, mentre le labbra dello straniero coprivano di baci la sua mano ossuta, «per l'europeo che è stato il padre di mia figlia, farò questo favore ai suoi compatrioti perseguitati. Domattina scriverete ai vostri un biglietto, invitandoli a venire qui da me nella fattoria; il ragazzo che avete visto nel cortile lo porterà laggiù, con un po' di provviste, passerà la notte con loro sui monti, per maggiore sicurezza, e il mattino seguente, se accetteranno l'invito, farà loro da guida fin qui, lungo il cammino».
Nel frattempo Toni era ritornata con la cena preparata in cucina, e, lanciandò un'occhiata al forestiero, domandò alla vecchia in tono scherzoso, mentre preparava la tavola: «Allora mamma, di' un po', il signore si è rimesso dallo spavento che si era preso sulla porta di casa? Si è convinto che qui non l'attendono né il veleno né il pugnale, e che il negro Hoango non è in casa?».
«Bimba mia», disse la madre con un sospiro, «dice il proverbio: chi s'è scottato non si fida del fuoco. Il signore avrebbe agito in modo imprudente, se si fosse arrischiato a entrare in casa prima di essere sicuro della razza alla quale appartenevano i suoi abitanti».
La fanciulla si mise di fronte alla madre, e le raccontò che aveva tenuto la lanterna in modo che la sua piena luce le battesse sul viso. «Ma la sua immaginazione», aggiunse, «vedeva solo negri e mori; e anche se gli avesse aperto una dama di Parigi o di Marsiglia, l'avrebbe presa per una negra».
Lo straniero, mettendole dolcemente il braccio intorno alla vita, disse con imbarazzo che il cappello che portava gli aveva impedito di guardarla in viso. «Se avessi potuto», continuò stringendola al petto, «guardarti negli occhi, come posso fare adesso, anche se tutto il resto in te fosse stato nero, avrei bevuto con te anche da un bicchiere avvelenato». E dicendo queste parole arrossì.
La madre gli fece prendere posto; Toni si sedette accanto a lui, appoggiando i gomiti sulla tavola, e, mentre lo straniero mangiava, lo fissava in viso. Lo straniero le domandò quanti anni aveva, e in che città era nata; la madre, presa la parola, disse che Toni era stata concepita e messa al mondo a Parigi quindici anni prima, durante un viaggio in Europa nel quale aveva accompagnato la moglie del signor Villeneuve, che era allora il suo padrone. Il negro Comar, che l'aveva poi sposata, continuò, aveva accettato Toni come una figlia; ma il vero padre era un ricco commerciante di Marsiglia, di nome Bertrand dal quale la ragazza si chiamava appunto Toni Bertrand. Toni gli domandò se in Francia non l'avesse conosciuto.
«No», rispose lo straniero; il paese era grande, e, durante il breve soggiorno che aveva preceduto il suo imbarco per le Indie Occidentali, non aveva incontrato nessuno con quel nome.
La vecchia aggiunse che, inoltre, secondo notizie abbastanza sicure da lei raccolte, il signor Bertrand non doveva più essere in Francia. «Era un uomo molto ambizioso», disse, «che non sopportava la limitatezza della vita borghese. Allo scoppio della rivoluzione si immischiò negli affari pubblici, e nell'anno 1795 si recò con una delegazione francese alla corte turca, dalla quale, per quanto ne so, non è ancora ritornato».
Lo straniero disse sorridendo a Toni, prendendole la mano, che allora lei era una ragazza nobile e ricca. La invitò a far valere quei vantaggi, e disse che c'era speranza che un giorno suo padre la introducesse in un mondo più brillante di quello nel quale ora viveva!
«Sarà difficile», disse la madre, con risentimento represso.
«Quando ero incinta, a Parigi, il signor Bertrand, che si vergognava di fronte a una fidanzata giovane e ricca che voleva sposare, negò in tribunale la paternità di questa creatura. Non dimenticherò mai il giuramento che ebbe l'impudenza di pronunciare, in faccia a me; me ne venne una febbre biliare, e poco dopo anche sessanta frustate, che mi fece dare il signor Villeneuve; per quelle frustate soffro ancora oggi di mal sottile».
Toni, che aveva appoggiato il capo sulla mano, pensierosa, domandò allo straniero chi fosse, di dove venisse e dove fosse diretto. Dopo un breve imbarazzo, nel quale l'aveva messo l'amaro discorso della vecchia, questi rispose che veniva da Fort Dauphin, insieme alla famiglia di suo zio, il signor Strömli, che aveva lasciata, sotto la protezione di due giovani cugini, nella foresta montuosa che dava sullo Stagno dei Gabbiani. Poi, su preghiera della ragazza, raccontò molti particolari della rivolta scoppiata in quella città. Verso la mezzanotte, mentre tutti dormivano, a un segno dato a tradimento si era scatenata la strage dei negri contro i bianchi. Il capo dei negri, che era sergente nel corpo dei genieri francesi, aveva avuto la crudeltà di incendiare subito nel porto tutte le navi, per impedire ai bianchi la fuga verso l'Europa. La sua famiglia aveva avuto appena il tempo di salvarsi fuori dalle porte della città con poche robe; e, poiché la rivolta divampava contemporaneamente in tutte le località costiere, non le era rimasto altro da fare che prendere, con due muli che erano riusciti a procurarsi, la via che, attraversando tutto il paese, portava a Port-au-Prince, l'unica città che, difesa da un forte esercito francese, resistesse ancora al dominio dilagante dei negri.
Toni domandò in che modo i bianchi si fossero attirati tanto odio.
«Per la posizione comune», rispose il forestiero, colpito, «che, come padroni dell'isola, avevano nei confronti dei neri; e che io, per dire la verità, non mi attenterei a difendere. Ma esisteva, immutata, già da molti secoli! La frenesia della libertà, che ha contagiato tutte le piantagioni, ha spinto negri e creoli a spezzare le catene che li opprimevano, e a vendicarsi contro i bianchi dei molti e condannabili maltrattamenti subiti per colpa di alcuni bianchi malvagi».
«Soprattutto», continuò, dopo un breve silenzio, «mi ha colpito e mi è parso raccapricciante il gesto di una ragazza. Questa giovane, di razza negra, quando divampò l'insurrezione era ammalata di febbre gialla che, per raddoppiare la sventura, era scoppiata in città. Tre anni prima aveva lavorato come schiava al servizio di un colono di razza bianca; questi risentito perché non si era mostrata arrendevole ai suoi desideri, l'aveva duramente maltrattata, e poi venduta a un colono creolo. Il giorno della rivolta generale la ragazza venne a sapere che quel piantatore, il suo antico padrone, aveva cercato scampo dal furore dei negri che lo inseguivano in una legnaia vicina; allora, ricordandosi dei maltrattamenti subiti, sull'imbrunire aveva mandato da lui suo fratello, per offrirgli di passare la notte presso di lei. L'infelice, che non sapeva che la ragazza fosse malata, e tanto meno di quale malattia soffrisse, venne e, pieno di gratitudine, credendosi salvo, si gettò fra le sue braccia. Ma non aveva trascorso mezz'ora nel suo letto, tra baci e carezze, quando lei di colpo, con un'espressione di selvaggio e gelido furore, si alzò, dicendo: "Hai baciato una malata di peste, che porta la morte nel petto. Vai a portare la febbre gialla a tutti quelli che ti assomigliano!"».
L'ufficiale, mentre la vecchia esprimeva con esclamazioni il suo orrore per quel gesto, domandò a Toni se lei sarebbe stata capace di un'azione simile. «No!», disse Toni, e abbassò, confusa, lo sguardo davanti a sé. Lo straniero, posando sulla tavola il tovagliolo, aggiunse che, secondo i sentimenti del suo animo, nessuna tirannia che i bianchi avessero commesso poteva giustificare un così orribile e spregevole tradimento. «Un simile gesto», disse, alzandosi, con espressione appassionata, «disarmava la vendetta del cielo: gli angeli stessi, indignati da tanto, si sarebbero messi dalla parte di coloro che avevano torto e, per conservare l'ordine umano e divino, avrebbero preso le difese della loro causa!». Pronunciando queste parole, si avvicinò per un momento alla finestra e guardò fuori, nella notte, che trascorreva con nuvole tempestose, oscurando la luna e le stelle; e poiché gli sembrò che la madre e la figlia si guardassero, anche se non notò affatto che si fossero fatte cenni d'intesa, un senso di noia e di repulsione lo invase; si voltò, e pregò che gli indicassero la camera dove avrebbe potuto dormire.
La madre, guardando verso la pendola, osservò che era quasi mezzanotte, prese in mano un lume, e invitò lo straniero a seguirla. Attraverso un lungo corridoio, lo condusse nella stanza che gli era destinata; Toni portò il mantello e le altre cose che egli aveva deposto. La madre gli indicò un comodo letto, con molti cuscini, per dormire, e, dopo aver ordinato a Toni di preparare un bacile perché il signore potesse rinfrescarsi i piedi, gli augurò la buona notte e si congedò.
Lo straniero posò in un angolo la spada e depose sul tavolo due pistole che portava alla cintola. Mentre Toni sprimacciava il letto, e vi stendeva sopra un lenzuolo bianco, si guardò intorno nella stanza, e concluse subito, dal lusso e dal gusto che vi regnavano, che doveva essere appartenuta al primo proprietario della piantagione. Un senso di inquietudine gli calò sul cuore, come un avvoltoio, e desiderò di essere di ritorno fra i suoi, nella foresta, affamato e assetato com'era venuto.
Intanto la ragazza era andata a prendere dall'attigua cucina un recipiente di acqua calda, che profumava di erbe odorose, e invitò l'ufficiale, che si era appoggiato alla finestra, a ristorarsi. Liberandosi in silenzio della cravatta e del panciotto, l'ufficiale si sedette sulla sedia; e, mentre si accingeva a togliersi gli stivali, e la ragazza, accoccolata in ginocchio davanti a lui, attendeva ai piccoli preparativi per il bagno, osservò la sua attraente figura. I suoi capelli, in onde di riccioli scuri, erano scivolati, quando si era inginocchiata, sui giovani seni; un tratto di grazia non comune giocava intorno alle sue labbra e sulle lunghe ciglia che coprivano gli occhi abbassati; avrebbe potuto giurare che, all'infuori del colore, che gli ripugnava, non aveva mai visto nulla di più bello. E poi notava una lontana somiglianza, non sapeva ancora esattamente lui stesso con chi, che aveva già osservato entrando in casa e che in tutta l'anima gli parlava in suo favore.
Quando lei, continuando le sue faccende, si alzò in piedi, la prese per mano e ritenendo, molto giustamente, che non v'era che un modo per scoprire se la fanciulla avesse un cuore oppure no, la fece sedere sulle sue ginocchia e le domandò se era già fidanzata.
«No», sussurrò la ragazza, abbassando a terra i grandi occhi neri con delizioso pudore. E, immobile sulle sue ginocchia, aggiunse che sì, Conelly, un giovane negro del vicinato, l'aveva chiesta in moglie tre mesi prima; ma lei aveva detto di no; era ancora troppo giovane.
Lo straniero, che con le mani le cingeva la vita sottile, disse che nel suo paese, secondo un proverbio, una ragazza di quattordici anni e sette settimane era già in età da marito. E, mentre lei osservava una piccola croce d'oro che lui portava sul petto, le chiese quanti anni aveva.
«Quindici», rispose Toni.
«E dunque!», continuò lo straniero. «È forse troppo povero, per mettere su casa con te come vorresti?».
«Oh, no!», rispose Toni, senza alzare gli occhi su di lui. «Al contrario», disse, lasciando andare la piccola croce che teneva in mano. «Conelly, con la piega che hanno preso le cose, è diventato ricco; a suo padre è toccata tutta la piantagione che prima apparteneva al suo padrone».
«E allora perché hai respinto la sua proposta?», domandò lo straniero. E, allontanandone i capelli dalla fronte con una carezza gentile, aggiunse: «Forse non ti piaceva?».
La fanciulla rise, scuotendo brevemente la testa; e, quando lo straniero le sussurrò scherzosamente all'orecchio se doveva essere un bianco a ottenere il suo favore, lei di colpo, dopo un attimo di trasognata esitazione, con un delizioso rossore che le accendeva il volto gli si abbandonò sul petto.
Lo straniero, commosso dalla sua grazia e dalla sua dolcezza, la chiamò la sua cara fanciulla e, sollevato da ogni angoscia come per mano divina, la chiuse tra le sue braccia. Gli era impossibile credere che tutti i gesti che aveva osservato in lei non fossero che la sciagurata espressione di un freddo, mostruoso tradimento. I pensieri che l'avevano reso inquieto si dileguarono, come uno stormo di uccelli orribili; si biasimò per aver dubitato a torto, anche per un attimo, del suo cuore, e, dondolandola sulle ginocchia, suggendo il dolce respiro che saliva da lei, le impresse, quasi come un segno di riconciliazione e di perdono, un bacio sulla fronte.
Intanto la ragazza si era rizzata messa bruscamente in ascolto, come se qualcuno si avvicinasse alla porta lungo il corridoio; con espressione pensierosa e sognante, si aggiustò lo scialle che le si era spostato sul petto, e solo quando si accorse di essersi ingannata si volse di nuovo al forestiero, con il viso allegro, e gli ricordò che l'acqua, se non l'avesse usata subito, si sarebbe raffreddata.
«Che cosa c'è?», chiese, preoccupata, vedendo che lo straniero taceva, e la guardava pensieroso. «Perché mi osservate così attentamente?». E cercò di nascondere il suo improviso imbarazzo aggiustandosi il corpetto. «Strano signore», esclamò ridendo, «che cos'è che vi colpisce tanto nel mio aspetto?».
Lo straniero, che si era passato la mano sulla fronte, disse, soffocando un sospiro, mentre la faceva scendere dalle sue ginocchia: «Una strana somiglianza fra te e un'amica».
Toni, che vedeva bene come la sua allegria si fosse dissipata, gli prese con affetto gentile la mano, e domandò: «Quale amica?».
Dopo una breve riflessione, egli rispose: «Il suo nome era Marianna Congrève, e la sua città natale Strasburgo. L'avevo conosciuta laggiù, dove suo padre aveva un commercio, poco prima che scoppiasse la rivoluzione, ed ero stato così fortunato da ottenere il suo consenso e, provvisoriamente, anche quello di sua madre. Ah, era l'anima più fedele sotto il sole; e le circostanze atroci e commoventi in cui l'ho perduta mi ritornano, quando ti guardo, così presenti, che per la tristezza non posso trattenere le lacrime».
«Come?», disse Toni, premendosi forte e con tenerezza contro di lui. «Non vive più?».
«È morta», rispose lo straniero. «E solo dalla sua morte ho imparato che cosa sono la vera bontà e la grandezza d'animo. Dio sa», continuò, appoggiando dolorosamente il capo sulla spalla di lei, «come abbia potuto spingere tanto oltre la mia sconsideratezza da arrischiare una sera, in un luogo pubblico, un giudizio sul terribile tribunale rivoluzionario che era stato appena costituito. Fui messo sotto accusa, mi cercarono; e, in mancanza di me, che avevo avuto la fortuna di trovare scampo nei sobborghi, la masnada dei miei forsennati persecutori, che volevano ad ogni costo una vittima, corse a casa della mia fidanzata; infuriati perché assicurava, ed era vero, che non sapeva dove fossi, con il pretesto che era d'accordo con me la trascinarono, con inaudita leggerezza, al patibolo al posto mio. Appena mi fu riportata quella spaventosa notizia, uscii dal nascondiglio in cui mi ero rifugiato e, fendendo la calca, corsi verso il patibolo gridando: "Eccomi, bestie feroci, eccomi!". Ma lei, che era già sul palco della ghigliottina, alla domanda dei giudici, che sventuratamente non mi conoscevano, con uno sguardo che mi si è impresso nell'anima per sempre, voltò il viso, dicendo: "Non conosco quest'uomo...".
«E, al rullo dei tamburi e alle urla impazienti di quei sanguinari, la lama, pochi istanti dopo, cadde e le spiccò il capo dal busto... Come mi abbiano salvato, non so. Mi trovai, un quarto d'ora dopo, nella casa di un amico, dove passai da uno svenimento all'altro; e a sera, semipazzo, mi caricarono su una carrozza e mi portarono oltre il Reno».
Con queste parole lo straniero lasciò la fanciulla e si avvicinò alla finestra; e, quando lei vide che egli premeva nel fazzoletto il viso commosso, un sentimento umano, destato da molti lati, la sopraffece; con un movimento improvviso lo seguì, gli gettò le braccia al collo e mescolò le sue lacrime a quelle di lui.
Ciò che venne poi non occorre narrarlo, poiché chiunque sia arrivato a questo punto lo intende da sé. Lo straniero, quando si fu ripreso, non sapeva dove l'avrebbe condotto l'azione che aveva commesso; ma capiva di essere salvo, e che, nella casa in cui si trovava, non aveva nulla da temere da parte della fanciulla. Vedendola piangere sul letto, con le braccia incrociate, fece tutto il possibile per calmarla. Si tolse dal petto la piccola croce d'oro, dono della sua fedele Marianna, la sua fidanzata morta, e, chinandosi su di lei con infinite carezze, gliela mise al collo, come dono di fidanzamento, così disse. E poiché lei continuava a sciogliersi in lacrime, e non ascoltava le sue parole, si sedette sul bordo del letto e le disse, ora accarezzandole, ora baciandole la mano, che il mattino seguente l'avrebbe chiesta in sposa a sua madre. Le descrisse la piccola proprietà, libera da qualsiasi gravame, che possedeva sulle rive della Aar, la casa, abbastanza comoda e spaziosa per accogliere lei e anche sua madre, se l'età le avesse permesso di compiere il viaggio per raggiungerla; i campi, il giardino, i prati, la vigna; e il vecchio padre venerando, che l'avrebbe accolta con gratitudine e con amore, perché aveva salvato suo figlio. La chiuse, poiché le sue lacrime continuavano a sgorgare senza fine, inzuppando il cuscino, tra le sue braccia, e le domandò, a sua volta commosso, che cosa le aveva fatto di male, e se non poteva perdonarlo. Le giurò che l'amore per lei non sarebbe mai venuto meno nel suo cuore, e che soltanto, nella vertigine di una strana confusione dei sensi, una mescolanza di desiderio e di paura che lei gli aveva ispirato aveva potuto spingerlo a commettere una simile azione. Le ricordò, infine, che brillavano già le stelle del mattino, e che, se fosse rimasta più a lungo nel letto, sua madre sarebbe giunta e ve l'avrebbe sorpresa; la invitò, per amore della sua salvezza, ad alzarsi e a riposare ancora qualche ora nel proprio letto; le chiese, mentre l'angoscia per il suo stato gli causava un vero tormento, se non voleva che la prendesse tra le braccia e la portasse in camera sua; e poiché non rispondeva a nessuna delle sue parole, e continuava a piangere silenziosamente, distesa tra i cuscini scompigliati nel letto, immobile, con il capo premuto tra le braccia, non gli restò alla fine, poiché dalle due finestre entrava già la luce chiara del giorno, altro da fare che prenderla in braccio, senza altri discorsi; la portò, che pendeva dalla sua spalla come senza vita, su per la scala, in camera sua, e, dopo averla adagiata sul suo letto e averle ripetuto ancora una volta, tra mille carezze, tutto ciò che le aveva già detto, la chiamò ancora una volta la sua cara sposa, le premette un bacio sulle guance e ritornò in fretta nella propria stanza.
Non appena fu giorno fatto, la vecchia Babecan salì dalla figlia e le rivelò, sedendosi accanto al suo letto, il piano che aveva in mente, a proposito dello straniero e di quelli che viaggiavano con lui. Disse che, poiché il negro Congo Hoango non sarebbe ritornato prima di due giorni, si trattava soltanto di trattenere in casa lo straniero per il tempo necessario, cercando di evitare che arrivassero i suoi familiari, che, a causa del loro numero, avrebbero potuto essere pericolosi. A questo scopo, continuò, aveva pensato di far credere allo straniero che, secondo una notizia appena arrivata, il generale Dessalines avrebbe attraversato la regione con le sue truppe, e perciò, dato l'estremo pericolo, soltanto il terzo giorno, quando fosse ormai passato, sarebbe stato possibile accogliere in casa la sua famiglia, secondo il suo desiderio. Nel frattempo, concluse, bisognava rifornire quella gente di viveri, perché non continuassero il viaggio, e inoltre mantenerli, in modo da potersi impadronire di loro successivamente, nell'illusione di trovare rifugio nella casa. La cosa era importante, osservò, perché probabilmente la famiglia aveva con sé beni considerevoli; ed esortò la figlia ad appoggiarla con tutte le sue forze nel disegno che le aveva esposto.
Toni, seduta sul letto, rispose, mentre il rossore dell'indignazione le accendeva il volto, che era una vergogna e un'infamia violare in quel modo le leggi dell'ospitalità a danno di persone attirate in quella casa. Un uomo perseguitato che si era affidato alla loro protezione avrebbe dovuto essere doppiamente sicuro, presso di loro; e assicurò che, se non avesse rinunciato al sanguinario proposito che le aveva esposto, sarebbe andata immediatamente dallo straniero, e gli avrebbe rivelato quale covo di assassini fosse la casa in cui aveva creduto di trovare scampo.
«Toni!», disse la madre, mettendosi le mani sui fianchi e guardandola con gli occhi sbarrati.
«Sicuro!», rispose Toni, abbassando la voce. «Che cosa ci ha fatto di male questo giovane, che per nascita non è neppure francese, ma, come abbiamo visto, è svizzero, perché noi, come briganti, dobbiamo aggredirlo, ucciderlo e derubarlo? Le accuse che si fanno qui contro i piantatori valgono forse anche per la parte dell'isola dalla quale viene? E tutto non ci dimostra, invece, che è la persona più nobile e migliore che ci sia, e che certo non ha nessuna colpa delle ingiustizie che i neri rimproverano alla sua razza?».
La vecchia, osservando la strana espressione della fanciulla disse soltanto, con le labbra tremanti, che si meravigliava. E che colpa aveva, domandò, il giovane portoghese che, poco tempo prima, era stato abbattuto sotto il portone a colpi di mazza? E che cosa avevano commesso i due olandesi che, tre settimane prima, erano caduti nel cortile sotto le pallottole dei neri? E, volle sapere, i tre francesi, e tutti gli altri fuggiaschi isolati di razza bianca che erano stati ammazzati nella casa, a fucilate, a colpi di lancia e di pugnale, dall'inizio dell'insurrezione, di che cosa erano stati accusati?
«Per la luce del sole!», gridò la figlia, saltando in piedi come una furia. «Hai torto a rinfacciarmi questi orrori! Le crudeltà alle quali mi costringete a partecipare mi ripugnavano già da un pezzo, nel profondo; e per placare la vendetta di Dio contro di me, per tutto ciò che è successo, ti giuro che morirò dieci volte, piuttosto di lasciare che a questo giovane sia torto anche solo un capello, finché si trova nella nostra casa».
«E va bene», disse la vecchia, con improvvisa arrendevolezza, «che lo straniero se ne vada pure! Ma quando Congo Hoango ritorna», aggiunse, alzandosi per lasciare la stanza, «e verrà a sapere che un bianco ha passato la notte in casa nostra, gli renderai conto della pietà che ti ha spinto, contro i suoi espressi ordini, a lasciarlo andar via».
A queste parole, dalle quali, a dispetto della loro apparente moderazione, traspariva copertamente la collera della vecchia, la fanciulla restò sola nella stanza, profondamente abbattuta. Conosceva troppo bene l'odio della madre per i bianchi, per credere che si lasciasse sfuggire quell'occasione di saziarlo. Il timore che mandasse subito qualcuno nelle piantagioni vicine, a raccogliere i negri per sopraffare lo straniero, la spinse a vestirsi e a seguirla senza indugio nella stanza di sotto. Mentre la vecchia si allontanava turbata dalla credenza, dove sembrava aver trafficato qualcosa, e si sedeva alla spola per filare, si fermò davanti al proclama affisso alla porta, nel quale si vietava a tutti i neri, pena la morte, di offrire ai bianchi asilo e protezione; e, come se, spaventata, si fosse resa conto di essersi comportata male, si voltò di colpo, e cadde ai piedi della madre, che, come ben sapeva, da dietro la stava osservando. Abbracciandola le ginocchia, la pregò di perdonare le follie che si era permessa di dire in difesa dello straniero; si scusò, adducendo lo stato, a metà fra il sogno e la veglia, nel quale era stata sorpresa, ancora a letto, dalle sue proposte di vincerlo con l'astuzia; e disse che l'abbandonava senz'altro alla vendetta delle leggi del paese, che ormai ne avevano decretato la morte.
La vecchia, dopo una pausa, durante la quale aveva guardato fisso la ragazza, disse: «Per il cielo, quel che hai detto gli salva la vita, per oggi! Perché il suo cibo, dato che minacciavi di prenderlo sotto la tua protezione, era già avvelenato, e, almeno morto, l'avrebbe messo nelle mani di Congo Hoango, secondo i suoi ordini». E, così dicendo, si alzò e rovesciò fuori dalla finestra una scodella di latte che era sulla tavola.
Toni, non credendo ai propri occhi, fissò inorridita la madre con gli occhi sgranati. La vecchia tornò a sedersi, fece alzare la ragazza, che era rimasta in ginocchio sul pavimento, e le domandò che cosa le avesse fatto cambiare così improvvisamente idea nel corso di una notte. La sera prima, dopo avergli preparato l'acqua calda, era rimasta ancora molto con lui? Aveva parlato a lungo con lo straniero? Ma Toni, con il petto che le batteva, non disse nulla, o nulla di preciso; rimase in piedi, con gli occhi fissi a terra, e, tenendosi la testa con le mani, parlò di un sogno; ma uno sguardo al petto della sua povera mamma, disse, chinandosi in fretta a baciarle la mano, bastava a richiamarle alla memoria tutta la crudeltà della razza alla quale lo straniero apparteneva; e, assicurò, voltandosi e premendo il volto nel grembiule, non appena fosse rientrato il negro Congo Hoango, lei avrebbe visto quale figlia aveva.
Babecan stava ancora seduta, pensierosa, riflettendo da dove provenisse la strana eccitazione della ragazza, quando lo straniero, che aveva in mano un foglio scritto in camera sua, nel quale invitava la famiglia a passare alcuni giorni nella piantagione del negro Hoango, entrò nella stanza. Salutò, con fare lieto e gentile, madre e figlia, e le pregò, porgendo il biglietto alla vecchia, di mandare subito qualcuno nella foresta, a prendersi cura della sua famiglia, secondo la promessa fatta.
Babecan si alzò e disse con inquietudine, riponendo il biglietto nell'armadio: «Signore, dobbiamo pregavi di tornare immediatamente nella vostra camera da letto. La strada è piena di drappelli di negri in marcia, e ci hanno detto che il generale Dessalines sta per attraversare con le sue truppe questa regione. Questa casa, aperta a tutti, non vi garantisce alcuna sicurezza, se non vi nascondete in camera vostra, che dà sul cortile, e non chiudete perfettamente le porte, e anche le imposte alle finestre».
«Come?», disse lo straniero stupito. «Il generale Dessalines...».
«Non fate domande!», lo interruppe la vecchia, battendo tre volte sul pavimento con un bastone. «Nella vostra camera, dove vi seguirò subito, vi spiegherò tutto».
Lo straniero, spinto fuori dalla stanza dai gesti ansiosi della vecchia, si voltò ancora una volta, sulla soglia, dicendo: «Ma, alla famiglia che mi aspetta, non si potrà almeno mandare un messaggio che...».
«Ci occuperemo di tutto», lo interruppe la vecchia, mentre chiamato dai suoi colpi, entrava il ragazzo che già conosciamo, ordinò a Toni, la quale, voltando le spalle allo straniero, si era messa davanti allo specchio, di prendere una cesta di viveri che stava in un angolo, e la madre, la figlia, lo straniero e il ragazzo salirono nella camera da letto.
Qui la vecchia, messasi comodamente a sedere nella poltrona, raccontò che per tutta la notte, sui monti che chiudevano l'orizzonte, si erano visti brillare i fuochi del generale Dessalines: circostanza realmente fondata, anche se, fino a quel momento, nella zona non si era ancora mostrato neppure un negro del suo esercito, che avanzava verso sud-ovest, in direzione di Port-au-Prince. In questo modo le riuscì di gettare lo straniero in un vortice d'inquietudine, che seppe poi calmare, assicurandolo che avrebbe fatto tutto il possibile, anche nel caso peggiore che le toccasse alloggiare le truppe, per salvarlo. Alle ripetute, insistenti preghiere dello straniero che, in quelle circostanze, si aiutasse almeno la sua famiglia mandando dei viveri, prese dalle mani della figlia la cesta e, porgendole al ragazzo, gli disse di andare allo Stagno dei Gabbiani, nella foresta vicina, e consegnarlo alla famiglia dell'ufficiale straniero, che vi si trovava. L'ufficiale, avrebbe dovuto riferire, stava bene; amici dei bianchi, i quali, per il partito che avevano preso, erano anch'essi esposti ai maltrattamenti dei negri, l'avevano accolto per compassione in casa loro. Non appena la strada maestra fosse stata sgombra dalle bande di negri armati che si stavano aspettando, concluse, si sarebbero prese le misure opportune per offrire anche alla famiglia un rifugio in quella casa.
«Hai capito?», domandò, quando ebbe finito. Il ragazzo, mettendosi il paniere sulla testa, rispose che conosceva benissimo lo Stagno dei Gabbiani di cui aveva parlato, perché, di tanto in tanto, ci andava a pescare con i compagni; e avrebbe riferito tutto, così come gli era stato detto, alla famiglia del signore straniero che vi era accampata.
Lo straniero, alla domanda della vecchia se avesse ancora qualcosa da aggiungere, si tolse dal dito un anello e lo porse al ragazzo, perché lo consegnasse al signor Strömli, il capofamiglia, per attestare che le cose da lui riferite rispondevano a verità. Poi la madre si occupò di vari preparativi diretti, come diceva, alla sicurezza del forestiero; ordinò a Toni di chiudere le imposte alle finestre e, per fugare le tenebre scese nella stanza, accese lei stessa un lume, con un acciarino che si trovava sulla mensola del camino: ma dovette trafficare un po', perche l'esca non voleva prendere. Lo straniero approfittò di quel momento per mettere dolcemente il braccio intorno alla vita di Toni, e sussurrarle all'orecchio se aveva dormito bene, e se egli non dovesse mettere la madre al corrente di quanto era avvenuto. Ma alla prima domanda Toni non rispose, e alla seconda, sciogliendosi dal suo braccio, disse: «No! Se mi amate, non una parola!»; represse l'angoscia che suscitavano in lei quei subdoli preparativi e, col pretesto di preparare la colazione al forestiero, scese di corsa nella stanza di soggiorno.
Prese dall'armadio della madre il biglietto con il quale il forestiero, ignaro, aveva invitato la famiglia a seguire il ragazzo nella piantagione, e decise di giocare il tutto per tutto, sperando che la madre non lo cercasse: risoluta, nel peggiore dei casi, a morire con lui, volò con il biglietto dietro al ragazzo, che si era già incamminato per la strada maestra. Poiché, davanti a Dio e al suo cuore, quel giovane non era più un semplice ospite, al quale aveva concesso protezione e rifugio, ma era il suo promesso sposo; ed era disposta, non appena il partito di lui fosse stato abbastanza forte nella casa, a confessarlo senza ritegno alla madre, anche se prevedeva, in circostanze simili, la sua costernazione.
«Nanky», disse senza fiato, quando ebbe raggiunto di corsa il ragazzo sulla strada maestra, «mia madre ha cambiato il suo piano, a proposito della famiglia del signor Strömli. Prendi questo foglio! È indirizzato al signor Strömli, il vecchio capofamiglia, e lo invita a passare qualche giorno nella nostra piantagione, con tutti quelli che sono con lui. Sii sveglio, e vedi anche tu di fare tutto il possibile per convincerli; al suo ritorno il negro Congo Hoango ti ricompenserà».
«Va bene, Toni, va bene», rispose il ragazzo. E, messo in tasca il biglietto, dopo averlo piegato con cura, domandò: «E devo fare da guida al loro gruppo, quando verranno qui?».
«Certo», rispose Toni, «si capisce, perché non conoscono la zona. Ma, dato che sulla strada maestra potrebbero esserci dei movimenti di truppe, non ti metterai in cammino per venire qui prima di mezzanotte; allora, però, dovrai sbrigare, per arrivare qui prima che faccia giorno. Posso aver fiducia in te?».
«Fidati di Nanky!», rispose il ragazzo. «Lo so, perché volete attirare questi fuggiaschi bianchi nella piantagione. Congo Hoango sarà contento dl me!»
Poco dopo, Toni portò la colazione allo straniero; e, quando ebbe sparecchiato, madre e figlia ritornarono nel soggiorno per sbrigare le loro faccende. Dopo un po', com'era inevitabile, la madre si avvicinò all'armadio e, naturalmente, non trovò il biglietto. Per un attimo, poco sicura della sua memoria, si passò la mano sulla fronte, e domandò a Toni dove potesse aver posato il foglio che lo straniero le aveva dato. Dopo una breve pausa, in cui fissò il pavimento, Toni rispose che, per quanto sapeva, lo straniero se l'era rimesso in tasca e di sopra, in camera sua, l'aveva stracciato davanti a loro. La madre guardò la ragazza con gli occhi spalancati, disse che si ricordava benissimo di aver preso il foglio dalle sue mani, e di averlo messo nell'armadio; ma, poiché, dopo averlo cercato a lungo invano, non lo trovò, e non si fidava della propria memoria, non essendo la prima volta che le capitava una cosa del genere, non le restò alla fine che prestar fede a quanto aveva detto la figlia. Non riusciva però a nascondere il suo disappunto per la circostanza perché il biglietto, diceva, sarebbe stato della massima importanza per il negro Hoango, per attirare la famiglia nella piantagione.
A mezzogiorno e a sera, quando Toni portò da mangiare allo straniero, la vecchia cercò più volte l'occasione, mentre sedeva, a un angolo della tavola, per intrattenerlo, di domandargli del biglietto; ma Toni fu tanto abile, ogni volta che la conversazione si avvicinava a quel punto pericoloso, da sviarlo o confonderla; così che la madre dalle parole del forestiero non riuscì in alcun modo ad appurare che fine avesse fatto il foglio. Intanto la giornata passò. La madre, dopo cena, chiuse a chiave per prudenza, come disse, la camera dello straniero e, dopo aver ancora riflettuto, insieme a Toni, a uno stratagemma che le permettesse, il giorno seguente, di venire in possesso di un altro biglietto, andò a riposare, ordinando alla fanciulla di fare altrettanto.
Non appena Toni, che per tutto il giorno aveva aspettato quel momento, ebbe raggiunto la sua stanza e si fu persuasa che la madre aveva preso sonno, mise su una seggiola l'immagine della Santa Vergine che era appesa accanto al suo letto, le si inginocchiò davanti, con le mani giunte, e implorò dal Redentore, il suo divino figliolo, in una preghiera piena di infinito ardore, il coraggio e la fermezza di confessare al giovane al quale si era data tutti i delitti che pesavano sul suo giovane petto. Promise che, per quanto potesse costare al suo cuore non gli avrebbe nascosto nulla, neppure la spietata, orribile intenzione con cui il giorno prima l'aveva attirato in casa; ma, in nome dei passi che aveva già compiuti per la sua salvezza, desiderava che potesse perdonarla, e condurla con sé in Europa, come una moglie fedele. Meravigliosamente rinfrancata da quella preghiera, si alzò, prese la chiave principale, che apriva tutte le stanze della casa, e con essa si avviò lentamente, senza lume, per lo stretto corridoio che attraversava l'edificio, verso la camera dello straniero.
Aprì la stanza piano piano, e si avvicinò al letto, dove lui riposava in un sonno profondo. La luna illuminava il suo volto fiorente, e il vento notturno, entrando attraverso le finestre aperte, giocava con i capelli sulla sua fronte. Si chinò dolcemente su di lui e lo chiamò per nome, aspirando il suo dolce respiro. Ma egli era immerso in un profondo sogno, del quale proprio lei sembrava l'oggetto, perché dalle sue labbra ardenti, che tremavano, udì più volte uscire in un sussurro una parola: «Toni!». Una malinconia che non si può descrivere la prese; non poteva risolversi a strapparlo dai cieli di una soave immaginazione e trascinarlo in basso, in una realtà volgare e dolorosa; e, nella certezza che presto o tardi si sarebbe svegliato da solo, si inginocchiò accanto al letto e coprì di baci la sua cara mano.
Ma chi descriverà il terrore che, pochi istanti dopo, le strinse il cuore, quando ad un tratto, dall'interno del cortile, udì un rumore di uomini, di cavalli e di armi, e fra esso, chiarissima la voce del negro Congo Hoango, che era inaspettatamente ritornato, con tutta la sua banda, dall'accampamento del generale Dessalines! Corse, evitando con cura la luce lunare, che minacciava di tradirla, dietro le tende della finestra, e udì già la madre mettere al corrente il negro di tutto ciò che era avvenuto nel frattempo, e della presenza del fuggiasco europeo nella casa. Il negro ordinò ai suoi, con voce attutita, di fare silenzio nel cortile, e domandò alla vecchia dove fosse in quel momento lo straniero. Lei gli indicò la stanza; e ne approfittò per raccontargli subito lo strano e sorprendente colloquio che aveva avuto con la figlia, a proposito del fuggiasco. Assicurò al negro che la ragazza li tradiva, e che tutto il disegno per impadronirsi di lui minacciava di fallire. Quella canaglia, lei se n'era accorta, al cader della notte si era infilata di nascosto nel suo letto, e c'era ancora, a riposare tranquilla; e probabilmente, se lo straniero non era già scappato, in quel momento lo stava mettendo in guardia, e stava concordando con lui i mezzi per favorire la fuga.
Il negro, che in simili casi aveva già sperimentato la fedeltà della ragazza, rispose: «È mai possibile? Kelly, Omra!», gridò furente. «Prendete le carabine!». E, senza aggiungere una parola, si avviò su per la scala, seguito da tutti i suoi negri, verso la camera dello straniero.
Toni, che per alcuni minuti aveva visto svolgersi sotto i suoi occhi questa scena, restò in piedi, paralizzata in tutte le membra, come se fosse stata colpita da un fulmine. Pensò per un attimo di svegliare lo straniero, ma, da una parte, con il cortile occupato, ogni fuga per lui era impossibile; dall'altra, previde che egli avrebbe impugnato le armi e, data la superiorità dei negri, sarebbe andato immediatamente incontro alla morte sicura. Anzi, la precauzione più spaventosa ch era costretta a prendere era proprio che l'infelice, trovandola in quel momento davanti al suo letto, la ritenesse una traditrice e, invece di dare ascolto ai suoi consigli, sconvolto da un errore che gli toglieva ogni speranza, andasse a gettarsi alla cieca tra le braccia del negro Hoango.
In quei momenti di inesprimibile angoscia l'occhio le cadde su una corda che, per un caso voluto dal cielo, era rimasta appesa alla parete. Dio stesso, pensò afferrandola, l'aveva messa lì per la salvezza sua e dell'amico. Con essa legò le mani e i piedi del giovane, stringendo nodi su nodi; e, dopo aver, senza badare al fatto che si era mosso e si dibatteva, tirato i capi, e averli fissati saldamente ai sostegni del letto, felice di avere ormai in pugno la situazione premette un bacio sulle sue labbra e corse incontro al negro Hoango, che già si sentiva, dal cozzare delle armi, su per la scala. Il negro, che, per quel che riguardava Toni, non credeva ancora al racconto della vecchia, quando la vide uscire dalla camera che gli era stata indicata si fermò, sorpreso e costernato, nel corridoio, con il suo drappello di fiaccole e di armati. «Ah, l'infedele, l'infame!», gridò. E, voltandosi verso Babecan, che aveva fatto qualche passo avanti, verso la porta dello straniero, domandò: «È fuggito?».
Babecan, trovando la porta aperta, tornò indietro come una furia, senza guardare dentro, gridando: «Canaglia! L'ha fatto scappare! Correte, occupate le uscite, prima che arrivi all'aperto!».
«Che c'è?», domandò Toni, guardando con un'espressione di sbalordimento il vecchio e i negri che lo circondavano.
«Che c'è?», rispose Hoango; e afferratola al petto la trascinò verso la stanza.
«Siete impazziti?», gridò Toni, respingendo il vecchio, che restò impietrito alla vista che gli si offriva. «Ecco lo straniero! L'ho legato io al letto, e, per il cielo, non è certo l'azione peggiore della mia vita!». E così dicendo gli volse le spalle e si sedette a un tavolo come se piangesse.
Il vecchio si voltò verso la madre, che stava da un lato, confusa, e disse: «Babecan, che razza di favole mi hai raccontato?».
«Sia ringraziato il cielo», rispose la madre, esaminando con imbarazzo le corde che legavano lo straniero. «Lo straniero è qua, anche se non capisco niente di quello che è successo».
Il negro, rimettendo la sciabola nel fodero, si avvicinò al letto e domandò allo straniero chi fosse, da dove venisse e dove fosse diretto. Ma poiché questi, facendo sforzi spasmodici per liberarsi, non diceva nulla, se non, con espressione di atroce dolore: «Ah, Toni! Toni!», prese la parola la madre, spiegandogli che era uno svizzero, si chiamava Gustavo von der Ried, e veniva da Fort Dauphin, sulla costa, con tutta una famiglia di cani europei, che in quel momento era nascosta in qualche anfratto, vicino allo Stagno dei Gabbiani. Hoango, vedendo che la ragazza era rimasta a sedere, con il capo tristemente appoggiato sulle mani, le si avvicinò, la chiamò la sua cara ragazza, le diede un colpetto sulla guancia e la pregò di perdonargli l'affrettato sospetto di cui l'aveva accusata.
La vecchia, che si era messa anche lei di fronte alla ragazza, puntò i gomiti sui fianchi, scuotendo la testa, e le domandò perché mai avesse legato al letto lo straniero, che non sapeva nulla del pericolo che correva.
Toni, piangendo veramente di dolore e di rabbia, rispose, girandosi di scatto verso la madre: «Perché tu non hai né occhi né orecchi! Perché aveva capito benissimo che pericolo correva! Perché voleva scappare; perché mi aveva chiesto di aiutarlo a fuggire; perché voleva attentare alla tua vita, e senza dubbio, appena fosse stato giorno, se io non l'avessi legato mentre dormiva, avrebbe messo in atto il suo proposito».
Il vecchio accarezzò e calmò la fanciulla, ordinò a Babecan di non parlarne più, e chiamò un paio di tiratori con le carabine, per porre immediatamente in esecuzione la legge in cui era incorso lo straniero.
Ma Babecan gli sussurrò, in modo che gli altri non sentissero: «No, Hoango, per l'amor del cielo!» E, presolo da parte, gli spiegò che lo straniero, prima di essere giustiziato, doveva scrivere un biglietto per attirare la famiglia nella piantagione, perché affrontarla nella foresta sarebbe stato pericoloso.
Hoango, considerando che la famiglia, probabilmente, non era disarmata, approvò il progetto; poiché era troppo tardi per fargli scrivere la lettera nel modo che avevano concertato, mise due sentinelle presso il fuggiasco bianco e, dopo aver di nuovo esaminato, per maggiore sicurezza, le corde e, avendole trovate troppo lente, aver chiamato un paio d'uomini che le stringessero, lasciò con tutti gli altri la stanza, e sulla casa scese a poco a poco il silenzio.
Ma Toni, che solo per finta aveva dato la buona notte al vecchio, il quale le aveva stretto ancora una volta la mano, e si era coricata, non appena vide che nessuno si muoveva più nella casa, si alzò di nuovo, uscì di soppiatto all'aperto, da una porta sul retro, e corse, con un'atroce disperazione nel cuore, su per il sentiero, che sboccava sulla strada maestra, lungo il quale la famiglia del signor Strömli si sarebbe dovuta avvicinare. Gli sguardi pieni di disprezzo che lo straniero le aveva gettato dal suo letto le avevano dolorosamente trapassato il cuore, come pugnalate; al suo amore per lui si mescolava un sentimento di cocente amarezza, e provava un senso di gioia all'idea di morire in quel tentativo che compiva per salvarlo. Preoccupata di non incontrare la famiglia, si appoggiò al tronco di un pino davanti al quale sarebbe dovuta passare, se aveva accettato l'invito, e il primo raggio di luce era appena spuntato all'orizzonte quando secondo gli accordi, udì da lontano, sotto gli alberi della foresta, la voce di Nanky, il ragazzo, che faceva da guida alla compagnia.
Il corteo era composto dal signor Strömli e da sua moglie, che montava un mulo, dai loro cinque figli, due dei quali Adalberto e Goffredo, di diciotto e diciassette anni, camminavano accanto all'animale, di tre servitori e di due cameriere, una delle quali, con un poppante al seno, montava l'altro mulo: in tutto dodici persone, che si avvicinavano lentamente, scavalcando le radici degli alberi che attraversavano il sentiero, al tronco del pino. Toni, senza fare rumore, per non spaventare nessuno, uscì dall'ombra dell'albero e gridò verso il gruppo: «Ferma!».
Il ragazzo la riconobbe subito; e, alla sua domanda dove fosse il signor Strömli, mentre uomini, donne e bambini la circondavano, la presentò con gioia al vecchio capo della famiglia.
«Nobile signore», disse Toni, interrompendo con voce ferma i suoi saluti, «il negro Hoango è ritornato improvvisamente nella piantagione con tutta la sua banda. Adesso non potete entrarci senza il più grande pericolo per la vostra vita; e anche vostro cugino, che per sua sventura vi è stato accolto, è perduto, se non prendete le armi e non mi seguite alla piantagione, per liberarlo dalla prigionia in cui il negro Hoango lo tiene!».
«Dio del cielo!», esclamarono, pieni di spavento, tutti i membri della famiglia; e la madre, che era ammalata e sfinita dal viaggio, cadde dal mulo svenuta. Mentre al richiamo del signor Strömli le cameriere accorrevano ad aiutare la padrona, Toni, tempestata di domande dai giovani, per timore di Nanky chiamò da parte il signor Strömli e gli altri uomini e, senza frenare le sue lacrime di vergogna e di rimorso, raccontò tutto ciò che era avvenuto; quale fosse la situazione nella casa, al momento dell'arrivo del giovane; come il suo colloquio a quattro'occhi con lui l'avesse, in modo del tutto inspiegabile, completamente mutata; ciò che aveva fatto all'arrivo del negro, quasi impazzita per l'angoscia, e come volesse ora mettere in gioco la vita per liberarlo dalla prigionia in cui lei stessa l'aveva gettato.
«Le mie armi!», gridò il signor Strömli, correndo al mulo della moglie e staccandone la carabina; e, mentre si armavano anche Adalberto e Goffredo, i suoi vigorosi figlioli, e i tre bravi domestici, disse: «Il cugino Gustavo ha salvato la vita a più d'uno di noi; adesso tocca a noi fare lo stesso». Aiutò sua moglie, che si era ripresa, a risalire sulla sua cavalcatura, fece legare le mani a Nanky, per precauzione, come a una sorta di ostaggio, fece tornare indietro allo Stagno dei Gabbiani il gruppo delle donne e dei bambini, affidandolo alla protezione del solo Ferdinando, il suo figlio di tredici anni, anch'egli armato, e, dopo aver interrogato Toni, che aveva preso a sua volta un elmetto e una lancia, sul numero dei negri e sulla loro disposizione nel cortile, e averle promesso di risparmiare nell'attacco, per quanto possibile, le vite di Hoango e di sua madre, si mise alla testa del piccolo drappello e, guidato da Toni, si incamminò verso la piantagione.
Toni, quando il gruppo fu entrato cautamente dalla porta posteriore, mostrò al signor Strömli la stanza in cui dormivano Hoango e Babecan; e, mentre il signor Strömli entrava senza fare rumore con i suoi nella casa aperta, e si impadroniva dei fucili dei negri, che erano raccolti in un fascio, sgattaiolò, da una parte, nella scuderia, nella quale dormiva Seppy, il fratellastro di Nanky, un bambino di cinque anni. Nanky e Seppy, figli illegittimi del vecchio Hoango, gli erano infatti, e particolarmente quest'ultimo, la cui madre era morta da poco, assai cari; e poiché, anche nel caso che riuscissero a liberare il giovane prigioniero, la ritirata verso lo Stagno dei Gabbiani, e la fuga di là verso Port-au-Prince, alla quale voleva unirsi, erano ancora esposte a molte difficoltà, Toni aveva pensato, non a torto, che il possesso dei due ragazzi sarebbe stato di grande vantaggio, come una sorta di pegno, alla compagnia, se fosse stata inseguita dai negri. Non vista, riuscì a prendere il bambino dal suo letto, e a portarlo tra le sue braccia, ancora semiaddormentato, nell'edificio principale.
Intanto il signor Strömli con il suo drappello era giunto, più silenziosamente che poteva, sulla porta della camera di Hoango; ma, invece di trovare lui e Babecan a letto, come credeva, li vide in piedi svegliati dal rumore, al centro della stanza, benché seminudi e senza difesa. Impugnando la carabina, il signor Strömli gridò che si arrendessero, o erano morti! Ma Hoango, per tutta risposta, strappò una pistola dalla parete e fece fuoco nel mucchio, sfiorando alla testa il signor Strömli. Il gruppo dei bianchi, a quel gesto, gli si lanciò addosso con furia; dopo un secondo colpo, che trapassò la spalla a un domestico, Hoango venne ferito da un colpo di sciabola alla mano; egli e Babecan furono gettati a terra e saldamente legati, con alcune corde, alle gambe di un grosso tavolo.
Nel frattempo, svegliati dagli spari, i negri di Hoango, venti e più, si precipitavano fuori dalle scuderie e, sentendo le urla della vecchia Babecan provenire dalla casa, accorrevano furiosi, per riprendere le loro armi. Inutilmente il signor Strömli, la cui ferita era senza importanza, mise la sua gente alle finestre e ordinò di far fuoco su di loro per tenerli a bada; incuranti di due morti già caduti nel cortile, essi stavano per andare a prendere scuri e sbarre di ferro, per scardinare la porta della casa, che il signor Strömli aveva fatto sprangare, quando Toni, tremante, entrò, con il piccolo Seppy in braccio, nella camera di Hoango.
Il signor Strömli, al quale la sua apparizione giungeva a proposito, le strappò il fanciullo, trasse, voltandosi verso Hoango il coltello da caccia e giurò che avrebbe immediatamente ucciso il ragazzo, se egli non avesse gridato ai negri di desistere dal loro proposito. Hoango, il cui vigore era stato spezzato dal colpo alle tre dita della mano, e che, in caso di rifiuto, avrebbe arrischiato la sua stessa vita, rispose, dopo qualche momento di riflessione, facendosi sollevare da terra, che l'avrebbe fatto. Condotto dal signor Strömli, si avvicinò alla finestra, sventolò verso il cortile un fazzoletto che teneva nella sinistra, e gridò ai negri di non toccare la porta, poiché non c'era bisogno di aiuto per proteggere la sua vita, e di tornare nelle scuderie!
Allora la lotta si calmò un poco. Hoango, su richiesta del signor Strömli, mandò un negro catturato nella casa a ripetere il comando ai suoi uomini, che erano rimasti nel cortile a consigliarsi; e, poiché alle parole di quel formale messaggero, per quanto poco capissero della cosa, dovevano obbedire, rinunciarono al loro proposito, per il quale era già tutto pronto, e, sia pure continuando a brontolare e imprecare, ritornarono nelle scuderie.
Il signor Strömli fece legare le mani al piccolo Seppy sotto gli occhi di Hoango e gli disse di non avere altre intenzioni, se non liberare l'ufficiale, suo nipote, dalla prigionia in cui era caduto nella piantagione; se la sua fuga verso Port-au-Prince non fosse stata ostacolata, non avrebbe avuto nulla da temere né per la sua vita né per quella dei suoi figli, che gli sarebbero stati restituiti.
Babecan, alla quale Toni si era avvicinata, e aveva cercato di porgere la mano per dirle addio, con una commozione che non riusciva a reprimere, la respinse da sé con violenza. La chiamò traditrice e infame e, voltandosi dall'altra parte, alla gamba del tavolo dove era legata, le disse che la vendetta di Dio l'avrebbe colpita prima che avesse avuto il tempo di approfittare del suo tradimento.
«Io non vi ho tradito», rispose Toni. «Sono bianca, e fidanzata al giovane che tenete prigioniero; io appartengo alla razza che combattete, e saprò rispondere a Dio, per essermi messa dalla sua parte».
Il signor Strömli mise una sentinella accanto al negro Hoango, che per sicurezza aveva fatto legare di nuovo e attaccare saldamente agli stipiti della porta; fece sollevare e portare fuori il domestico che giaceva a terra, privo di sensi, con la clavicola spezzata, e, dopo aver ancora detto a Hoango che, dopo qualche giorno, avrebbe potuto mandare a prendere i due bambini, Nanky e Seppy, a Sainte-Luce, dove si trovavano i primi avamposti francesi, prese con sé Toni, che, assalita da sentimenti contrastanti, non poteva trattenere le lacrime, e la condusse, fra le maledizioni di Babecan e del vecchio Hoango, fuori dalla stanza.
Intanto Adalberto e Goffredo, i figli del signor Strömli, sin dalla fine del combattimento che aveva avuto luogo alle finestre erano corsi, per ordine del padre, verso la stanza del cugino Gustavo, ed erano riusciti a sopraffare i due negri che lo custodivano, dopo un'ostinata resistenza. Uno giaceva morto nella stanza; l'altro si era trascinato fino al corridoio, con una grave ferita d'arma da fuoco. I fratelli, uno dei quali, il maggiore, era stato ferito, sia pure solo leggermente alla coscia, slegarono il caro cugino, lo abbracciarono e lo baciarono, e lo esortarono esultanti, porgendogli un fucile e le armi, a seguirli nella stanza verso il cortile, dove il signor Strömli, ottenuta ormai la vittoria, probabilmente aveva già disposto ogni cosa per la ritirata.
Ma il cugino Gustavo, sollevatisi sul letto, si limitò a stringere le loro mani con amicizia; restava in silenzio, distratto, e, invece di prendere le pistole che gli porgevano, alzò la destra e se la passò sulla fronte, con un'espressione di inesprimibile dolore. I giovani, che si erano seduti accanto a lui, gli domandarono come stava; e, quando egli li strinse a sé con il braccio, e appoggiò il capo, in silenzio, sulla spalla del più giovane, Adalberto, temendo che stesse per svenire, fece per andare a prendergli un bicchiere d'acqua; ma in quel momento Toni, con il piccolo Seppy in braccio, entrò nella stanza, tenuta per mano dal signor Strömli. A quella vista Gustavo cambiò colore; si afferrò forte, alzandosi, al corpo degli amici, come se stesse per cadere, e, prima che i giovani immaginassero che cosa intendeva fare con la pistola che aveva preso dalle loro mani, digrignando i denti per la rabbia la scaricò contro Toni. Il colpo le attraversò il petto da parte a parte. E quando, con un grido spezzato di dolore, fece ancora qualche passo verso di lui e, dato il fanciullo al signor Strömli, gli cadde ai piedi, egli le gettò addosso la pistola, la respinse con il piede, chiamandola sgualdrina, e si lasciò di nuovo cadere sul letto.
«Sciagurato!», gridarono il signor Strömli e i suoi due figli. I giovani si lanciarono verso la fanciulla, la tirarono su, e chiamarono un vecchio domestico, che in più di un caso disperato aveva prestato alla compagnia i soccorsi di un medico; ma Toni, premendo convulsamente la mano sulla ferita, respinse gli amici e rantolando balbettò: «Ditegli...», indicando lui che l'aveva colpita. E ripeté di nuovo: «Ditegli...».
«Che cosa dobbiamo dirgli?», domandò il signor Strömli, mentre la morte le toglieva la voce.
Adalberto e Goffredo si alzarono, e gridarono all'assassino incomprensibilmente crudele se sapeva che la fanciulla era la sua salvatrice, che lo amava e aveva deciso di fuggire con lui a Port-au-Prince, che gli aveva sacrificato tutto, beni e genitori.
«Gustavo!», gli urlavano nelle orecchie, «Non senti?», scuotendolo e tirandolo per i capelli; ma lui, insensibile, restava disteso sul letto, senza badare a loro.
Alla fine si tirò su. Gettò uno sguardo alla fanciulla, che si torceva nel proprio sangue, e il furore che aveva provocato il suo gesto cedette istintivamente a un moto di comune pietà. Il signor Strömli, piangendo nel fazzoletto a calde lacrime, gli domandò: «Sventurato, perché l'hai fatto?». Gustavo si alzò dal letto, si asciugò il sudore dalla fronte, guardò la fanciulla e rispose che l'aveva legato, di notte, a tradimento e consegnato al negro Hoango.
«Ah!», gridò Toni, e, con uno sguardo indescrivibile, tese la mano verso di lui. «Amore mio, ti ho legato, perché...». Ma non poté parlare, né raggiungerlo con la mano; d'un tratto le forze le vennero meno, e ricadde in grembo al signor Strömli.
«Perché?», domandò Gustavo, pallido, inginocchiandosi accanto a lei.
Dopo una lunga pausa, rotta soltanto dal rantolare di Toni, durante la quale sperarono invano in una sua risposta, prese la parola il signor Strömli, e disse: «Perché, dopo l'arrivo di Hoango, non c'era altro mezzo per salvarti, infelice; voleva evitare il combattimento in cui ti saresti certamente gettato, e guadagnare tempo finché noi, che già, grazie al suo piano, ci stavamo avvicinando, potessimo liberarti con le armi in pugno».
Gustavo si portò le mani al viso. «Oh!», esclamò, senza alzare gli occhi, e credette che la terra gli sprofondasse sotto i piedi. «È vero ciò che dite?». Le circondò il corpo con le braccia e, con il cuore penosamente straziato, la guardò in volto
«Ah», gridò Toni, e furono le sue ultime parole, «non avresti dovuto diffidare di me!». Ed esalò la sua anima bella.
Gustavo si strappava i capelli. «No», disse, mentre i cugini lo trascinavano lontano dal cadavere, «non avrei dovuto diffidare di te. Perché ti eri fidanzata a me con un giuramento, anche se non ne avevamo fatto parola».
Il signor Strömli allentò gemendo i lacci che stringevano il petto alla fanciulla, ed esortò il domestico, che, con alcuni strumenti poco adatti, era in piedi accanto a lui, a estrarre la palla, la quale, disse, doveva essere penetrata nello sterno. Ma ogni sforzo, come si è detto, fu vano, perché il piombo l'aveva passata da parte a parte, e la sua anima era già fuggita verso astri migliori.
Nel frattempo Gustavo si era avvicinato alla finestra, e mentre il signor Strömli e i suoi figli si consigliavano, piangendo silenziosamente, su che cosa dovessero fare della salma, e se non dovessero chiamare la madre, si fece saltare le cervella con la palla dell'altra pistola. A quel nuovo orribile gesto i parenti si smarrirono del tutto. Corsero a portargli aiuto, ma il cranio dell'infelice era sfracellato e, poiché si era messo in bocca la pistola, il cervello imbrattava le pareti tutto intorno.
Il signor Strömli fu il primo a riprendersi. Poiché dalle finestre penetrava ormai la luce piena del giorno, e giungevano notizie che i negri ricominciavano a mostrarsi nel cortile, non restava altro da fare che pensare senza indugio alla ritirata. I due cadaveri, che non si vollero lasciare in balia della violenza dei negri, furono deposti su un asse; e, ricaricate le carabine, il triste corteo si mosse verso lo Stagno dei Gabbiani. Davanti camminava il signor Strömli, con il piccolo Seppy in braccio; seguivano i due domestici più robusti, che portavano in spalla i cadaveri; il ferito zoppicava dietro, appoggiandosi a un bastone; Adalberto e Goffredo camminavano, con le carabine spianate, ai lati del corteo funebre, che avanzava lentamente. I negri, vedendo che il gruppo era così debole, uscirono con forche e picche dai loro alloggi e fecero mostra di attaccare; ma Hoango, che era stato slegato per precauzione, si fece avanti sui grani esterni e accennò ai suoi di non muoversi. «A Sainte-Luce», gridò al signor Strömli, che era già con i cadaveri sotto il portone carraio. «A Sainte-Luce», rispose questi; e, senza essere inseguito, il corteo uscì all'aperto e raggiunse la boscaglia.
Allo Stagno dei Gabbiani, dove trovarono i familiari, essi scavarono, fra molte lacrime, una fossa per le due salme; e, dopo aver scambiato gli anelli che recavano al dito, le calarono, con silenziose preghiere, nella dimora della pace eterna. Il signor Strömli, cinque giorni dopo, raggiunse felicemente, con la moglie e i figli, Sainte-Luce, dove lasciò, secondo la promessa, i piccoli negri. Poco prima dell'assedio, raggiunse Port-au-Prince, e combatté sulle sue mura per la causa dei bianchi, e quando la città, dopo un'ostinata resistenza, si arrese al generale Dessalines, si salvò con le truppe francesi sulla flotta britannica. La famiglia arrivò così in Europa e, senza ulteriori disgrazie, raggiunse la patria, la Svizzera.
Il signor Strömli acquistò, con il rimanente del suo piccolo patrimonio, un podere nella zona del Righi, e nel 1807 si poteva vedere, tra i cespugli del suo giardino, il cippo da lui eretto in memoria del nipote Gustavo e della sua fidanzata, la fedele Toni.



LA MENDICANTE DI LOCARNO

Ai piedi delle Alpi, presso Locarno, in Alta Italia, sorgeva un vecchio castello, appartenente a un marchese, che ancora oggi, venendo dal San Gottardo, si vede, ridotto in macerie e in rovina: un castello dalle stanze alte e spaziose, in una delle quali una volta, sulla paglia che vi era stata ammucchiata, era stata messa a giacere per compassione, dalla padrona di casa, una vecchia donna malata, che si era presentata alla porta chiedendo l'elemosina. Il marchese, che, di ritorno dalla caccia, entrò distrattamente nella stanza, dove soleva deporre la sua carabina, ordinò irritato alla donna di alzarsi dall'angolo in cui era distesa, e di mettersi dietro la stufa. La donna, tirandosi su, scivolò con la gruccia sul pavimento liscio, e si fece una grave ferita all'osso sacro; tanto che si alzò, bensì, con indicibile sforzo e attraversò di sbieco la stanza, come le era stato prescritto, ma dietro la stufa, fra gemiti e sospiri, si lasciò cadere e spirò.
Alcuni anni dopo, quando il marchese, a causa della guerra e dei cattivi raccolti, si trovava in una brutta situazione finanziaria, venne a trovarlo un cavaliere fiorentino, che, per la sua bella posizione, voleva comperare il castello. Il marchese, che teneva molto all'affare, disse alla moglie di alloggiare l'ospite nella stanza di cui abbiamo parlato, che era vuota, ed era stata arredata splendidamente. Ma quale fu la costernazione della coppia quando il cavaliere, nel bel mezzo della notte, scese in camera loro pallido e turbato, giurando e spergiurando che in quella stanza c'erano gli spiriti, perché qualcosa che era rimasto invisibile allo sguardo si era alzato da un angolo della stanza, con un rumore come di paglia smossa, aveva attraversato di sbieco la stanza, con passi lenti e interrotti, ma ben udibili, e si era lasciato cadere, fra gemiti e sospiri, dietro la stufa.
Il marchese, spaventato, egli stesso non sapeva bene perché, canzonò il cavaliere con simulata allegria, e disse che si sarebbe alzato immediatamente e, per sua tranquillatà, avrebbe trascorso la notte con lui in quella stanza. Ma il cavaliere lo pregò, per cortesia, di consentirgli di pernottare nella sua camera da letto, su una poltrona, e, quando venne il mattino, fece attaccare i cavalli, si congedò e partì.
L'incidente, che destò grande scalpore, scoraggiò, con estremo disappunto del marchese, molti compratori. E poiché tra i suoi stessi domestici si diffondeva, in modo strano e incomprensibile, la voce che in quella stanza, a mezzanotte, si muovessero gli spiriti, egli, per metterla decisamente a tacere una volta per tutte, un giorno decise di esaminare egli stesso la cosa la notte seguente. All'imbrunire fece dunque portare il suo letto in quella stanza, e attese senza dormire la mezzanotte. Ma quale fu il suo sgomento quando in effetti, allo scoccare dell'ora degli spiriti, percepì l'incomprensibile rumore; era come se un essere umano si alzasse dalla paglia, che frusciava sotto di lui, attraversasse di sbieco la stanza e si lasciasse cadere, fra rantoli e lamenti, dietro la stufa.
La marchesa, il mattino seguente, gli domandò, appena fu sceso, come si fosse svolta la sua indagine. E, quando egli si guardò intorno, con occhiate incerte e timorose, e, dopo aver chiuso a chiave la porta, le assicurò che i fantasmi c'erano davvero, lei si spaventò come non le era mai successo in vita sua e lo pregò, prima di divulgare il fatto, di tentare un'altra prova, a mente fredda, in sua compagnia. Ma la notte successiva, insieme a un fedele domestico che avevano portato con sé, udirono ancora una volta lo stesso incomprensibile, spettrale rumore. Solo il pressante desiderio di sbarazzarsi del castello a qualunque costo poté far loro reprimere, in presenza del domestico, il terrore che li prese, e attribuire l'incidente a una causa qualsiasi, indifferente e fortuita, che prima o poi si sarebbe scoperta.
La sera del terzo giorno, quando entrambi, per venire a capo della cosa, salirono di nuovo, con il cuore che batteva, la scala della camera degli ospiti, il loro cane da guardia, che era stato sciolto dalla catena, si trovò per caso davanti alla porta; tanto che i due, senza dirlo esplicitamente, forse con l'intenzione istintiva di avere con sé un terzo essere vivente, fecero entrare il cane nella stanza.
La coppia, due candele sul tavolo, la marchesa senza spogliarsi, il marchese tenendo accanto a sé la spada e le pistole che aveva preso da un armadio, si siede, verso le undici, ognuno sul proprio letto; e, mentre cercano di passare il tempo come possono, facendo conversazione, il cane si corica in mezzo alla stanza, testa e gambe acciambellate, e si addormenta. A mezzanotte in punto, l'orribile rumore si fa udire di nuovo; qualcuno che nessun occhio umano può vedere si alza sulle grucce, nell'angolo della stanza; si sente la paglia frusciare sotto di lui; e al primo passo, tap!, tap!, il cane si sveglia, drizza le orecchie, si solleva di colpo dal pavimento e, ringhiando e abbaiando, proprio come se un essere umano venisse passo passo verso di lui, indietreggia verso la stufa. A quella vista la marchesa, con i capelli ritti, si precipita fuori dalla stanza e, mentre il marchese, afferrata la spada, grida: «Chi è là?» e, poiché nessuno risponde, mena fendenti in aria come un pazzo, in tutte le direzioni, dà ordine di attaccare i cavalli, decisa a partire immediatamente per la città. Ma, prima che, radunati alcuni bagagli, esca dal portone con fracasso, vede il castello tutto avvolto dalle fiamme. Il marchese, sopraffatto dall'orrore, aveva preso una candela e, stanco della vita, aveva appiccato il fuoco ai quattro angoli dell'edificio, interamente rivestito di legno. Invano la marchesa mandò gente dentro, a salvare l'infelice: era già perito nel modo più miserando, e ancora oggi le sue bianche ossa, raccolte dai contadini, giacciono nell'angolo della stanza dal quale egli aveva fatto alzare la mendicante di Locarno.




IL TROVATELLO

Antonio Piachi, facoltoso mediatore romano di terreni, era costretto di tanto in tanto dai suoi commerci a intraprendere lunghi viaggi, durante i quali lasciava di solito a casa Elvira, la giovane moglie, sotto la protezione dei parenti di lei. Uno di questi viaggi lo condusse, con il figlio Paolo, un ragazzo di undici anni, nato dalla sua prima moglie, a Ragusa. Ora, avvenne che laggiù fosse appena scoppiata un'epidemia, che spargeva gran terrore in città e nei dintorni. Piachi, che ne aveva avuto notizia solo durante il viaggio, si fermò nei sobborghi, per informarsi sulla sua natura. Ma, quando udì che il morbo si faceva di giorno in giorno più pericoloso, e si pensava di chiudere le porte della città, l'angoscia per il figlio prevalse su ogni interesse commerciale: si procurò dei cavalli e ripartì.
Giunto in aperta campagna, notò accanto alla carrozza un fanciullo che tendeva le mani verso di lui, come se implorasse, e sembrava in preda a una forte agitazione. Piachi ordinò di fermare. Quando gli fu chiesto che cosa volesse, il fanciullo rispose candidamente che aveva la peste e che i birri lo inseguivano, per portarlo all'ospedale, dove erano già morti suo padre e sua madre; pregò per tutti i santi che lo prendesse con sé e non lo lasciasse morire in città, e con queste parole afferrò la mano del vecchio, la strinse, la baciò e la coperse di lacrime. Piachi, nel primo impulso del terrore, fece per spingere lontano da sé il ragazzo; ma poiché egli, proprio in quel momento, cambiò colore e cadde al suolo svenuto, il buon vecchio si mosse a compassione: smontò, con il figlio, adagiò il ragazzo nella carrozza e proseguì con lui, anche se non aveva la più pallida idea di che cosa dovesse farne.
Stava ancora discutendo con i locandieri, alla prima tappa, sul modo per liberarsene, quando, per ordine della polizia, che aveva ricevuto una soffiata, venne arrestato e ricondotto sotto scorta a Ragusa, insieme a suo figlio e a Nicolò, come si chiamava il fanciullo malato. Tutte le rimostranze di Piachi contro la crudele di quel procedimento furono inutili; arrivati a Ragusa, essi furono consegnati a un poliziotto e portati tutti e tre all'ospedale, dove Piachi, bensì, restò sano, e Nicolò, il fanciullo, si ristabilì, ma Paolo, il suo figliolo di undici anni, contagiato da lui, in tre giorni morì.
Quando le porte vennero riaperte Piachi, seppellito il figliolo, ottenne dalla polizia il permesso di partire. Era appena salito in carrozza, prostrato dal dolore, e, scorgendo accanto a sé il posto vuoto, aveva tirato fuori il fazzoletto per dare sfogo alle lacrime, quando Nicolò, con il berretto in mano, si avvicinò alla carrozza e gli augurò buon viaggio. Piachi si sporse dal finestrino e gli domandò, con la voce rotta da violenti singhiozzi, se voleva fare il viaggio con lui.
«Oh sì, molto volentieri!», disse il ragazzo annuendo, non appena ebbe compreso le parole del vecchio. E poiché i responsabili dell'ospedale, quando il commerciante chiese se al ragazzo era permesso partire con lui, l'assicurarono, sorridendo, che era un figlio di Dio, e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza, Piachi lo fece salire, con grande commozione, nella carrozza e lo portò con sé a Roma, al posto di suo figlio.
Per via, davanti alle porte della città, il commerciante guardò per la prima volta con attenzione il ragazzo. Era di una bellezza strana, un po' fissa; i capelli neri gli ricadevano sulla fronte in ciocche lisce, ombreggiando un volto serio e intelligente, che non mutava mai espressione. Il vecchio gli rivolse parecchie domande, alle quali egli diede solo brevi risposte; taciturno e raccolto in se stesso, se ne stava seduto nell'angolo, con le mani in tasca, contemplando, con occhi timidi e pensierosi, le cose che correvano via a lato della carrozza. Di tanto in tanto, con gesti lenti e silenziosi, prendeva una manciata di noci da una borsa che aveva con sé e, mentre Piachi si asciugava le lacrime, le metteva fra i denti e le spezzava.
A Roma Piachi lo presentò, con un breve racconto di ciò che era accaduto, a Elvira, la sua giovane e brava moglie, che non poté fare a meno di piangere calde lacrime, pensando a Paolo, il piccolo figliastro, al quale aveva voluto molto bene; tuttavia strinse al petto Nicolò, che stava davanti a lei tutto rigido e spaesato, gli assegnò per riposare il letto in cui l'altro aveva dormito e gli regalò tutti i suoi vestiti. Piachi lo mandò a scuola, dove imparò a leggere, scrivere e far di conto, e poiché, come è facile comprendere, si era affezionato al ragazzo in proporzione di quanto gli era costato, lo adottò come figlio, con l'assenso della buona Elvira, che non poteva più sperare di avere dei figli dal vecchio, già poche settimane dopo. In seguito, licenziò un impiegato, del quale era scontento per varie ragioni e, messo Nicolò al suo posto nell'ufficio, ebbe la gioia di vedere che amministrava nel modo più energico e vantaggioso la sua vasta e complicata rete d'affari.
Il padre, nemico giurato di ogni bigotteria, non aveva nulla da rimproverargli, se non la sua assiduità presso i frati del convento dei Carmelitani, i quali dimostravano al giovane, a causa del notevole patrimonio che un giorno gli sarebbe toccato, con l'eredità del vecchio, grande affetto e favore; e nulla la madre, da parte sua, se non un'inclinazione per il sesso femminile, che, così le sembrava, si era destata precocemente nel suo animo. Già a quindici anni, infatti, in occasione di una delle sue visite ai frati, era stato vittima delle seduzioni di una certa Saveria Tartini, concubina del loro vescovo; e, benché avesse subito rotto, costretto dalla severa richiesta del vecchio, quella relazione, Elvira aveva svariate ragioni per credere che la sua continenza, su quel pericoloso terreno, non fosse delle maggiori.
A vent'anni, tuttavia, Nicolò sposò Costanza Parquet, una giovane e graziosa genovese, nipote di Elvira, che, affidata alle sue cure, era stata educata a Roma; e così almeno il secondo dei mali parve bloccato alla radice. Entrambi i genitori, ormai, erano contenti di lui e, per dargliene una prova, arredarono splendidamente la sua abitazione, per la quale gli assegnarono una parte considerevole della loro bella e spaziosa dimora. Raggiunti i sessant'anni, infine, Piachi fece l'ultimo e massimo gesto che poteva fare per lui: gli intestò per via legale tutto il patrimonio investito nel suo commercio di terreni, eccettuato un piccolo capitale che tenne per sé, e si ritirò dagli affari, insieme alla buona e fedele Elvira, che aveva poche aspirazioni mondane. Nel carattere di Elvira c'era una silenziosa inclinazione alla tristezza, che le era rimasta da un episodio toccante che risaliva alla storia della sua puerizia. Suo padre, Filippo Parquet, facoltoso tintore genovese, abitava una casa che, come richiedeva la sua attività, dava, con la parte posteriore, sul mare, a filo dei grandi blocchi quadrati dell'argine; grandi travi, dalle quali pendevano i panni colorati, uscivano dal sottotetto e sporgevano per molte braccia sul mare sottostante. Una volta, in una notte infausta, la casa prese fuoco e, come se fosse stata fatta di pece e di zolfo, le fiamme crepitarono contemporaneamente in tutte le stanze dei vari piani; terrorizzata dalle vampate, la tredicenne Elvira, scappando di scala in scala, si trovò, senza sapere lei stessa come, su una di quelle travi. La povera fanciulla, sospesa fra cielo e terra, non sapeva come salvarsi; dietro di lei bruciava il solaio e le fiamme, frustate dal vento, avevano già attaccato la trave; sotto di lei, l'orrida distesa del mare deserto. Voleva già raccomandarsi a tutti i santi e, scegliendo il minore dei mali, saltare tra i flutti, quando, tutto a un tratto, un giovane genovese di famiglia patrizia apparve sull'apertura del solaio, gettò il suo mantello sulla trave, la abbracciò stretta e, con un'abilità non minore del suo coraggio, si lasciò scivolare in mare con lei lungo uno dei panni umidi che pendevano dalla trave. Qui furono raccolti dalle gondole che si trovavano nel porto e sbarcati a riva fra l'esultanza della popolazione; ma, poco dopo, si vide il giovane eroe, che prima, attraversando la casa, era stato gravemente ferito al capo da una pietra staccatasi dal cornicione, accasciarsi al suolo privo di sensi. Lo portarono nel palazzo del marchese, suo padre, il quale, poiché tardava a rimettersi, fece venire medici da ogni parte d'Italia, che più volte gli trapanarono il cranio, per estrargli dei frammenti d'osso dal cervello. Ma, per un imperscrutabile decreto del cielo, ogni rimedio fu vano; raramente si rianimava, tenendo la mano di Elvira, che la madre di lui aveva chiamato per assisterlo; e, dopo tre anni di cure dolorosissime, durante i quali la ragazza non si mosse dal suo fianco, le porse ancora una volta, gentilmente, la mano, e spirò.
Piachi, che aveva rapporti d'affari con la famiglia del marchese, aveva conosciuto Elvira laggiù, quando lo assisteva, e due anni dopo l'aveva sposata; ma si guardava dal nominarlo davanti a lei, o di ricordarglielo in qualunque modo, ben sapendo come il suo animo affettuoso e sensibile ne venisse sconvolto. La minima occasione che le ricordasse, anche solo da lontano, il tempo in cui quel giovane aveva sofferto ed era morto per lei la commuoveva sempre fino alle lacrime, e allora non c'era più modo di consolarla e di calmarla: dovunque fosse, si appartava, senza che nessuno la seguisse, perché si era già fatta la prova che ogni altro rimedio era vano, se non lasciarla sfogare piangendo il suo dolore in solitudine.
Nessuno, all'infuori di Piachi, conosceva la causa di quelle strane e frequenti commozioni, perché neppure una volta in vita sua le era venuta alle labbra una parola su quell'avvenimento; erano abituati ad attribuirle all'eccitabilità del suo sistema nervoso, in conseguenza di una violenta febbre che l'aveva colpita subito dopo il matrimonio; e così venne a cessare ogni ulteriore indagine sulle sue cagioni.
Una volta Nicolò, insieme a quella Saveria Tartini con la quale, a dispetto del divieto paterno, non aveva mai del tutto interrotto la relazione, si recò di nascosto, senza che la moglie lo sapesse, con la scusa di essere stato invitato a casa di un amico, al Carnevale; e ritornò a tarda notte, quando tutti dormivano, indossando un costume, che aveva scelto a casaccio, da nobile genovese. Avvenne che il vecchio, improvvisamente, si sentisse poco bene ed Elvira, in mancanza delle domestiche, si alzasse per aiutarlo e andasse nella sala da pranzo a prendergli l'ampollina dell'aceto. Aveva appena aperto la credenza, che si trovava nell'angolo, e stava frugando, in piedi, sull'orlo di uno sgabello, tra bicchieri e caraffe, quando Nicolò aprì cautamente la porta e, con un lume che aveva acceso nell'anticamera, il cappello piumato, il mantello e la spada, attraversò la sala.
Ignaro, senza vedere Elvira, si avvicinò alla porta che dava nella sua camera da letto; e si era appena accorto, con un tuffo al cuore, che era chiusa a chiave, quando, alle sue spalle, Elvira lo vide e, con i bicchieri e le boccette che aveva in mano, cadde, come se fosse stata colpita da un fulmine invisibile, dallo sgabello sul pavimento di legno. Nicolò, pallido per lo spavento, si volse e fece per correre in aiuto della poverina. Ma, poiché il rumore causato dalla caduta non poteva non far accorrere il vecchio, il timore dei suoi rimproveri soffocò ogni altro riguardo: le strappò in fretta dal fianco, tutto agitato, il mazzo di chiavi che portava, ne trovò una che apriva, gettò il mazzo in mezzo alla stanza e sparì.
Poco dopo, quando Piachi, per quanto indisposto, era saltato giù dal letto e l'aveva tirata su, e anche domestici e fantesche, chiamati dalle sue scampanellate, erano accorsi con le candele, venne anche Nicolò, in vestaglia, e domandò che cosa fosse successo; ma poiché Elvira, con la lingua paralizzata dal terrore, non era in condizione di parlare, e solo egli stesso, all'infuori di lei, avrebbe potuto dare una risposta a quella domanda, come si fossero svolte le cose restò per sempre un mistero. Elvira, che tremava in tutte le membra, venne messa a letto, e vi rimase parecchi giorni, in preda a una violenta febbre; ma, con il naturale vigore della sua costituzione, superò l'incidente e si riprese abbastanza bene, anche se le rimase una strana malinconia.
Trascorse un anno. Costanza, la moglie di Nicolò, partorì e, durante il puerperio, morì insieme al bimbo che aveva messo al mondo. L'evento, di per sé increscioso, perché rapiva una creatura educata e virtuosa, lo era doppiamente, perché riapriva le porte alle due passioni di Nicolò, la bigotteria e le donne. Dal mattino alla sera, con il pretesto di cercare consolazione, se ne stava nelle celle dei Carmelitani, benché fosse noto che alla moglie, quando era viva, non aveva dimostrato che scarso affetto e fedeltà. Costanza non era ancora sotto terra, e già Elvira entrando di sera in camera sua, per occuparsi dell'imminente sepoltura, trovò presso di lui una ragazza in gonnella corta e con il trucco, che conosceva anche troppo bene come la cameriera di Saveria Tartini. Elvira, a quella vista, abbassò gli occhi, si volse, senza dire una parola, e lasciò la stanza. Né Piachi né nessun altro seppe mai nulla di quell'incontro; a lei bastò inginocchiarsi e piangere, con il cuore oppresso, accanto alla salma di Costanza, che aveva molto amato Nicolò.
Ma avvenne che, per caso, Piachi, il quale era stato in città rincasando incontrasse la ragazza e, avendo subito capito che cosa era venuta a fare, la investisse con veemenza e, un po' con l'astuzia, un po' con la forza, le facesse consegnare il biglietto che aveva con sé. Salì, per leggerlo, in camera sua, e vi trovò, come aveva previsto, l'ardente preghiera di Nicolò a Saveria di fargli sapere il luogo e l'ora dell'incontro che desiderava. Piachi sedette, e rispose, contraffacendo la scrittura, a nome di Saveria: «Subito, prima di notte, nella chiesa della Maddalena». Poi chiuse il biglietto con un sigillo non suo e lo fece recapitare, come se venisse da quella signora, nella stanza di Nicolò.
Il disegno riuscì perfettamente. Nicolò prese subito il mantello e, dimentico di Costanza, esposta nella bara, uscì di casa. Allora Piachi, profondamente indignato, disdisse le esequie solenni fissate per il giorno seguente, fece sollevare la salma, così com'era, da alcuni becchini e, accompagnata soltanto da Elvira, da lui stesso e da alcuni parenti, la fece portare in silenzio nella cripta della chiesa della Maddalena, che era stata preparata per lei.
Nicolò, il quale, avvolto nel mantello, era in piedi sotto la navata, vide con stupore avvicinarsi quel corteo funebre a lui ben noto, e domandò al vecchio, che seguiva la bara, che cosa significasse tutto ciò, e chi venisse trasportato. Ma lui, con il messale in mano, rispose soltanto, senza alzare il capo: «Saveria Tartini», e la salma, come se Nicolò non ci fosse stato, fu ancora una volta scoperta, benedetta dai presenti e infine calata e richiusa nella cripta.
L'episodio, che l'aveva coperto di vergogna, destò nel petto dello sventurato un odio cocente per Elvira, poiché a lei credeva di essere debitore dell'offesa che il vecchio gli aveva fatto davanti a tutti. Per molti giorni Piachi non gli rivolse la parola. Ma poiché Nicolò, a causa dell'eredità di Costanza, aveva bisogno del favore e della benevolenza del vecchio, si vide costretto a prendergli, una sera, la mano, e a promettergli, con espressione contrita, di rompere immediatamente e per sempre ogni rapporto con Saveria. Ma era assai poco propenso a mantenere la promessa e, anzi, la resistenza che gli si opponeva non faceva che acuire la sua ostinazione, e renderlo più scaltro nell'arte di eludere la vigilanza dell'onesto vecchio.
Elvira, al tempo stesso, non gli era mai parsa così bella come nel momento in cui aveva, per sua mortificazione, aperto e richiuso la stanza in cui si trovava la ragazza. Lo sdegno, accendendo le sue guance di un soave rossore, aveva dato al suo viso dolce, raramente agitato dalle emozioni, un fascino infinito. Gli sembrava incredibile che, con tali attrattive, non azzardasse lei stessa, di tanto in tanto, il piede sul sentiero fiorito sul quale egli si stava incamminando, quando era stato da lei così ignominiosamente punito. Se era così, bruciava dal desiderio di renderle, presso il vecchio, lo stesso servizio che aveva ricevuto da lei, e non cercava né aveva bisogno d'altro, se non dell'occasione di mettere in atto il suo proposito.
Un giorno passava, in un momento in cui Piachi era assente, davanti alla camera di Elvira e, con stupore, udì qualcuno parlare. Attraversato da un improvviso brivido di maligna speranza chinò occhi e orecchi alla serratura e, cielo!, che cosa vide? Lei era là, ai piedi di qualcuno, con un'espressione rapita, e benché non potesse scorgere chi fosse, udì sussurrare, nettissima, pronunciata con l'inconfondibile accento dell'amore, la parola: «Colino».
Con il cuore che gli batteva, si mise nel vano della finestra del corridoio, dal quale poteva sorvegliare l'uscio della stanza senza tradire le sue intenzioni; e già credeva, a un leggerissimo rumore che veniva dalla serratura, giunto il momento inestimabile in cui avrebbe potuto smascherare la santerellina, quando, invece dello sconosciuto che attendeva, Elvira stessa, senza che nessuno la seguisse, uscì gettandogli da lontano uno sguardo del tutto calmo e indifferente, dalla stanza. Aveva sottobraccio una pezza di tela tessuta in casa; e, dopo aver chiuso la stanza con una chiave che portava al fianco, cominciò a scendere tranquillamente la scala, con la mano appoggiata alla ringhiera.
Quella dissimulazione, quell'apparente indifferenza gli sembrò il culmine dell'impudenza e della perfidia. Non appena l'ebbe persa di vista, corse a prendere una chiave generale e, dopo aver gettato a destra e a manca alcune occhiate timorose, aprì con precauzione la porta della stanza. Ma quale fu il suo sbalordimento quando trovò tutto vuoto e, frugando in ogni angolo, non trovò nulla di simile a un uomo, se non il ritratto di un giovane aristocratico, in grandezza naturale collocato in una nicchia della parete, dietro una cortina di seta rossa, illuminato da una lampada che aveva davanti. Nicolò ne fu spaventato, non sapeva egli stesso perché. Di fronte ai grandi occhi del ritratto, che lo fissavano, una quantità di pensieri gli attraversarono il petto; ma, prima che avesse il tempo di raccoglierli e ordinarli, lo prese la paura di essere scoperto e punito da Elvira; richiuse, assai turbato, la porta, e si allontanò.
Quanto più ripensava allo strano caso, tanto più cresceva ai suoi occhi l'importanza del ritratto che aveva scoperto, e tanto più bruciante e dolorosa diveniva la curiosità di sapere a chi si riferisse. L'aveva pur vista in ginocchio, in tutto il suo profilo, ed era più che sicuro che colui dinanzi al quale aveva fatto quel gesto era la figura del giovane cavaliere dipinta sulla tela. Nell'irrequietezza d'animo che si era impadronita di lui, andò da Saveria Tartini e le raccontò la strana esperienza che gli era successa. Costei, che condivideva il suo interesse alla rovina di Elvira, poiché tutti gli ostacoli alla loro relazione venivano da lei, espresse il desiderio di vedere il ritratto collocato nella stanza. Poteva vantarsi, infatti, di molte conoscenze fra i nobili italiani, e se quello di cui si parlava era stato a Roma anche una sola volta in vita sua, ed era persona di una certa importanza poteva sperare di conoscerlo.
Poco tempo dopo, avvenne che i due coniugi Piachi, che volevano far visita a un parente, si recassero, una domenica, in campagna. Non appena Nicolò seppe di avere, in tal modo, campo libero, corse da Saveria e la introdusse, come una signora forestiera, insieme a una figlioletta che aveva avuto dal cardinale, con il pretesto di mostrarle dei quadri e dei ricami, nella stanza di Elvira. Ma quale fu il suo sconcerto quando la piccola Clara (così si chiamava la figlia), non appena egli ebbe tirato la cortina gridò: «Oh Dio, signor Nicolò! Ma quello siete voi!».
Saveria ammutolì. Il ritratto, in effetti, quanto più lo guardava, rivelava un'evidente somiglianza con lui, tanto più se ripensava, e per la sua memoria non era certo difficile, al costume da aristocratico con il quale, non molti mesi prima, l'aveva accompagnata di nascosto al Carnevale. Nicolò cercò di dominare scherzando l'improvviso rossore che gli era salito alle guance, e disse, baciando la piccola: «Oh sì, Claretta, il ritratto mi assomiglia proprio! Come tu a quello che si crede tuo padre!».
Ma Saveria, nell'animo della quale si era destato l'amaro sentimento della gelosia, gli lanciò un'occhiata, disse, mettendosi davanti allo specchio, che dopo tutto era indifferente chi fosse quell'uomo, lo salutò piuttosto freddamente e lasciò la stanza.
Nicolò, non appena Saveria se ne fu andata, ripensò a quella scena con vivissima agitazione. Ricordò, con grande gioia, lo strano e profondo turbamento in cui aveva gettato Elvira con la fantastica apparizione di quella notte. Il pensiero di aver destato la passione di quella donna, che passava per un modello di virtù, lo lusingava quasi quanto era forte il suo desiderio di vendicarsi di lei. E poiché ora gli si apriva la possibilità di soddisfare con un sol colpo l'una e l'altra voglia, attese con impazienza il ritorno di Elvira, e il momento in cui uno sguardo agli occhi di lei avrebbe coronato la sua convinzione, ancora esitante.
Nulla lo turbava, nella vertigine che l'aveva travolto, se non il preciso ricordo che il ritratto davanti al quale Elvira era inginocchiata, quando egli l'aveva spiata dal buco della serratura era stato chiamato da lei con il nome di Colino. Ma anche nel suono di quel nome, che non era affatto comune da quelle parti, c'era qualcosa che, non sapeva per quale ragione, cullava il suo cuore in dolci sogni. E, se doveva diffidare di uno dei due sensi, la vista o l'udito, inclinava naturalmente verso quello che meglio lusingava i suoi desideri.
Elvira ritornò dalla campagna solo parecchi giorni dopo; e poiché, dalla casa del cugino al quale aveva fatto visita, aveva portato con sé una giovane parente, che desiderava vedere Roma, tutta intenta a essere premurosa con lei gettò soltanto uno sguardo distratto e indifferente a Nicolò, che, con grande cortesia, l'aiutava a scendere dalla carrozza. Alcune settimane interamente dedicate all'ospite, che abitava con loro, trascorsero in un'agitazione inconsueta per la casa. Si visitò, dentro e fuori città, tutto ciò che poteva interessare una ragazza giovane e allegra come l'ospite; e Nicolò, il quale, a causa del lavoro che doveva sbrigare in ufficio, non era invitato a prender parte a quelle piccole gite, ricadde, riguardo a Elvira, nell'umore più nero. Ricominciò a pensare, con i sentimenti più amari e lamentosi, allo sconosciuto che lei adorava nella sua devozione segreta; e, la sera della partenza della giovane parente, che aveva atteso tanto a lungo con desiderio, questo sentimento faceva sanguinare più che mai il suo cuore inasprito, perché Elvira, invece di parlare con lui, taceva da più di un'ora, seduta al tavolo da pranzo, occupata da un piccolo lavoro a maglia.
Era avvenuto che Piachi, pochi giorni prima, avesse chiesto di una scatola che conteneva delle piccole lettere d'avorio, che erano servite per insegnare l'alfabeto a Nicolò quando era bambino; il vecchio aveva pensato, poiché ormai non servivano più a nessuno, di regalare a un bambinello del vicinato. La cameriera che era stata incaricata di cercarle, in mezzo a molte altre vecchie cose, non era riuscita a trovare altro che le sei lettere che formavano il nome «Nicolò»; probabilmente perché alle altre, che avevano un rapporto meno diretto con il ragazzo, si era fatta meno attenzione e, in una circostanza qualsiasi, erano state gettate via. Quando Nicolò prese in mano le lettere, che si trovavano sul tavolo da vari giorni, e, con il gomito appoggiato sul desco, si mise a giocherellarci, covando i suoi tetri pensieri, gli venne fuori per caso - egli stesso se ne stupì, quanto non si era mai stupito in vita sua - la combinazione che formava il nome «Colino». Nicolò, che non aveva mai pensato a fare l'anagramma del suo nome, gettò, di nuovo in preda a folli speranze, uno sguardo timido e incerto a Elvira, che sedeva al suo fianco. Il nesso che gli era stato rivelato fra le due parole gli parve più di una semplice coincidenza; rifletté, reprimendo la sua gioia, al significato della strana scoperta, e, levare le mani dalla tavola, aspettò con il cuore in gola il momento in cui Elvira avrebbe alzato gli occhi e scorto il nome, che era là in piena vista.
L'attesa non lo deluse. Non appena Elvira, in un momento d'ozio, ebbe notato la posizione delle lettere, e si fu chinata su di esse, ignara e sopra pensiero, per leggerle, perché era un po' miope, il suo sguardo sfiorò, con una strana angoscia, il volto di Nicolò, che la fissava con apparente indifferenza; riprese il lavoro, con una espressione malinconica che non si può descrivere, e, credendosi inosservata, lasciò cadere in grembo, con un soave rossore, una lacrima, e poi altre ancora. Nicolò, che osservava tutti quei moti dell'animo senza guardarla, non dubitava più che, dietro quella trasposizione di lettere, ella nascondesse il suo nome. La vide scompigliare le lettere, con un gesto soave, e le sue selvagge speranze raggiunsero il culmine della certezza quando lei si alzò, mise da parte il lavoro a maglia e disparve nella sua camera da letto. Voleva già alzarsi e seguirvela, quando entrò Piachi e, alla sua domanda dove fosse Elvira, una cameriera rispose che non si sentiva bene e si era messa a letto. Piachi, senza dimostrare grande turbamento, si volse e andò a vedere che cosa faceva; e quando, un quarto d'ora dopo, ritornò con la notizia che non sarebbe venuta a cena, senza aggiungere altro, Nicolò credette di aver trovato la chiave di tutte le scene enigmatiche di cui era stato testimone.
Il mattino seguente, mentre era occupato a riflettere, con gioia perversa, sull'utilità che sperava di trarre dalla sua scoperta, ricevette un biglietto da Saveria, in cui lei lo pregava di raggiungerla perché aveva qualcosa di interessante da dirgli a proposito di Elvira. Attraverso il vescovo che la manteneva, Saveria era in rapporti strettissimi con i frati del convento dei Carmelitani; e poiché sua madre andava a confessarsi al convento, Nicolò non dubitava che Saveria fosse riuscita a farsi rivelare, sulla storia segreta dei suoi sentimenti, dei particolari che corroborassero le sue innaturali speranze. Ma come fu sgradevolmente strappato, dopo un saluto stranamente beffardo di Saveria, ai pensieri in cui si cullava, quando lei lo fece accomodare sorridendo sul divano su cui era seduta, e gli disse che doveva rivelargli che l'oggetto dell'amore di Elvira era un morto, che già da dodici anni riposava nella tomba. Alvise, marchese del Monferrato, al quale uno zio di Parigi, presso il quale era stato educato, aveva dato il soprannome di «Collin», trasformato poi in Italia, scherzosamente, in «Colino», era l'originale del ritratto che egli aveva scoperto nella nicchia, dietro la tenda di seta rossa, in camera di Elvira: il giovane aristocratico genovese che, durante la sua fanciullezza, l'aveva così nobilmente salvata dalle fiamme, ed era morto per le ferite ricevute in quell'occasione. Ma, aggiunse, lo pregava di non fare uso di quel segreto, che le era stato confidato, sotto il sigillo della più assoluta discrezione, da una persona che non avrebbe avuto il diritto di rivelarglielo, nel convento dei Carmelitani. Nicolò, sul viso del quale si alternavano il pallore e il rossore, l'assicurò che non aveva nulla da temere e, del tutto incapace com'era di nascondere, davanti alle occhiate maliziose di Saveria, l'imbarazzo in cui l'aveva gettato quella rivelazione, addusse il pretesto di un lavoro urgente da sbrigare, prese, con uno sgradevole tremito del labbro superiore, il cappello, la salutò e uscì.
Umiliazione, lussuria e vendetta si unirono allora per covare l'azione più orrenda che sia mai stata compiuta. Egli sentiva che soltanto con l'inganno avrebbe potuto raggiungere l'anima pura di Elvira e non appena Piachi, che si recava in campagna per qualche giorno, gli lasciò libero il campo, si preparò a mettere in opera il piano diabolico che aveva escogitato. Si procurò lo stesso vestito con il quale, pochi mesi prima, era apparso di notte a Elvira, ritornando di nascosto dal Carnevale, indossò mantello, colletto e cappello piumato di foggia genovese, identici a quelli che portava il ritratto, si introdusse di soppiatto, poco prima dell'ora del riposo, in camera di Elvira, coperse con un panno nero il ritratto della nicchia e attese, con il bastone in mano, nella stessa identica posizione del giovane patrizio, l'adorazione di Elvira.
Reso perspicace dalla sua infame passione, aveva fatto bene i suoi calcoli; perché, non appena Elvira, che era entrata poco dopo, quando si fu svestita, con gesti lenti e silenziosi, tirò, come faceva abitualmente, la cortina di seta che chiudeva la nicchia e lo vide, gridò: «Colino! Amore mio!» e cadde svenuta sul pavimento di legno. Nicolò uscì dalla nicchia; restò fermo per un attimo, immerso nella contemplazione della sua bellezza, rimirando la sua dolce figura, che di colpo impallidiva sotto il bacio della morte; ma subito la sollevò, poiché non c'era tempo da perdere, fra le sue braccia, e la portò, dopo aver tirato via il panno nero davanti al quadro, sul letto che stava nell'angolo della stanza. Fatto questo, andò a chiudere a chiave la porta, ma la trovò già chiusa; e, sicuro che, anche quando avesse ripreso i sensi, non avrebbe opposto resistenza alla sua fantastica apparizione, che aveva tutte le apparenze del soprannaturale, ritornò verso il giaciglio e cercò di risvegliarla con baci ardenti sul petto e sulle labbra. Ma la Nemesi, che segue da vicino il delitto, volle che Piachi, che il meschino credeva lontano per parecchi giorni, dovesse ritornare inaspettatamente a casa proprio in quel momento. Egli si avvicinò silenziosamente lungo il corridoio, poiché credeva Elvira già addormentata, e, avendo sempre con sé la chiave, entrò improvvisamente, senza essere annunciato dal minimo rumore, nella stanza.
Nicolò si alzò in piedi, come colpito dal fulmine, si gettò, non potendo mascherare in alcun modo la sua ribalderia, ai piedi del vecchio, e implorò, promettendo che non avrebbe mai più levato gli occhi su sua moglie, il suo perdono. E anche il vecchio era incline a risolvere ogni cosa senza tumulto. Muto, quale l'avevano reso alcune parole di Elvira, che, tra le sue braccia, era tornata in sé, e aveva gettato sul meschino uno sguardo terribile, tirò le cortine del letto sul quale era distesa, staccò dalla parete lo scudiscio, aperse la porta e gli indicò la strada che doveva prendere immediatamente.
Ma questi, in tutto degno di Tartufo, quando vide che per quella via non c'era nulla da ottenere, saltò di colpo in piedi e dichiarò che toccava a lui, al vecchio, lasciare la casa, poiché egli era il legittimo proprietario, in base a documenti pienamente validi, e avrebbe ben saputo far valere i suoi diritti contro chicchessia!
Piachi non credeva ai propri occhi. Disarmato da quell'inaudita impudenza, depose lo scudiscio, prese il cappello e il bastone, corse da un vecchio amico avvocato, il dottor Valerio svegliò una domestica, che venne ad aprire, e, non appena fu entrato in camera dell'amico, cadde svenuto ai piedi del suo letto, prima di aver pronunciato una parola.
Il dottor Valerio, che accolse in casa propria lui e poi anche Elvira, corse, il mattino seguente, a chiedere l'arresto del diabolico furfante, che aveva dalla sua non pochi vantaggi; ma, mentre Piachi muoveva le sue leve inerti, per spogliarlo degli averi che a suo tempo gli aveva intestato, questi, redatto un lascito generale, corse dai suoi amici, i frati Carmelitani, e chiese la loro protezione contro il vecchio pazzo, che voleva cacciarlo. In breve, poiché acconsentì a sposare Saveria, della quale il vescovo voleva sbarazzarsi, la malvagità vinse, e il Governo, per intromissione dell'alto prelato, emanò un decreto con il quale riconfermava la proprietà a Nicolò, e vietava a Piachi di molestarlo.
Piachi, che proprio il giorno prima aveva sepolto Elvira morta per i postumi di una violenta febbre provocata dagli eventi di quella notte, sospinto da un doppio dolore andò a casa con il decreto in tasca e, con la forza che gli dava il suo furore, si gettò su Nicolò, più debole di costituzione, e gli sfracellò la testa contro il muro. La gente di casa se ne accorse soltanto a fatto compiuto; lo trovarono con il capo di Nicolò fra le ginocchia, mentre gli ficcava in bocca il decreto. Fatto questo si alzò consegnò tutte le sue armi, fu messo in prigione, processato e condannato a morte per impiccagione.
Nello Stato della Chiesa vige una legge per la quale nessun colpevole di un delitto può essere messo a morte senza aver ricevuto l'assoluzione. Piachi, quando venne il giorno dell'esecuzione, rifiutò ostinatamente l'assoluzione. Dopo aver esperito invano tutti i mezzi previsti dalla religione per fargli sentire la colpevolezza del suo gesto, sperarono di atterrirlo e indurlo al pentimento con la vista della morte che l'attendeva, e lo condussero al patibolo. Qui c'era un sacerdote che gli descrisse con una voce da Ultimo Giorno, tutti gli orrori dell'Inferno, dove la sua anima stava per discendere, mentre un altro, tenendo in mano l'Ostia consacrata, il santo mezzo di riconciliazione, gli faceva le lodi delle dimore della pace eterna.
«Vuoi tu avere parte del beneficio della redenzione?», chiesero entrambi. «Vuoi ricevere la comunione?».
«No», rispose Piachi.
«Perché no?».
«Non voglio essere beato. Voglio scendere nel fondo più basso dell'Inferno. Voglio ritrovare Nicolò, che non può essere in cielo, e riprendere la mia vendetta, che qui ho potuto soddisfare solo in parte!».
E così dicendo salì la scala e invitò il boia a compiere il suo ufficio. In breve, ci si vide costretti a sospendere l'esecuzione e a riportare in carcere l'infelice, che la legge proteggeva. Per tre giorni consecutivi lo stesso tentativo fu ripetuto, sempre con lo stesso esito. Quando anche il terzo giorno dovette ridiscendere la scala senza essere appeso alla forca, Piachi levò le braccia con espressione truce e maledisse la legge disumana che non voleva farlo andare all'Inferno. Invocò tutta la schiera dei diavoli perché lo prendesse, giurò che il suo unico desiderio era di essere giustiziato e dannato, e assicurò che avrebbe strangolato il primo prete che gli si fosse parato d'innanzi, pur di rimettere le mani su Nicolò all'Inferno!
Quando le sue parole furono riferite al Papa, egli ordinò di giustiziarlo senza l'assoluzione; nessun prete l'accompagnò, e fu impiccato in silenzio sulla Piazza del Popolo.




SANTA CECILIA O LA FORMA DELLA MUSICA
(Leggenda)

Intorno alla fine del XVI secolo, quando nei Paesi Bassi infuriava l'iconoclastia, tre fratelli, giovani studenti a Vittemberga, si incontrarono con un quarto, che faceva il predicatore ad Anversa, nella città di Aquisgrana. Volevano prendere possesso di un'eredità lasciata da un vecchio zio, che nessuno di loro aveva conosciuto, e poiché in città non c'erano altre persone alle quali potessero rivolgersi, alloggiarono in una locanda. Trascorsi alcuni giorni, spesi ad ascoltare il predicatore sugli strani avvenimenti dei Paesi Bassi, avvenne che le monache del convento di Santa Cecilia, che allora sorgeva fuori dalle porte della città, dovessero celebrare solennemente il Corpus Domini; tanto che i quattro fratelli, eccitati dal fanatismo, dalla giovane età e dall'esempio dei Paesi Bassi, decisero di dare anche alla città di Aquisgrana lo spettacolo della distruzione delle immagini sacre. Il predicatore, che più volte aveva già guidato simili imprese, la sera della vigilia radunò un certo numero di giovani studenti e figli di commercianti, devoti alla nuova dottrina, che passarono la notte nella locanda, mangiando e bevendo vino, fra imprecazioni contro il papato; e, quando il sole sorse sui comignoli della città, si munirono di asce e strumenti di distruzione d'ogni genere, per mettere in atto il loro violento proposito. Concordarono esultanti un segno, al quale avrebbero cominciato a tirare sassi contro le vetrate, dipinte con storie della Bibbia e, certi di trovare un grande seguito fra il popolo, si recarono, decisi a non lasciare pietra su pietra, mentre cominciavano a suonare le campane, nella chiesa del convento.
La badessa, che alle prime luci del giorno era stata già informata da un amico del pericolo che sovrastava il monastero, mandò inutilmente più volte dall'ufficiale dell'Impero che aveva il comando della guarnigione, chiedendo un presidio armato che lo proteggesse; l'ufficiale, ostile egli stesso al papato, e come tale favorevole, almeno di nascosto, alla nuova dottrina, le negò il presidio, con il cinico pretesto che dava corpo agli spettri e che per il suo convento non c'era ombra di pericolo.
Venne l'ora in cui la cerimonia doveva cominciare e le monache si accinsero, fra paure e preghiere, nell'attesa angosciosa di ciò che stava per succedere, a dire la messa. Nessuno le proteggeva, all'infuori di un vecchio soprastante settantenne, che si mise, con alcuni servi armati, sul portale della chiesa. Nei conventi femminili le monache, come è noto, abituate a suonare ogni genere di strumenti, eseguono da sé le loro musiche, spesso con una precisione, un'intelligenza e un sentimento che mancano alle orchestre maschili (forse a causa della femminilità di quest'arte misteriosa). Ora avvenne, a raddoppiare la tribolazione, che la maestra di cappella, suor Antonia, che di solito dirigeva le musiche dall'orchestra, si fosse ammalata, pochi giorni prima, di una violenta febbre nervosa, tanto che, anche senza tener conto dei quattro sacrileghi fratelli, che già si scorgevano, avvolti nei mantelli, sotto i pilastri della chiesa, il convento era nel più vivo imbarazzo per eseguire le musiche adatte alla ricorrenza. La badessa, che la sera della vigilia aveva ordinato di eseguire un'antichissima messa italiana, di autore ignoto, con la quale, per la santità e magnificenza della composizione, l'orchestra del convento aveva già diverse volte ottenuto i più grandiosi effetti, più che mai risoluta a perseverare nella decisione mandò ancora una volta a chiedere come stava suor Antonia; ma la monaca incaricata ritornò dicendo che la sorella giaceva del tutto priva di conoscenza, e non si poteva pensare di affidarle la direzione della musica prescelta.
Nel frattempo la chiesa, nella quale si erano radunati a poco a poco più di cento ribaldi di ogni ceto ed età, armati di scuri e di sbarre di ferro, era già stata teatro delle scene più preoccupanti; alcuni servi messi a guardia del portale erano stati scherniti nel modo più volgare, e le monache isolate che erano comparse a più riprese nelle navate, intente alle loro pie occupazioni, erano state prese a bersaglio con gli epiteti più sfrontati e indecenti: tanto che il vecchio soprastante si recò in sacrestia e scongiurò in ginocchio la badessa di sospendere la cerimonia e di recarsi in città, e mettersi sotto la protezione del comandante. Ma la badessa fu irremovibile: la festa indetta a onore e gloria di Dio Onnipotente doveva essere celebrata; richiamò il soprastante al suo dovere di proteggere con il suo corpo e la sua vita la messa e il solenne corteo che avrebbe avuto luogo in chiesa e, poiché suonavano appunto le campane, diede ordine alle monache che la circondavano tremando di prendere un oratorio qualsiasi, non importa di quale valore, e di cominciare subito l'esecuzione.
Le monache, sulla balconata dell'organo, si accingevano a obbedire, lo spartito di una composizione già molte volte eseguita era stato distribuito, violini, oboi e contrabbassi erano accordati, quando d'un tratto suor Antonia, fresca e sana, un po' pallida in volto, apparve in cima alla scala, recando sotto braccio la partitura dell'antichissima messa italiana per la cui esecuzione la badessa aveva insistito tanto. Alla domanda stupita delle suore di dove venisse, e come si fosse improvvisamente ristabilita, rispose: «Non importa, care, non importa!», distribuì gli spartiti che aveva con sé e si sedette all'organo, ardente di entusiasmo, per dirigere la splendida composizione. Allora una sorta di meraviglioso, celeste conforto discese nei cuori delle pie sorelle; si misero immediatamente al leggio, con i loro strumenti, e l'angoscia stessa che le opprimeva venne a sollevare le loro anime, come su ali, nei cieli dell'armonia; la musica dell'oratorio fu suonata in modo stupendo, sublime; durante l'intera esecuzione nelle navate e fra i banchi non si mosse un alito, e soprattutto al «Salve regina» e al «Gloria in excelsis» fu come se la chiesa fosse stata popolata di morti; tanto che, a dispetto dei quattro fratelli sacrileghi e del loro codazzo, non fu neppure sollevata la polvere del pavimento, e il convento restò in piedi fino alla conclusione della guerra dei trent'anni, quando, in base a un articolo della pace di Westfalia, fu nondimeno secolarizzato.
Sei anni dopo, quando questi fatti erano dimenticati da un pezzo, arrivò dall'Aia la madre dei quattro giovani, la quale, dichiarando tristemente che essi erano svaniti nel nulla, avviò un'inchiesta giudiziaria, presso la magistratura di Aquisgrana, sulla via che potessero aver preso allontanandosi da quella città. L'ultima notizia che aveva avuto di essi nei Paesi Bassi, loro effettivo paese di residenza, era, riferì la donna, una lettera che risaliva a un periodo precedente, alla vigilia di una festa del Corpus Domini, scritta dal predicatore a un amico, maestro di scuola ad Anversa, nella quale, con molta allegria, per non dire sfrenatezza, lo informava in anticipo, in quattro fitte pagine dell'impresa progettata contro il convento di Santa Cecilia; impresa sulla quale la madre, tuttavia, non voleva fornire maggiori particolari.
Dopo svariati e faticosi tentativi di rintracciare le persone cercate da quella donna angosciata, rimasti senza risultato, ci si ricordò, alla fine, che da un certo numero di anni, che rispondeva all'incirca a quelli da lei indicati, quattro giovani dei quali erano ignote la patria e la provenienza si trovavano nel manicomio cittadino, recentemente fondato grazie alla sollecitudine dell'imperatore: ma essi soffrivano per un'esasperata fissazione religiosa, e il loro contegno, che, come il tribunale credeva di aver vagamente sentito dire, era estremamente triste e malinconico, corrispondeva troppo poco allo stato d'animo che la madre conosceva anche troppo bene nei suoi figli, perché potesse dare molto credito (tanto più che sembrava quasi certo che fossero cattolici) a un'indicazione come quella.
E tuttavia, singolarmente colpita da certi connotati di vario genere con i quali venivano descritti, la madre si recò un giorno, accompagnata da un ufficiale giudiziario, nel manicomio, e pregò i custodi che, per cortesia, le permettessero di farsi introdurre presso i quattro infelici alienati che vi si custodivano, per esaminarli. Ma chi descriverà l'orrore della povera donna quando al primo sguardo, non appena ebbe varcato la soglia, riconobbe i suoi figli: sedevano, in lunghi, neri abiti talari, intorno a un tavolo sul quale era ritto un crocifisso e, con le mani aperte appoggiate in silenzio sul piano di legno, sembravano adorarlo. Alla domanda della donna, la quale, priva di forze, si era lasciata cadere su una seggiola, che cosa facessero là, i custodi risposero che essi «non facevano altro che glorificare il Salvatore, del quale, a quanto essi stessi dicevano, credevano di aver compreso, meglio di altri, come fosse il vero Figlio dell'unico Iddio».
E aggiunsero che «da sei anni ormai i giovani conducevano quella vita spettrale, dormivano poco e prendevano poco cibo dalle loro labbra non giungeva alcun suono, ma soltanto all'ora della mezzanotte si alzavano dai loro seggi, e allora, con una voce che spaccava le finestre della casa, intonavano il "Gloria in excelsis"». E i custodi conclusero con l'assicurazione che, fisicamente, i giovani erano perfettamente sani, e nemmeno si poteva negare che manifestassero perfino una certa, per quanto seria e solenne, allegrezza; e quando si affermava che erano pazzi, alzavano le spalle con aria di compatimento, e più di una volta avevano detto che «se la buona città di Aquisgrana avesse saputo ciò che essi sapevano, avrebbe messo da parte i suoi affari e si sarebbe inginocchiata come loro davanti al Crocifisso del Signore, a cantare il "Gloria"».
La donna, che non poteva sostenere la vista raccapricciante di quegli infelici e poco dopo, con le ginocchia vacillanti, si era fatta ricondurre a casa, si recò il mattino seguente, per raccogliere informazioni sulle cause di quella mostruosa circostanza, presso il signor Veit Gotthelf, noto mercante di stoffe della città, poiché quest'uomo veniva nominato nella lettera scritta dal predicatore, e da essa risultava che costui aveva partecipato con entusiasmo al progetto di distruggere il convento di Santa Cecilia, nel giorno del Corpus Domini. Veit Gotthelf, il mercante di stoffe, che nel frattempo si era sposato, aveva messo al mondo numerosi figli ed era subentrato al padre nella sua cospicua attività, ricevette assai amabilmente la forestiera; quando venne a sapere quale richiesta la conduceva da lui, chiuse a chiave la porta e, dopo averla pregata di accomodarsi, venne a dire quanto segue:
«Sì, mia cara signora, sei anni or sono io fui in stretti rapporti con i vostri figli e, se non vorrete coinvolgermi per questo in un'inchiesta giudiziaria, ve lo confesserò a cuore aperto e senza reticenze: era nostro proposito fare ciò di cui parla la lettera! Per quale ragione l'impresa, per l'esecuzione della quale tutto era stato predisposto in ogni minimo particolare, con sagacia veramente empia, sia fallita, mi è incomprensibile, parrebbe che il cielo stesso avesse preso il convento delle pie donne sotto la sua santa protezione. Perché, sapete, i vostri figli si erano già lasciati andare a vari lazzi e ribalderie, che avevano disturbato il sevizio divino, e dovevano dare l'avvio alle scene decisive; e più di trecento malvagi, muniti di scuri e di torce intinte nella pece, tutti abitanti della nostra città, allora traviata, aspettavano soltanto il cenno che avrebbe dovuto dare il predicatore per radere al suolo la chiesa. E invece, all'attaccare della musica, i vostri figli all'improvviso, con movimento simultaneo, e in uno strano modo che ci colpì, si tolgono il cappello, si coprono, a poco a poco, come in preda a un'intensa, inesprimibile commozione, con le mani il volto chino, e il predicatore, voltandosi d'un tratto, dopo una pausa inquietante, grida a tutti noi, con voce forte e terribile, di scoprirci il capo! Invano alcuni compagni lo esortano con un sussurro, dandogli allegramente di gomito, a dare il segnale convenuto per l'assalto alle immagini sacre: invece di rispondere, il predicatore, incrociando le braccia sul petto, si lascia cadere in ginocchio e mormora, insieme ai fratelli, con la fronte devotamente premuta nella polvere, tutta la successione delle preghiere fino a poco prima derise. Con l'animo profondamente turbato da quella vista, la masnada dei miserabili esaltati, privata dei suoi capi, se ne resta indecisa e inattiva sino alla fine dell'oratorio, che echeggia, con mirabile fragore, giù dal presbiterio; e poiché proprio allora, per ordine del governatore, si procedeva a numerosi arresti, e alcuni malfattori che avevano fomentato i disordini venivano afferrati dalle guardie e condotti via, a quella schiera di sciagurati non rimane che allontanarsi il più rapidamente possibile, protetti dalla calca del popolo che andava verso l'uscita, dalla casa di Dio.
«Verso sera, dopo aver domandato invano più volte all'albergo notizie dei vostri figli, che non erano tornati, esco, nella più spaventosa agitazione, con alcuni amici per ritornare al convento e chiedere di loro agli inservienti che avevano dato man forte alle guardie imperiali. Ma come descrivervi il mio orrore, nobile signora, al vedere quei quattro uomini che continuano, con le mani giunte, baciando il suolo con il petto e con la fronte, a giacere prostrati e pieni di ardente fervore davanti all'altare della chiesa, come se si fossero mutati in pietra! Inutilmente il soprastante del monastero, che proprio in quel momento si era avvicinato, li esorta, tirandoli per il mantello e scuotendoli per il braccio, a lasciare il duomo, nel quale era ormai buio fitto e non era rimasto nessuno: non gli danno ascolto, alzandosi a metà, come trasognati, finché egli non li fa prendere sottobraccio dai servi e condurre fuori dal portale, dove finalmente, sia pure sospirando e voltandosi spesso verso la cattedrale, che splendeva magnifica alle nostre spalle, illuminata dal sole, con uno sguardo che straziava il cuore, ci seguono in città. Gli amici ed io domandiamo loro più volte, con affettuosa sollecitudine, sulla via del ritorno, che cosa fosse mai successo di tanto terribile da cambiare a tal punto il loro stato d'animo; essi, fissandoli con amicizia, ci stringono le mani, guardano pensierosi, verso terra e, di tanto in tanto, ah!, con un'espressione che ancora adesso mi spezza il cuore, si asciugano le lacrime dagli occhi.
«Poi, giunti alle loro stanze, si intrecciano con gesti delicati e carichi di significato una croce di verghe di betulla e, infilandola su un monticello di cera, la mettono sul grande tavolo che sta al centro della camera, tra i due lumi con i quali si è presentata la fantesca; e mentre gli amici, la cui schiera si ingrossa di ora in ora, restano in disparte torcendosi le mani e osservano in gruppi sparsi, muti per la disperazione, i loro movimenti silenziosi, spettrali, essi, come se i loro sensi fossero chiusi a ogni altra visione, prendono posto intorno al tavolo, disponendosi in silenzio, con le mani giunte, all'adorazione. Non manifestano desiderio né del cibo portato dalla fantesca, secondo le disposizioni da loro stessi date al mattino, per invitare a mensa i compagni, né, più tardi, quando cala la notte, del giaciglio apprestato, poiché sembrano stanchi, nella stanza attigua; gli amici, per non destare il disappunto dell'oste, stupito di quella condotta, devono sedersi a una tavola riccamente imbandita, che è stata preparata da una parte, e servirsi dei cibi cucinati per una numerosa compagnia, conditi con il sale delle loro lacrime amare.
«E, d'un tratto, suona l'ora della mezzanotte, i vostri quattro figli, dopo aver teso per un attimo l'orecchio al suono opaco della campana, si alzano d'un tratto, con movimento simultaneo, dai loro seggi, e mentre noi, posando i tovaglioli, guardiamo verso di loro, nell'attesa angosciosa di ciò che seguirà quei preparativi così strani e inquietanti, essi cominciano, con voce orribile, spaventosa, a cantare il "Gloria in excelsis". Così possono farsi udire leopardi e lupi, se nel più gelido inverno ruggiscono al firmamento: i muri maestri della casa, ve lo assicuro, tremavano, e i vetri delle finestre, colpite dai visibili fiati dei loro polmoni, tintinnavano, minacciando, come se qualcuno gettasse contro le loro superfici piene manciate di una pesante sabbia, di andare in pezzi. A quella scena raccapricciante ci precipitiamo senza riflettere, con i capelli ritti, in tutte le direzioni, ci disperdiamo, abbandonando i mantelli e i cappelli nelle strade adiacenti, che in breve tempo si riempiono, al nostro posto, di più di cento persone svegliate di soprassalto dal sonno; la gente, sfondata la porta, si accalca su per le scale, verso il salone, alla ricerca della fonte di quell'orrendo, intollerabile ruggito, che sembra innalzarsi, dalle labbra di peccatori dannati per l'eternità, dall'abisso più profondo dell'Inferno di fiamme, verso le orecchie di Dio, implorando miseramente la sua compassione. Finalmente, quando la campana batte l'una, senza aver dato ascolto alle grida irose dell'oste, né alle esclamazioni della gente sconvolta che li circonda, chiudono la bocca, si asciugano con un panno dalla fronte il sudore che gli cade a goccioloni sul mento e sul petto, allargano i mantelli e si coricano, per riposare un'ora da quell'occupazione così tormentosa, sulle assi del pavimento. L'oste li lascia fare, traccia, non appena li vede assopiti, su di essi il segno della croce e, contento di essere liberato, per il momento, da quelle miserie, assicurando che l'indomani avrebbe portato un mutamento salutare, convince l'assembramento dei presenti, che si sussurrano l'un l'altro con aria di mistero, a lasciare la stanza.
«Ma, purtroppo, già al primo canto del gallo gli infelici sono di nuovo in piedi e ricominciano, intorno alla croce piantata sulla tavola, la stessa desolata e spettrale vita monacale che solo lo sfinimento li aveva costretti, per pochi momenti, a interrompere. Dall'oste, che si sente stringere il cuore davanti a quel triste spettacolo, non accettano né ammonimenti né aiuti, lo pregano di allontanare affettuosamente gli amici, che prima erano abituati a raccogliersi intorno a loro ogni mattina, non desiderano nulla da lui, se non acqua, pane e un pagliericcio, se possibile, per la notte, così che quest'uomo, che prima cavava molti quattrini dalla loro allegria, si vede costretto a denunciare tutta la faccenda ai giudici, e a pregare di togliergli di torno quei quattro uomini, i quali, senza dubbio, dovevano essere posseduti dal Maligno. Dopo di che, per ordine del magistrato, furono sottoposti a esame medico e, essendo stati giudicati pazzi, vennero, come sapete, internati nei locali del manicomio che la clemenza dell'imperatore da poco venuto a mancare ha fondato, nella cerchia murata della nostra città, a beneficio degli infelici di questa sorta». Questo, e altro ancora, che noi qui tralasciamo, ritenendo di aver detto abbastanza per la comprensione di quello stato di cose, disse Veit Gotthelf, il mercante di panni; e pregò ancora una volta la donna, nel caso che sulla questione si dovesse riaprire l'inchiesta giudiziaria, di non implicarvelo in alcun modo.
Tre giorni dopo, quando la donna, profondamente scossa da questo racconto, uscì, al braccio di un'amica, per recarsi al convento, nel malinconico proposito di vedere con i propri occhi, durante una passeggiata, poiché il tempo era bello, lo spaventoso teatro sul quale Dio, quasi con folgori invisibili, aveva annientato i suoi figlioli, le due donne trovarono il duomo sbarrato all'ingresso da alcune assi, poiché vi si stavano compiendo dei lavori di muratura; e, sollevandosi faticosamente in punta di piedi, non poterono scorgere nulla del suo interno, attraverso le aperture fra le tavole, se non il magnifico rosone che scintillava in fondo alla chiesa. Molte centinaia di operai, intonando liete canzoni, erano occupati, su esili impalcature, in vario modo intrecciate, a innalzare di un buon terzo le torri e a rivestire tetti e pinnacoli, fino allora ricoperti di ardesia, con spessi e lucenti fogli di rame, che scintillavano ai raggi del sole. Sullo sfondo della costruzione si stagliava in quel momento, nerissimo con gli orli dorati, un temporale, che aveva già smesso di tuonare sulla regione di Aquisgrana e, dopo aver ancora scagliato alcuni fulmini senza forza in direzione del duomo, dissolvendosi in vapori calava verso oriente con un brontolio di disappunto. Avvenne che, mentre le donne, dalla scalinata del vasto edificio del convento, osservavano, assorte in diversi pensieri, quel doppio spettacolo, una suora che passava di 1ì venisse per caso a sapere chi era la donna in piedi sotto il portone così che la badessa, che aveva sentito parlare di una lettera, riguardante la festa del Corpus Domini, che la donna portava con sé, rimandò immediatamente da lei la suora, affinché pregasse la signora dei Paesi Bassi di salire da lei.
La donna restò per un attimo interdetta, ma nondimeno si accinse con deferenza a obbedire all'ordine che le era stato riferito; e, mentre l'amica, su invito della suora, si ritirava in una stanza laterale adiacente all'ingresso, alla forestiera, che aveva dovuto salire la scala, furono aperti i battenti delle stanze ben costruite del piano superiore. Là trovò la badessa, una nobildonna calma e regale nell'aspetto, seduta su una poltrona, con il piede appoggiato su uno sgabello i cui piedi erano artigli di drago; al suo fianco, su un leggìo, c'era una partitura musicale. La badessa, dopo aver ordinato di avvicinare una sedia alla forestiera, le rivelò che aveva già saputo dal sindaco del suo arrivo in città; e, dopo essersi informata con umanità di come stessero i suoi infelici figlioli, e averla anche incoraggiata ad accettare, per quanto le fosse possibile, il destino che li aveva colpiti, dal momento che non era possibile cambiarlo, le manifestò il desiderio di vedere la lettera scritta dal predicatore al suo amico, maestro ad Anversa. La donna, che aveva abbastanza esperienza per comprendere quali conseguenze avrebbe potuto avere quel passo, si sentì per un momento messa in grave imbarazzo dalla richiesta; ma poiché il venerabile viso della gran dama richiedeva incondizionata fiducia, e non sarebbe stato decoroso credere che potesse essere sua intenzione fare un uso pubblico del suo contenuto, si tolse, dopo una breve riflessione, la lettera dal seno, e la porse, posando un bacio ardente sulla sua mano alla regale signora.
La donna, mentre la badessa scorreva la lettera, lasciò cadere lo sguardo sullo spartito aperto a caso sul leggìo; e poiché il resoconto del mercante di panni le aveva fatto venire in mente che avrebbe potuto essere stata la potenza dei suoni, in quel giorno terribile, a turbare e sconvolgere l'animo dei suoi poveri figli, domandò alla suora che stava in piedi dietro la sua seggiola, rigirandosi timidamente verso di lei: «Era forse quella la musica eseguita sei anni prima nella cattedrale, al mattino di quella memorabile festa del Corpus Domini?». Alla risposta della giovane suora che, si, ricordava di averlo sentito dire e che, da allora, l'opera restava di solito, quando non era usata, nella stanza della Madre reverendissima, vivamente scossa la donna si alzò e, attraversata da svariati pensieri, si mise in piedi di fronte al leggìo. Osservò gli sconosciuti segni magici con i quali uno spirito terribile sembrava misteriosamente tracciare il suo cerchio, e le parve di cadere al suolo, poiché era aperto proprio al «Gloria in excelsis». Fu come se tutto l'orrore della musica che aveva rovinato i suoi figli passasse tuonando sopra il suo capo; credette, a quella sola vista, di perdere i sensi e, dopo che ebbe rapidamente, con un moto d'infinità umiltà e sottomissione all'onnipotenza divina, premuto le labbra sul foglio, tornò a sedersi sulla sua sedia.
Nel frattempo la badessa aveva letto tutta la lettera, e disse, ripiegandolo: «Dio stesso, in quel giorno mirabile, difese il convento contro la tracotanza dei vostri figli gravemente traviati. Di quali mezzi si sia servito può essere indifferente a voi, che siete protestante: difficilmente comprendereste ciò che su di essi potrei dirvi. Poiché sappiate che nessuno sa chi fu realmente, nell'incalzare dell'ora spaventevole in cui gli iconoclasti dovevano scatenarsi contro di noi, a dirigere tranquillamente dal sedile dell'organo, l'opera che vedete là aperta. Secondo una testimonianza resa il mattino del giorno seguente, alla presenza del soprastante del convento e di numerosi altri uomini e depositata nell'archivio, è dimostrato che suor Antonia, l'unica che potesse dirigere l'opera, per tutto il tempo dell'esecuzione giacque malata, incosciente e del tutto incapace di ogni movimento in un canto della sua cella; una suora che, essendo sua parente carnale, le era stata messa a fianco per assistere il suo corpo, durante tutta la mattinata nella quale si festeggiò il Corpus Domini nella cattedrale non si allontanò dal suo letto. E immancabilmente la stessa suor Antonia avrebbe confermato la verità del fatto che non fu lei a comparire, in modo così strano e sorprendente, sulla balconata dell'organo, se il suo stato di completa incoscienza avesse consentito d'interrogarla in proposito, e se la sera di quello stesso giorno la malata, a causa della febbre nervosa della quale soffriva, e che prima non era affatto sembrata pericolosa per la sua vita, non fosse spirata. L'arcivescovo di Treviri, al quale questi fatti vennero riferiti, ha già pronunciato le sole parole che possano spiegarli, e cioé che "Santa Cecilia stessa ha compiuto questo miracolo, a un tempo magnifico e terribile"; e proprio ora ho ricevuto dal Papa una Breve che ne dà conferma». E con questo, con la promessa che non ne avrebbe fatto uso alcuno, restituì alla donna la lettera che si era fatta dare soltanto per avere maggiori informazioni su ciò che già sapeva; e, dopo averle ancora domandato se vi era qualche speranza che i suoi figli si ristabilissero, e se poteva esserle in qualsiasi modo utile a quello scopo, con denaro o altri appoggi, al che la donna, baciandole la veste, rispose piangendo di no, la salutò gentilmente con la mano e la congedò.
Qui ha fine la leggenda. La donna, la cui presenza ad Aquisgrana era del tutto inutile, dopo aver lasciato presso il tribunale un piccolo capitale, a beneficio dei suoi figli, ritornò all'Aia, dove un anno dopo, profondamente colpita da quegli eventi ritornò in seno alla Chiesa cattolica. I suoi figli morirono invece in tarda età, di una morte serena e lieta, dopo aver cantato ancora una volta, secondo la loro abitudine, il «Gloria in excelsis».




IL DUELLO

Guglielmo, duca di Breysach, che, dal momento della sua segreta unione con una contessa di nome Caterina di Heersbruck, della casa di Alt-Hüningen, la quale sembrava inferiore al suo rango, viveva in inimicizia con il suo fratellastro, il conte Iacopo Barbarossa, ritornava, verso la fine del quattordicesimo secolo, quando cominciava a calare la notte di san Remigio, da un incontro avuto a Worms con l'imperatore tedesco, durante il quale era riuscito a ottenere dal suo sovrano, in mancanza di figli legittimi, i quali gli erano morti, che un suo figlio naturale, il conte Filippo di Hüningen, natogli dalla consorte prima del matrimonio, fosse legittimato. Guardando all'avvenire con una gioia maggiore di quella che avesse mai provata in tutto il suo governo, egli aveva già raggiunto il parco che si estendeva dietro il suo castello, quando a un tratto, dal buio della macchia, scoccò una freccia che lo passò da parte a parte, proprio sotto lo sterno. Messer Federico di Trota, il suo camerlengo, sconvolto dall'accaduto, lo portò, con l'aiuto di altri cavalieri, nel castello, dove ebbe soltanto la forza, tra le braccia della consorte sconvolta, di leggere a un'adunanza di vassalli dell'impero, convocata il più rapidamente possibile da quest'ultima, l'atto di legittimazione imperiale; e dopo che, non senza una vivace resistenza, poiché, a termini di legge, la corona sarebbe andata al suo fratellastro, il conte Iacopo Barbarossa, i vassalli ebbero adempiuto alla sua ultima precisa volontà e riconosciuto, riserbandosi il diritto di chiedere il consenso dell'imperatore, come erede al trono il conte Filippo, e la madre di lui, a causa della sua minore età, tutrice e reggente, egli ricadde indietro e morì.
La duchessa, dunque, salì senz'altro al trono, limitandosi a informare il cognato, il conte Iacopo Barbarossa, per mezzo di alcuni messaggeri; e quel che numerosi cavalieri della corte, i quali pretendevano di leggere nell'animo riservato di quest'ultimo, avevano predetto si verificò, almeno per quanto era delle apparenze esteriori: Iacopo Barbarossa, con intelligente ponderazione delle attuali circostanze, si consolò dell'ingiustizia che il fratello gli aveva fatta, o per lo meno si trattenne dal compiere qualunque passo per impugnare l'ultima volontà del duca, e augurò di cuore al giovane nipote una vita felice sul trono che gli era toccato. Ai messaggeri, che con grande allegria e gentilezza invitò alla sua mensa, descrisse come, dopo la morte della moglie, che gli aveva lasciato un patrimonio regale, vivesse libero e indipendente nel suo castello; come gli piacessero le donne della nobiltà confinante, il suo vino e la caccia, in compagnia di un'allegra brigata, e come una crociata in Palestina, con la quale pensava di espiare i peccati di una turbolenta gioventù, i quali purtroppo, ammetteva, erano ancora cresciuti con l'età, fosse l'unica impresa che, sul finire della vita, ancora si proponeva di realizzare. Invano i suoi due figli, che erano stati educati nella radicata speranza di salire al trono, gli fecero per l'indifferenza e l'insensibilità con cui, in modo del tutto inaspettato, acconsentiva a quell'irreparabile offesa alle loro pretese, i più amari rimproveri: egli li invitò, con poche sarcastiche parole di comando, a starsene tranquilli, da quei giovani imberbi che erano, li costrinse, nel giorno delle esequie solenni, a seguirlo in città e ad accompagnare, al suo fianco, al sepolcro, come si conveniva, il vecchio duca, loro zio e, dopo aver reso omaggio, nella sala del trono del palazzo ducale, al giovane principe, suo nipote, alla presenza della madre e reggente, insieme a tutti gli altri grandi della corte, se ne tornò, rinunciando a tutte le cariche e dignità che la reggente gli offriva e accompagnato dalle benedizioni del popolo, che lo venerava doppiamente per la sua magnanimità e moderazione, nel suo castello.
La duchessa, messo felicemente da parte, come non sperava, il primo affare, passò ad adempiere al suo secondo obbligo di reggente, cioé alle indagini per ritrovare gli assassini del consorte, dei quali, si pretendeva, era stata vista nel parco tutta una schiera; e, a tale scopo, esaminò lei stessa, insieme a messer Godvino di Herrthal, suo cancelliere, la freccia che aveva posto fine alla sua vita. Ma in essa non si trovò nulla che potesse tradirne il proprietario, se non forse che era ornata e lavorata con cura sorprendente. Piume resistenti, arricciate e lucenti erano infilate in un fusto ben tornito di scuro legno di noce, sottile e robusto; l'estremità anteriore era rivestita di ottone scintillante e solo la punta, affilata come una lisca di pesce, era d'acciaio. La freccia sembrava fabbricata per la sala d'armi di un uomo ricco e illustre, incline alle contese o grande amante della caccia; e poiché ci si avvide, dalla data incisa nella cocca, che era stata fatta da non molto tempo, la duchessa, consigliata dal cancelliere, inviò la freccia, munita del sigillo ducale, in tutte le officine della Germania, per trovare il mastro artigiano che l'aveva tornita e, se ciò fosse riuscito, venire a sapere da lui su commissione di chi fosse stato fatto il lavoro.
Cinque lune dopo, pervenne a messer Godvino, il cancelliere, al quale la duchessa aveva affidato le indagini, la dichiarazione di un armiere di Strasburgo, il quale diceva di aver fabbricato, tre anni prima, sessanta di quelle frecce, con relativa faretra, per il conte Iacopo Barbarossa. Il cancelliere, profondamente turbato da questa dichiarazione, la tenne per parecchie settimane chiusa nel suo scrigno segreto; gli era troppo nota, da un lato, così pensava, a dispetto del modo di vivere libero e licenzioso del conte, la sua nobiltà d'animo, per ritenerlo capace di un'azione così infame come l'assassinio di un fratello, e troppo poco, dall'altro lato, a dispetto di molte altre buone qualità, il senso di giustizia della reggente, per non procedere con la massima prudenza in un affare che avrebbe potuto costare la vita al peggior nemico di lei. Nel frattempo fece fare, copertamente, indagini in direzione di quello strano annuncio; e poiché, attraverso i funzionari della municipalità, accertò per caso che il conte, il quale di solito non lasciava mai, o molto raramente, il suo castello, nella notte dell'assassinio del duca ne era stato assente, ritenne suo dovere lascia cadere il segreto e informare dettagliatamente la duchessa, in una delle successive sedute del Consiglio di Stato, dello strano e inquietante sospeto che, con quei due capi d'accusa, veniva a cadere sopra suo cognato, il conte Iacopo Barbarossa.
La duchessa, che si considerava assai fortunata per essere con il conte, suo cognato, in rapporti così amichevoli, e nulla temeva più di urtare la sua suscettibilità con passi sconsiderati, non diede, con stupore del cancelliere, il minimo segno di gioia a quella ambigua rivelazione, ma, al contrario, dopo aver letto da cima a fondo due volte con attenzione le carte, manifestò vivamente il suo disappunto che di una faccenda così incerta e preoccupante si facesse parola pubblicamente in Consiglio di Stato. La sua opinione era che doveva trattarsi di un errore o di una calunnia, e diede ordine che della segnalazione non si facesse uso alcuno in tribunale. Anzi, data la straordinaria e quasi esaltata venerazione di cui il conte, per una svolta naturale delle cose, godeva presso il popolo, da quando era stato escluso dalla successione, le parve che anche soltanto l'averne parlato all'interno del Consiglio di Stato fosse stato estremamente pericoloso; e poiché prevedeva che, prima o poi, in città qualche mormorio gli sarebbe giunto all'orecchio, gli mandò, accompagnati da uno scritto pieno di nobiltà, i due capi d'accusa, che definiva il gioco di uno strano malinteso, insieme alle prove sulle quali avrebbero dovuto basarsi; con l'espressa preghiera, poiché era già convinta in anticipo della sua innocenza, di risparmiare ogni confutazione.
Il conte, che se ne stava per l'appunto a tavola in compagnia di amici, quando i cavaliere che portava il messaggio della duchessa entrò e si diresse verso di lui, si alzò cortesemente dalla sua seggiola; ma non appena, mentre gli amici stavano osservando quell'uomo dall'aria solenne, che non volle sedersi, ebbe letto tutta la lettera, nel vano della finestra, cambiò colore, e porse i fogli, con queste parole, agli amici: «Fratelli, guardate! Quale accusa infame, l'assassinio di mio fratello, è stata gettata contro di me!». E, presa dalla mano del cavaliere, con uno sguardo che mandava scintille, la freccia, nascondendo l'annientamento dell'anima, mentre gli amici si radunavano inquieti intorno a lui, aggiunse che, effettivamente, il dardo gli apparteneva, e anche la circostanza che nella notte di san Remigio fosse assente dal suo castello era fondata! Gli amici maledissero quell'ipocrita e spregevole perfidia, ritorsero il sospetto di assassinio sugli abbietti accusatori, e stavano già per diventare offensivi nei riguardi del messaggero, che prese le difese della duchessa, sua signora, quando il conte, che aveva letto ancora una volta le carte, entrando a un tratto in mezzo a loro gridò: «Calma, amici miei!», e, presa la spada, che era appoggiata in un canto, la consegnò al cavaliere con queste parole: «Sono vostro prigioniero!».
Alla domanda sgomenta del cavaliere se aveva udito bene, e se davvero riconoscesse i due capi d'accusa stilati dal cancelliere, il conte rispose: «Sì, sì, sì!». E sperava di essere dispensato dalla necessità di addurre le prove della sua innocenza in qualunque altro luogo se non davanti alla sbarra di un tribunale formalmente insediato dalla duchessa. Invano i cavalieri, estremamente scontenti della sua dichiarazione, gli dimostrarono che, se non altro, in quel caso non doveva rendere conto a nessuno di come si erano svolti i fatti, se non all'imperatore; il conte, che, in uno strano e improvviso capovolgimento dell'animo, si richiamò al senso di giustizia della reggente, insistette per mettersi a disposizione del tribunale del ducato; e già, strappandosi dalle loro braccia, chiedeva, gridando dalla finestra, i suoi cavalli, deciso, come disse, a seguire immediatamente l'inviato come prigioniero del cavaliere, quando i suoi compagni d'armi gli sbarrarono a viva forza la via, con una proposta che alla fine dovette accettare. Stesero, tutti insieme, una lettera alla duchessa, chiesero, come un diritto che spettava a ogni cavaliere, in un caso simile, un salvacondotto per lui e le offrirono, come garanzia che egli si sarebbe presentato davanti al tribunale da lei insediato e si sarebbe sottoposto a qualunque decisione esso potesse infliggergli, una cauzione di ventimila marchi d'argento.
La duchessa, a questa inaspettata e per lei incomprensibile dichiarazione, ritenne, poiché tra il popolo correvano già le voci più infami sui motivi di quell'accusa, che la cosa più saggia fosse ritirare del tutto la sua persona e portare ogni controversia davanti all'imperatore. Essa gli mandò, per consiglio del cancelliere, tutti gli atti che si riferivano all'episodio, e lo pregò, nella sua qualità di capo supremo dell'Impero, di avocare a sé l'indagine su una questione nella quale lei stessa era parte in causa. L'imperatore, che a causa di trattative con la Confederazione, si tratteneva proprio allora a Basilea, acconsentì a questo desiderio, insediò in quella città un tribunale costituito da tre conti, dodici cavalieri e due assessori di giustizia e, dopo aver concesso al conte Iacopo Barbarossa, conformemente alla richiesta dei suoi amici, e contro l'offerta garanzia di ventimila marchi d'argento, il salvacondotto, gli ingiunse di presentarsi al tribunale suddetto, e rendere ad esso risposta e ragione su questi due capi: come era giunta nelle mani dell'assassino la freccia che, per sua stessa ammissione, gli apparteneva? e ancora: in quale luogo si era trattenuto, la notte di san Remigio?
Era il lunedì successivo alla Trinità quando il conte Iacopo Barbarossa, con uno splendido seguito di cavalieri, conformemente all'ingiunzione che aveva ricevuto, comparve in Basilea davanti alla sbarra del tribunale e là, sorvolando sulla prima domanda, alla quale, disse, gli era del tutto impossibile dare risposta, si espresse riguardo alla seconda, che era decisiva per la causa, nel modo seguente: «Nobili signori!», e così dicendo appoggiò le mani alla balaustra, guardando, con i suoi piccoli occhi lampeggianti, ombreggiati dalle ciglia rossicce, l'assemblea, «voi accusate me, che ho dato prove sufficienti della mia indifferenza per lo scettro e la corona, dell'azione più detestabile che si possa commettere, l'assassinio di mio fratello, non molto ben disposto, è vero, verso di me, ma non per questo meno caro; e come uno dei fondamenti sui quali basate la vostra accusa affermate che nella notte di san Remigio, nella quale quel misfatto venne commesso, ero, contrariamente a un'abitudine osservata da anni, assente dal mio castello. Ora, a me è ben noto quale debito abbia un cavaliere nei confronti dell'onore delle dame che facciano a lui segretamente dono del loro favore; e, in verità, se il cielo non avesse addensato, da un'aria serena questa strana fatalità sul mio capo, il segreto che dorme nel mio petto sarebbe morto con me, si sarebbe disfatto in polvere, e soltanto al richiamo della tromba dell'angelo che schianterà i sepolcri sarebbe risorto con me davanti a Dio. Ma la domanda che per bocca vostra l'imperiale maestà rivolge alla mia coscienza distrugge, come voi stessi capirete, ogni riguardo e ogni scrupolo; e poiché volete sapere come mai non sia non solo verosimile ma neppure possibile che io abbia partecipato, personalmente o indirettamente, all'assassinio di mio fratello, sappiate che nella notte di san Remigio, cioé quando esso fu commesso, mi trovavo segretamente presso la bella figlia del balivo ducale Vinifredo di Breda, donna Littegarda vedova di Auerstein, che mi si dava per amore».
Ora, bisogna sapere che donna Littegarda vedova di Auerstein era non soltanto la più bella ma, fino al momento di quell'accusa vergognosa, la più irreprensibile e senza macchia fra le dame del ducato. Ella faceva, dalla morte del castellano di Auerstein, suo consorte, che aveva perso, poche lune dopo le nozze, per una febbre maligna, vita silenziosa e ritirata nel castello di suo padre, e solo per desiderio del vecchio, che si augurava di vederla rimaritata, si adattava a comparire, di quando in quando, alle feste di caccia e ai banchetti offerti dai cavalieri della regione circostante, e soprattutto da messer Iacopo Barbarossa. Molti conti e signori delle stirpi più nobili e ricche del paese le si facevano intorno, in simili circostanze, con le loro profferte, e fra questi messer Federico di Trota, il camerlengo, che una volta a caccia, di fronte all'assalto di un cinghiale ferito, le aveva coraggiosamente salvato la vita, le era il più caro e il più amato; e tuttavia, preoccupata di dispiacere ai suoi due fratelli, che facevano conto di ereditare il suo patrimonio, a dispetto di tutte le esortazioni del padre non si era ancora potuta risolvere a concedergli la sua mano. Anzi, quando Rodolfo, il fratello maggiore, sposò una ricca damigella del vicinato, che, dopo tre anni di matrimonio senza figli, con grande gioia della famiglia gli partorì un erede, Littegarda, sospinta da dichiarazioni esplicite e implicite, con uno scritto redatto fra molte lacrime disse formalmente addio a messer Federico, al quale voleva bene, e acconsentì, per mantenere l'unità del casato, alla proposta del fratello di prendere il posto di badessa in un monastero che sorgeva, non lontano dal castello paterno, sulle rive del Reno.
Fu proprio nel periodo in cui questo progetto veniva sottoposto all'arcivescovo di Strasburgo, e la cosa stava per essere portata a buon fine, che il balivo ducale, messer Vinifredo di Breda, ricevette, per mezzo del tribunale insediato dall'imperatore, la comunicazione dell'onta di sua figlia Littegarda, e l'intimazione a farla venire a Basilea per rispondere dell'accusa che il conte Iacopo aveva elevato contro di lei. Gli venivano descritti con precisione, nel seguito dello scritto, l'ora e il luogo nei quali il conte, secondo quanto asseriva, aveva fatto a donna Littegarda la sua visita segreta, e gli veniva inviato persino un anello del marito morto di lei, che egli, al momento del commiato, assicurava di aver ricevuto dalla sua mano, come ricordo della notte trascorsa. Ora, messer Vinifredo era sofferente, proprio il giorno dell'arrivo di questo scritto, per una grave e dolorosa indisposizione dell'età e barcollava, in uno stato di estrema agitazione, su e giù per la stanza, al braccio della figlia, con l'occhio già fisso alla meta che è posta a ogni vita; cosicché quando lesse lo spaventoso annuncio, ebbe subito un colpo e, lasciando cadere il foglio, si abbatté al suolo con le membra paralizzate. I fratelli, che erano presenti, lo sollevarono da terra sconvolti, e chiamarono un medico che, per curarlo, alloggiava nell'edificio attiguo; ma tutti gli sforzi per riportarlo in vita furono vani: mentre donna Littegarda giaceva senza conoscenza tra le braccia delle sue dame, egli rese l'anima, e quando lei riprese i sensi non ebbe neppure l'ultima, dolceamara consolazione di avergli rivolto, prima del viaggio eterno, una parola in difesa del proprio onore.
L'orrore dei due fratelli per l'evento infausto, e il loro furore per l'infamia attribuita alla sorella, e anche troppo verosimile, che l'aveva provocato, furono indescrivibili. Sapevano anche troppo bene che il conte Iacopo Barbarossa, per tutta l'estate passata, le aveva fatto con insistenza la corte, egli aveva allestito molti tornei e banchetti soltanto per farle onore e, in modo già allora assai sconveniente, l'aveva preferita a tutte le altre donne di cui frequentava la compagnia. E ricordavano perfino che Littegarda, proprio intorno al periodo di san Remigio, aveva detto di aver smarrito, durante una passeggiata, proprio quell'anello che era stato dato del suo consorte e che ora, stranamente, si ritrovava nelle mani del conte Iacopo; tanto che non dubitarono neppure per un attimo della veridicità della deposizione che il conte aveva reso, contro di lei, davanti al tribunale. Invano - mentre la salma del padre veniva portata via tra i lamenti dalla servitù - essa abbracciava, implorando solo un momento di ascolto, le ginocchia dei fratelli; Rodolfo, bruciando d'indignazione, le domandò, girandosi verso di lei, se pareva produrre un testimone che confermasse l'infondatezza dell'accusa, e quando lei, balbettando e tremando, replicò che, purtroppo, non poteva addurre null'altro che l'irreprensibilità della sua vita, poiché la sua cameriera, a causa di una visita che aveva fatto ai suoi genitori nella famosa notte, era assente dalla sua camera da letto, Rodolfo la respinse da sé con i piedi, sfoderò una spada che era appesa alla parete e le ingiunse, nella furia della sua scomposta passione, chiamando i cani e i servi, di lasciare immediatamente la casa e il castello. Littegarda si alzò, pallida come gesso, da terra e pregò, scansando in silenzio i maltrattamenti, che le fosse lasciato almeno il tempo necessario a preparare la partenza richiesta; ma Rodolfo non rispose altro se non, schiumando di rabbia: «Fuori! Via dal castello!». Tanto che, invece di dare retta alla propria moglie, che gli sbarrava il passo, implorando umanità e misericordia, la spinse furibondo da parte, dandole, con l'elsa della spada, un tale colpo da farla sanguinare. L'infelice Littegarda, più morta che viva, lasciò la stanza, avanzò vacillando, squadrata dalle occhiate degli abitanti di basso rango, attraverso il cortile, fino al portone del castello, dove Rodolfo le fece consegnare un fagotto di biancheria, nel quale aveva messo un po' di denaro, chiudendo lui stesso dietro di lei, fra imprecazioni e maledizioni, i battenti.
Questa improvvisa caduta da una serena e quasi imperturbata felicità nell'abisso di una miseria senza fondo e senza rimedio era più di quanto la povera donna potesse sopportare. Ignorando dove rivolgersi, scese vacillando, appoggiandosi alla ringhiera, il sentiero roccioso, per procurarsi almeno un ricovero per la notte imminente; ma prima di raggiungere l'entrata del villaggio che si estendeva irregolarmente nella valle cadde, smarrite le forze, al suolo. Poteva essere rimasta così distesa lontana da ogni pena terrena, una buona ora, e l'oscurità avvolgeva ormai completamente la regione, quando, circondata da numerosi compassionevoli abitanti del luogo, si destò: poiché un ragazzo che giocava sul pendio roccioso l'aveva notata, e aveva parlato in casa ai genitori di una così strana e sorprendente apparizione; e costoro, che erano stati più volte beneficati da Littegarda, sconvolti di saperla in una situazione così sconsolata, si mossero subito per darle tutto l'aiuto che le loro forze permettevano. Alle premure di quella gente lei si riebbe presto, e, alla vista del castello chiuso alle sue spalle, ricordò ogni cosa; rifiutò l'offerta di due donne di ricondurla su al castello, e chiese soltanto la cortesia di procurarle subito una guida per continuare il cammino. Invano la gente le mostrò come nel suo stato non potesse intraprendere un viaggio; Littegarda, con il pretesto che la sua vita era in pericolo, insistette per lasciare immediatamente i confini del feudo; e poiché l'assembramento intorno a lei aumentava sempre, senza darle aiuto, si preparò a liberarsene con la forza e a mettersi, nonostante l'oscurità della notte che si infittiva, in cammino da sola; tanto che la gente, per paura, se le fosse capitata una disgrazia, di doverne rispondere ai signori, fu costretta ad acconsentire al suo desiderio e a procurarle un carro, che, alla reiterata domanda quale direzione volesse dunque prendere, partì con lei per Basilea.
Ma, appena uscita dal villaggio, dopo aver soppesato più attentamente le circostanze, mutò decisione, e ordinò al conducente di voltare e portarla al castello dei Trota, che distava soltanto poche miglia. Poiché sentiva che, senza un aiuto, contro un avversario quale il conte Iacopo Barbarossa non avrebbe ottenuto nulla davanti al tribunale di Basilea; e nessuno le pareva più degno della fiducia di essere chiamato a difendere il suo onore del valoroso, e, come ben sapeva, ancora devoto e innamorato amico, l'ottimo camerlengo messer Federico di Trota. Poteva essere all'incirca la mezzanotte, e i lumi del castello luccicavano ancora, quando, sfinita dal viaggio, vi arrivò con il suo carro. Mandò un servo della casa, che le era venuto incontro, ad avvertire la famiglia del suo arrivo; ma, prima ancora che questi avesse portato a termine l'incarico, uscirono dal portone le damigelle Berta e Cunegonda, sorelle di messer Federico, che casualmente, occupate in faccende domestiche, si trovavano nell'anticamera, al pianterreno. Le amiche aiutarono Littegarda, che ben conoscevano, a scendere dal carro, salutandola con gioia, e la condussero, sia pure non senza qualche apprensione, dal fratello, che sedeva al tavolo, immerso negli atti di un processo che lo sommergevano. Ma chi descriverà lo sbalordimento di messer Federico, quando, al rumore fatto alle sue spalle, volse il viso, e vide donna Littegarda, pallida e sfigurata vero ritratto della disperazione, cadere in ginocchio davanti a lui.
«Mia carissima Littegarda», esclamò, alzandosi, e sollevandola da terra, «che cosa vi è successo?». Littegarda, dopo essersi lasciata cadere su una poltrona, gli narrò l'accaduto; quale infame dichiarazione il conte Iacopo Barbarossa, per liberarsi dal sospetto di aver assassinato il duca, avesse reso su di lei davanti al tribunale di Basilea; come la notizia avesse immediatamente causato al vecchio padre, in quel momento già malato e sofferente, un colpo apoplettico, in seguito al quale pochi minuti dopo, tra le braccia dei figli, era spirato, e come costoro, folli di indignazione, senza ascoltare ciò che potesse portare a sua difesa, si fossero scagliati contro di lei con i più orribili maltrattamenti, e alla fine l'avessero, come una criminale, cacciata di casa; pregò messer Federico di aiutarla a raggiungere Basilea con una scorta conveniente, e di indicarle colà un assistente legale che, nella sua comparsa davanti al tribunale insediato dall'imperatore, potesse starle a fianco con il suo saggio e ponderato consiglio, contro l'infame accusa; e assicurò che dalla bocca di un Parto, o di un Persiano, che i suoi occhi non avessero mai visto, una simile affermazione non le sarebbe potuta venire più inaspettata che dalla bocca del conte Iacopo Barbarossa poiché questi, sia per la sua cattiva fama, sia anche a causa del suo aspetto esteriore, le era sempre stato odioso fino in fondo all'anima, e i complimenti che egli, nelle feste della trascorsa estate, si era preso talora la libertà di rivolgerle li aveva sempre respinti con il massimo della freddezza e del disdegno.
«Basta, mia carissima Littegarda!», esclamò messer Federico prendendone con fervida nobiltà una mano e premendola alle sue labbra. «Non sprecate una parola a difesa e giustificazione della vostra innocenza! Nel mio petto parla per voi una voce molto più viva e convincente di tutte le assicurazioni, e perfino di tutte le ragioni di diritto e le prove che voi forse possiate, dall'intreccio dei fatti e delle circostanze, addurre in vostro favore davanti al tribunale di Basilea. Prendete me, poiché i vostri ingiusti e ingenerosi fratelli vi hanno abbandonata, per vostro amico e fratello, e concedetemi il vanto di essere il vostro avvocato in questa causa; restituirò al vostro onore il suo splendore davanti al tribunale di Basilea e al giudizio del mondo intero!». E con questo condusse Littegarda, che a così nobili parole piangeva calde lacrime di gratitudine e di commozione, da madonna Elena, sua madre, che si era già ritirata in camera da letto, presentandola alla degna e anziana signora, che sentiva un particolare affetto per lei, come un'amica e ospite che per un dissidio scoppiato nella sua famiglia, aveva deciso di soggiornare per qualche tempo nel suo castello; si liberò per lei quella stessa notte un'intera ala del vasto castello, si riempirono riccamente per lei, con il corredo delle sorelle, gli armadi che vi si trovavano di vestiti e di biancheria, le fu assegnata, come si conveniva al suo rango, una decorosa, anzi sontuosa servitù, e il terzo giorno messer Federico di Trota, senza pronunciarsi sul modo in cui pensava di addurre la sua prova davanti al tribunale, si trovava già, con un numeroso seguito di uomini a cavallo e di scudieri, sulla strada per Basilea.
Nel frattempo da parte dei signori di Breda, fratelli di Littegarda, era pervenuto al tribunale di Basilea uno scritto che riguardava gli eventi avvenuti al castello, nel quale essi, sia che la ritenessero veramente colpevole, sia che avessero altri motivi per rovinarlo, abbandonavano interamente la povera donna, come una criminale convinta, ai rigori della legge. Per lo meno chiamavano la sua cacciata dal castello, in modo ignobile e non veritiero, una fuga volontaria, descrivendo come, senza aver potuto addurre nulla a difesa della propria innocenza, ad alcune esclamazioni d'indignazione che ad essi erano sfuggite avesse immediatamente lasciato il castello; e, poiché erano state vane tutte le ricerche che assicuravano di aver disposto per rintracciarla, erano dell'opinione che, probabilmente, andasse errando al fianco di un altro avventuriero, per colmare la misura della sua vergogna. Per questa ragione facevano domanda, affinché fosse salvaguardato l'onore della famiglia, da lei offesa, di cancellare il suo nome dall'albero genealogico del casato dei Breda, chiedendo, con minuziose argomentazioni giuridiche, che, come castigo per colpe così inaudite, venisse dichiarata decaduta da ogni pretesa all'eredità del suo nobile padre, che la sua vergogna aveva portato alla tomba. Ora, i giudici di Basilea erano certo ben lontani dall'accogliere la loro istanza, per la quale, del resto, quel foro non era affatto competente; ma poiché nel frattempo il conte Iacopo, ricevuta questa notizia, diede le prove più evidenti e decisive della sua partecipazione al destino di Littegarda, e segretamente, come si venne a sapere, mandò uomini a cavallo alla sua ricerca e a offrirle di trattenersi nel suo castello, il tribunale non dubitò più affatto della veridicità della sua deposizione, e decise di cassare subito l'accusa per l'omicidio del duca che pendeva contro di lui. E anzi la partecipazione di cui diede prova verso la sventurata nel momento del bisogno influì in modo estremamente favorevole sull'opinione popolare, assai mutevole nel concedergli la sua benevolenza; si scusava, ora, ciò che prima era stato severamente biasimato, l'aver egli abbandonato al disprezzo universale una donna che gli si era data per amore, ritenendo che, in così straordinarie e mostruose circostanze, poiché ne andava niente meno che della vita e dell'onore, non gli fosse rimasta altra scelta che rivelare senza riguardi l'avventura che aveva avuto luogo nella notte di san Remigio.
Di conseguenza, per ordine espresso dell'imperatore, il conte Iacopo Barbarossa venne di nuovo convocato davanti al tribunale, per essere solennemente assolto, a porte aperte, dal sospetto di aver avuto parte nell'omicidio del duca. L'araldo aveva appena terminato, sotto le volte della vasta sala del giudizio, la lettura dello scritto dei signori di Breda, e la corte si preparava, in conformità alla decisione imperiale, a procedere, nei riguardi dell'accusato, ritto in piedi, da un lato, a una solenne dichiarazione d'onore, quando messer Federico di Trota si fece avanti, richiamandosi al generale diritto di ogni osservatore imparziale a dare per un momento un'occhiata alla lettera. Si acconsentì, mentre gli occhi di tutto il popolo erano puntati su di lui, al suo desiderio; ma, non appena messer Federico ebbe ricevuto lo scritto dalle mani dell'araldo, egli, dopo avervi gettato un fugace sguardo, lo lacerò dall'alto in basso e ne gettò i pezzi, avviluppati insieme a un suo guanto, in viso al conte Iacopo Barbarossa, dichiarando che questi era un infame e spregevole calunniatore, e che egli era deciso a provare davanti al mondo l'innocenza di donna Littegarda, dal misfatto che da lui le veniva rinfacciato, all'ultimo sangue, nel giudizio di Dio!
Il conte Iacopo Barbarossa, dopo aver raccolto, pallido in viso, il guanto, disse: «Come è vero che Dio, nel giudizio delle armi, decide secondo giustizia, così la veridicità di ciò che ho dovuto, per necessità, rivelare, riguardo a donna Littegarda, io te la proverò in cavalleresca e leale tenzone! Riferite, nobili signori», continuò, volgendosi verso i giudici, «a sua maestà l'imperatore l'opposizione di messer Federico, e pregatelo di fissare egli stesso il tempo e il luogo in cui potremo incontrarci, con la spada in pugno, per decidere la contesa!». Conformemente a ciò i giudici, sciolta la sessione, inviarono all'imperatore una delegazione con il resoconto dell'accaduto; e poiché questi, per la comparsa di messer Federico, quale difensore di Littegarda, era scosso non poco nella sua fede nell'innocenza del conte, convocò, come richiedevano le leggi dell'onore, donna Littegarda a Basilea per assistere alla tenzone e, per dissipare lo strano mistero che aleggiava su quei fatti, fissò il giorno di santa Margherita come tempo e la piazza del castello di Basilea come luogo nel quale i due, messer Federico di Trota e il conte Iacopo Barbarossa, avrebbero dovuto, alla presenza di donna Littegarda, incontrarsi.
Non appena, conformemente a questa decisione, il sole di mezzodì del giorno di santa Margherita ebbe illuminato le torri della città di Basilea, e una folla, per la quale erano state erette panche e tribune, si fu radunata a perdita d'occhio, sulla piazza del castello, al triplice grido dell'araldo ritto davanti all'altana dei giudici di combattimento, entrambi, coperti da capo a piedi di lucido ferro, messer Federico e il conte Iacopo, per risolvere la contesa con le armi entrarono nella lizza. Quasi tutti i cavalieri di Svevia e di Svizzera erano presenti, lungo la rampa che portava al castello, sul fondo; e, al balcone di questo, sedeva, circondato dai suoi cortigiani, l'imperatore in persona, accanto alla consorte, ai principi e alle principesse, ai figli e alle figlie. Poco prima dell'inizio del combattimento, mentre i giudici dividevano la luce e l'ombra fra i combattenti, donna Elena e le sue due figlie, Berta e Cunegonda, che avevano accompagnato Littegarda a Basilea, si presentarono ancora una volta alle porte della piazza, e chiesero alle guardie, in piedi accanto ad esse, il permesso di entrare e di dire a donna Littegarda, la quale, secondo un'antichissima consuetudine, sedeva su un'impalcatura all'interno del recinto, una parola. Poiché, sebbene tutta la vita di quella dama sembrasse esigere il più assoluto rispetto e un'illimitata fiducia nella veridicità delle sue assicurazioni, tuttavia l'anello che il conte Iacopo aveva potuto esibire, e ancor più la circostanza che Littegarda, nella notte di san Remigio, avesse messo in libertà la sua cameriera, l'unica persona che avrebbe potuto servirle da testimone, gettava il loro animo nella più viva apprensione; esse decisero dunque di mettere ancora una volta alla prova, nell'urgenza del momento decisivo, la sicurezza di coscienza che albergava nell'accusata, e di farle comprendere quanto fosse vano, anzi sacrilego, il tentativo, nel caso che realmente la sua anima fosse oppressa dalla colpa, di volersi purificare da essa mercé il santo giudizio delle armi, che avrebbe infallibilmente portato alla luce la verità. E in effetti Littegarda aveva tutte le ragioni di riflettere bene al passo che messer Federico faceva in sua difesa; il rogo attendeva sia lei, sia il suo amico, il cavaliere di Trota, nel caso che Dio, nel giudizio di ferro, non si fosse deciso per lui, bensì per il conte Iacopo Barbarossa e per la verità della deposizione che questi aveva reso contro di lei davanti al tribunale.
Donna Littegarda, quando vide entrare, da un lato, la madre e le sorelle di messer Federico, si alzò, con l'espressione di dignità che le era propria e che il dolore diffuso su tutta la sua persona rendeva ancora più commovente, dal suo seggio, e domandò, andando loro incontro, che cosa, in un momento così fatale, le guidasse da lei.
«Mia cara figliola», disse donna Elena, conducendola da parte, «volete risparmiare a una madre che non ha, nella sua desolata vecchiaia, altra consolazione che il possesso di suo figlio, il cruccio di doverlo piangere nella sua tomba e, prima che la tenzone abbia inizio, prendere posto, con ricchi doni e un ricco corredo, in una carrozza, accettando da noi, in regalo, una delle nostre terre, che si trova al di là del Reno e che vi accoglierà con decoro e premura?».
Littegarda, dopo che, mentre un pallore le trascorreva sul viso, l'ebbe fissata in volto per un attimo, non appena ebbe compreso il significato di quelle parole in tutta la loro portata piegò un ginocchio davanti a lei. «Veneranda ed eccellente signora», disse, «la preoccupazione che Dio, in quest'ora decisiva, si dichiari contro l'innocenza del mio animo viene forse dal cuore del vostro nobile figlio?».
«Perché», domandò donna Elena.
«Perché, in tal caso, lo scongiuro di non trarre una spada non guidata da una mano fiduciosa, e cedere, sotto qualsiasi conveniente pretesto, la lizza al suo avversario: ma di lasciare me, senza prestare un ascolto inopportuno al sentimento della compassione, dal quale nulla posso accettare, al mio destino, che metto nelle mani di Dio!».
«No», disse donna Elena, confusa, «mio figlio non ne sa nulla! Poco si converrebbe a lui, che ha dato al tribunale la sua parola di combattere per la vostra causa, venire a farvi, adesso che batte l'ora della decisione, una simile proposta. Con ferma fede nella vostra innocenza sta, come vedete, già in armi e pronto alla lotta, in faccia al conte, vostro avversario; era una proposta che noi, le mie figlie e io, abbiamo escogitato nell'angoscia del momento, in considerazione di tutti i suoi vantaggi, e per evitare ogni sventura».
«In questo caso», disse donna Littegarda, mentre, con un bacio ardente, inumidiva con le sue lacrime la mano della vecchia dama, «lasciate che tenga fede alla sua parola! Nessuna colpa macchia la mia coscienza; anche se scendesse in campo senza elmo e senza corazza, Dio e tutti i suoi angeli gli farebbero scudo!». E con queste parole si alzò da terra e condusse donna Elena e le sue figlie verso alcuni sedili che si trovavano all'interno della lizza, dietro il seggio, coperto di panno rosso, sul quale prese posto lei stessa.
Dopo di ciò l'araldo, al cenno dell'imperatore, chiamò con uno squillo alla lotta, e i due cavalieri, lo scudo e la spada in pugno, si scagliarono l'uno contro l'altro. Messer Federico ferì subito il conte, al primo colpo, lo colpì con la punta della spada, non molto lunga, là dove, tra il braccio e la mano, si sovrappongono le giunture dell'armatura; ma il conte, che, spaventato dalla fitta, fece un salto indietro ed esaminò la ferita, trovò, benché il sangue sgorgasse con violenza, che soltanto la pelle era stata graffiata in superficie: cosicché, al mormorio di biasimo dei cavalieri, disseminati lungo la rampa, sulla sconvenienza di un simile contegno, si lanciò di nuovo in avanti e riprese il combattimento con forze rinnovate, come un uomo pienamente sano. L'urto fra i due contendenti fluì e rifluì, come quando si scontrano due uragani, o due nubi temporalesche, scagliandosi i loro fulmini, cozzano l'una contro l'altra e senza confondersi, fra lo schianto di frequenti tuoni, si ergono come torri aggirandosi a vicenda.
Messer Federico, protendendo lo scudo e la spada, era piantato al suolo come se volesse mettervi radici; sepolto fino agli speroni, fino alle caviglie e ai polpacci, nel terreno, che era stato appositamente disselciato e reso morbido, stornava dal petto e dal capo i colpi insidiosi del conte, il quale, piccolo e agile, sembrava attaccare da tutti i lati allo stesso tempo. Il combattimento era già durato, includendovi gli attimi di riposo ai quali la spossatezza costringeva entrambi i contendenti, quasi un'ora, quando, tra gli spettatori che si trovavano sulle tribune, si udì di nuovo un mormorio. Sembrava che, questa volta, non fosse diretto contro il conte Iacopo, che non mancava di zelo per mettere fine alla lotta, ma contro quello stare impalato di messer Federico sempre nello stesso punto, contro la sua strana e in apparenza quasi timorosa, o quanto meno ostinata, rinuncia a ogni attacco. Messer Federico, per quanto il suo modo di procedere potesse riposare su buone ragioni, era troppo sensibile per non sacrificarlo immediatamente alla richiesta di coloro che, in quel momento, decidevano del suo onore; abbandonò con un passo ardito, la posizione scelta fin dal principio, quella specie di trincea naturale che gli si era formata intorno al piede, vibrando al capo dell'avversario, le cui forze cominciavano a cedere, una serie di rudi e vigorosi fendenti, che questi, tuttavia, riuscì a parare, con abili movimenti laterali dello scudo. Ma, sin dai primi momenti della lotta seguiti al mutamento di cui si è detto, messer Federico ebbe una sfortuna che non sembrava far pensare affatto alla presenza di forze superiori arbitre del combattimento; impigliandosi il piede nei propri speroni egli incespicò e precipitò in avanti, e mentre, sotto il peso dell'elmo e dell'armatura che gli gravava la parte superiore del corpo, cadeva in ginocchio, puntando la mano nella polvere, il conte Iacopo Barbarossa, con gesto né magnanimo né cavalleresco, gli vibrò la spada nel fianco in tal modo scoperto. Messer Federico, con un grido di momentaneo dolore, si risollevò con un balzo da terra. Si calò, bensì, l'elmo sugli occhi, e si accinse, volgendo rapidamente il viso all'avversario, a proseguire la lotta: ma, mentre egli, con il corpo piegato dal dolore, si appoggiava alla spada, e i suoi occhi si oscuravano, il conte gli trafisse ancora per due volte il petto, con la sua spada, lunga e sottile, proprio sotto il cuore, ed egli, fra lo strepito dell'armatura, rovinò al suolo, lasciando cadere accanto a sé la spada e lo scudo.
Il conte gli pose, dopo aver gettato da parte le armi, mentre echeggiava un triplice squillo di tromba, il piede sul petto; e, mentre tutti gli spettatori, l'imperatore per primo, con grida soffocate di orrore e di pietà si alzavano dai sedili, donna Elena si precipitò, seguita dalle due figlie, sul figlio diletto, che si rotolava nel sangue e nella polvere. «Federico mio!», gridò, inginocchiandosi piangente accanto al capo di lui, mentre donna Littegarda, svenuta, veniva sollevata dal pavimento della tribuna, sul quale era caduta, da due guardie, e portata in prigione.
«Oh, l'infame», aggiunse, «oh, l'abbietta, che, con la coscienza della sua colpa nel petto, osa farsi avanti qui, e armare il braccio del più fedele, del più nobile amico, per conquistarle il giudizio di Dio in un'ingiusta tenzone!». E con queste grida di dolore sollevò da terra il figlio amato, mentre le figlie lo liberavano dell'armatura, e cercò di arrestare il sangue che sgorgava dal suo nobile petto. Ma, per ordine dell'imperatore, le guardie si fecero avanti e, poiché era caduto sotto i rigori della legge, presero anche lui in custodia; fu messo, con l'assistenza di alcuni medici, su una barella, e anch'egli portato, con l'accompagnamento di una gran folla, in prigione, dove però donna Elena e le sue figlie ebbero il permesso di stare con lui fino alla morte della quale nessuno dubitava.
Presto, tuttavia, si palesò che le ferite di messer Federico, per quanto toccassero parti vitali e delicate, per una particolare disposizione del cielo non erano mortali; anzi, i medici che gli erano stati assegnati poterono dare già pochi giorni dopo alla famiglia la precisa assicurazione che sarebbe rimasto in vita, e che, per la robustezza della sua costituzione, in poche settimane, senza soffrire alcuna menomazione del corpo, si sarebbe ristabilito. Non appena ebbe ripreso conoscenza, della quale era stato a lungo privo per il dolore, la domanda che egli rivolse alla madre fu, incessantemente, che cosa facesse donna Littegarda. Non poteva trattenere le lacrime, quando la immaginava nella desolazione del carcere, preda della più spaventosa disperazione, e chiese alle sorelle, accarezzandole amorosamente sotto il mento, di farle visita e consolarla. Donna Elena, colpita dalle sue parole, lo pregò di dimenticare quella donna spregevole e svergognata; disse che il delitto di cui il conte Iacopo aveva fatto menzione davanti al tribunale, e che ora l'esito della tenzone aveva portato alla luce del giorno, poteva essere perdonato, ma non l'impudenza e la sfrontatezza con cui, in piena coscienza della sua colpa, senza riguardo al suo amico più nobile, che precipitava in tal modo nella rovina, aveva invocato per sé, come un'innocente, il santo giudizio di Dio.
«Ah, madre mia», disse il camerlengo, «dov'è il mortale, fosse anche in lui la saggezza di tutti i secoli, al quale sia lecito attentarsi a decifrare la misteriosa sentenza, pronunciata da Dio con questa tenzone?».
«Come?», esclamò donna Elena. «Il senso della sentenza divina ti è rimasto oscuro? Non hai forse dovuto soccombere, nel combattimento, in modo anche troppo dolorosamente chiaro e inequivocabile, alla spada del tuo avversario?».
«Sia pure!», replicò messer Federico. «Per un attimo ho dovuto soccombere. Ma sono stato forse vinto dal conte? Non vivo forse ancora? Non sto rifiorendo, come sotto il soffio del cielo, miracolosamente, per riprendere da capo, forse tra pochi giorni, con forze due, tre volte maggiori, il combattimento turbato da un caso da nulla?».
«Folle!», gridò la madre. «E non sai che esiste una legge, secondo la quale il combattimento che, per dichiarazione dei giudici di campo, è stato concluso, non può essere ripreso, per dirimere la stessa causa, davanti alla sbarra del tribunale divino?».
«Che m'importa?», ribatté sdegnosamente il camerlengo.
«Io non mi curo delle leggi arbitrarie degli uomini. Può un combattimento che non è stato proseguito sino alla morte di uno dei due contendenti, secondo ogni ragionevole valutazione delle cose, essere considerato concluso? E non potrei, se mi fosse consentito di riprenderlo, sperare di porre rimedi all'incidente che mi ha colpito, e conquistarmi, con la spada in pugno, ben altra sentenza divina di quella che ora, con visione miope e limitata, viene presa per tale?».
«Tuttavia», replicò pensierosa la madre, «queste leggi, delle quali pretendi di non curare, sono quelle che regnano e comandano; esse hanno, ragionevoli o no, il valore di un responso divino, e consegnano te e lei, come una coppia di esecrabili malfattori, a tutto il rigore della giustizia penale».
«Ah», esclamò messer Federico, «e appunto questo che mi getta, me infelice, nella disperazione! La verga della giustizia e stata spezzata su di lei, come su di una colpevole, e io, che volevo provare davanti al mondo la sua virtù e la sua innocenza, sono colui che l'ha gettata nella miseria: un irreparabile inciampo nella cinghia degli speroni, con il quale Dio, forse, ha voluto punirci per i peccati che racchiudo nel petto, del tutto indipendentemente dalla sua causa, abbandona le sue membra fiorenti alle fiamme, e la sua memoria a un'eterna vergogna!».
A quelle parole gli salirono agli occhi le lacrime di un cocente dolore virile, si volse, afferrando il fazzoletto, verso la parete, e donna Elena e le sue figlie si inginocchiarono con silenziosa commozione accanto al suo letto e mescolarono, baciandogli le mani, le loro lacrime alle sue. Nel frattempo era entrato nella sua stanza il carceriere, con cibi per lui e per i suoi, e messer Federico, avendogli domandato come stesse donna Littegarda, venne a sapere, dalle sue parole smozzicate e indifferenti, che giaceva su un mucchio di paglia, e, dal giorno in cui era stata rinchiusa, non aveva proferito parola. Messer Federico fu gettato da quella notizia in un'estrema apprensione, e l'incaricò di dire alla dama, per tranquillizzarla, che, per uno strano decreto del cielo, egli era in pieno miglioramento e le chiedeva il permesso, non appena la sua salute si fosse ristabilita, con l'autorizzazione del castaldo, di poterle far visita nella sua prigione. Ma la risposta che il carceriere, dopo averla più volte scossa per il braccio, poiché giaceva sulla paglia come una mentecatta, senza vedere né ascoltare, disse di aver ricevuto fu che, no, finché era su questa terra non voleva più vedere anima viva; anzi, si venne a sapere che, quel giorno stesso, lei aveva ordinato al castaldo, in uno scritto redatto di suo pugno, di non lascia entrare nessuno, chiunque fosse, e meno che mai il camerlengo di Trota; sicché messer Federico, spinto dalla più violenza preoccupazione per il suo stato, un giorno in cui sentì ritornare particolarmente vive le forze, con il permesso del castaldo prese l'iniziativa e, certo del suo perdono, senza farsi annunciare, accompagnato della madre e dalle sorelle si recò nella stanza di lei.
Ma chi descriverà l'orrore dell'infelice Littegarda, quando, al rumore che veniva dalla porta, con il petto semiscoperto e i capelli disciolti si sollevò dalla paglia ammucchiata sotto di lei, e invece del carceriere che aspettava, vide il camerlengo, il suo nobile ed eccellente amico, con le tracce delle sofferenze patite malinconica e toccante apparizione, entrare da lei, al braccio di Berta e di Cunegonda. «Vattene!», gridò, e si gettò di nuovo, voltandosi, sulle coperte del giaciglio, con una smorfia di disperazione, premendosi il volto con le mani. «Vattene, se ti cova nel petto una scintilla di misericordia!». «Come, mia carissima Littegarda?», rispose messer Federico. E, appoggiandosi alla madre, le si mise a fianco e si chinò con inesprimibile commozione su di lei, per afferrarne la mano. «Vattene!», gridò lei, arretrando in ginocchio sulla paglia di molti passi tremanti. «Non toccarmi, se non vuoi farmi impazzire! Ho orrore di te! Le lingue di fuoco mi sono meno spaventose di te!». «Orrore di me?», rispose messer Federico, colpito. «In che cosa, mia nobile Littegarda, il tuo Federico ha meritato questa accoglienza?». A queste parole Cunegonda gli avvicinò, a un cenno della madre, una sedia, e lo invitò, debole com'era, a sedervisi. «Gesù!», esclamò lei, mentre, nella più orribile angoscia, il viso contro il pavimento, si prostrava davanti a lui. «Esci da questa stanza, mio amato, e lasciami! Abbraccerò con tutto il mio ardore le tue ginocchia, laverò i tuoi piedi con le mie lacrime, ti imploro come un verme che si torce davanti a te nella polvere di un'unica misericordia: esci, mio signore e padrone, esci da questa stanza, esci immediatamente e lasciami!».
Messer Federico continuava a stare, sempre più scosso, davanti a lei. «La mia vista ti è così poco gradita, Littegarda?», domandò, chinando uno sguardo serio su di lei. «Orribile, insopportabile, mi annienta!», rispose Littegarda, nascondendo del tutto il volto, con le mani disperatamente protese, fra le piante dei piedi di lui. «L'inferno, con tutti i suoi orrori e i suoi terrori, mi è più dolce e più amabile da contemplare che la primavera del tuo volto, rivolto a me con benevolenza e amore!». «Dio del cielo!», esclamò il camerlengo. «Che cosa devo pensare di questo strazio dell'anima tua? Il giudizio di Dio, infelice, ha forse detto il vero, e tu sei, sei colpevole del delitto di cui il conte ti ha accusato davanti al tribunale?».
«Colpevole, convinta, reietta, bandita e condannata nel tempo e per l'eternità!», gridò Littegarda, battendosi il petto come un'invasata. «Dio è veritiero e non inganna; va', i miei sensi si smarriscono, e la mia forza si spezza. Lasciami sola, con il mio pianto e la mia disperazione!». A queste parole Federico cadde in deliquio; e, mentre Littegarda si copriva il capo con un velo, e, come se prendesse del tutto congedo dal mondo, si ritirava sul suo giaciglio, Berta e Cunegonda si gettarono piangendo sull'inanimato fratello, per richiamarlo in vita.
«Oh, sii maledetta!», gridò donna Elena, mentre il camerlengo riapriva gli occhi. «Maledetta in un eterno rimorso, al di qua della tomba, e, al di là di essa, in un'eterna dannazione! Non per la colpa che ora confessi, ma per la spietatezza, la disumanità di confessarla non prima di aver trascinato con te nella rovina il mio incolpevole figlio! Stolta che sono stata!», proseguì, voltandole con disprezzo le spalle. «Avessi prestato fede alle parole che, poco prima dell'apertura del giudizio di Dio, mi confidò il priore del convento degli Agostiniani, presso il quale il conte, preparandosi devotamente all'ora decisiva che lo attendeva, era andato a confessarsi! A lui egli aveva giurato, sull'ostia consacrata, la veridicità delle affermazioni rese davanti al tribunale a proposito di questa miserabile; gli parlò della porta del giardino alla quale lei, al calar della notte, l'aveva atteso e accolto, secondo gli accordi; gli descrisse la camera, una stanza laterale della torre disabitata del castello, nella quale, non vista dalle guardie, lo introdusse, e il giaciglio dai comodi cuscini, sormontato da un sontuoso baldacchino, sopra il quale, con sfrontata lussuria, si era coricata segretamente al suo fianco! Un giuramento reso in quell'ora non contiene menzogna: e se io, cieca, fosse pure nel momento in cui stava per essere vibrato il primo colpo, ne avessi fatto cenno a mio figlio, gli avrei aperto gli occhi, ed egli si sarebbe ritratto, tremando, dall'abisso che gli si apriva davanti. Ma vieni», gridò donna Elena, abbracciando teneramente messer Federico, e premendogli un bacio sulla fronte, «l'indignazione, degnandosi di rivolgerle la parola, la onora: veda soltanto la nostra schiena, e, annichilita dai rimproveri che le risparmiamo, disperi!».
«Il miserabile!», ribatté Littegarda, raddrizzandosi, provocata da quelle parole. E, appoggiando dolorosamente il capo sul ginocchio e versando lacrime cocenti nel fazzoletto, disse: «Ricordo che i miei fratelli e io, tre giorni prima della notte di san Remigio, eravamo nel suo castello; egli aveva allestito, come faceva spesso, una festa in mio onore, e mio padre, che si compiaceva a veder celebrate le attrattive della mia fiorente giovinezza, mi aveva spinto ad accettare, con l'accompagnamento dei miei fratelli, l'invito. A tarda ora, dopo la fine delle danze, salita nella mia camera, trovo sul tavolo un biglietto, che, scritto da mano ignota, e senza la firma del nome, contiene una vera e propria dichiarazione d'amore. Capito che i miei due fratelli, per prendere accordi sulla nostra partenza, che era fissata per l'indomani, fossero presenti nella stanza; e, poiché non ero avvezza ad avere segreti di alcun genere con essi, mostrai loro, senza parole per lo stupore, lo strano oggetto che avevo appena scoperto. Questi, che riconobbero immediatamente la mano del conte, schiumarono di rabbia, e il maggiore era deciso a recarsi immediatamente, con il foglio in mano, nella sua stanza; ma il più giovane gli fece presente quanto fosse pericoloso un simile passo, poiché il conte aveva preso la precauzione di non firmare il biglietto; dopo di che entrambi, nella più profonda indignazione per un contegno così offensivo, presero posto con me, in carrozza, quella stessa notte, e, decisi a non onorare mai più il suo castello della loro presenza, fecero ritorno al castello paterno... Questa è l'unica relazione», soggiunse, «che io abbia mai avuto con quell'uomo spregevole e indegno!».
«Che?», disse il camerlengo, volgendo verso di lei il viso rigato di lacrime. «Queste parole sono musica per il mio orecchio... Ripetimele!», disse, dopo una pausa, inginocchiandosi davanti a lei e giungendo le mani. «Non mi hai dunque tradito, a favore di quel miserabile, e sei pura della colpa di cui egli ti ha accusato davanti al tribunale?». «Caro!», sussurrò Littegarda, premendo alle labbra la mano di lui. «Lo sei?», gridò il camerlengo. «Lo sei?». «Come il petto di un bambino appena nato, come la coscienza di un uomo che ritorna dalla confessione, come la salma di una monaca morta, in sagrestia, nel momento della vestizione!». «Dio Onnipotente», gridò messer Federico, abbracciandola le ginocchia, «ti ringrazio! Le tue parole mi ridanno la vita; la morte non mi fa più paura, e l'eternità che or ora si estendeva, davanti a me, come un mare di sconfinata miseria, risorge come un regno di mille soli splendenti!».
«Infelice!», disse Littegarda, ritirandosi indietro. «Come puoi prestar fede a ciò che la mia bocca ti dice?». «Perché no?», chiese messer Federico empiendo. «Pazzo! Dissennato!», gridò Littegarda. «Il sacrosanto giudizio di Dio non ha forse deciso contro di me? Non sei stato sconfitto dal conte in quel fatale duello? Non ha il conte dimostrato con la spada la veridicità di ciò che aveva testimoniato contro di me in tribunale?».
«Mia carissima Littegarda», gridò il camerlengo, «preserva la mente dalla disperazione! Ergi, come una rupe, il sentimento che vive nel tuo petto, tienti forte ad esso, e non vacillare, neppure se terra e cielo crollassero, sotto e sopra di te! Di due pensieri che confondono la mente pensiamo quello più comprensibile e più ragionevole; e, piuttosto che tu creda te stessa colpevole, crediamo piuttosto che, nella tenzone che ho combattuto per te, io abbia vinto!... Dio, Signore della mia vita», aggiunse, in quel momento, mettendosi le mani davanti al viso, «preserva anche l'anima mia dalla confusione! Io credo, come è vero che vorrei essere salvato, di non essere stato vinto dalla spada del mio avversario, poiché, già calpestato nella polvere dal suo piede, sono risorto alla vita. Dov'è l'obbligo, per la suprema saggezza divina, di annunciare e pronunciare la verità nel momento stesso in cui viene fiduciosamente invocata? Oh, Littegarda!», concluse, premendole la mano tra le sue. «Guardiamo, nella vita, alla morte, e, nella morte, all'eternità, e serbiamo la fede salda, incrollabile che la tua innocenza sarà portata, e lo sarà proprio attraverso il duello che ho combattuto per te, alla limpida, chiara luce del sole!». A queste parole entrò il castaldo; e poiché egli ricordò a donna Elena, la quale sedeva a un tavolo piangendo, che tante emozioni potevano riuscire dannose a suo figlio, messer Federico, alle sollecitazioni dei suoi, ritornò, non senza la consapevolezza di aver dato e ricevuto qualche conforto, nella sua prigione.
Nel frattempo davanti al tribunale insediato dall'imperatore a Basilea venne intentata l'accusa contro messer Federico di Trota e contro la sua amica, donna Littegarda di Auerstein, per aver invocato in modo sacrilego l'arbitrato divino, ed entrambi, secondo la legge vigente, furono condannati a subire, sulla piazza stessa della tenzone, la morte infame del rogo. Si mandò una delegazione di giudici a darne l'annuncio ai prigionieri, e la sentenza, subito dopo che il camerlengo si fosse ristabilito, sarebbe stata senz'altro eseguita, se non fosse stata segreta intenzione dell'imperatore vedervi presenziare il conte Iacopo Barbarossa, contro il quale egli non sapeva reprimere un sorta di diffidenza. Ma questi continuava, in maniera, a dire il vero, assai strana e singolare, a giacere malato, per via della piccola e in apparenza insignificante ferita che aveva ricevuto, all'inizio del duello, da messer Federico; uno stato estremamente corrotto dei suoi umori ne impediva, di giorno in giorno, di settimana in settimana, la guarigione, e tutta l'arte dei medici, che, con l'andare del tempo, erano stati chiamati dalla Svevia e dalla Svizzera non era stata in grado di rimarginarla. Anzi, un pus venefico, di un genere ignoto a tutta la medicina del tempo, divorava come un cancro i tessuti circostanti, fino all'osso e all'intero sistema della mano, cosicché, con orrore di tutti i suoi amici, ci si vide costretti ad imputargli l'intera mano offesa, e, in seguito, poiché neppure con questo mezzo si era posto fine all'azione divoratrice del pus, il braccio stesso. Ma anche questo mezzo di guarigione, vantato come cura radicale, non fece che aggravare, come oggi si sarebbe facilmente capito, il male, anziché alleviano; e i medici, poiché tutto il suo corpo, a poco a poco, si disfaceva in pus e in cancrena, dichiararono che per lui non c'era salvezza e che, prima che finisse la settimana, doveva morire.
Invano il priore del convento degli Agostiniani, che in questa svolta inaspettata degli eventi credeva di scorgere la tremenda mano di Dio, lo esortò a confessare la verità, in relazione alla lite che lo opponeva alla duchessa reggente; il conte, sempre più scosso, prese ancora una volta il santo sacramento per confermare la veridicità della sua deposizione e, con tutti i segni della più orribile angoscia, disse che abbandonava, nel caso avesse lanciato contro donna Littegarda accuse calunniose, la propria anima alla dannazione eterna. Ora, si avevano, malgrado la scostumatezza delle sue abitudini, doppie ragioni per credere all'intima onestà di quell'assicurazione: da un lato perché all'infermo non mancava, in realtà, una certa devozione, che non sembrava permettere un falso giuramento in un momento simile; inoltre perché, da un interrogatorio al quale fu sottoposto il guardiano della torre del castello di Breda, che egli diceva di aver corrotto, al fine di entrare segretamente nella fortezza, risultò che la circostanza era fondata punto per punto, e che il conte, nella notte di san Remigio, era stato davvero all'interno del castello dei Breda.
In seguito a ciò, non rimase al priore quasi null'altro, se non credere che il conte fosse stato ingannato da una terza persona, a lui sconosciuta; e l'infelice, al quale, alla notizia della meravigliosa guarigione del camerlengo, era venuto in mente lo stesso pensiero terribile, non era ancora giunto alla fine della sua vita, quando questa idea, per sua disperazione, trovò piena conferma. Bisogna, infatti, sapere che il conte, già molto tempo prima che i suoi desideri si appuntassero su donna Littegarda, aveva una tresca con Rosalia, la sua cameriera; quasi a ogni visita che la padrona faceva nel suo castello, egli era solito attirare nottetempo nella propria camera quella ragazza, che era una creatura leggera e di facili costumi. Quando Littegarda, durante l'ultima visita che fece al suo castello, insieme ai fratelli, ricevette da lui quel biglietto affettuoso, nel quale le dichiarava la sua passione, il fatto suscitò il risentimento e la gelosia della ragazza, che egli aveva trascurato già da molte lune; e, alla partenza, subito dopo seguita, di Littegarda, che lei doveva accompagnare, essa lasciò, con il nome di lei, un biglietto per il conte, nel quale gli faceva sapere che l'indignazione dei suoi fratelli per il passo da lui compiuto non permetteva un incontro immediato, ma lo invitava, nella notte di san Remigio, a farle visita nelle stanze del castello di suo padre.
Il conte, pieno di gioia per la felice riuscita dell'impresa, scrisse immediatamente una seconda lettera a Littegarda, in cui le confermava il suo arrivo nella notte stabilita e la pregava soltanto, per evitare errori, di mandargli incontro una guida fidata, che potesse condurlo nelle sue stanze; e poiché la cameriera, abile in ogni sorta di intrighi, si aspettava quella comunicazione, le riuscì di intercettare lo scritto, e dirgli in una seconda falsa risposta che lei stessa l'avrebbe atteso alla porta del giardino. Poi, la sera della notte convenuta, con il pretesto che sua sorella era malata e che voleva farle visita, chiese a Littegarda il permesso di recarsi in campagna; lasciò infatti, ottenutolo, nel tardo pomeriggio il castello, portando un fagotto di biancheria sotto il braccio, e si mise, sotto gli occhi di tutti, per la via che portava all'abitazione di quella donna. Ma, invece di portare a termine il viaggio, sul far della notte si ritrovò, con il pretesto che stava per scoppiare un temporale, di nuovo al castello, e si fece preparare, per non disturbare, come disse, sua signoria, essendo sua intenzione riprendere il cammino l'indomani, nelle prime ore del mattino, un giaciglio per la notte in una delle stanze vuote della torre del castello, deserta e poco frequentata. Il conte, che era riuscito a ottenere dal custode, per denaro, di entrare nel castello, e, all'ora della mezzanotte, secondo gli accordi, era stato ricevuto alla porta del giardino da una persona velata, non immaginò, come è facile comprendere, nulla dell'inganno che gli veniva giocato; la ragazza gli diede un bacio fugace sulla bocca e lo condusse, per molte scale e corridoi dell'ala laterale, deserta, in una delle stanze più sontuose dell'edificio, della quale aveva in precedenza accuratamente chiuso le finestre. Qui, dopo che, tenendolo per mano, ebbe origliato alle porte con fare misterioso, e gli ebbe ordinato, con un sussurro, di stare zitto, con il pretesto che la stanza da letto del fratello era vicinissima, si coricò con lui sul letto, che stava da una parte; il conte, ingannato dalla sua figura e dall'altezza, sprofondò nel vortice del piacere di aver fatto ancora, alla sua età, una simile conquista; e quando lei, alle prime luci del mattino, lo lasciò, infilandogli al dito, in ricordo della notte trascorsa, un anello che Littegarda aveva ricevuto dal suo consorte, e che lei, la sera prima, le aveva sottratto a questo scopo, egli le promise, non appena fosse giunto a casa, di contraccambiarla con un altro anello, ricevuto, il giorno delle nozze, dalla sua defunta consorte.
Tre giorni dopo mantenne la parola, e le fece segretamente recapitare alla rocca quell'anello, che Rosalia, ancora una volta, fu così abile da intercettare; ma, probabilmente nel timore che quell'avventura lo portasse troppo oltre, non diede, poi, più notizie di sé, ed evitò, con vari pretesti, un secondo convegno. In seguito la ragazza, a causa di un furto i cui sospetti caddero su di lei quasi con certezza, venne licenziata, e rimandata presso la casa dei genitori, che abitavano sul Reno; e poiché, trascorsi nove mesi, divennero visibili le conseguenze di quella vita dissoluta, e la madre la interrogò con severità, lei confessò che era il conte Iacopo Barbarossa, rivelando tutta la storia segreta che aveva avuto con lui, il padre del bambino. Fortunatamente, per paura di essere presa per una ladra, aveva potuto offrire in vendita solo assai timidamente l'anello che le era stato inviato dal conte e, a causa del suo grande valore, non aveva trovato nessuno che fosse disposto a riscattarlo: sicché la veridicità del suo racconto non poté essere messa in dubbio, e i genitori, valendosi di quella prova evidente, citarono in giudizio il conte Iacopo Barbarossa, perché procedesse al mantenimento del bambino. I giudici, che avevano già udito della strana controversia intentata a Basilea, si affrettarono a portare la scoperta, che era della massima importanza per l'esito di quella causa, a conoscenza del tribunale di Basilea; e poiché un consigliere doveva recarsi in quella città per un pubblico incarico, gli diedero, per risolvere il terribile enigma, che occupava tutta la Svevia e la Svizzera, una lettera con la deposizione giudiziaria della ragazza, alla quale unirono l'anello, per il conte Iacopo Barbarossa.
Era il giorno fissato per l'esecuzione di messer Federico e di Littegarda, che l'imperatore, all'oscuro dei dubbi che erano sorti nell'animo del conte stesso, non riteneva di poter ulteriormente rinviare, quando il consigliere entrò, con lo scritto, nella camera dell'infermo, che si torceva sul suo giaciglio tra disperati lamenti. «Basta!», esclamò questi, quando ebbe letto la lettera e ricevuto l'anello. «Sono stanco di vedere la luce del sole! Procuratemi», disse rivolto al priore, «una barella, e portate questo meschino, le cui forze si riducono in polvere, sul piazzale dell'esecuzione: non voglio morire senza aver compiuto un atto di giustizia!». Il priore, profondamente scosso dall'evento lo fece immediatamente deporre da quattro servi su una lettiga come desiderava, e, insieme a una folla smisurata, che il suono delle campane aveva adunato attorno alla pira, sulla quale messer Federico e Littegarda erano già saldamente legati, giunse con l'infelice, che teneva in mano un crocefisso, sulla piazza. «Fermi!», gridò il priore, mentre faceva deporre la barella di fronte al balcone dell'imperatore. «Prima di appiccare il fuoco a quella pira, ascoltate le parole che deve rivolgervi la bocca di questo peccatore!». «Come?», esclamò il sovrano, alzandosi dal suo seggio pallido come un cadavere. «Il sacrosanto giudizio di Dio non ha già deciso per la giustezza della sua causa, ed è permesso, dopo quanto e accaduto, anche soltanto pensare che Littegarda sia innocente del misfatto che egli le ha attribuito?». E, con queste parole, scese sconvolto dal palco, mentre più di mille cavalieri, seguiti da tutto il popolo, che saltava le panche e le staccionate, si accalcavano intorno al giaciglio dell'infermo.
«Innocente», rispose questi, mentre, sorretto dal priore, si tirava su a metà, «come la sentenza del sommo Iddio, in quel giorno fatale, decise, davanti agli occhi di tutti i cittadini riuniti di Basilea! Poiché egli, colpito da tre ferite, ciascuna mortale, e, come vedete, fiorente di forze e pienezza di vita, mentre un colpo della sua mano, che non sembrò neppure sfiorare l'involucro esterno della mia esistenza, con azione lenta, continuata, terribile ne ha intaccato il nocciolo stesso, e ha abbattuto la mia forza come il vento di tempesta abbatte una quercia. Ma qui, se un incredulo dovesse nutrire ancora qualche dubbio, ecco le prove: Rosalia, la sua cameriera, fu colei che mi ricevette in quella notte di san Remigio, mentre io, meschino, nell'accecamento dei miei sensi, pensavo di stringere tra le mie braccia colei che aveva sempre respinto con disprezzo le mie profferte!».
A queste parole, l'imperatore s'irrigidì, come se fosse fatto di pietra. Egli mandò, voltandosi verso la pira, un cavaliere, con l'ordine di salire egli stesso la scala e slegare il camerlengo e la dama, che giaceva già, priva di conoscenza, tra le braccia di sua madre, e di condurli presso lui. «Dunque un angelo veglia su ogni capello del vostro capo!», esclamò il sovrano, quando Littegarda, con il petto semiscoperto e i capelli disciolti, tenuta per mano da messer Federico, il suo amico, che aveva egli stesso le ginocchia tremanti, per l'emozione di quella miracolosa salvezza, attraverso il cerchio del popolo, che cedeva, con venerazione e sbalordimento, il passo, gli si fu avvicinata. Egli baciò a entrambi, che si erano inginocchiati davanti a lui, la fronte e, dopo aver pregato la sua consorte di porgergli l'ermellino che indossava, e averlo gettato sulle spalle di Littegarda, le porse, sotto gli occhi di tutti i cavalieri radunati, il braccio, con l'intenzione di condurla egli stesso nelle stanze del palazzo imperiale. Poi si volse, mentre il camerlengo veniva anch'egli adornato, al posto del saio di peccatore che lo copriva, con il cappello piumato e il mantello di cavaliere, verso il conte, che si torceva penosamente sulla barella: e, mosso da un sentimento di compassione, poiché questi, dopo tutto, non aveva affrontato il duello che l'aveva portato alla rovina in modo scellerato e sacrilego, domandò al medico che gli stava a fianco se per l'infelice non ci fosse salvezza.
«È inutile», rispose Iacopo Barbarossa, appoggiandosi, con fremiti spaventosi, in grembo al suo medico. «La morte che soffro l'ho meritata. Sappiate, dunque, poiché il braccio della giustizia di questo mondo non può più raggiungermi, che io sono l'assassino di mio fratello, il nobile duca Guglielmo di Breysach: il malvagio che lo abbatté, con la freccia della mia sala d'armi, sei settimane prima era stato, per compiere quel gesto, che avrebbe dovuto procurarmi la corona, assoldato da me!». E, con questa dichiarazione, ricadde sulla barella ed esalò la sua anima nera.
«Ah, il mio consorte, il duca stesso, l'aveva intuito!», esclamò la reggente, ritta accanto all'imperatore, poiché anch'essa era scesa dal balcone del palazzo, al seguito dell'imperatrice, per recarsi sulla piazza. «Me l'aveva detto, con parole spezzate, che allora intesi solo imperfettamente, quando era in punto di morte!».
«Ebbene, il braccio della giustizia raggiungerà almeno il tuo cadavere!», soggiunse l'imperatore, con sdegno. «Prendetelo», gridò, volgendosi verso le guardie, «e consegnatelo subito, giudicato com'è, alle mani del boia: sia consumato, a onta della sua memoria, su quello stesso rogo sul quale eravamo in procinto, per causa sua, di sacrificare due innocenti!».
E con ciò, mentre il cadavere dello sciagurato crepitava tra le fiamme rossastre, e poi veniva disperso e dissipato ai quattro venti dal soffio della tramontana, condusse donna Littegarda, con il seguito di tutti i suoi cavalieri, a palazzo. La reintegrò, con decreto imperiale, nell'eredità paterna, della quale i fratelli, nella loro ignobile avidità, avevano già preso possesso, e tre settimane dopo, nel castello di Breysach, furono celebrate le nozze dei due eccellenti sposi, durante le quali la duchessa reggente, assai lieta della piega che avevano preso le cose, fece dono nuziale a Littegarda di una gran parte dei possedimenti del conte, caduti, per legge, sotto sequestro. L'imperatore, dopo la cerimonia, cinse il collo di messer Federico con una collana d'onore; e, non appena, portati a termine i suoi affari in Svizzera, fu ritornato a Worms, fece inserire negli statuti che regolavano il sacrosanto giudizio di Dio mediante duello, dovunque fosse scritto che la colpa, attraverso di esso, viene immediatamente portata alla luce del giorno, le seguenti parole: «Se questa è la volontà di Dio».