IL PORTALE DELL'ARTE DI RODONI.CH

LA BIBLIOTECHINA DI LAURETO - PRIMA PARTE

LA BIBLIOTECHINA DI LAURETO - SECONDA PARTE


© GARZANTI


HONORÉ DE BALZAC

IL FIGLIO MALEDETTO

Traduzione di Elina Kersi



COME VISSE LA MADRE

In una notte d'inverno, verso le due del mattino, la contessa Jeanne d'Hérouville provò così vivi dolori che nonostante la sua inesperienza presentì un parto imminente; e l'istinto che ci fa sperare il meglio con un cambiamento di posizione le consigliò di mettersi seduta, sia per studiare la natura di sofferenze del tutto nuove, sia per riflettere sulla propria situazione. Ella era in preda a crudeli timori suscitati non tanto dai rischi di un primo parto che incutono spavento alla maggior parte delle donne, quanto dai pericoli che attendevano il bambino. Per non svegliare il marito che dormiva accanto a lei, la povera donna prese delle precauzioni che un profondo terrore rendeva minuziose come quelle di un prigioniero che evada. Benché i dolori si facessero sempre più intensi, ella smise di sentirli, a tal punto concentrò le proprie forze nel penoso tentativo di appoggiare le mani umide sul guanciale, per permettere al corpo indolorito di cambiare la posizione in cui si sentiva priva di energia. Al minimo fruscio dell'immensa trapunta di moire verde sotto la quale aveva dormito ben poco dall'epoca del suo matrimonio, rimaneva immobile come se avesse risuonato una campana. Costretta a spiare il conte, la sua attenzione si volgeva ora alle pieghe della stoffa crepitante, ora alla larga faccia adusta i cui baffi le sfioravano la spalla. Se dalle labbra del marito usciva un sornacare più rumoroso, una paura improvvisa ravvivava lo splendore vermiglio soffuso sulle sue guance da una duplice angoscia. Il criminale, giunto notte tempo sino alla porta della prigione e che cerca di girare senza rumore in una spietata serratura la chiave che ha trovato, non è più timidamente audace. Quando la contessa si vide seduta senza aver svegliato il suo guardiano, si lasciò sfuggire un gesto di gioia infantile che svelava la toccante ingenuità del suo carattere, ma il sorriso appena accennato sulle labbra infiammate fu prontamente represso: un pensiero venne ad offuscare la fronte pura e i lunghi occhi azzurri ripresero la loro espressione di tristezza. Sospirò e posò nuovamente le mani, non senza guardinghe precauzioni, sul fatale cuscino coniugale. Poi, come se per la prima volta dopo il suo matrimonio si fosse trovata libera delle proprie azioni e dei propri pensieri, guardò le cose circostanti tendendo il collo con leggeri movimenti simili a quelli di un uccello in gabbia. Nel vederla così, si sarebbe facilmente intuito che un tempo ella era tutta gioia e voglia di scherzare, ma che repentinamente il destino aveva falciato le sue prime speranze e mutato la sua ingenua allegria in malinconia.
La camera era una di quelle che, ancora ai giorni nostri, qualche portinaio ottuagenario presenta ai viaggiatori che visitano i vecchi castelli, dicendo: «Ecco la camera di parata in cui ha dormito Luigi XIII.» Delle belle tappezzerie, quasi tutte sui toni scuri, erano incorniciate da grandi bordi di noce di cui il tempo aveva annerito le delicate sculture. Al soffitto le travi formavano dei cassoni adorni di arabeschi nello stile del secolo precedente che conservavano i colori del castagno. Quelle decorazioni piene di tinte severe riflettevano tanto poco la luce che era difficile vedere i loro disegni, persino quando il sole batteva in pieno su quella camera dal soffitto alto, larga e lunga. Anche la lampada d'argento, posata sulla cappa di un ampio camino, la illuminava allora così fievolmente che il suo chiarore tremolante poteva essere paragonato a quelle stelle nebulose che, a tratti, trafiggono il velo grigiastro di una notte d'autunno. Le figurine incise nel marmo del camino, che si trovava di fronte al letto della contessa, mostravano immagini così grottescamente repellenti che ella non osava soffermarvi lo sguardo temendo di vederle muoversi o di udire un riso sonoro uscire dalle loro bocche spalancate o contorte. In quel momento un'orribile tempesta rombava attraverso il caminetto che ritrasmetteva le minime raffiche dando loro un senso lugubre, e la larghezza della cappa la metteva così bene in comunicazione con il cielo, che gli innumerevoli tizzoni del focolare sembrava quasi respirassero, brillando e spegnendosi di volta in volta, a seconda del vento. Lo stemma della famiglia d'Hérouville, scolpito in marmo bianco con tutti i suoi lambrecchini e le figure dei sostenenti, conferiva l'apparenza di una tomba a quella specie di edificio opposto al letto, altro monumento eretto alla gloria dell'imeneo. Per un architetto moderno sarebbe stato molto imbarazzante dover decidere se la camera era stata costruita per il letto o il letto per la camera. Due amorini, che giocavano in un cielo di noce adorno di ghirlande, avrebbero potuto passare per angeli, e le colonne dello stesso legno che sostenevano la cupola presentavano delle allegorie mitologiche la cui spiegazione si trovava nella Bibbia come pure nelle Metamorfosi di Ovidio. Tolto il letto, alla stessa guisa quel cielo avrebbe incoronato in una chiesa il pulpito o i banchi dei fabbriceri. Mediante tre scalini, gli sposi ascendevano a quel sontuoso giaciglio circondato da una pedana e guarnito da due tendaggi di moire verde con grandi disegni brillanti, detti «gorgheggi», forse perché gli uccelli ivi raffigurati si ritiene che cantino. Le pieghe degli immensi tendaggi erano così rigide che di notte si sarebbe potuta scambiare quella seta per un tessuto di metallo. Sul velluto verde, ornato di frange d'oro, che faceva da sfondo al letto gentilizio, la superstizione dei conti d'Hérouville aveva appeso un grande crocifisso sul quale la Domenica delle Palme il loro cappellano poneva un nuovo ramo di bosso benedetto, rinnovando insieme l'acqua dell'acquasantiera intarsiata ai piedi della croce.
Da un lato del camino vi era un armadio di legno prezioso e magnificamente lavorato, che in provincia i giovani sposi ricevevano ancora il giorno delle nozze. Quei vecchi mobili, così ricercati oggigiorno dagli antiquari, erano l'arsenale dove le donne attingevano i tesori del loro abbigliamento non meno ricco che elegante. Contenevano le trine, le sottane, gli alti colli, gli abiti di valore, le borsette, le maschere, i guanti, i veli, tutte le invenzioni della civetteria del sedicesimo secolo. Dall'altro lato, simmetricamente, si elevava un mobile simile dove la contessa riponeva i libri, le carte, i gioielli. Antiche poltrone di damasco, un grande specchio verdastro fabbricato a Venezia e riccamente incorniciato in una specie di toeletta a rotelle completavano il mobilio della camera. Il pavimento era coperto da un tappeto di Persia la cui ricchezza testimoniava la galanteria del conte. Sull'ultimo gradino del letto si trovava un tavolino sul quale la fantesca serviva ogni sera, in una coppa d'argento, una bevanda preparata con le spezie.
Quando si è fatto qualche passo nella vita, noi sappiamo la segreta influenza esercitata dai luoghi sulle disposizioni dell'anima. Chi non ha conosciuto quegli istanti difficili in cui si vedono non so quali pegni di speranza nelle cose che ci circondano? Felice o miserabile, l'uomo attribuisce una fisionomia ai minimi oggetti con i quali vive; egli li ascolta e li consulta, a tal segno è per natura superstizioso. In quel momento, la contessa volgeva lo sguardo su tutti i mobili come se fossero stati degli esseri, e sembrava chieder loro aiuto o protezione; ma quel lusso tetro le sembrava inesorabile.
All'improvviso la tempesta raddoppiò d'intensità. La giovane donna non osó più presagire niente di favorevole sentendo le minacce del cielo i cui cambiamenti erano interpretati, in quell'epoca di credulità, secondo le idee e le abitudini di ciascuna mente. Ella riportò ad un tratto lo sguardo verso le due finestre a ogiva che erano in fondo alla camera, ma la dimensione delle vetrate e la molteplicità dei listelli di piombo non le permisero di vedere le condizioni del firmamento e di rendersi conto se la fine del mondo si approssimasse come pretendevano alcuni monaci affamati di prebende. Avrebbe potuto credere facilmente a quelle predizioni, giacché il rumore del mare incollerito, le cui ondate assalivano i muri del castello, si unì alla grande voce della tempesta, e la scogliera parve sconquassarsi. Benché le sofferenze si succedessero sempre più vive e più crudeli, la contessa non osò svegliare il marito, ma ne esaminò i tratti come se la disperazione le avesse consigliato di cercarvi una consolazione contro tanti sinistri presagi.
Se le cose erano tristi intorno alla giovane donna, quel viso, nonostante la calma del sonno, sembrava più triste ancora. Agitato dalle folate del vento, il chiarore della lampada, che si estingueva accanto al letto, illuminava solo a tratti la testa del conte, cosicché i movimenti di quel bagliore simulavano su quel viso in riposo il dibattersi di un pensiero tempestoso. La contessa fu a malapena rassicurata riconoscendo la causa di tale fenomeno. Ogni volta che una ventata proiettava la luce sul grande viso, ombreggiandone le numerose callosità che lo caratterizzavano, le sembrava che il marito stesse per fissare su di lei due occhi di un insostenibile rigore. Implacabile come la guerra che a quel tempo si combattevano Chiesa e Calvinismo, la fronte del conte continuava ad essere minacciosa durante il sonno; innumerevoli solchi impressi dalle emozioni di una vita guerriera vi incidevano una vaga somiglianza con quelle pietre vermicolate che adornano i monumenti dell'epoca. Simili ai muschi bianchi delle vecchie querce, i capelli grigi innanzi tempo la incorniciavano senza grazia, e l'intolleranza religiosa vi manifestava la sua brutalità appassionata. La forma di un naso aquilino che assomigliava al becco di un uccello da preda, la linea nera e aggrinzita di un occhio giallo, le ossa sporgenti di un viso scavato, la rigidità delle rughe profonde, lo sdegno impresso nel labbro inferiore, tutto stava a indicare un'ambizione, un dispotismo, una forza tanto più temibile in quanto la strettezza del cranio tradiva un'assoluta mancanza d'intelligenza e un coraggio senza generosità. Quel viso era orrendamente sfigurato da uno sfregio obliquo, la cui cicatrice era come una seconda bocca sulla guancia destra. A trentatré anni, il conte, bramoso di rendersi illustre nella sciagurata guerra di religione il cui segnale venne dato dalla notte di San Bartolomeo, era stato gravemente ferito all'assedio della Rochelle. La disavventura della sua ferita, per parlare il linguaggio del tempo, accrebbe il suo odio contro quelli della Religione, ma per una disposizione abbastanza naturale, nella sua antipatia coinvolse gli uomini dotati di un bel viso. Prima della suddetta catastrofe, era già così brutto che nessuna donna aveva voluto accogliere i suoi omaggi. La sola passione della sua giovinezza era stata una donna celebre detta la Bella Romana. La diffidenza che gli ispirò la sua nuova sventura lo rese suscettibile al punto da non credere più di poter ispirare un'autentica passione, e il carattere si fece così efferato che se ebbe qualche successo galante, lo dovette al terrore ispirato dalle sue crudeltà. La mano sinistra, che quel terribile cattolico teneva fuori dal letto, completava il ritratto del suo carattere. Allungata in maniera da custodire la contessa come un avaro custodisce il suo tesoro, quella mano enorme era coperta di peli così folti, presentava un intrico di vene e di muscoli così sporgenti, che assomigliava a un ramo di faggio avvolto dagli steli di un'edera ingiallita. Contemplando il viso del conte, un bambino vi avrebbe riconosciuto uno di quegli orchi di cui le nutrici raccontano le terribili storie. Bastava vedere la larghezza e la lunghezza del posto occupato dal conte nel letto per indovinarne le proporzioni gigantesche. Le grosse sopracciglie brizzolate gli nascondevano le palpebre in modo da mettere in risalto l'occhio chiaro in cui brillava la ferocia luminosa di quello di un lupo appostato nel fogliame. Sotto il naso leonino, due larghi mustacchi poco curati, giacché disprezzava singolarmente la propria pulizia, non permettevano di scorgere il labbro superiore. Fortunatamente per la contessa, la larga bocca del marito in quel momento era muta, dal momento che i suoni più dolci di quella voce rauca la facevano rabbrividire. Benché il conte d'Hérouville avesse appena cinquant'anni, a prima vista gliene si potevano dare sessanta, a tal segno le fatiche della guerra, pur senza alterare la sua costituzione robusta, ne avevano oltraggiato la fisionomia. Ma egli si preoccupava ben poco di passare per un mignon.
La contessa, che stava per compiere diciotto anni, accanto a quell'immensa figura offriva un contrasto penoso a vedersi. Era bianca e sottile. I suoi capelli castani, con sfumature d'oro, scherzavano sul collo come nuvole di bistro e mettevano in risalto uno di quei visi delicati creati da Carlo Dolci per le sue madonne dall'incarnato eburneo, che sembrano sul punto di spirare sotto gli attacchi del dolore fisico. Si sarebbe detta l'apparizione di un angelo incaricato di addolcire le volontà del conte d'Hérouville.
«No, non ci ucciderà,» esclamò ella mentalmente dopo aver contemplato a lungo il marito. «Non è forse franco, nobile, coraggioso e fedele alla propria parola?... Fedele alla propria parola?» Nel ripetere col pensiero tale frase, ella trasalì violentemente e rimase come istupidita.
Per capire l'orrore della situazione in cui si trovava la contessa, è necessario aggiungere che la suddetta scena notturna si svolgeva nel 1591, epoca in cui la guerra civile imperversava in Francia, e in cui le leggi erano senza vigore. Gli eccessi della Lega, ostile all'avvento di Enrico IV, superavano tutte le calamità delle guerre di religione. Anche la licenza divenne allora tanto grande che nessuno si sorprendeva nel vedere un gran signore far uccidere pubblicamente il proprio nemico in pieno giorno. Allorché una spedizione militare, volta a soddisfare un interesse privato, era condotta in nome della Lega o del Re, otteneva da entrambe le parti i più grandi elogi. Fu così che Balagny, un soldato, per poco non divenne principe sovrano, alla corte di Francia. Quanto ai delitti commessi in famiglia, se è lecito servirsi di tale espressione, nessuno, disse un contemporaneo, se ne curava più che di un covone di paglia, a meno che non fossero stati accompagnati da circostanze eccessivamente crudeli. Qualche tempo prima della morte del re, una dama di corte assassinò un gentiluomo che aveva tenuto su di lei discorsi sconvenienti. Uno dei favoriti di Enrico III gli disse: «Essa lo ha, vivaddio sire!, assai elegantemente dagato!»
Per il rigore delle sue esecuzioni, il conte d'Hérouville, uno dei più focosi realisti di Normandia, manteneva sotto l'ubbidienza di Enrico IV tutta la parte di quella provincia che confina con la Bretagna. Capo di una delle più ricche famiglie di Francia, aveva considerevolmente aumentato la rendita delle sue numerose terre sposando, sette mesi prima della notte durante la quale comincia la nostra storia, Jeanne de Saint-Savin, giovane donzella che per un caso abbastanza comune in quei tempi in cui la gente moriva come le mosche, aveva d'un sol colpo riunito nella sua persona i beni dei due rami della famiglia di Saint-Savin. La necessità, il terrore, furono i soli testimoni di tale unione. In un banchetto offerto due mesi dopo dalla città di Bayeux al conte e alla contessa d'Hérouville in occasione del loro matrimonio, nacque una discussione che in quell'epoca d'ignoranza fu trovata assai stravagante; essa aveva per oggetto la pretesa legittimità dei figli venuti al mondo dieci mesi dopo la morte del marito, o sette mesi dopo la prima notte di nozze. «Signora,» disse brutalmente il conte alla moglie, «quanto al darmi un figlio dieci mesi dopo la mia morte, io non posso farci nulla. Ma, tanto per cominciare, non partorite a sette mesi.» «Che faresti in tal caso, vecchio orso?» chiese il giovane marchese di Verneuil pensando che il conte volesse scherzare. «Torcerei con gran cura il collo alla madre e al figlio.» Una risposta così perentoria servì da conclusione a quella discussione imprudentemente suscitata da un signore della Bassa Normandia. I convitati rimasero in silenzio contemplando con una sorta di terrore la bella contessa d'Hérouville. Tutti erano persuasi che in simili circostanze quel feroce signore avrebbe portato a compimento la sua minaccia.
La parola del conte risuonò nel seno della giovane donna allora incinta; nello stesso istante, uno di quei presentimenti che solcano l'anima con un lampo dell'avvenire, l'avvertì che avrebbe partorito a sette mesi. Un calore interno avvolse la giovane donna dalla testa ai piedi, concentrando la vita nel cuore con tanta violenza ch'ella si sentì esteriormente come in un bagno di ghiaccio. Da allora non trascorse giorno senza che quel moto di terrore segreto non le frenasse gli slanci più innocenti dell'anima. Il ricordo dello sguardo e dell'inflessione di voce con cui il conte aveva accompagnato la sua sentenza, agghiacciava ancora il sangue della contessa e faceva tacere i suoi dolori allorché china su quella testa addormentata, voleva trovarvi durante il sonno gli indizi di una pietà che invano vi cercava durante la veglia. Poiché quel bambino minacciato di morte prima di nascere le chiedeva la luce con movimento vigoroso, ella esclamò con voce che assomigliava a un sospiro: «Povero piccino!» Non concluse. Vi sono idee che una madre non sopporta. Incapace in quel momento di ragionare, la contessa fu come soffocata da un'angoscia a lei ignota. Due lacrime sfuggitele dagli occhi le rotolarono lentamente lungo le guance, vi lasciarono due tracce brillanti, e rimasero sospese in fondo al suo bianco viso, simili a due gocce di rugiada sopra un giglio. Quale scienziato oserebbe assumere la responsabilità di dire che il bambino rimane su un terreno neutro dove le emozioni della madre non penetrano, in quelle ore durante le quali l'anima abbraccia il corpo comunicandogli le sue impressioni, e il pensiero infiltra nel sangue balsami riparatori o fluidi velenosi? Quel terrore che agitava l'albero, turbò il frutto? Quell'esclamazione: «Povero piccino!» fu una sentenza dettata da una visione del suo avvenire? Il trasalimento della madre fu assai energico, e il suo sguardo fu ben penetrante!
La sanguinosa risposta sfuggita al conte era un anello che allacciava misteriosamente il passato della moglie a quel parto prematuro. Gli odiosi sospetti, così pubblicamente espressi, avevano gettato nei ricordi della contessa il terrore che risuonava fin nell'avvenire. Da quel fatale banchetto, ella cacciava con timore, come un'altra donna avrebbe evocato con piacere, mille svariate scene che la sua fervida immaginazione raffigurava nonostante i suoi sforzi. Ella si negava la toccante contemplazione dei giorni felici in cui il suo cuore era libero di amare. Simili alle melodie del paese natale che fanno piangere gli esuli, quei ricordi ricreavano sensazioni così deliziose che la sua giovane coscienza gliele rimproverava come altrettanti delitti, e se ne serviva per rendere ancor più terribile la promessa del conte: tale era il segreto dell'orrore che opprimeva la contessa.
Le figure addormentate possiedono una specie di soavità dovuta al riposo perfetto del corpo e dell'intelligenza; ma benché quella calma cambiasse poco la dura espressione dei lineamenti del conte, l'illusione offre agli sventurati miraggi così attraenti, che la giovane donna finì col trovare una speranza in quella tranquillità. La tempesta che scatenava allora torrenti di pioggia non fece più sentire che un mugghiare malinconico; i suoi timori e i suoi dolori le lasciarono anch'essi un momento di tregua. Contemplando l'uomo al quale era legata la sua vita, la contessa si lasciò quindi trascinare in una fantasticheria la cui dolcezza fu così inebriante, che non ebbe la forza di romperne l'incanto. In un istante, per una di quelle visioni che partecipano della potenza divina, ella si fece scorrere davanti agli occhi le rapide immagini di una felicità perduta per sempre.
Jeanne scorse dapprima debolmente, e come nella remota luce dell'aurora, il modesto castello in cui aveva trascorso la sua infanzia spensierata; ecco il prato verde, il fresco ruscello, la cameretta, teatro dei suoi primi giochi. Si vide mentre coglieva i fiori, mentre li piantava senza capire perché tutti appassissero, nonostante la sua cura nell'innaffiarli. Presto comparve, ancora confusamente, la città immensa e il grande palazzo annerito dal tempo dove la madre la conduceva quando aveva sette anni. La sua irridente memoria le fece vedere le vecchie facce dei maestri che la tormentarono. Attraverso un torrente di parole italiane e spagnole, ripetendo dentro di sé alcune romanze al suono di una graziosa ribeca, si ricordò della figura del padre. Al ritorno dal Palazzo, ella andava incontro al Presidente, lo guardava scendere dalla mula sullo sgabello, gli prendeva la mano per salire con lui la scala, e con il suo chiacchierio fugava le preoccupazioni giudiziarie delle quali non sempre si spogliava insieme a quella toga nera o rossa di cui monellescamente ella tagliò con le forbici la pelliccia bianca e nera. Appena uno sguardo gettò sul confessore di sua zia, superiora delle Clarisse. Questi era un uomo rigido e fanatico, incaricato di iniziarla ai misteri della religione. Indurito dalla severità che esigeva l'eresia, il vecchio prete scuoteva in ogni occasione le catene dell'inferno, non parlava che di vendette celesti, e la rendeva timorosa persuadendola di esser sempre in presenza di Dio. Fattasi timida, non osava alzare gli occhi, e non provava più che rispetto per la madre alla quale aveva fatto condividere fino allora i suoi folleggiamenti. A partire da quel momento, un religioso terrore s'impadroniva del suo giovane cuore, ogni qualvolta vedeva la madre diletta posare su di lei azzurri con una parvenza di collera i suoi occhi.
Ad un tratto si ritrovò nella sua seconda infanzia, epoca in cui ancor nulla capì delle cose della vita. Con un rimpianto quasi beffardo salutò quei giorni in cui tutta la sua felicità consisté nel lavorare con la madre in un salottino adibito alla tappezzeria, nel pregare in una grande chiesa, nel cantare una romanza accompagnandosi con una ribeca, nel leggere di nascosto un libro di cavalleria, nello strappare un fiore per curiosità, nello scoprire quali regali le avrebbe fatto suo padre per la festa del beato San Giovanni, e nel cercare il senso delle parole che venivano pronunciate a metà davanti a lei. Subito cancellò con un pensiero, come si cancella una parola scarabocchiata su un album, le gioie infantili che, nel momento in cui non soffriva, l'immaginazione aveva scelto per lei tra tutte le scene che i primi sedici anni della sua vita potevano offrirle. La grazia di quell'oceano limpido fu ben presto eclissata dallo splendore di un ricordo più recente, ancorché più tempestoso. La pace gioiosa della sua infanzia le arrecava minor dolcezza di uno solo dei turbamenti disseminati lungo gli ultimi due anni della sua vita, anni ricchi di tesori per sempre sepolti nel cuore. La contessa arrivò ad un tratto all'incantevole mattinata in cui, esattamente in fondo al grande parlatorio di quercia scolpita che serviva da stanza da pranzo, ella vide per la prima volta il suo bel cugino. Spaventata dalle sedizioni di Parigi, la famiglia di sua madre inviava a Rouen, quel giovane cortigiano con la speranza che vi si sarebbe istruito nei doveri della magistratura a fianco del prozio, dal quale un giorno avrebbe ereditato la carica. La contessa sorrise senza volerlo pensando a come si era ritirata vivamente nel riconoscere quel parente atteso che non aveva mai visto. Nonostante la prontezza nell'aprire e chiudere la porta, un'occhiata era bastata a imprimerle la scena nell'anima con una tale forza, che in quel momento le parve di vederlo tale a quale le apparve nel voltarsi. Fino a quel momento aveva ammirato soltanto di sfuggita il gusto e il lusso profusi sugli abiti fatti a Parigi. Oggi, più ardita nel ricordo, il suo sguardo spaziava liberamente dal mantello di velluto viola ricamato d'oro e foderato di raso, ai ferri che ornavano gli stivaletti, dagli spacchi delle fini losanghe del farsetto e della brache, alla ricca gorgiera rovesciata che lasciava scorgere un collo fresco, bianco come la trina. Ella accarezzava con la mano un viso caratterizzato da due baffetti con le punte rivolte verso l'alto, e da un pizzetto simile a una delle code d'ermellino disseminate sul batolo di suo padre. In mezzo al silenzio e alla notte, con gli occhi fissi sui tendaggi di moire ch'ella non vedeva più, dimenticando il temporale e il marito, la contessa osò ricordare come, dopo innumerevoli giorni che le sembrarono lunghi alla stregua di anni tanto furono pieni, il giardino circondato da vecchi muri neri e il nero palazzo di suo padre le sembrassero dorati e luminosi. Amava, era amata! Come, temendo gli sguardi severi della madre, si era insinuata una mattina nello studio del padre per fargli le sue giovani confidenze, dopo essersi seduta sulle sue ginocchia ed essersi permessa delle monellerie che avevano richiamato il sorriso sulle labbra dell'eloquente magistrato, sorriso ch'ella attendeva per dirgli: «Mi rimproverate, se vi dico qualcosa?» Credeva ancora di sentire suo padre dirle, dopo un interrogatorio in cui per la prima volta ella parlava del suo amore: «Ebbene, bambina mia, staremo a vedere. Se studia bene, se vuole succedermi, se continua a piacerti, farò parte della tua cospirazione!» Non aveva ascoltato più niente, aveva baciato il padre e rovesciato le scartoffie per correre verso il grande tiglio dove tutte le mattine, prima che si alzasse la sua temibile madre, incontrava il gentile Georges de Chavemy! Il cortigiano prometteva di divorare leggi e costumi, lasciava il ricco abbigliamento della nobiltà di spada per indossare il severo costume dei magistrati. «Ti preferisco molto di più vestito di nero,» gli diceva lei. Ella mentiva, ma quella menzogna aveva reso il suo diletto meno triste d'aver gettato la daga alle ortiche.
Il ricordo delle astuzie impiegate per ingannare la madre la cui severità sembrava grande, le restituirono le gioie feconde di un amore innocente, permesso e condiviso. Erano gli appuntamenti sotto i tigli, con la parola più libera senza testimoni, le strette furtive e i baci carpiti, tutti gli ingenui acconti, insomma, della passione che non supera i confini della modestia. Rivivendo come in un sogno le deliziose giornate in cui si accusava di aver ricevuto troppa felicità, osò baciare nel vuoto quel giovane viso dagli occhi ardenti, e quella bocca vermiglia che così bene le parlò d'amore. Aveva amato Chaverny, povero in apparenza; ma quanti tesori aveva scoperto in quell'anima dolce e forte in egual misura! All'improvviso muore il Presidente, Chaverny non gli succede, sopravviene e divampa la guerra civile. Grazie ai buoni uffici del loro cugino, ella e la madre trovano un asilo segreto in una piccola città della Bassa Normandia. Ben presto le morti successive di alcuni parenti ne fanno una delle più ricche ereditiere di Francia. Insieme scompaiono la mediocrità della fortuna e la felicità. La feroce e terribile immagine del conte d'Hérouville che chiede la sua mano, le appare come un nembo carico di saette che stende il suo velo nero sulle ricchezze della terra fino a quel momento dorata dal sole. La povera contessa si sforza di cacciare il ricordo delle scene di disperazione e di lacrime provocate dalla sua lunga resistenza. Vede confusamente l'incendio della piccola città, poi Chaverny l'ugonotto messo in prigione, minacciato di morte, e in attesa di un orribile supplizio. Giunge quella sera spaventosa in cui la madre pallida e morente si prosterna ai suoi piedi: Jeanne può salvare il cugino. Cede. È notte. Il conte, tornato sanguinante dalla battaglia, è pronto; fa apparire un prete, delle torce, una chiesa! Jeanne appartiene all'infelicità. Appena può dire addio al suo bel cugino liberato. «Chaverny, se mi ami, non rivedermi mai!» Sente il rumore lontano dei passi del suo nobile amico che non ha più rivisto; ma conserva in fondo al cuore l'ultimo sguardo che ritrova così di frequente nei suoi sogni e glieli illumina. Come un gatto rinchiuso nella gabbia di un leone, la giovane donna teme ad ogni istante gli artigli del padrone sempre alzati su di lei. La contessa si fa una colpa di indossare, in certi giorni consacrati da un qualche piacere inatteso, l'abito che portava la fanciulla nel momento in cui vide il suo amante. Oggi, per essere felice, deve dimenticare il passato, non pensare più all'avvenire.
«Io non mi credo colpevole,» si disse, «ma se lo sembro agli occhi del conte, non è come se lo fossi? Forse lo sono! La Santa Vergine non ha concepito senza...» Non andò oltre.
In quel momento in cui i suoi pensieri erano nebulosi, in cui la sua anima spaziava nel mondo delle fantasie, la sua ingenuità le fece attribuire all'ultimo sguardo col quale il suo amante le dardeggiò tutta la sua vita il potere che esercitò l'Annunciazione sulla madre del Salvatore. La supposizione, degna di quel tempo d'innocenza al quale l'aveva ricondotta la sua fantasticheria, si dissolvette davanti al ricordo di una scena coniugale più odiosa della morte. La povera contessa non poteva conservare dubbi sulla legittimità del bambino che le si agitava in seno. La prima notte di nozze le apparve in tutto l'orrore dei suoi supplizi, con lo strascico di ben altre notti, e di più tristi giorni!
«Ah, povero Chaverny!» esclamò piangendo, «tu, così sottomesso, così cortese, tu sei sempre stato così buono con me!»
Volse gli occhi verso il marito per persuadersi che quel viso le prometteva una clemenza comprata a così caro prezzo. Il conte era sveglio. I suoi occhi gialli, chiari come quelli di una tigre, brillavano sotto i cespugli delle sopracciglia, e mai il suo sguardo era stato più incisivo che in quel momento. La contessa, spaventata dall'aver incontrato quello sguardo, s'infilò sotto la trapunta e rimase immobile.
«Perché piangete?» chiese il conte tirando vivamente il lenzuolo sotto il quale la moglie si era nascosta.
Quella voce, sempre terrificante per lei, ebbe in quel momento una dolcezza fittizia che le sembrò di buon auspicio.
«Soffro molto,» rispose.
«Ebbene, bella mia, è forse un delitto soffrire? Perché tremare quando vi guardo? Ahimé! Che cosa bisogna dunque fare per essere amati?» Tutte le rughe della fronte gli si concentrarono in mezzo alle sopracciglia. «Vi faccio sempre spavento, lo vedo bene,» soggiunse sospirando.
Consigliata dall'istinto dei caratteri deboli, la contessa interruppe il conte con qualche gemito: «Temo che sia un aborto. Ho corso per tutta la giornata sugli scogli, probabilmente mi sarò stancata troppo.»
Nel sentire tali parole, il sire d'Hérouville lanciò sulla moglie uno sguardo così sospettoso ch'ella arrossì rabbrividendo. Egli scambiò la paura che ispirava all'ingenua creatura per l'espressione di un rimorso.
«È forse un vero parto che comincia?» chiese.
«Ebbene?» disse lei.
«Ebbene! in ogni caso qui occorre un uomo abile, e io vado a cercarlo.»
L'aria cupa che accompagnava tale parole agghiacciò la contessa. Ella ricadde sul letto con un sospiro strappato più dal sentimento del proprio destino che dalle angosce della crisi vicina.
Quel gemito finì col provare al conte la verosimiglianza dei sospetti che si risvegliavano nella sua mente. Ostentando una calma smentita dagli accenti della voce, dai gesti e dagli sguardi, egli si alzò precipitosamente, si avvolse in un abito che trovò su una poltrona, e cominciò col chiudere una porta accanto al caminetto che metteva in comunicazione la camera di parata con gli appartamenti di rappresentanza, i quali si aprivano sulla scala d'onore. Vedendo che il marito teneva la chiave, la contessa ebbe il presentimento di una sventura; lo sentì aprire la porta opposta a quella che aveva appena chiuso e recarsi in un'altra stanza dove dormivano i conti d'Hérouville allorché non onoravano le loro spose della loro nobile compagnia. La contessa non conosceva che per sentito dire quella camera, visto che la gelosia non staccava il marito dal suo fianco. Se qualche spedizione militare l'obbligava ad abbandonare il letto d'onore, il conte lasciava al castello alcuni cerberi il cui incessante spionaggio rivelava l'oltraggiosa diffidenza. Nonostante l'attenzione con la quale la contessa si sforzava di cogliere il minimo rumore, ella non intese più niente. Il conte era arrivato in una lunga galleria attigua alla camera e che occupava l'ala occidentale del castello. Il cardinale d'Hérouville, suo prozio, amatore appassionato di opere di stampa, vi aveva raccolto una biblioteca singolare per il numero come per la bellezza dei volumi, e la prudenza gli aveva fatto praticare nei muri una di quelle invenzioni consigliate dalla solitudine o dalla paura monastica. Una catena d'argento metteva in moto, per mezzo di fili invisibili, un campanello situato al capezzale di un servitore fedele. In conte tirò la catena e uno scudiero di guardia non tardò a far rimbombare del rumore dei suoi stivali e dei suoi speroni l'impiantito sonoro di una scala a chiocciola. Questa era situata nell'alta torretta che fiancheggiava l'angolo occidentale del castello prospiciente il mare. Sentendo salire il servitore, il conte andò a dirugginare le molle di ferro e i catenacci che difendevano la porta segreta attraverso la quale la galleria comunicava con la torre, e introdusse in quel santuario della scienza un uomo d'armi la cui possanza manifestava un servitore degno del padrone. Lo scudiero, appena svegliato, sembrava aver camminato per istinto; la lanterna di corno che teneva in mano illuminava così fiocamente la lunga galleria, che lui e il suo padrone si profilarono nell'oscurità come due fantasmi.
«Sella immediatamente il mio cavallo di battaglia. Tu mi accompagnerai.» L'ordine fu pronunciato con un suono di voce profondo che risvegliò l'intelligenza del servitore; alzò gli occhi sul padrone, e incontrò uno sguardo così penetrante che ne ricevette come una scossa elettrica: «Bertrand,» aggiunse il conte posando la mano destra sul braccio dello scudiero, «ti toglierai la corazza e indosserai gli abiti di un capitano dei micheletti.»
«Vivaddio, monsignore, travestirmi da fautore della Lega. Scusatemi, vi ubbidirò, ma preferirei essere impiccato.»
Lusingato nel suo fanatismo, il conte sorrise; ma per cancellare il riso che contrastava con l'espressione diffusa sul viso, rispose bruscamente: «Scegli nella scuderia un cavallo abbastanza vigoroso perché tu possa seguirmi. Voleremo come palle all'uscire dall'archibugio. Quando io sarò pronto, siilo anche tu. Suonerò di nuovo.»
Bertrand s'inchinò in silenzio e se ne andò, ma quando ebbe sceso qualche gradino, disse a se stesso, sentendo ululare l'uragano: «Tutti i demoni sono fuori, giurabbacco! sarei stato davvero stupito nel vedere questo qui starsene tranquillo. Abbiamo colto di sorpresa Saint-Lô con una tempesta simile.»
Il conte trovò in camera il costume che gli serviva spesso per i suoi stratagemmi. Dopo aver rivestito la logora casacca, che aveva l'aria di appartenere a uno di quegli sciagurati soldati il cui soldo era così raramente pagato da Enrico IV, tornò nella camera dove gemeva la moglie.
«Cercate di soffrire pazientemente,» le disse. «Se occorre, farò tirare le cuoia al mio cavallo onde tornare più rapidamente per placare i vostri dolori.»
Tali parole non annunciavano niente di funesto, e la contessa incoraggiata si accingeva a porre una domanda, allorché improvvisamente il conte le chiese: «Non potreste dirmi dove sono le vostre maschere?»
«Le mie maschere,» rispose. «Mio Dio! Che cosa volete farne?»
«Dove sono le vostre maschere?» ripeté egli con la violenza abituale.
«Nella cassapanca,» ella disse.
La contessa non poté fare a meno di fremere vedendo che il marito sceglieva tra le maschere un touret de nez, di cui le donne dell'epoca si servivano con la stessa naturalezza con la quale le dame di oggi si servono dei guanti. Il conte divenne del tutto irriconoscibile allorché si fu messo in testa un cappellaccio di feltro grigio, adorno di una vecchia piuma di gallo tutta rotta. Si strinse intorno ai fianchi un largo cinturone di cuoio nella cui guaina infilò una daga che di solito non portava. Quegli abiti miserabili gli dettero un aspetto così spaventoso, ed egli si avvicinò al letto con un movimento così strano che la contessa credette fosse giunta la sua ultima ora.
«Ah, non ci uccidete,» ella esclamò, «lasciatemi il mio bambino, e io vi vorrò bene.»
«Vi sentite dunque molto colpevole per offrirmi, come riscatto della vostra colpa, l'amore che mi dovete?»
La voce del conte ebbe un suono lugubre sotto il velluto: le sue amare parole furono accompagnate da uno sguardo pesante come il piombo che annientò la contessa.
«Mio Dio,» ella esclamò dolorosamente, «l'innocenza sarebbe dunque funesta?»
«Non si tratta della vostra morte,» le rispose il suo signore emergendo dalla fantasticheria alla quale si era abbandonato, «ma di fare esattamente, e per amor mio, ciò che in questo momento esigo da voi.» Gettò sul letto una delle due maschere che teneva in mano, e sorrise di pietà nel vedere il gesto di terrore involontario che strappava alla moglie l'urto così lieve del velluto nero.
«Voi non saprete farmi che un figlio gracile!» esclamò, e aggiunse: «Abbiate questa maschera sul viso quando sarò di ritorno. Non voglio che un pezzente possa vantarsi di aver visto la contessa d'Hérouville.»
«Perché prendere un uomo per tale compito?» chiese ella con voce sommessa.
«Oh, oh, amica mia! non sono io il padrone qui?» rispose il conte.
«Che importa un mistero di più!» disse la contessa disperata.
Il suo signore era scomparso, e tale esclamazione fu senza pericolo per lei, giacché spesso le angherie dell'oppresso re vanno tanto lontano quanto il timore dell'oppresso. In uno dei brevi istanti di quiete tra le collere della tempesta, la contessa sentì il passo di due cavalli che sembrava volassero attraverso le pericolose dune e la scogliera sulla quale si ergeva il vecchio castello. Il rumore fu rapidamente soffocato dalla voce dei flutti. Ben presto ella si ritrovò prigioniera in quel cupo appartamento, sola nel cuore di una notte ora silente, ora minacciosa, e senz'aiuto per scongiurare una sventura che vedeva avvicinarsi a grandi passi. La contessa cercò qualche stratagemma per salvare quel bambino concepito tra le lacrime e già diventato tutta la sua consolazione, il principio delle sue idee, l'avvenire dei suoi affetti, la sua unica e fragile speranza. Sostenuta da un materno coraggio, andò a prendere il piccolo corno di cui si serviva il marito per far accorrere i servi, aprì una finestra, e trasse dall'ottone flebili accenti che si persero sulla vasta distesa delle acque come una bolla lanciata in aria da una fanciulla. Capì l'inutilità di quel lamento ignorato dagli uomini e si mise a camminare attraverso gli appartamenti, sperando che non tutte le uscite fossero chiuse. Giunta alla biblioteca cercò, ma invano, se non esistesse qualche passaggio segreto, attraversò la lunga galleria dei libri, raggiunse la finestra più vicina al cortile d'onore del castello; soffiando nel corno fece di nuovo risuonare gli echi, e lottò invano contro la voce dell'uragano. Nel suo scoraggiamento, pensava di confidarsi con una delle sue donne, tutte creature del marito, allorché passando dall'oratorio vide che il conte aveva chiuso la porta che conduceva ai loro appartamenti. Fu un'orribile scoperta. Tante precauzioni prese per isolarla preannunciavano il desiderio di procedere senza testimoni a una qualche terribile esecuzione. Via via che la contessa perdeva ogni speranza, i dolori venivano ad assalirla più vivi, più brucianti. Il presentimento di un delitto possibile, unito alla fatica dei suoi sforzi, le tolse le poche forze che le restavano. Assomigliava al naufrago che soccombe, travolto da un'ultima ondata meno violenta di tutte quelle che ha già vinto. La dolorosa ebbrezza del parto non le permise più di contare le ore. Nel momento in cui si credette sul punto di partorire, sola, senza aiuto, e in cui ai suoi terrori si aggiunse il timore degli incidenti ai quali la sua inesperienza la esponeva, il conte arrivò all'improvviso senza che lei lo avesse sentito giungere. L'uomo si trovò lì come un demone che reclamava, allo spirare di un patto, l'anima che le era stata venduta, imprecò sordamente nel vedere il volto della moglie scoperto, ma dopo averlo alquanto abilmente mascherato, la prese tra le braccia e la depose sul letto della camera.
Lo spavento che quell'apparizione e quel trasporto ispirarono alla contessa fecero tacere per un momento i suoi dolori, ed ella poté lanciare uno sguardo furtivo sugli attori della misteriosa scena, ma senza riconoscere Bertrand che si era mascherato con la stessa cura del suo padrone. Dopo aver acceso in fretta qualche candela il cui chiarore si confondeva con i primi raggi del sole che arrossava le vetrate, il servitore andò ad appoggiarsi al vano di una finestra. Qui, con il viso voltato verso il muro, sembrava misurarne lo spessore, e manteneva un'immobilità così assoluta che si sarebbe detto la statua di un cavaliere. In mezzo alla camera, la contessa scorse un ometto grasso, tutto sbigottito, con gli occhi bendati e i tratti così sconvolti dal terrore, che le fu impossibile indovinare la loro espressione consueta.
«Perdiana, signor briccone!» disse il conte rendendogli la vista con un movimento brusco che fece cadere sul collo dello sconosciuto la benda che gli copriva gli occhi, «non ti venga in mente di guardare altro che quella miserabile cosa sulla quale eserciterai la tua scienza; altrimenti ti butto nel fiume che scorre sotto queste finestre dopo averti messo una collana di diamanti che pesi più di cento libbre!» E tirò leggermente sul petto del suo uditore stupefatto la cravatta che aveva sentito da benda. «Guarda in primo luogo se non è un aborto; in tal caso la tua vita mi risponderebbe della sua; ma se il bambino è vivo, tu me lo porterai.»
Dopo tale allocuzione, il conte afferrò alla vita il povero operatore, lo sollevò come una piuma dal posto in cui era, e lo depose davanti alla contessa. Il signore andò a piazzarsi in fondo al vano della finestra, dove tamburellò con le dita sul vetro, volgendo lo sguardo ora sul servitore, ora sul letto e sull'Oceano, come se avesse voluto promettere il mare per culla al bambino atteso.
L'uomo, che con una violenza inaudita il conte e Bertrand avevano appena strappato al più dolce sonno che avesse mai chiuso palpebra umana per attaccarlo alla groppa di un cavallo che gli fu lecito credere inseguito dall'inferno, era un personaggio la cui fisionomia può servire a caratterizzare quella dell'epoca, e la cui influenza si fece d'altra parte sentire sulla casa d'Hérouville.
Mai in nessun tempo i nobili furono meno istruiti in scienze naturali, e mai l'astrologia giudiziaria fu più in onore, giacché mai si desiderò più vivamente conoscere l'avvenire. Questa ignoranza e questa curiosità generale avevano indotto la più grande confusione nella conoscenza umana; tutto era in essa pratica personale, poiché la nomenclatura della teoria mancava ancora; la stampa esigeva grandi spese, le comunicazioni scientifiche erano poco rapide, la Chiesa perseguitava ancora le scienze sperimentali che si basavano sull'analisi dei fenomeni naturali. La persecuzione generava il mistero. Per il popolo come per i grandi, fisico e alchimista, matematico e astronomo, astrologo e negromante, erano perciò sei attributi che si confondevano nella persona del medico. In quel tempo si sospettava che il medico superiore praticasse la magia; mentre guariva i malati, doveva trarre gli oroscopi. D'altra parte i principi proteggevano quei geni ai quali si rivelava l'avvenire, li ospitavano e li mantenevano. Il famoso Cornelio Agrippa, venuto in Francia come medico di Enrico II, non volle pronosticare il futuro come faceva Nostradamus, e fu congedato da Caterina dei Medici che lo sostituì con Cosimo Ruggieri. Gli uomini superiori al loro tempo e che praticavano le scienze, erano dunque difficilmente apprezzati; tutti ispiravano quel terrore che si nutriva per le scienze occulte e i loro risultati.
Senza essere proprio uno di questi famosi matematici, l'uomo sequestrato dal conte godeva in Normandia della reputazione equivoca legata a un medico dedito a opere tenebrose. Il nostro uomo era quella specie di stregone che i contadini chiamano ancora, in diversi posti della Francia, un rebouteur. Il nome apparteneva ad alcuni geni bruti che, senza studio apparente, ma per conoscenze ereditarie e spesso per effetto di una lunga pratica, le cui osservazioni si accumulavano in una famiglia, reboutaient, cioè rimettevano insieme gambe e braccia rotte, guarivano bestie e gente da talune malattie, e possedevano segreti che si dicevano meravigliosi per il trattamento dei casi gravi. Non soltanto l'avo e il padre di mastro Antoine Beauvouloir, tale era il nome del rebouteur, erano due celebri praticoni dai quali aveva ereditato importanti tradizioni, ma per di più egli sapeva di medicina e si occupava di scienze naturali. La gente della campagna vedeva il suo gabinetto pieno di libri e di cose strane che davano ai suoi successi un sapore di magia. Senza passare esattamente per un mago, Antoine Beauvouloir ispirava alla gente del popolo, nel raggio di trenta leghe, un rispetto che assomigliava al terrore, e, cosa per lui più pericolosa, aveva a sua disposizione segreti di vita e di morte che riguardavano le famiglie nobili del paese. Come il nonno e il padre, era celebre per la sua abilità nei parti, e in ogni genere di aborti. Ora, in quei tempi di disordini, le colpe furono abbastanza frequenti e le passioni abbastanza disordinate, perché l'alta nobiltà si vedesse spesso costretta a iniziare mastro Antoine Beauvouloir a segreti vergognosi o terribili. Necessaria alla sua sicurezza, la sua discrezione era a tutta prova; perciò la sua clientela lo pagava profumatamente, di modo che il suo patrimonio ereditario si accresceva notevolmente. Sempre sulle strade, ora sorpreso come lo aveva sorpreso il conte, ora costretto a trascorrere diversi giorni presso qualche grande dama, non si era ancora sposato; d'altro canto la sua fama aveva impedito a diverse fanciulle di sposarlo. Incapace di cercarsi consolazione nelle occasioni che gli si presentavano con il suo mestiere, il quale gli conferiva grande potere sulle debolezze femminili, il povero rebouteur si sentiva fatto per le gioie della famiglia, e non poteva offrirsele. Il brav'uomo nascondeva un eccellente cuore sotto le apparenze ingannevoli di un carattere gaio, in armonia con la sua faccia paffuta, le forme rotonde, la vivacità del suo piccolo corpo grasso e la franchezza del suo parlare. Desiderava dunque maritarsi per avere una figlia che portasse in dote i suoi beni a un qualche povero gentiluomo; giacché non amava il suo stato di rebouteur e voleva far uscire la sua famiglia dalla situazione cui la condannavano i pregiudizi del tempo. Il suo carattere d'altronde si era adattato abbastanza bene alla gioia e ai pasti che coronavano le sue principali operazioni. L'abitudine di essere dovunque l'uomo più importante avevano aggiunto alla sua gaiezza costituzionale una certa dose di grave vanità. Le sue impertinenze erano quasi sempre bene accettate nei momenti di crisi in cui si compiaceva nell'operare con una certa magistrale lentezza. Inoltre era curioso come un usignolo, goloso come un levriero e chiacchierone come lo sono i diplomatici che parlano senza tradire niente dei loro segreti. A parte questi difetti, sviluppati in lui dalle molteplici avventure cui lo destinava la sua professione, Antoine Beauvouloir aveva fama di essere l'uomo meno malvagio della Normandia. Benché appartenesse al ristretto numero di spiriti superiori al loro tempo, il buon senso del campagnolo normanno gli aveva consigliato di tener nascoste le idee che aveva acquisito e le verità che scopriva.
Trovandosi piazzato dal conte davanti a una donna prossima al parto, il rebouteur recuperò tutta la sua presenza di spirito. Si mise a tastare il polso della dama mascherata senza pensare affatto a lei; ma intanto, grazie a quel comporta mento dottorale, poteva riflettere, e rifletteva sulla propria situazione. In nessuno degli intrighi vergognosi e criminali in cui la forza lo aveva costretto ad agire come strumento cieco, mai le precauzioni erano state osservate con altrettanta cautela che nel caso presente. Benché la sua morte fosse stata spesso oggetto di deliberazione, come mezzo per assi curare il successo delle imprese alle quali partecipava suo malgrado, mai la sua vita era stata compromessa come in quel momento. Innanzi tutto decise di riconoscere coloro che richiedevano i suoi servigi, e di informarsi così sull'ampiezza del pericolo che correva, allo scopo di poter salvare la sua cara persona.
«Di che cosa si tratta?» chiese a bassa voce il rebouteur disponendo la contessa a ricevere i soccorsi della sua esperienza.
«Non dategli il bambino.»
«Parlate forte,» disse il conte con voce tonante che impedì a mastro Beauvouloir di sentire l'ultima parola pronunciata dalla vittima. «Altrimenti,» aggiunse il signore che contraffaceva accuratamente la propria voce, «dì il tuo ‹in manus›.»
«Lamentatevi ad alta voce,» disse il rebouteur alla dama. «Gridate, perbacco! quest'uomo ha una collana di diamanti che non vi starebbero meglio che a me! Coraggio, mia piccola signora!»
«Abbi la mano leggera,» gridò nuovamente il conte.
«Il signore è geloso,» rispose l'operatore con una vocetta agra che fortunatamente fu coperta dalle grida della contessa.
Per la sicurezza di mastro Beauvouloir la natura si mostrò clemente. Fu un aborto più che un parto, tanto era gracile il bambino che venne alla luce; di conseguenza causò pochi dolori alla madre.
«Per il ventre della Santa Vergine,» esclamò il curioso rebouteur, «questo non è un parto prematuro!»
Il conte fece tremare il pavimento battendo i piedi di rabbia, e la contessa pizzicò mastro Beauvouloir.
«Ah, ora ci sono!» disse questi a se stesso. «Doveva forse essere un aborto?» chiese con voce sommessa alla contessa che rispose con un gesto affermativo, come se quel gesto fosse stato il solo linguaggio in grado di esprimere i suoi pensieri. «Tutto ciò non è ancora molto chiaro,» pensò il rebouteur.
Come tutti coloro che sono esperti nella propria arte, il nostro ostetrico riconosceva facilmente una donna che fosse, diceva lui, alla sua prima disgrazia. Benché la pudica inesperienza di certi gesti gli rivelasse la verginità della contessa, lo sventurato rebouteur esclamò: «La signora partorisce come se non avesse mai fatto altro!»
Il conte disse allora con una calma più spaventosa della collera: «A me il bambino.»
«Non dateglielo, in nome di Dio!» fece la madre il cui grido quasi selvaggio risvegliò nel cuore dell'ometto una coraggiosa bontà, che lo legò, molto più di quanto lui stesso non credesse, a quel nobile bambino ripudiato dal padre.
«Il bambino non è ancora venuto. Pretendete cose che non vi spettano,» rispose freddamente al conte nascondendo l'aborto.
Stupito di non sentir gridare, il rebouteur guardò il bambino credendolo già morto; il conte si accorse allora dell'inganno e saltò su di lui con un sol balzo.
«Per testa di Dio piena di reliquie! me lo vuoi dare?» esclamò il signore strappandogli l'innocente vittima che emise flebili grida.
«State attento, è deforme e quasi senza consistenza,» disse mastro Beauvouloir aggrappandosi al braccio del conte. «È certamente un bambino di sette mesi!» Poi, con una forza superiore che gli veniva da una sorta di esaltazione, trattenne le dita del padre dicendogli all'orecchio con voce rotta: «Risparmiatevi un delitto, tanto non vivrà.»
«Scellerato!» replicò vivamente il conte alle cui mani il rebouteur aveva strappato il bambino, «chi ti dice ch'io voglia la morte di mio figlio? Non vedi che lo accarezzo?»
«Aspettate allora che abbia diciotto anni per accarezzarlo in questo modo,» rispose Beauvouloir ritrovando la propria importanza. «Ma,» soggiunse poi pensando alla propria sicurezza, giacché aveva riconosciuto il signore d'Hérouville che nell'impeto dell'ira aveva dimenticato di contraffare la voce, «battezzatelo senza indugio e non parlate della mia sentenza alla madre; altrimenti la uccidereste.»
La gioia segreta tradita dal conte con il gesto che gli era sfuggito quando gli era stata profetizzata la morte dell'aborto, aveva suggerito una simile frase al rebouteur, ed egli aveva così salvato il bambino. Beauvouloir si affrettò a riportarlo alla madre che a quel punto era svenuta, e l'additò con un gesto ironico, perché lo stato in cui l'aveva messa la loro discussione spaventasse il conte. La contessa aveva sentito tutto; infatti non è raro constatare che nelle grandi crisi della vita gli organi umani acquistano una finezza inaudita; ciò nonostante le grida del bambino deposto sul letto la restituirono come per magia alla vita; ella credette di sentire la voce di due angeli allorché, profittando dei vagiti, il rebouteur le disse piano, chinandosi verso il suo orecchio: «Abbiatene cura, vivrà cent'anni. Beauvouloir se ne intende.»
Un sospiro celeste, una misteriosa stretta di mano furono la ricompensa del rebouteur che prima di consegnare agli abbracci della madre impaziente la fragile creatura la cui pelle portava ancora l'impronta delle dita del conte, voleva assicurarsi che la carezza paterna non avesse recato danni alla sua fragile costituzione. L'impeto folle col quale la madre nascose il figlio presso di sé e lo sguardo minaccioso che lanciò al conte attraverso i due buchi della maschera fecero rabbrividire Beauvouloir.
«Morirebbe, se perdesse troppo repentinamente il figlio,» disse al conte.
Durante quest'ultima parte della scena, il sire d'Hérouville sembrava che non avesse visto, né sentito niente. Immobile e come assorto in una profonda meditazione, aveva ricominciato a tamburellare con le dita sui vetri, ma dopo l'ultima frase del rebouteur, si voltò verso di lui con un movimento di una violenza frenetica, e sfoderò la daga.
«Miserabile manente!» esclamò, dandogli il soprannome con il quale i Realisti oltraggiavano i fautori della Lega. «Imprudente briccone! La scienza, che ti procura l'onore di essere il complice di gentiluomini desiderosi di aprire o chiudere successioni, mi trattiene a malapena dal privare per sempre la Normandia dal suo stregone.» Con gran contentezza di Beauvouloir il conte ricacciò violentemente la daga nel fodero. «Tu,» riprese il sire d'Hérouville, «non sapresti trovarti per una sola volta in vita tua nell'onorevole compagnia di un signore e della sua dama, senza sospettarli di quei perfidi calcoli che lasci fare alla canaglia, senza pensare che essa non vi è autorizzata, come i gentiluomini, da motivi plausibili? Posso, in questa circostanza, avere ragioni di stato per agire come tu supponi? Uccidere mio figlio! Strapparlo alla madre! Dove sei andato a scovare queste fole? Sono forse pazzo? Perché ci spaventi quanto ai giorni di questo vigoroso bambino? Cerca dunque di capire, gaglioffo, che ho diffidato della tua povera vanità. Se tu avessi saputo il nome della donna che hai fatto partorire, ti saresti vantato di averla vista! Per la pasqua di Dio! Per troppe precauzioni avresti forse ucciso la madre o il bambino. Ma pensaci bene! La tua miserabile vita mi risponde della tua discrezione come della loro salute!»
Il rebouteur fu stupefatto dal cambiamento repentino che si operava nelle intenzioni del conte. L'eccesso di tenerezza per quell'aborto di figlio lo spaventava ancor più dell'impaziente crudeltà e della tetra indifferenza che il signore aveva manifestato in precedenza. L'accento del conte nel pronunciare l'ultima frase palesava un espediente più scaltro per giungere al compimento di un disegno immutabile. Mastro Beauvouloir si spiegò quella conclusione imprevista con la duplice promessa che egli aveva fatto alla madre e al padre. «Ci sono!» si disse. «Questo buon signore non vuole rendersi odioso alla moglie, e si rimetterà all'ausilio delle droghe. Occorre dunque che io cerchi di avvertire la dama perché vegli sul suo nobile marmocchio.»
Nel momento in cui si dirigeva verso il letto, il conte, che si era avvicinato ad un armadio, lo fermò con un'interiezione imperativa. Al gesto che fece il signore per tendergli una borsa, Beauvouloir si accinse ad intascare, non senza una gioia inquieta, l'oro che brillava attraverso una rete di seta rossa, e che gli venne sdegnosamente gettato.
«Se mi hai fatto ragionare come un villano, non mi ritengo dispensato dal pagarti come un signore. Non ti domando la discrezione! L'uomo qui presente,» disse il conte indicando Bertrand, «ti ha certamente spiegato che ovunque ci si imbatta in querce e fiumi, i miei diamanti e le mie collane sanno trovare i manenti che parlano di me.»
Terminando tali parole di clemenza, il gigante avanzò lentamente verso il rebouteur interdetto, gli avvicinò rumorosamente un sedile, e parve invitarlo a sedersi come lui, accanto alla puerpera. «Ebbene, bella mia! abbiamo finalmente un figlio,» egli riprese. «È una grande gioia per noi. Soffrite molto?»
«No,» mormorò la contessa.
Lo stupore della madre e il suo imbarazzo, le tardive dimostrazioni della gioia fittizia del padre convinsero mastro Beauvouloir che un incidente grave sfuggiva alla sua penetrazione consueta; persisté dunque nei suoi sospetti e posò la mano su quella della giovane donna, non tanto per assicurarsi del suo stato, quanto per rimetterla in guardia.
«La pelle è buona,» disse. «Non vi è da temere per la signora nessun incidente deplorevole. La febbre da latte verrà certamente; non vi spaventate, non sarà nulla di grave.»
A questo punto lo scaltro rebouteur si fermò, strinse la mano della contessa per destare la sua attenzione.
«Se non volete avere inquietudini circa il vostro bambino, signora,» riprese, «non dovete abbandonarlo. Lasciatelo bere a lungo il latte che le sue labbruzze già cercano; nutritelo voi stessa e guardatevi dalle droghe dello speziale. Il seno è il rimedio a tutte le malattie dei bambini. Ho osservato molti parti settimini, ma raramente ne ho visto uno così poco doloroso come il vostro. Non vi è da stupirsi, il bambino è tanto magro! Starebbe in uno zoccolo! Sono sicuro che non pesa quindici once. Latte! Latte! Se rimane sempre al vostro seno, lo salverete.»
Queste ultime parole furono accompagnate da una nuova pressione delle dita. Nonostante le fiamme che gli occhi del conte dardeggiavano attraverso i fori della maschera, Beauvouloir snocciolò la sue frasi con le serietà imperturbabile di un uomo che vuole guadagnarsi il proprio denaro.
«Oh, oh! rebouteur, dimentichi il tuo vecchio feltro nero» gli disse Bertrand nel momento in cui l'operatore usciva con lui dalla stanza.
I motivi della clemenza del conte verso il figlio derivavano da un et coetera notarile. Nel momento in cui Beauvouloir gli aveva fermato le mani, l'avarizia e le usanze di Normandia si erano erette davanti a lui. Con un cenno, quelle due potenze gli intorpidirono le dita e imposero silenzio alle sue passioni astiose. Una gli gridò: «I beni di tua moglie possono appartenere al casato d'Hérouville soltanto se un figlio maschio ve li fa entrare!» L'altra gli fece vedere la contessa morente e i beni reclamati dal ramo collaterale dei Saint-Savin. Entrambe gli consigliarono di lasciare alla natura la briga di uccidere l'aborto e di aspettare la nascita di un secondo figlio che fosse sano e vigoroso per potersela ridere della vita della moglie e del primogenito. Non vide più un bambino, vide dei possedimenti, e la sua tenerezza si fece all'improvviso forte come la sua ambizione. Nel suo desiderio di soddisfare le usanze, si augurò che quel figlio nato morto avesse le apparenze di una robusta costituzione. La madre, che ben conosceva il carattere del conte, fu ancor più sorpresa di quanto non lo fosse il rebouteur, e conservò certi timori istintivi che talora manifestava arditamente, giacché in un istante il coraggio della madre aveva raddoppiato la sua forza.
Per alcuni giorni, il conte rimase accanto alla moglie con grande assiduità, e le prodigò cure alle quali l'interesse con feriva una sorta di tenerezza. La contessa indovinò subito che lei sola era l'oggetto di tutte quelle attenzioni. L'odio del padre per il figlio si manifestava nei minimi particolari: si asteneva sempre dal vederlo o dal toccarlo; si alzava bruscamente e andava a dare ordini nel momento in cui i suoi pianti si facevano sentire; infine sembrava che non gli perdonasse di vivere se non nella speranza di vederlo morire. Quella dissimulazione costava già troppo al conte. Il giorno in cui si accorse che l'occhio intelligente della madre presentiva senza capirlo il pericolo che minacciava il figlio, annunciò la sua partenza per il giorno successivo alla messa di purificazione, adducendo il pretesto di portare tutte le sue forze in aiuto del re.
Furono queste le circostanze che accompagnarono e precedettero la nascita di Etienne d'Hérouville. Per desiderare immediatamente la morte di quel figlio sconfessato, il conte non avrebbe avuto il potente motivo di averla già voluta; anche se avesse fatto tacere la triste disposizione dell'uomo a perseguitare l'essere al quale ha già nuociuto, se non si fosse trovato nell'obbligo per lui crudele di fingere amore per un aborto odioso che credeva figlio di Cheverny, il povero Etienne sarebbe stato nondimeno oggetto della sua avversione. La disgrazia di una costituzione rachitica e malaticcia, resa forse più grave dalla sua carezza, era ai suoi occhi un'offesa sempre flagrante per il suo amor proprio di padre. Se esecrava i begli uomini, non per tanto detestava meno i deboli nei quali la forza dell'intelligenza sostituiva quella del corpo. Per piacergli, bisognava essere brutti di faccia, alti, robusti e ignoranti. Etienne, votato in un certo qual modo dalla sua debolezza alle occupazioni sedentarie della scienza, doveva dunque trovare nel padre un nemico privo di generosità. La sua lotta con quel colosso cominciava fin dalla culla; e come unico aiuto contro un così pericoloso antagonista, non aveva che il cuore della madre di cui, per una legge toccante della natura, tutti i pericoli che lo minacciavano contribuivano ad accrescere l'amore.
Sepolta ad un tratto in una profonda solitudine dalla brusca partenza del conte, Jeanne de Saint-Savin dovette al suo bambino le sole parvenze di felicità che potevano consolare la sua vita. Quel figlio, la cui nascita le era rimproverata a causa di Chaverny, la contessa lo amò come le donne amano il figlio di un illecito amore; costretta a nutrirlo, non risentì la minima stanchezza. Non volle essere aiutata in alcun modo dalle sue donne, vestiva e spogliava il suo bambino provando sempre nuovi piaceri ad ogni piccola cura che egli esigeva. Quel lavoro continuo, quell'attenzione di ogni ora, la puntualità con la quale doveva svegliarsi la notte per allattare il bambino, furono gioie sconfinate. La felicità irraggiava sul suo volto allorché ubbidiva ai bisogni di quell'esserino. Poiché Etienne era nato prematuramente e diversi capi d'abbigliamento mancavano, desiderò farli lei stessa, e li fece, con quale perfezione voi lo sapete, voi che nell'ombra e nel silenzio, madri sospettate, avete lavorato per dei figli adorati! Ad ogni gugliata di filo, era un ricordo, un desiderio, dei voti, mille cose che si venivano ricamando sulla stoffa come i bei disegni ch'ella vi fissava. Tutte quelle follie furono riferite al conte d'Hérouville e ingrossarono il temporale che già si era formato. I giorni non avevano ore bastanti per le molteplici occupazioni e le minuziose precauzioni della nutrice; se ne fuggivano via carichi di contentezze segrete.
I consigli del rebouteur erano sempre scritti davanti agli occhi della contessa; perciò ella temeva per il bambino i servigi delle sue donne e la mano della servitù. Avrebbe voluto poter non dormire per essere sicura che nessuno si avvicinasse a Etienne durante il sonno, e lo coricava al suo fianco. Insomma, ella fece sedere la Diffidenza accanto alla culla. Durante l'assenza del conte, osò far venire il chirurgo del quale aveva impresso il nome nella memoria. Per lei, Beauvouloir era un essere verso il quale aveva un immenso debito di riconoscenza da pagare; ma desiderava soprattutto interrogarlo su mille cose riguardanti il figlio. Se avessero dovuto avvelenare Etienne, in che modo avrebbe potuto sventare i tentativi? Come custodire la sua fragile salute? Bisognava allattarlo per molto tempo? Se fosse morta, Beauvouloir si sarebbe incaricato di vegliare sulla salute del povero bambino? Alle domande della contessa, Beauvouloir intenerito rispondeva che egli temeva quanto lei il veleno per Etienne, ma su questo punto la contessa non aveva niente da temere finché lo avesse nutrito con il suo latte; poi, per l'avvenire, le raccomandò di assaggiare sempre il cibo di Etienne.
«Se la signora contessa,» aggiunse il rebouteur, «avverte un non so che di strano sulla lingua, un sapore piccante, amaro, forte, salato, insomma tutto ciò che stupisce il gusto, respinga il cibo. Gli abiti del bambino siano lavati davanti a voi e da voi sia tenuta la chiave della cassapanca in cui verranno conservati. Infine, qualunque cosa accada, la signora contessa mi faccia chiamare, io verrò.»
Gli insegnamenti del rebouteur s'impressero nel cuore di Jeanne, che lo pregò di contare su di lei come su una persona di cui poteva disporre; Beauvouloir le disse allora ch'ella teneva tra le sue mani tutta la sua felicità.
Egli raccontò succintamente alla contessa come il signore d'Hérouville, in mancanza di belle e nobili amiche che volessero di lui a corte, avesse amato in giovinezza una cortigiana soprannominata la Bella Romana, la quale precedentemente apparteneva al cardinale di Lorena. Ben presto abbandonata, la Bella Romana era venuta a Rouen per sollecitare più da vicino il conte a favore di una figlia della quale egli non voleva sentir parlare, adducendo, per non riconoscerla, la sua bellezza. Alla morte della donna, che perì miserabile, la povera bambina, di nome Gertrude, ancor più bella della madre, era stata raccolta dalle Dame del Convento delle Clarisse la cui superiora era mademoiselle de Saint-Savin, zia della contessa. Chiamato per curare Gertrude, egli si era invaghito di lei sino a perdere la testa. Se la signora contessa, disse Beauvouloir, avesse voluto interporre i suoi buoni uffici in questa vicenda, ella si sarebbe sdebitata non soltanto di ciò che credeva di dovergli, ma egli si sarebbe altresì considerato suo debitore. In tal modo la sua venuta al castello, assai pericolosa agli occhi del conte, sarebbe stata giustificata; prima o poi il conte si sarebbe interessato a una così bella fanciulla, e forse un giorno avrebbe potuto proteggerla indirettamente nominandolo suo medico.
La contessa, donna così comprensiva per i veri amori, promise di aiutare quello del povero medico. Si occupò con tale calore della sua storia, che in occasione del secondo parto ottenne, per la grazia che a quell'epoca le donne erano autorizzate a chiedere ai loro mariti quando partorivano, una dote per Gertrude, la bella bastarda, la quale, anziché farsi religiosa, verso quel tempo sposò Beauvouloir. La dote, e le economie del rebouteur, lo misero in grado di comprare Forcalier, una bella proprietà adiacente al castello d'Hérouville, allora messa in vendita dagli eredi.
Rassicurata in tal modo dal buon rebouteur, la contessa sentì la propria vita riempita per sempre da gioie ignote alle altre madri. Certo, tutte le donne sono belle quando attaccano i loro bambini al seno perché vi acquietino le loro grida e l'insorgere dei loro dolori; ma era difficile vedere, anche nei quadri italiani, scena più commovente di quella offerta dalla contessa allorché sentiva Etienne riempirsi del suo latte, e il suo sangue diventare così la vita di quel povero essere minacciato. Con il volto che le scintillava d'amore, ella contemplava il caro esserino temendo sempre di vedergli un tratto di Cheverny al quale aveva troppo pensato. Tali pensieri, che si confondevano sulla sua fronte all'espressione del suo piacere, lo sguardo col quale covava il figlio, il desiderio di comunicargli la forza che si sentiva nel cuore, le brillanti speranze, la gentilezza dei suoi gesti, tutto formava un quadro che soggiogò le donne che la circondavano: la contessa ebbe ragione dello spionaggio.
Ben presto i due deboli esseri si unirono attraverso un solo pensiero, e si capirono prima che il linguaggio potesse sentir loro a intendersi. Nel momento in cui Etienne esercitò i suoi occhi con l'incantata avidità naturale nei bambini, i suoi occhi incontrarono la volta oscura della camera d'onore. Quando il suo giovane orecchio si sforzò di percepire i suoni e di riconoscere le loro differenze, sentì lo sciabordio monotono delle acque del mare che venivano a infrangersi sugli scogli con un movimento regolare come quello di un bilanciere d'orologio. Così i luoghi, i suoni, le cose, tutto ciò insomma che colpisce i sensi, prepara l'intendimento e forma il carattere lo rese incline alla malinconia. Fin dalla nascita, egli poté credere che la contessa fosse la sola creatura esistente sulla terra, vedere il mondo come un deserto, e abituarsi a quel sentimento di ripiegamento su se stessi che ci porta a vivere soli, a cercare in noi stessi la felicità, sviluppando le immense risorse del pensiero. La contessa non era condannata a rimanere sola nella vita, e a ritrovare tutto nel figlio, perseguitato come fu il suo amore? Simile a tutti i bambini in preda alla sofferenza, Etienne manteneva sempre l'atteggiamento passivo che, dolce rassomiglianza, era quello della madre. La delicatezza dei suoi organi fu tanto grande che un rumore troppo improvviso o la compagnia di una persona esuberante gli dava una sorta di febbre. Lo avreste detto uno di quei piccoli insetti per i quali sembra che Dio moderi la violenza del vento e la vampa del sole; come loro incapace di lottare contro il minimo ostacolo, come loro cedeva, senza resistenza né lamento, a tutto ciò che pareva aggressivo. Quella pazienza angelica ispirava alla contessa un sentimento profondo il quale toglieva ogni fatica alle cure minuziose che esigeva una salute così vacillante.
Ella ringraziò Dio che poneva Etienne, come infinite altre creature, in seno alla sfera di pace e di silenzio, la sola in cui potesse elevarsi felicemente. Spesso le mani materne, per lui così dolci e forti insieme, lo trasportavano nell'alta regione delle finestre a ogiva. Di lì i suoi occhi, azzurri come quelli della madre, sembrava che studiassero le magnificenze dell'Oceano. Entrambi restavano allora per ore intere a contemplare l'infinito della vasta distesa, di volta in volta cupa e brillante, muta e sonora. Tali lunghe meditazioni erano per Etienne un segreto noviziato del dolore. Allora quasi sempre gli occhi della madre si bagnavano di lacrime, e durante quelle penose divagazioni dell'anima, i giovani tratti di Etienne assomigliavano a una rete leggera tirata da un peso eccessivo. Ben presto la sua precoce intelligenza dell'infelicità gli rivelò il potere che i suoi giochi esercitavano sulla contessa; cercò di divertirla con le stesse carezze di cui ella si sentiva per lenire le sue sofferenze. Mai accadde che le sue manine scherzose, le sue parolette balbettate, il suo riso intelligente, non dissipassero le fantasticherie della madre. Seppure stanco, la sua delicatezza istintiva gli impediva di lamentarsi.
«Povera carne sensitiva,» esclamò la contessa vedendolo addormentato di stanchezza dopo un folleggiare che aveva fugato uno dei suoi più dolorosi ricordi, «dove potrai vivere? Chi mai ti capirà, te, la cui tenera anima sarà ferita da uno sguardo troppo severo? Te che, simile alla triste tua madre, riterrai un dolce sorriso cosa più preziosa di tutti i beni della terra? Angelo amato da tua madre, chi ti amerà al mondo? Chi indovinerà i tesori nascosti sotto il tuo fragile involucro? Nessuno. Come me, tu sarai solo sulla terra. Dio ti guardi dal concepire, come me, un amore favorito da Dio, ostacolato dagli uomini!»
Ella sospirò, pianse. La graziosa posa del figlio che dormiva sulle sue ginocchia, la fece sorridere con malinconia: lo guardò a lungo assaporando uno di quei piaceri che sono un segreto tra le madri e Dio. Dopo aver constatato come al bambino piacesse la sua voce unita agli accenti del mandolino, gli cantava le romanze così graziose di quell'epoca, e credeva di scorgere, sulle labbruzze impiastricciate del suo latte, il sorriso con il quale Georges de Chaverny la ringraziava in tempo quand'ella smetteva di suonare la ribeca. Si rimproverava quei ritorni al passato, ma sempre vi tornava. Il bambino, complice di tali sogni, sorrideva proprio alle arie che piacevano a Chaverny.
A diciotto mesi, la debolezza di Etienne non aveva ancora permesso alla contessa di portarlo a spasso all'aria aperta, ma i colori leggeri in cui sfumava il bianco opaco della pelle, come se il petalo più pallido di una rosa di macchia vi fosse stato deposto dal vento, già testimoniavano la vita e la salute. Nel momento in cui cominciava a credere alle predizioni del rebouteur, e si rallegrava di aver potuto, in assenza del conte, circondare il figlio delle precauzioni più rigorose allo scopo di preservarlo da ogni pericolo, le lettere scritte dal segretario del marito gliene annunciarono l'imminente ritorno. Una mattina la contessa, tutta presa dalla folle gioia che invade le madri allorché vedono camminare per la prima volta il loro primo bambino, giocava con Etienne a uno di quei giochi indescrivibili come l'incanto dei ricordi; a un tratto sentì scricchiolare l'impiantito sotto un passo pesante. Si era appena alzata con un moto di sorpresa involontaria, che si trovò davanti il conte. Gettò un grido, ma cercò di riparare quel torto involontario andando incontro al conte e tendendogli la fronte con sottomissione per riceverne un bacio.
«Perché non avvertirmi del vostro arrivo?» ella disse.
«L'accoglienza,» rispose il conte interrompendola, «sarebbe stata più cordiale, ma meno franca.»
Scorse il bambino, e lo stato di salute nel quale lo rivedeva gli strappò dapprima un gesto di sorpresa improntato al furore; ma di colpo reprimette la collera e si mise a sorridere.
«Vi porto buone nuove,» riprese. «Ho ricevuto il governo di Champagne e la promessa del re di esser fatto duca e pari. Inoltre abbiamo ereditato da un parente; quel maledetto ugonotto di Chaverny è morto.»
La contessa impallidì e cadde su una poltrona. Ella indovinava il segreto della sinistra gioia diffusa sulla faccia del marito, e che la vista di Etienne sembrava accrescere.
«Signore,» diss'ella con voce commossa, «voi non ignorate che ho amato a lungo mio cugino di Chaverny. Voi risponderete a Dio del dolore che mi provocate.»
A tali parole lo sguardo del conte lampeggiò; le labbra gli tremarono senza che potesse proferir parola, tanto era agitato dalla rabbia; gettò la daga su un tavolo con una violenza tale che il ferro risuonò come il tuono.
«Ascoltatemi,» gridò con la sua voce potente, «e ricordatevi delle mie parole; io voglio non sentire mai più, né mai vedere il mostriciattolo che tenete fra le braccia, perché è figlio vostro e non mio; ha forse uno solo dei miei tratti? Per la testa di Dio piena di reliquie! Nascondetelo bene, o altrimenti...»
«Giusto Cielo!» gridò la contessa, «proteggeteci!»
«Silenzio!» rispose il colosso. «Se non volete che gli faccia male, fate in modo che non lo trovi mai sui miei passi.»
«Ma in tal caso,» riprese la contessa che si sentì il coraggio di lottare contro il suo tiranno, «giuratemi di non attentare ai suoi giorni, se non lo incontrerete più. Posso contare sulla vostra parola di gentiluomo?»
«Che cosa vuol dire questo?» riprese il conte.
«Ebbene! allora uccideteci oggi tutti e due!» esclamò la contessa gettandosi in ginocchio e stringendo il bambino tra le braccia.
«Alzatevi, signora! Vi dò la mia parola di gentiluomo di non compiere niente contro la vita di questo maledetto embrione, purché rimanga sulla scogliera che costeggia il mare sotto il castello; gli concedo la casa del pescatore, ma guai a lui, se mai lo ritroverò al di là di tali confini.»
La contessa si mise a piangere amaramente.
«Orsù, guardatelo,» disse. «È vostro figlio!»
«Signora!»
A questa parola, la madre spaventata portò via il bambino il cui cuore palpitava come quello di una capinera sorpresa nel nido da un pastore. Sia che l'innocenza abbia un fascino al quale gli uomini più induriti non sanno sottrarsi, sia che il conte si rimproverasse la propria violenza e temesse di far sprofondare in una disperazione troppo grande una creatura necessaria ai suoi piaceri come ai suoi scopi, quando la moglie tornò la sua voce si era fatta, per quanto possibile, dolce.
«Jeanne, mia cara,» disse, «non serbatemi rancore, e date mi la mano. Non si sa come comportarsi con voialtre donne. Vi porto nuovi onori, nuove ricchezze, per la testa di Dio, e voi mi ricevete come un maheutre che capiti in una congrega di manenti! Il mio governo mi obbligherà a lunghe assenze fino a quando non l'abbia scambiato con quello di Normandia; fatemi buon viso, mia cara, almeno durante il mio soggiorno qui.»
La contessa capì il senso di quelle parole la cui finta dolcezza non poteva più ingannarla.
«Conosco i miei doveri,» rispose con un accento di malinconia che il marito scambiò per tenerezza. La timida creatura era troppo pura, troppo nobile per cercar di dominare il conte, mettendo del calcolo nella propria condotta come fanno certe donne astute, con una sorta di prostituzione per la quale le anime belle si ritrovano macchiate. Si allontanò silenziosa per andare a consolare la propria disperazione portando a spasso Etienne.
«Per la testa di Dio piena di reliquie! non sarò mai dunque amato!» esclamò il conte sorprendendo una lacrima negli occhi della moglie, nel momento in cui ella uscì.
Incessantemente minacciata, la maternità divenne nella contessa una passione piena di quella violenza che, nelle donne, contraddistingue i sentimenti colpevoli. Grazie a una specie di sortilegio il cui segreto giace nel cuore di tutte le madri, e che fu particolarmente forte fra la contessa e il figlio, ella riuscì a fargli capire il pericolo che lo minacciava senza posa, e gli insegnò a temere l'avvicinarsi del padre. La scena terribile di cui Etienne era stato testimone s'impresse nella sua memoria in modo tale da provocare in lui quasi una malattia. Egli finì col presentire la presenza del conte con tanta certezza, che se uno di quei sorrisi i cui segni impercettibili esplodono agli occhi di una madre animava il suo viso, nel momento in cui i suoi organi imperfetti, già plasmati dalla paura, gli annunciavano il passo lontano del padre, i lineamenti gli si contraevano, e l'orecchio della madre non era più pronto dell'istinto del figlio. Con l'età, questa facoltà creata dal terrore crebbe a tal segno che, simile ai selvaggi dell'America, Etienne distingueva il passo del padre, sapeva ascoltare la sua voce a distanze lontane, e prediceva la sua venuta. Vedere il sentimento di terrore che il marito le ispirava così presto condiviso dal figlio lo rese ancor più caro alla contessa; e la loro unione si fortificò a tal punto che, come due fiori attaccati allo stesso ramo, si curvavano sotto lo stesso vento si risollevavano per la stessa speranza. Fu una medesima vita.
Alla partenza del conte, Jeanne iniziava una seconda gravidanza. Questa volta partorì nei termini voluti dai pregiudizi e mise al mondo, non senza inenarrabili dolori, un grosso maschietto il quale, qualche mese dopo, presentò una così perfetta somiglianza col padre che l'odio del conte per il maggiore ne fu ancora accresciuto.
Allo scopo di salvare il suo bambino diletto, la contessa acconsentì a tutti i progetti che il marito formulò per la felicità e la fortuna del secondo figlio. Etienne, promesso alla porpora, doveva diventare prete per lasciare a Maximilien i beni e i titoli della casa d'Hérouville. A tal prezzo, la povera madre assicurò la pace del figlio maledetto.
Mai due fratelli furono più dissimili di Etienne e Maximilien. Il più giovane ebbe, nascendo, l'inclinazione per il rumore, gli esercizi violenti e la guerra, cosicché il conte concepì per lui lo stesso amore della moglie per Etienne. Per una sorta di patto naturale e tacito, ciascuno degli sposi si incaricò del proprio figlio prediletto. Il duca, giacché verso quel tempo Enrico IV ricompensò gli eminenti servigi del signore d'Hérouville, non volle, così disse, stancare la moglie, e dette come nutrice a Maximilien una buona grossa bayeusana scelta da Beauvouloir. Con gran gioia di Jeanne de Saint-Savin, egli diffidò dell'animo come del latte della madre, e prese la decisione di educare il bambino secondo i propri gusti. Allevò Maximilien nel sacrosanto orrore dei libri e delle lettere; gli inculcò le nozioni meccaniche dell'arte militare, lo fece assai presto montare a cavallo, sparare con l'archibugio e giostrare di daga. Quando il figlio fu grande, lo condusse a caccia perché adottasse la ferocia di linguaggio, la rudezza di maniere, la forza del corpo, la virilità nello sguardo e nella voce che ai suoi occhi costituivano un uomo compiuto. A dodici anni il piccolo gentiluomo fu un leoncino alquanto zotico, temuto da tutti almeno quanto il padre, autorizzato a tiranneggiare tutti nei dintorni, e tiranno con tutti.
Etienne abitò nella casa situata sulle rive dell'Oceano che gli aveva concesso il padre e che la duchessa fece sistemare in modo che vi trovasse qualcuno dei godimenti ai quali ancora aveva diritto. La duchessa andava a trascorrervi la maggior parte della giornata. La madre e il figlio percorrevano insieme le scogliere e le spiagge, ed ella indicava a Etienne i confini del suo piccolo regno di sabbia, di conchiglie, di muschio e di sassi; il terrore profondo che la coglieva vedendolo sconfinare dal recinto concessogli, gli fece capire che al di là lo aspettava la morte. Etienne tremò per la madre prima di tremare per sé; poi, il nome stesso del duca d'Hérouville suscitò ben presto in lui un turbamento che lo spogliava della sua energia e lo rendeva schiavo dell'atonia che fa cadere una fanciulla in ginocchio davanti a una tigre. Se scorgeva da lontano quel gigante sinistro, o se ne sentiva la voce, l'impressione dolorosa che aveva provato un tempo, nel momento in cui era stato maledetto, gli agghiacciava il cuore. Perciò, come un lappone che muore al di là delle proprie nevi, si fece una deliziosa patria della propria casetta e delle proprie scogliere; se ne varcava le frontiere, provava un malessere indefinibile. Prevedendo che il suo povero bambino non avrebbe potuto trovare felicità se non in un'umile sfera silenziosa, dapprima la duchessa rimpianse meno il destino che gli era stato imposto; ella si avvalse di quella vocazione forzata per preparargli una bella vita, riempiendo la sua solitudine con le nobili occupazioni della scienza. Fece dunque venire al castello Pierre de Sebonde per servire da precettore al futuro cardinale d'Hérouville. Nonostante la tonsura destinata al figlio, Jeanne de Saint-Savin non volle che la sua educazione risentisse del sacerdozio, e la secolarizzò con il proprio intervento. Beauvouloir fu incaricato di iniziare Etienne ai misteri delle scienze naturali. La duchessa, che sorvegliava personalmente gli studi per commisurarli alle forze del figlio, lo ricreava insegnandogli l'italiano e svelandogli insensibilmente le ricchezze poetiche di tale lingua. Mentre il duca conduceva Maximilien davanti ai cinghiali, col rischio di vederlo ferirsi, Jeanne s'inoltrava con Etienne nella via lattea dei sonetti di Petrarca o nel gigantesco labirinto della Divina Commedia.
Per compensare Etienne delle sue infermità, la natura lo aveva dotato di una voce così melodiosa che era difficile resistere al piacere di ascoltarlo; la madre gli insegnò la musica. Canti teneri e malinconici, accompagnati dagli accenti di un mandolino, erano una ricreazione prediletta che la madre prometteva come ricompensa di qualche studio richiesto dall'abate di Sebonde. Etienne ascoltava la madre con un'ammirazione appassionata ch'ella aveva visto soltanto negli occhi di Chaverny. La prima volta che la povera donna ritrovò i suoi ricordi di fanciulla nel lungo sguardo del bambino, lo coprì di baci insensati. Arrossì quando Etienne le chiese perché sembrava che in quel momento l'amasse di più. Gli rispose che ad ogni ora l'amava maggiormente. Ben presto ritrovò, nelle cure che esigevano l'educazione dell'anima e la cultura della mente, gli stessi piaceri che aveva assaporato nutrendo, allevando il corpo del bambino. Benché le madri non crescano sempre con i loro figli, la duchessa era una di quelle che portano nella maternità le umili adorazioni dell'amore. Poteva accarezzare e giudicare; riponeva il suo amor proprio nel rendere Etienne superiore a lei in tutto, e non a dettare legge; forse sapeva di esser così grande per quel suo inesauribile affetto, che non temeva di essere sminuita. Sono i cuori senza tenerezza che amano il dominio, ma i sentimenti veri prediligono l'abnegazione, virtù della Forza. Quando Etienne non capiva di primo acchito qualche dimostrazione, un testo o un teorema, la povera madre, che assisteva alle lezioni, sembrava volesse infondergli la conoscenza delle cose, come un tempo, al minimo grido, gli versava fiumi di latte. Ma di quale splendore la gioia non imporporava lo sguardo della duchessa, allorché Etienne afferrava il senso delle cose e lo faceva suo? Ella mostrava, come diceva Pierre de Sebonde, che la madre è un essere duplice le cui sensazioni abbracciano sempre due esistenze.
La duchessa aggiungeva così al sentimento naturale che lega un figlio alla madre le tenerezze di un amore resuscitato. La gracilità di Etienne le fece seguitare per diversi anni le cure somministrate all'infanzia. Lei veniva a vestirlo, lei lo metteva a letto, lei sola pettinava, lisciava, arricciava e profumava la capigliatura del figlio. La sua toeletta era una carezza continua; tanti erano i baci quante le volte che passava il pettine su quella testa diletta. Come le donne si compiacciono nel farsi quasi madri per i loro amanti, assistendoli con qualche cura domestica, così la madre si faceva del figlio un simulacro d'amante; ella gli trovava una vaga somiglianza con il cugino amato oltre la tomba. Etienne era come il fantasma di Georges, intravisto nella lontananza di uno specchio magico; lei si diceva che era più gentiluomo che ecclesiastico.
«Se una donna che ama come me volesse infondergli la vita dell'amore, egli potrebbe essere molto felice!» pensava spesso.
Ma i terribili interessi che esigevano la tonsura sulla testa di Etienne le tornavano in mente, ed ella baciava i capelli che le forbici della chiesa dovevano tagliare, lasciandovi cadere sopra qualche lacrima. Nonostante l'ingiusta convenzione stabilita col duca, ella non vedeva Etienne né prete, né cardinale in quegli squarci che il suo occhio di madre operava attraverso le fitte tenebre dell'avvenire. Il profondo oblio del padre le permise di non far entrare il suo povero bambino negli Ordini. «Sarà sempre in tempo!» si diceva.
Poi, senza confessarsi un pensiero celato nel cuore, ella formava Etienne alle belle maniere dei cortigiani, lo voleva dolce e gentile come era Georges de Cheverny. Ridotta a qualche risicato risparmio dall'ambizione del duca, il quale governava personalmente i beni della sua casa, destinando tutti i redditi al suo ingrandimento e al suo andamento, ella aveva adottato per sé la tenuta più semplice, e non spendeva niente al fine di poter dare al figlio mantelli di velluto, stivali a imbuto guarniti di pizzi, farsetti in fini stoffe sfrangiate. Le sue privazioni personali le facevano provare le stesse gioie suscitate da quella dedizione che tanto ci si compiace di nascondere alle persone amate. Segretamente si rallegrava, quando ricamava un colletto, pensando al giorno in cui il collo del figlio ne sarebbe stato adorno. Lei sola aveva cura degli abiti, della biancheria, dei profumi, della toeletta d'Etienne. Non si agghindava che per lui, giacché le piaceva esser trovata bella da lui. Tante sollecitudini, accompagnate da un sentimento che penetrava nella carne del figlio e la vivificava, ebbero la loro ricompensa. Un giorno Beauvouloir, quell'uomo divino che con le sue lezioni si era reso caro al figlio maledetto e i cui servigi non erano d'altro canto ignorati da Etienne, quel medico il cui sguardo in quieto faceva tremare la duchessa ogni qualvolta esaminava il suo fragile idolo, dichiarò che Etienne poteva vivere per lunghi giorni se nessun sentimento violento fosse venuto ad agitare bruscamente quel corpo così delicato. Etienne aveva allora sedici anni.
A quell'età, la statura di Etienne aveva raggiunto i cinque piedi, misura che non doveva più superare, ma Georges de Cheverny era di statura media. La sua pelle, trasparente e satinata come quella di una bambina, lasciava scorgere le più leggere ramificazioni delle vene azzurre. La sua bianchezza era di porcellana. I suoi occhi, di un azzurro chiaro, improntati a una dolcezza ineffabile, imploravano la protezione degli uomini e delle donne; le travolgenti soavità della preghiera emanavano dal suo sguardo e seducevano prima che la melodia della sua voce ne completasse il fascino. La modestia più autentica si rivelava in tutti i suoi tratti. Lunghi capelli castani, lisci e fini si spartivano in due bande sulla fronte e si arricciavano alle punte. Le guance pallide e incavate, la fronte pura, segnata da qualche ruga, esprimevano una sofferenza nativa che faceva male a vedersi. La bocca graziosa e adorna di denti assai bianchi conservava quella specie di sorriso che si fissa sulle labbra dei morenti. Le mani, bianche come quelle di una donna, erano di una forma notevolmente bella. Simile a una pianta intristita, le sue lunghe meditazioni lo avevano abituato a reclinare la testa, e tale atteggiamento conveniva alla sua persona: era come l'ultimo tocco di grazia che un artista aggiunge ad un ritratto per farne risaltare tutto il pensiero. Avreste creduto di vedere una testa di fanciulla malata posta su un corpo d'uomo debole e deforme.
La studiosa poesia le cui ricche meditazioni ci fanno percorrere da botanici i vasti campi del pensiero, il fecondo confronto delle idee umane, l'esaltazione che ci dà la perfetta intelligenza delle opere del genio, erano diventate le inesauribili e tranquille felicità della sua vita sognante e solitaria. I fiori, incantevoli creazioni il cui destino aveva tanta somiglianza con il suo, ebbero tutto il suo amore. Felice di vedere nel figlio passioni innocenti che lo proteggevano dal rude contatto della vita sociale, al quale avrebbe resistito non più di quanto l'orata più bella dell'Oceano avrebbe sostenuto sulla spiaggia uno sguardo del sole, la contessa aveva incoraggiato i gusti di Etienne portandogli romanceros spagnoli, mottetti italiani, libri, sonetti, poesie. La biblioteca del cardinale d'Hérouville era l'eredità di Etienne, la lettura doveva riempire la sua vita. Ogni mattina il fanciullo trovava la propria solitudine popolata di belle piante dai ricchi colori, di soavi profumi. In tal modo le sue letture, alle quali la sua fragile salute non gli permetteva di dedicarsi a lungo, e i suoi esercizi in mezzo agli scogli, erano interrotti da ingenue meditazioni che lo facevano rimanere seduto per ore intere davanti ai fiori ridenti, suoi dolci compagni, o rannicchiato nell'anfratto di qualche roccia in presenza di un'alga, di una schiuma, di un'erba marina, studiandone i misteri. Cercava una rima in seno alle corolle odorose, come l'ape vi avrebbe succhiato il miele. Ammirava spesso senza scopo, e senza volersi spiegare il proprio piacere, le filettature delicate impresse sui petali in colori cupi, la delicatezza delle ricche tuniche d'oro o azzurre, verdi o violacee, le frastagliature così profusamente belle dei calici o delle foglie, i loro tessuti opachi o vellutati che si laceravano, come doveva lacerarsi la sua anima al minimo sforzo. In seguito, pensatore come poeta, doveva penetrare la ragione di quelle innumerevoli differenze di una medesima natura, scoprendovi l'indizio di facoltà preziose, giacché, di giorno in giorno, progredì nell'interpretazione del Verbo divino scritto su ogni cosa di questo mondo. Tali ricerche ostinate e segrete, fatte nel mondo occulto, davano alla sua vita l'apparente sonnolenza dei geni meditativi. Etienne rimaneva sdraiato per lunghe giornate sulla sabbia, felice, poeta a sua insaputa. L'irruzione improvvisa di un insetto dorato, il riflesso del sole sull'Oceano, il tremolio del vasto e limpido specchio delle acque, una conchiglia, un ragno di mare, tutto diventava avvenimento e piacere per quell'anima ingenua. Veder giungere la madre, sentire di lontano il fruscio del suo abito, aspettarla, baciarla, parlarle, ascoltarla, gli provocava sensazioni tanto vive che spesso un ritardo o il più lieve timore gli procuravano una febbre divorante. Non c'era che un'anima in lui, e perché il corpo debole e sempre cagionevole non fosse distrutto dalle vive emozioni di quell'anima, occorrevano a Etienne il silenzio, le carezze, la pace del paesaggio, e l'amore di una donna. Per il momento, sua madre gli prodigava l'amore e le carezze; gli scogli erano silenziosi; i fiori, i libri incantavano la sua solitudine; infine, il suo piccolo regno di sabbia e di conchiglie, di alghe e di verde, gli sembrava un mondo sempre fresco e nuovo.
Etienne ebbe tutti i benefici di quella vita fisica così profondamente innocente e di quella vita morale così poetica mente estesa. Fanciullo per la forma, uomo per la mente, egli era parimenti angelico sotto entrambi gli aspetti. Per volontà della madre, gli studi ne avevano trasportato le emozioni nella regione delle idee. L'azione della sua vita si compì allora nel mondo morale, lontano dal mondo sociale che poteva ucciderlo o farlo soffrire. Visse con l'anima e con l'intelligenza. Dopo aver colto i pensieri umani mediante la lettura, si elevò fino ai pensieri che muovono la materia, sentì pensieri nell'aria, altri ne lesse scritti nel cielo. Scalò dunque di buon'ora la vetta eterea dove si trovava il nutrimento delicato che conveniva alla sua anima. Nutrimento inebriante, ma che lo predestinava all'infelicità il giorno in cui questi tesori accumulati si fossero aggiunti alle ricchezze che una passione immette all'improvviso nel cuore. Se talora Jeanne de Saint-Savin temeva tale bufera, ella si consolava ben presto con un pensiero che le ispirava il triste destino del figlio, giacché la povera madre non trovava altro rimedio a una sventura che una sventura minore; così ognuna delle sue gioie era piena di amarezza!
«Sarà cardinale,» si diceva, «vivrà per il sentimento delle arti di cui si farà protettore. Amerà l'arte invece di amare una donna, e l'arte non lo tradirà mai.»
I piaceri di quell'amorosa maternità furono in tal modo continuamente alterati dai cupi pensieri che nascevano dalla singolare situazione in cui si trovava Etienne in seno alla sua famiglia. I due fratelli avevano già superato entrambi l'età dell'adolescenza senza conoscersi, senza essersi visti, senza sospettare la loro esistenza rivale. La duchessa aveva sperato a lungo di poter legare, durante un'assenza del marito, i due fratelli, mediante una qualche scena solenne durante la quale ella contava di avvolgerli con la sua anima. S'illudeva di interessare Maximilien a Etienne dicendo al minore quanta protezione e amore dovesse al fratello maggiore, che soffriva a causa delle rinunce alle quali era stato condannato e alle quali sarebbe stato fedele, ancorché costretto. Tale speranza, a lungo accarezzata, era svanita. Lungi dal voler giungere a un riconoscimento tra i due fratelli, ella temeva maggiormente un incontro tra Etienne e Maximilien che tra Etienne e il padre. Maximilien, il quale non credeva che al male, avrebbe temuto che un giorno Etienne rivendicasse i suoi diritti misconosciuti e l'avrebbe gettato in mare con una pietra al collo. Mai figlio ebbe meno rispetto di lui per la madre. Appena era stato in grado di ragionare, si era accorto della scarsa stima del duca per la moglie. Se le maniere del vecchio governatore nei confronti della duchessa conservavano ancora una certa forma, Maximilien, tenuto scarsamente a freno dal padre, causava mille dispiaceri alla madre. Perciò Bertrand vegliava incessantemente acciocché Maximilien non vedesse mai Etienne, la cui nascita d'altronde era tenuta accuratamente nascosta. Tutti gli abitanti del castello odiavano cordialmente il marchese di Saint-Sever, nome che portava Maximilien, e coloro che sapevano dell'esistenza del maggiore, lo guardavano come un vendicatore che Dio teneva in serbo. L'avvenire di Etienne era dunque dubbio; forse sarebbe stato perseguitato dal fratello! La povera duchessa non aveva parenti ai quali potesse affidare la vita e gli interessi del figlio diletto. Etienne non avrebbe magari accusato la madre, quando, indossata la porpora romana, avesse voluto essere padre, come lei era stata madre? Questi pensieri, la sua vita malinconica e piena di dolori segreti, erano come una lunga malattia temperata da un dolce regime. Il suo cuore esigeva i riguardi più delicati, e coloro che la circondavano erano crudelmente inesperti in dolcezze. Quale cuore di madre non sarebbe stato straziato senza tregua nel vedere il figlio maggiore, l'uomo di cervello e di cuore nel quale si rivelava un bel genio, spogliato dei propri diritti, mentre il minore, uomo da capestro, senza nessuna dote, neanche militare, era incaricato di portare la corona ducale e di perpetuare la famiglia? Il casato d'Hérouville rinnegava la propria gloria. Incapace di maledire, la dolce Jeanne de Saint-Savin non sapeva che benedire e piangere; ma ella levava spesso gli occhi al cielo, per chiedergli conto di quella sentenza singolare. I suoi occhi si riempivano di lacrime quando pensava che alla sua morte il figlio sarebbe rimasto del tutto orfano ed esposto alle brutalità di un fratello senza fede né leggi. Tante sensazioni represse, un primo amore mai dimenticato, tanti dolori incompresi, giacché ella taceva le sue più vive sofferenze al figlio diletto, le sue gioie sempre turbate, i suoi dolori incessanti avevano indebolito i principi della vita e sviluppato in lei una malattia di languore che, lungi dall'attenuarsi, prese ogni giorno nuova forza. Infine un ultimo colpo accelerò la consunzione della duchessa; ella cercò d'illuminare il duca sull'educazione di Maximilien e fu respinta con durezza; non le fu possibile opporre nessun rimedio ai detestabili semi che germogliavano nell'anima di quel figlio. Entrò in un periodo di deperimento così evidente che la malattia rese necessaria la promozione di Beauvouloir al posto di medico della casa d'Hérouville e del governo di Normandia. L'antico rebouteur venne ad abitare al castello. In quel tempo, tali posti appartenevano a dei dotti i quali vi trovavano il tempo necessario al compimento dei loro lavori e gli onorari in dispensabili alla loro vita studiosa. Beauvouloir si augurava da qualche tempo quella carica, poiché il suo sapere e la sua fortuna gli erano valsi numerosi e accaniti nemici. Nonostante la protezione di una grande famiglia alla quale aveva reso un servigio in una questione controversa, era stato recentemente implicato in un processo criminale, e solo l'intervento del governatore di Normandia, sollecitato dalla duchessa, mise un termine all'azione giudiziaria. Il duca non ebbe da pentirsi della clamorosa protezione che accordava all'antico rebouteur: Beauvouloir salvò il marchese de Saint-Sever da una malattia così pericolosa che ogni altro medico avrebbe fallito. Ma la ferita della duchessa era troppo antica perché la si potesse guarire, essendo soprattutto costantemente ravvivata nella sua stessa casa. Allorché le sofferenze fecero intravedere una fine prossima a quell'angelo che tanti dolori preparavano a un migliore destino, la morte ebbe un veicolo nelle fosche previsioni dell'anima.
«Che ne sarà del mio povero figliolo senza di me!» era un pensiero che ogni ora riconduceva come un'onda amara.
Alla fine, quando dovette rimanere a letto, la duchessa declinò rapidamente verso la tomba, giacché allora fu privata del figlio, al quale il suo capezzale era proibito per il patto alla cui osservanza doveva la vita. Il dolore del figlio fu pari a quello della madre. Ispirato dal genio particolare dei sentimenti repressi, Etienne si creò il più mistico dei linguaggi per potersi intrattenere con la madre. Studiò le risorse della propria voce come avrebbe fatto la più abile delle cantanti, e veniva a cantare con voce malinconica sotto le finestre della madre, quando, con un gesto, Beauvouloir gli diceva che era sola. Un tempo, in fasce, aveva consolato la madre con intelligenti sorrisi; diventato poeta, la carezzava con le più soavi melodie.
«Questi canti mi fanno vivere!» diceva la duchessa a Beauvouloir aspirando l'aria animata dalla voce di Etienne.
Giunse infine il momento in cui doveva cominciare un lungo lutto per il figlio maledetto. Già svariate volte aveva trovato misteriose corrispondenze tra le sue emozioni e i moti dell'Oceano. La divinazione dei pensieri della materia di cui l'aveva dotato la sua scienza occulta, rendeva quel fenomeno più eloquente per lui che per ogni altro. Durante la sera fatale in cui andava a trovare la madre per l'ultima volta, l'Oceano fu agitato da moti che gli parvero straordinari. Era un ribollire d'acqua che rivelava il travaglio interno del mare, il quale si gonfiava di grosse ondate che andavano a morire con lugubri rumori simili agli ululati dei cani in pericolo. Etienne si sorprese a dire a se stesso: «Che cosa vuole da me? Trasale e si lamenta come una creatura vivente! Mia madre mi ha spesso raccontato che l'Oceano era in preda ad orribili convulsioni durante la notte in cui sono nato. Che cosa sta per accadermi?»
Questo pensiero lo fece rimanere in piedi alla finestra della sua casetta, con gli occhi rivolti ora verso la finestra della camera della madre dove tremolava una luce, ora verso l'Oceano che continuava a gemere. All'improvviso Beauvouloir bussò sommessamente, aprì, e mostrò sul suo viso incupito il riflesso di una sventura.
«Monsignore,» disse, «la signora duchessa è in sì triste stato che vuole vedervi. Tutte le precauzioni sono state prese affinché al castello non vi accada alcun male, ma occorre molta prudenza, perché saremo costretti a passare dalla camera di monsignore, là dove siete nato.»
Tali parole fecero salire le lacrime agli occhi di Etienne, che esclamò: «L'Oceano mi ha parlato!»
Si lasciò macchinalmente condurre verso la porta della torre dalla quale Bertrand era salito la notte in cui la duchessa aveva messo al mondo il figlio maledetto. Lo scudiero era lì con una lanterna in mano. Etienne arrivò alla grande biblioteca del cardinale d'Hérouville, dove fu costretto a rimanere con Beauvouloir mentre Bertrand andava ad aprire le porte e a controllare se il figlio maledetto potesse passare senza pericolo. Il duca non si svegliò. Avanzando a passi leggeri, Etienne e Beauvouloir non sentivano in quell'immenso castello che il flebile lamento della morente. Così, le circostanze che accompagnarono la nascita di Etienne si ritrovavano alla morte della madre. Stessa tempesta, stesse angosce, identica paura di svegliare il gigante senza pietà, che questa volta dormiva sodo. Per evitare ogni sventura, lo scudiero prese Etienne sulle braccia e attraversò la camera del suo terribile padrone, deciso ad addurre il pretesto dello stato in cui si trovava la duchessa, se mai fosse stato sorpreso. Etienne ebbe il cuore orribilmente stretto dal timore che animava quei due fedeli servitori, ma tale emozione lo preparò per così dire allo spettacolo che si offrì ai suoi occhi nella camera gentilizia, dove tornava per la prima volta dal giorno in cui ne era stato bandito dalla maledizione paterna. Sul gran letto al quale la felicità non si era mai accostata, egli cercò la sua diletta e non la trovò facilmente, tanto era smagrita. Bianca come i suoi pizzi, con solo l'ultimo respiro da esalare, ella radunò le forze per prendere le mani di Etienne, e volle dargli tutta l'anima in un lungo sguardo, come un tempo Cheverny aveva trasmesso a lei tutta la sua vita in un addio. Beauvouloir e Bertrand, il figlio e la madre, il duca addormentato, si trovarono ancora riuniti. Stesso luogo, stessa scena, stessi attori, ma era il dolore funebre anziché la gioia della maternità, la notte della morte anziché il giorno della vita. In quel momento, l'uragano annunciato fin dal tramonto del sole dai lugubri ululati del mare si dichiarò improvvisamente.
«Caro fiore della mia vita,» disse Jeanne de Saint-Savin baciando il figlio in fronte, «fosti staccato dal mio seno in mezzo a una tempesta, ed è con una tempesta che io mi stacco da te. Tra queste due bufere, tutto per me fu bufera, tranne le ore in cui ti ho visto. Ecco la mia ultima gioia, essa si confonde col mio ultimo dolore. Addio mio unico amore, addio bella immagine di due anime fra breve riunite, addio mia sola gioia, gioia pura, addio mio unico diletto!»
«Lascia che ti segua,» disse Etienne che si era steso sul letto della madre.
«Sarebbe un miglior destino!» diss'ella lasciando scorrere due lacrime sulle guance livide, giacché, come un tempo, il suo sguardo parve leggere nell'avvenire. «Nessuno l'ha visto?» chiese ai due servitori. In quel momento il duca si mosse nel letto. Tutti trasalirono. «Vi saranno ombre fin nella mia ultima gioia!... Portatelo via! portatelo via!»
«Madre mia, preferisco vederti un istante di più e morire!» disse il povero fanciullo svenendo sul letto.
A un cenno della duchessa, Bertrand prese Etienne sulle braccia, e lasciandolo vedere un'ultima volta alla madre che lo baciava con un ultimo sguardo, si accinse a portarlo via, in attesa di un nuovo ordine della morente.
«Vogliategli bene,» disse allo scudiero e al rebouteur, «giacché non gli vedo altri protettori che voi e il cielo.»
Avvertita da un istinto che mai inganna le madri, ella si era accorta della pietà profonda che ispirava allo scudiero il maggiore del potente casato, per il quale nutriva un sentimento di venerazione comparabile a quello degli ebrei per la città santa. Quanto a Beauvouloir, il patto tra lui e la duchessa era stato firmato da tempo. I due servitori, commossi nel vedere la padrona costretta ad affidar loro il nobile bambino, promisero con un gesto sacro di essere la provvidenza del loro giovane signore, e la madre ebbe fede in quel gesto.
La contessa morì al mattino, qualche ora dopo; ella fu pianta dagli ultimi servitori che, in guisa di discorso, dissero sulla sua tomba che era una donna gentile caduta dal paradiso.
Etienne fu in preda al più intenso, al più duraturo dei dolori, dolore d'altro canto muto. Non corse più attraverso le scogliere, non si sentì più la forza di leggere, né di cantare. Rimase per giorni interi accovacciato nell'anfratto di una roccia, indifferente alle intemperie dell'aria, immobile, attaccato al granito, e simile a uno di quei muschi che vi crescevano, piangendo assai di rado, ma perso in un unico pensiero, immenso, infinito come l'Oceano; e come l'Oceano quel pensiero assumeva mille forme, diventava terribile, tempestoso, calmo. Fu più che un dolore, fu una vita nuova, un irrevocabile destino forgiato per quella bella creatura che non doveva più sorridere. Vi sono pene che, simili a sangue gettato nell'acqua corrente, tingono momentaneamente i flutti; l'onda, rinnovandosi, ricrea la purezza della sua distesa; ma, in Etienne, la sorgente stessa fu adulterata, e ogni flutto del tempo gli portò eguale dose di fiele.
Nei suoi vecchi giorni, Bertrand aveva conservato l'intendenza delle scuderie per non perdere l'abitudine di essere un'autorità nella casa. Il suo alloggio si trovava vicino alla casa dove si ritirava Etienne, cosicché era in grado di vegliare su di lui con la persistenza d'affetto e la semplicità astuta che caratterizzano i vecchi soldati. Si spogliava di tutta la sua rudezza per parlare al povero ragazzo; andava dolcemente a prenderlo quando pioveva, e lo strappava alle sue fantasticherie per ricondurlo a casa. Ripose tutto il suo amor proprio nel sostituire la duchessa di modo che il figlio trovasse, se non lo stesso amore, almeno le stesse attenzioni. Quella pietà assomigliava alla tenerezza. Etienne sopportò senza lamentarsi, né opporsi, le cure del genitore, ma troppi legami erano spezzati tra il figlio maledetto e le altre creature, perché un vivo affetto potesse rinascere nel suo cuore. Si lasciò macchinalmente proteggere, poiché divenne una specie di creatura intermediaria tra l'uomo e la pianta, o forse tra l'uomo e Dio. A che cosa paragonare un essere al quale le leggi sociali, i falsi sentimenti del mondo erano ignoti, e che conservava un'incantevole innocenza, ubbidendo soltanto all'istinto del cuore? Tuttavia, nonostante la sua cupa malinconia, sentì presto il bisogno d'amare, di avere un'altra madre, un'altra anima che fosse sua; ma separato dalla civiltà da una barriera di bronzo, era difficile che incontrasse un essere il quale si fosse fatto fiore come lui. A forza di cercare un altro se stesso al quale potesse confidare i propri pensieri e la cui vita potesse diventare sua, finì col simpatizzare con l'Oceano. Il mare divenne per lui un essere animato, pensante. Sempre in presenza di quell'immensa creazione le cui meraviglie nascoste contrastano così grandemente con quelle della terra, egli vi scoprì la ragione di diversi misteri. Familiarizzato sin dalla culla con l'infinito di quelle umide campagne, il mare e il cielo gli raccontarono mirabili poesie. Per lui, tutto era vario in quel vasto quadro così monotono in apparenza. Come tutti gli uomini la cui anima domina il corpo, egli aveva una vista penetrante e poteva cogliere a distanze enormi, con ammirevole facilità, senza sforzo, le sfumature più fuggitive della luce, il tremolio più effimero dell'acqua. Quando la calma era perfetta, trovava ancora tinte molteplici al mare che, simile a un viso di donna, aveva allora una fisionomia, sorrisi, idee, capricci: là verde e cupo, qui ridente nell'azzurro, ora unendo le sue linee brillanti ai bagliori indecisi dell'orizzonte, ora dondolandosi con aria dolce sotto nubi arancioni. Si davano per lui feste magnifiche, fastosamente celebrate al tramonto del sole, quando l'astro versava i suoi colori rossi sui flutti, come un mantello di porpora. Per lui il mare era gaio, vivo, spiritoso a metà del giorno quando rabbrividiva ripetendo lo splendore della luce con il barbaglio delle sue mille faccette; gli rivelava stupefacenti malinconie, lo faceva piangere quando, rassegnato, calmo, triste, rifletteva un cielo grigio carico di nubi. Egli aveva colto i linguaggi muti di quell'immensa creazione. Il flusso e il riflusso erano come un respiro melodioso di cui ogni sospiro gli dipingeva un sentimento ed egli ne comprendeva il senso intimo. Nessun marinaio, nessun sapiente avrebbe potuto predire meglio di lui la minima collera dell'Oceano, il più leggero variare del suo aspetto. Dal modo in cui l'ondata veniva a morire sulla riva, egli indovinava i marosi, le tempeste, le burrasche, la forza delle maree. Quando la notte stendeva i suoi veli sul cielo, vedeva ancora il mare sotto i chiarori crepuscolari, e conversava con lui; partecipava alla sua feconda vita, provava nell'anima un'autentica tempesta quando si corrucciava; respirava la sua collera nei sibili acuti, correva insieme ai cavalloni enormi che si infrangevano con mille frange liquide sugli scogli, si sentiva intrepido e terribile come lui, e come lui indietreggiava con balzi prodigiosi; manteneva i suoi silenzi tetri, imitava le sue clemenze improvvise. Insomma, si era unito al mare, era il suo confidente, il suo amico. La mattina, quando veniva sulle scogliere, percorrendo le sabbie fini e brillanti della spiaggia, riconosceva lo spirito dell'Oceano con un semplice sguardo; ne vedeva all'improvviso i paesaggi e si librava così sulla grande superficie delle acque, come un angelo venuto dal cielo. Se degli scherzosi, gioiosi, bianchi vapori gli spruzzavano un fine pulviscolo, come un velo sulla fronte di una fidanzata, ne seguiva le ondulazioni e i capricci con la gioia di un amante, incantato nel trovarlo la mattina seducente come una donna che si alzi ancora tutta addormentata, alla stregua di un marito che rivedeva la giovane sposa nella bellezza che le viene dal piacere. Il suo pensiero, congiunto a quel grande pensiero divino, lo consolava nella sua solitudine, e i mille zampilli della sua anima avevano popolato il suo augusto deserto di fantasie sublimi. Infine, egli aveva finito coll'indovinare in tutti i moti del mare il suo legame intimo con le ruote celesti, e intravide la natura nel suo armonioso insieme, dal filo d'erba fino agli astri erranti che cercano, come semi trascinati dal vento, di piantarsi nell'etere. Puro come un angelo, vergine delle idee che degradano gli uomini, ingenuo come un bambino, egli viveva come un gabbiano, come un fiore, prodigo soltanto dei tesori di un'immaginazione poetica, di una scienza divina della quale contemplava da solo la feconda estensione. Incredibile mescolanza di due creazioni! Ora si elevava fino a Dio con la preghiera, ora ridiscendeva, umile e rassegnato, fino alla pacifica felicità dei bruti. Per lui, le stelle erano i fiori della notte, il sole era padre, gli uccelli i suoi amici. Egli metteva ovunque l'anima della madre, spesso la vedeva nelle nuvole, le parlava e comunicavano realmente mediante visioni celesti; certi giorni, sentiva la sua voce, ammirava il suo sorriso, vi erano insomma giorni in cui non l'aveva perduta! Dio sembrava avergli dato la potenza degli antichi solitari, averlo dotato di sensi interiori perfezionati che penetravano nello spirito delle cose. Forze morali inaudite gli permettevano di andare più avanti degli altri uomini nei segreti delle opere immortali. I suoi rimpianti e il suo dolore erano come legami che l'univano al mondo degli spiriti; egli vi andava, armato del proprio amore, per cercarvi la madre, realizzando così, con i sublimi accordi dell'estasi, la simbolica impresa d'Orfeo. Si lanciava nell'avvenire o nel cielo, come dal suo scoglio volava sull'Oceano da una linea all'altra dell'orizzonte. Spesso altresì, quando era rannicchiato in fondo a un buco profondo, capricciosamente scavato in un frammento di granito e il cui ingresso era stretto come quello di una tana, quando, dolcemente illuminato dai caldi raggi del sole che passavano attraverso alcune fessure e gli facevano vedere graziosi muschi marini che decoravano quel ritiro, vero nido di qualche uccello di mare, lì, spesso, era colto da un sonno involontario. Il sole soltanto, suo sovrano, gli diceva che aveva dormito, misurando il tempo durante il quale erano scomparsi per lui i suoi paesaggi d'acqua, le sue sabbie dorate e le sue conchiglie. Egli ammirava, attraverso una luce brillante come quella dei cieli, le città immense di cui gli parlavano i libri; andava guardando con stupore, ma senza invidia, le corti, i re, le battaglie, gli uomini, i monumenti. Quel sogno in pieno giorno gli rendeva sempre più cari i suoi dolci fiori, le sue nubi, il suo sole, le sue belle rocce di granito. Per meglio legarlo alla vita solitaria, un angelo sembrava rivelargli gli abissi del mondo morale e i colpi terribili inferti dalle civiltà. Egli sentiva che la sua anima ben presto dilaniata attraverso quegli oceani di uomini, sarebbe perita, infranta come una perla che, all'ingresso reale di una principessa, cada dalla sua acconciatura nel fango di una strada.





COME MORÌ IL FIGLIO

Nel 1617, venti e più anni dopo l'orribile notte durante la quale Etienne fu messo al mondo, il duca d'Hérouville, che aveva allora settantasei anni, vecchio, distrutto, quasi morto, era seduto al calar del sole in un'immensa poltrona davanti alla finestra a ogiva della sua camera da letto, nel posto dal quale, un tempo, la contessa aveva così vanamente implorato l'aiuto degli uomini e del cielo, con i suoni del corno perduti nell'aere. Lo si sarebbe detto un autentico rudere di tomba. Il viso energico, che l'età e la sofferenza avevano spogliato del suo aspetto sinistro, era di un colore livido in confronto ai lunghi cernecchi di capelli bianchi che ricadevano intorno alla testa calva, il cui cranio giallo sembrava friabile. La guerra e il fanatismo brillavano ancora in quegli occhi gialli, benché temperati da un sentimento religioso. La devozione diffondeva un pallore monastico sul viso un tempo così duro e ora segnato da colori che ne addolcivano l'espressione. I riflessi del tramonto colorivano di un tenue chiarore rosso la testa ancora vigorosa. Il corpo indebolito, avvolto in abiti scuri, contribuiva a suggerire con l'atteggiamento pesante, con l'assenza di ogni movimento l'esistenza monotona, il corpo terribile di quell'uomo, un tempo così intraprendente, così astioso, così attivo.
«Basta,» disse al suo cappellano.
Il venerabile vegliardo leggeva il Vangelo stando in piedi davanti al suo padrone in atteggiamento rispettoso. Il duca, simile a quei vecchi leoni da zoo che giungono a una decrepitudine ancora piena di maestà, si voltò verso un altro uomo con i capelli bianchi e gli tese un braccio scarnito, coperto di peli radi, ancora nervoso, ma privo di vigore.
«A voi, rebouteur! vedete un po' come sto oggi.»
«Va tutto bene, monsignore, e la febbre è cessata. Vivrete ancora per lunghi anni.»
«Vorrei vedere qui Maximilien,» riprese il duca lasciandosi sfuggire un sospiro di soddisfazione. «Il mio bravo figliolo! Adesso comanda una compagnia di archibugieri presso il re. Il maresciallo d'Ancre ha avuto cura del mio ragazzo, e la nostra graziosa regina Maria pensa a imparentarlo convenientemente, adesso che è stato creato duca di Nivron. Il mio nome sarà dunque degnamente continuato. Il giovanotto ha compiuto prodigi di valore all'attacco...»
In quel momento giunse Bertrand con una lettera in mano.
«Che cos'è questo?» disse vivamente il vecchio signore.
«Un dispaccio portato da un corriere che vi manda il re,» rispose lo scudiero.
«Il re e non la regina madre!» esclamò il duca. «Che cosa sta succedendo? Gli ugonotti riprenderebbero forse le armi, per la testa di Dio piena di reliquie!» riprese il duca drizzandosi e lanciando uno sguardo lampeggiante sui tre vegliardi. «Armerei ancora i miei soldati e, con Maximilien al mio fianco, la Normandia...»
«Sedetevi, mio buon signore,» disse il rebouteur inquieto nel vedere il duca che si lanciava in una bravata pericolosa per un convalescente.
«Leggete, mastro Corbineau,» disse il vegliardo tendendo il dispaccio al confessore.
I quattro personaggi costituivano un quadro pieno di insegnamenti per la vita umana. Lo scudiero, il prete e il medico, incanutiti dagli anni, tutti e tre in piedi davanti al loro padrone seduto in una poltrona, scambiandosi l'un l'altro solo pallidi sguardi, incarnavano ciascuno una delle idee che finiscono coll'impadronirsi dell'uomo sull'orlo della tomba. Fortemente illuminati dall'ultimo raggio del sole calante, quegli uomini silenziosi componevano un quadro sublime di malinconia e ricco di contrasti. La camera scura e solenne, dove nulla era mutato da venticinque anni, incorniciava debitamente quella pagina poetica, piena di passioni spente, rattristata dalla morte, riempita dalla religione.
«Il maresciallo d'Ancre è stato ucciso sul ponte del Louvre per ordine del re, poi... Oh, mio Dio!...»
«Finite,» gridò il signore.
«Monsignore il duca di Nivron...»
«Ebbene!»
«È morto.»
Il duca reclinò la testa sul petto, emise un gran sospiro, e rimase muto. A quelle parole, a quel sospiro, i tre vegliardi si guardarono. Parve loro che l'illustre e opulento casato d'Hérouville scomparisse davanti a loro come una nave che affonda. «Il padrone di lassù,» riprese il duca lanciando un terribile sguardo al cielo, «si mostra molto ingrato verso di me. Non si ricorda delle gesta che ho compiuto per la sua santa causa.»
«Dio si vendica,» disse il prete con voce grave. «Gettate quest'uomo in prigione,» esclamò il signore.
«Vi sarà più facile ridurmi al silenzio che tacitare la vostra coscienza.»
Il duca d'Hérouville si rifece pensoso.
«La mia casa perire! Il mio nome spegnersi! Voglio sposarmi, avere un figlio!» disse dopo una lunga pausa.
Per quanto spaventosa fosse l'espressione di disperazione dipinta sulla faccia del duca d'Hérouville, il rebouteur non poté fare a meno di sorridere. In quel momento, un canto fresco come l'aria della sera, puro come il cielo, semplice come il colore dell'Oceano, dominò il mormorio del mare e s'innalzò per incantare la natura. La malinconia di quella voce, la melodia delle parole si diffusero nell'anima come un profumo. L'armonia saliva attraverso le nuvole, riempiva l'aria; leniva come balsamo tutti i dolori, o meglio li consolava esprimendoli. La voce si univa al fruscio dell'onda con una sì rara perfezione, ch'essa sembrava uscire dal profondo dei flutti. Quel canto fu più dolce per i vegliardi della più tenera parola d'amore per una fanciulla, e recava tante religiose speranze che risuonò nel cuore come una voce emanata dal cielo.
«Che cos'è?» domandò il duca.
«Il piccolo usignolo canta,» disse Bertrand, «non tutto è perduto, né per lui, né per voi.»
«Che cosa chiamate un usignolo?»
«È il nome che abbiamo dato al figlio maggiore di monsignore,» rispose Bertrand.
«Mio figlio!» esclamò il vegliardo. «Ho dunque un figlio, qualcosa insomma che porta il mio nome e che può perpetuarmi.»
Si alzò in piedi, e si mise a camminare per la camera con un passo ora lento, ora precipitoso; poi fece un cenno di comando e licenziò i suoi uomini, ad eccezione del prete.
L'indomani mattina il duca, appoggiato al vecchio scudiero, andava lungo la spiaggia, attraverso gli scogli, cercando il figlio che un tempo aveva maledetto; lo scorse di lontano, rannicchiato in un crepaccio di granito, sdraiato al sole con noncuranza, la testa appoggiata su un ciuffo di erbe sottili, i piedi raccolti con grazia sotto il corpo. Etienne assomigliava a una rondinella che si riposa. Appena il gran vegliardo si mostrò sulla riva del mare, e il rumore dei suoi passi attutito dalla sabbia risuonò debolmente mescolandosi alla voce dei flutti, Etienne volse la testa, lanciò un grido d'uccello sorpreso, e scomparve nello stesso granito, come un topolino che si infili così prestamente nel proprio buco da far dubitare di averlo mai scorto.
«Eh! per la testa di Dio piena di reliquie, ma dove si è mai cacciato?» esclamò il signore arrivando allo scoglio sul quale il figlio era accoccolato.
«È lì,» disse Bertrand indicando una fessura stretta i cui orli erano stati levigati, consumati dall'assalto ripetuto delle alte maree.
«Etienne, mio figlio diletto!» esclamò il vegliardo.
Il figlio maledetto non rispose. Per una parte della mattinata, alternativamente il vecchio duca supplicò, minacciò, rimproverò, implorò, senza poter ottenere risposta. Talvolta taceva, applicava l'orecchio al crepaccio, e tutto quello che il debole udito gli consentiva di udire, era il sordo battito del cuore di Etienne, le cui affrettate pulsazioni risuonavano sotto la volta sonora.
«Vive almeno, quello,» disse il vegliardo con un tono di voce straziante.
A metà della giornata, il padre, al colmo della disperazione, fece ricorso alla preghiera.
«Etienne,» gli diceva, «mio caro Etienne, Dio mi ha punito per averti misconosciuto! Mi ha privato di tuo fratello! Oggi, tu sei il mio solo ed unico figlio. Ti amo più di me stesso. Ho riconosciuto il mio errore, so che hai veramente nelle tue vene il mio sangue o quello di tua madre della cui infelicità sono l'artefice. Vieni, cercherò di farti dimenticare i miei torti amandoti teneramente per tutto ciò che ho perduto. Etienne, tu sei già duca di Nivron, e sarai dopo di me duca d'Hérouville, pari di Francia, cavaliere degli Ordini e del Vello d'oro, capitano di cento uomini d'arme, gran balì di Bessin, governatore di Normandia per il re, signore di ventisette feudi dove si contano sessantanove campanili, marchese di Saint-Sever. Avrai per moglie la figlia di un principe. Sarai il capo del casato d'Hérouville. Vuoi proprio farmi morire di dolore? Vieni, vieni! Oppure io rimarrò inginocchiato qui, davanti al tuo ritiro, finché non ti abbia visto. Il tuo vecchio padre ti prega, e si umilia davanti al proprio figlio come se fosse Dio in persona.»
Il figlio maledetto non intese quel linguaggio irto di idee sociali, di vanità che non capiva, e ritrovava nella propria anima impressioni di invincibile terrore. Rimase muto, in preda a spaventevoli angosce. Verso sera il vecchio signore, dopo aver esaurito tutte le formule del linguaggio, tutte le risorse della preghiera e gli accenti del pentimento, fu colpito da una specie di contrizione religiosa. S'inginocchiò sulla sabbia, e fece questo voto:
«Giuro di elevare una cappella a San Giovanni e a Sant'Etienne, patroni di mia moglie e di mio figlio, di celebrarvi cento messe in onore della Vergine, se Dio e i santi mi rendono l'affetto del signor duca di Nivron, mio figlio, qui presente!»
Rimase in un'umiltà profonda, inginocchiato, con le mani giunte, e pregò. Ma non vedendo comparire il figlio, speranza del suo nome, grosse lacrime sgorgarono da quegli occhi così a lungo asciutti e scivolarono lungo le guance appassite. In quel momento Etienne, che non udiva più niente, strisciò sull'orlo della grotta come una giovane biscia affamata di sole, vide le lacrime di quel vegliardo abbattuto, riconobbe il linguaggio del dolore, afferrò la mano del padre, e l'abbracciò dicendo con voce angelica: «Oh, madre mia, perdono!»
Nella febbre della felicità, il governatore di Normandia portò via tra le braccia il suo grande erede che tremava come una fanciulla rapita, e sentendolo palpitare, si sforzò di rassicurarlo baciandolo con le precauzioni che avrebbe adottato per maneggiare un fiore, trovando per lui le dolci parole che non aveva mai saputo pronunziare.
«Vero Iddio, tu assomigli alla mia povera Jeanne, caro figliolo!» gli diceva. «Dimmi tutto quello che ti piacerà, io ti darò tutto quello che desideri. Sii forte! Sii in buona salute! T'insegnerò ad andare a cavallo su una giumenta dolce e gentile come tu sei dolce e gentile. Niente verrà a contrariarti. Per la Testa di Dio piena di reliquie! intorno a te tutto si piegherà come una canna al vento. Ti darò qui un potere senza limiti. Io stesso ti ubbidirò come al Dio della famiglia.»
Poco dopo il padre entrò col figlio nella camera gentilizia dove era trascorsa la triste vita della madre. Etienne andò ad un tratto ad appoggiarsi vicino a quella finestra dove aveva cominciato a vivere, dalla quale la madre gli faceva dei segnali per annunciargli la partenza del suo persecutore. Adesso, senza che ancora ne sapesse il perché, questi diventava il suo schiavo e assomigliava a quelle gigantesche creature che il potere di una fata metteva agli ordini di un giovane principe. Quella fata era la Feudalità. Rivedendo la camera malinconica in cui i suoi occhi si erano abituati a contemplare l'Oceano, le lacrime salirono agli occhi di Etienne; i ricordi della sua lunga infelicità confusi con le melodiose rimembranze dei piaceri che aveva assaporato nel solo amore che gli fosse permesso, l'amore materno, tutto gli piombò insieme sul cuore e vi sviluppò come un poema delizioso e terribile. Le emozioni di quel fanciullo abituato a vivere nelle contemplazioni dell'estasi, come altri si danno alle agitazioni del mondo, non assomigliavano a nessuna delle emozioni consuete negli uomini.
«Vivrà?» disse il vegliardo stupito dalla debolezza del suo erede sul quale si sorprese a trattenere il respiro.
«Io non potrò vivere che qui,» rispose semplicemente Etienne che lo aveva sentito.
«Ebbene! questa camera sarà la tua, figlio mio.»
«Che cosa c'è?» disse il giovane d'Hérouville sentendo dei commensali del castello che giungevano nella sala di guardia, dove il duca li aveva tutti convocati per presentare il figlio, senza dubitare del successo.
«Vieni,» gli rispose il padre prendendolo per mano e conducendolo nella grande sala.
A quell'epoca un duca e un pari, ricco di possessi come il duca d'Hérouville, con i suoi incarichi e i suoi titoli di governatore, conduceva in Francia vita da principe; i cadetti della famiglia non si rifiutavano di servirlo; aveva servitù e ufficiali: il primo luogotenente della compagnia era nei suoi confronti quello che oggi sono gli aiutanti di campo nei confronti di un maresciallo. Qualche anno dopo, il cardinale di Richelieu ebbe delle guardie del corpo. Diversi principi imparentati con la famiglia reale, i Guisa, i Condé, i Nevers, i Vendôme avevano paggi scelti tra i fanciulli dei migliori casati, ultima usanza della cavalleria scomparsa. La sua fortuna e l'antichità della razza normanna indicata dal nome (herus villa, casa del capo) avevano consentito al duca d'Hérouville di imitare la magnificenza delle famiglie che gli erano inferiori, quali i d'Epernon, i Luynes, i Balagny, i d'O, gli Zamet, considerati a quel tempo come nuovi ricchi, che nondimeno vivevano da principi. Fu dunque uno spettacolo imponente per il povero Etienne vedere il raduno degli addetti al servizio del padre. Il duca salì a una sedia posta sotto uno di quei solium o baldacchini di legno scolpito, forniti di un palco rialzato di qualche gradino, dai quali, in talune province, certi signori pronunciavano ancora le sentenze nelle loro castellanie, rare vestigia di feudalità che scomparvero sotto il regno di Richelieu. Quella specie di trono, simile ai banchi dei fabbricieri nelle chiese, è diventato oggetto di curiosità. Quando Etienne si trovò lì, vicino al vecchio padre, rabbrividì nel vedersi il punto di mira di tutti gli sguardi.
«Non tremare,» gli disse il duca abbassando la testa calva fino all'orecchio del figlio, «perché tutta questa è la nostra gente.»
Attraverso le tenebre semiluminose prodotte dal sole calante, i cui raggi infiammavano le finestre della sala, Etienne scorgeva il balì, i capitani e i luogotenenti in armi, accompagnati da alcuni soldati, gli scudieri, il cappellano, i segretari, il medico, il maggiordomo, gli uscieri, l'intendente, i battistrada, i guardacaccia, tutta la servitù e i valletti. Benché tutta questa gente mantenesse un atteggiamento rispettoso imposto dal terrore che ispirava il vegliardo alle persone più considerevoli che vivevano nella sua provincia e al suo comando, serpeggiava un rumore sordo prodotto da un'attesa curiosa. Quel rumore strinse il cuore di Etienne che per la prima volta provava l'influenza della pesante atmosfera di una sala dove respirava una folla numerosa; i suoi sensi, abituati all'aria pura e sana del mare, furono offesi con una rapidità che rivelava la perfezione dei suoi organi. Un'orribile palpitazione, dovuta a un qualche vizio nella costituzione del cuore, lo scosse con i suoi colpi precipitosi quando il padre, costretto a mostrarsi come un vecchio leone maestoso, pronunciò con voce solenne, il discorsetto seguente: «Amici miei, ecco mio figlio Etienne, il mio primogenito, il mio erede presunto, il duca di Nivron, al quale il re confermerà sicuramente le cariche del suo defunto fratello; ve lo presento affinché voi lo riconosciate e gli ubbidiate come a me stesso. Vi avverto che se uno di voi, o se qualcuno nella provincia di cui ho il governo, dispiacesse al giovane duca o lo offendesse in qualsivoglia maniera, meglio sarebbe, così stando le cose, ed io sapendolo, che questo qualcuno non fosse mai uscito dal ventre di sua madre. Avete inteso? Tornate tutti ai vostri affari, e che Dio vi guidi. Le esequie di Maximilien d'Hérouville si svolgeranno qui, quando il suo corpo vi sarà ricondotto. La casa prenderà il lutto fra otto giorni. In seguito, festeggeremo l'avvento di mio figlio Etienne.»
«Viva Monsignore! Viva gli Hérouville!» fu gridato in modo da far mugghiare il castello.
I valletti portarono le fiaccole per illuminare la sala. Quell'evviva, quella luce, e le sensazioni suscitate in Etienne dal discorso del padre, unite a quelle che già aveva provato, gli provocarono un mancamento totale, cosicché egli cadde sulla poltrona abbandonando la mano femminea nella larga mano del padre. Quando il duca, che aveva fatto cenno al luogotenente della sua compagnia di avvicinarsi, gli disse: «Ebbene, barone d'Artognon, sono lieto di poter riparare la mia perdita, venite a vedere mio figlio!» questi sentì nella sua mano una mano fredda, guardò il nuovo duca di Nivron, lo credette morto, e lanciò un grido di terrore che spaventò l'assemblea.
Beauvouloir aprì il palco, prese il ragazzo tra le braccia, e lo portò via dicendo al suo padrone: «Voi l'avete ucciso non preparandolo a questa cerimonia.»
«Non potrà dunque aver figli, se così le cose stanno?» esclamò il duca che seguì Beauvouloir nella camera gentilizia, dove il medico andò a coricare il giovane erede.
«Ebbene, maestro?» chiese ansiosamente il padre.
«Non sarà niente,» rispose il vecchio servitore mostrando al suo signore Etienne rianimato da un cordiale del quale gli aveva somministrato qualche goccia su una zolletta di zucchero, nuova e preziosa sostanza che gli speziali vendevano a peso d'oro.
«Prendi, vecchia canaglia,» disse il vecchio signore, tendendo la sua borsa a Beauvouloir, «e curalo come un figlio di re. Se morisse per colpa tua, ti brucerei io stesso sopra una griglia.»
«Se continuate a mostrarvi violento, il duca di Nivron morirà per colpa vostra,» disse brutalmente il medico al padrone, «lasciatelo, si sta addormentando.»
«Buona sera, amore mio,» disse il vegliardo baciando il figlio in fronte.
«Buona sera, padre mio,» riprese il ragazzo, la cui voce fece trasalire il duca che per la prima volta si sentiva dare da Etienne il nome di padre.
Il duca prese Beauvouloir per il braccio lo condusse nella sala vicina e lo spinse nel vano di una finestra dicendogli: «Ah, questa poi! Ah, ah! vecchio briccone, a noi due!»
L'espressione, che era la gratificazione preferita del duca, fece sorridere il medico che da tempo aveva abbandonato le sue pratiche.
«Tu sai,» seguitò il duca, «ch'io non ti voglio male. Due volte hai fatto partorire la mia povera Jeanne; hai guarito mio figlio Maximilien da una malattia, e in conclusione fai parte della mia casa. Povero figliolo! Lo vendicherò, mi incarico io di colui che me l'ha ucciso! Tutto l'avvenire della casa d'Hérouville è dunque tra le tue mani. Voglio far sposare quel ragazzo senza por tempo in mezzo. Solo tu puoi sapere se c'è la possibilità di trovare in quell'aborto stoffa per fare degli Hérouville... Tu mi capisci. Che cosa credi?»
«La sua vita, in riva al mare, è stata così casta e pura che la natura in lui è più vigorosa che se fosse vissuto nel vostro mondo. Ma un corpo così delicato è l'umilissimo servitore dell'anima. Monsignor Etienne deve scegliere lui stesso la propria moglie, perché tutto in lui sarà opera della natura, e non dei vostri voleri. Egli amerà ingenuamente, e farà, per desiderio del cuore, ciò che vi augurate faccia per il vostro nome. Date a vostro figlio una grande dama che sia una giumenta, e andrà a nascondersi fra i suoi scogli; peggio ancora! un vivo terrore lo ucciderebbe a colpo sicuro, ma anche una felicità troppo subitanea lo fulminerebbe. Per evitare tale disgrazia, a parer mio occorre che Etienne s'inoltri per le vie dell'amore da solo, e come a lui piaccia. Ascoltate, monsignore, benché voi siate un principe grande e potente, non capite niente in questo genere di cose. Accordatemi tutta quanta la vostra fiducia, senza limiti, e avrete un nipotino.»
«Se ottengo un nipotino, con qualsivoglia sortilegio, io ti farò nobile. Sì, benché sia difficile, da vecchia canaglia diverrai un gentiluomo, sarai Beauvouloir, barone di Forcalier. Serviti di ogni mezzo, della magia bianca e nera, delle novene in chiesa e degli appuntamenti ai sabba. A condizione ch'io abbia una discendenza maschile, tutto andrà bene.»
«Conosco,» disse Beauvouloir, «un capitolo di stregoni in grado di rovinare tutto; questo sabba siete soltanto voi, monsignore. Vi conosco. Oggi desiderate ad ogni costo una discendenza; domani vorrete stabilire a quali condizioni deve venire questa discendenza, e tormenterete vostro figlio.»
«Dio me ne guardi!»
«Ebbene! Andate a corte dove la morte del maresciallo e l'emancipazione del re deve aver messo tutto sotto sopra, e dove voi avete da fare, non fosse che per farvi dare il bastone di maresciallo che vi è stato promesso. Lasciatemi governare monsignor Etienne. Ma datemi la vostra parola di gentiluomo che mi approverete, qualunque cosa io faccia.»
Il duca dette un colpo sulla mano del vegliardo in segno di totale adesione, e si ritirò nel suo appartamento.
Quando i giorni di un alto e potente signore sono contati, in casa il medico è un personaggio importante. Non vi è perciò da meravigliarsi nel vedere un ex rebouteur divenuto così familiare del duca d'Hérouville. A parte i legami illegittimi mediante i quali il suo matrimonio l'aveva imparentato con quel grande casato, e che militavano a suo favore, il duca aveva avuto così spesso la prova del grande senno dello scienziato, che ne aveva fatto uno dei suoi consiglieri favoriti. Beauvouloir era il Coyctier di quel Luigi XI. Ma qualunque fosse il valore della sua scienza, il medico non aveva la stessa influenza della feudalità sul governatore di Normandia, nel quale continuava a manifestarsi la ferocia delle guerre di religione. Perciò il servitore aveva indovinato che i pregiudizi del nobile nuocevano agli auspici del padre. Da gran medico quale era, Beauvouloir capì che in una costituzione delicata come quella di Etienne, il matrimonio doveva essere una lenta e dolce ispirazione che gli comunicasse nuove forze, animandolo col fuoco dell'amore. Come egli aveva detto, imporre una moglie a Etienne significava ucciderlo. Si doveva soprattutto evitare che quel giovane solitario si spaventasse del matrimonio di cui non sapeva niente, e che conoscesse il fine di cui si preoccupava il padre. Quel poeta sconosciuto non ammetteva che la nobile e bella passione di Petrarca per Laura, di Dante per Beatrice. Come la madre, era tutto amore puro, e tutto anima; gli si doveva offrire l'occasione di amare, attendere l'avvenimento, e non comandarlo; un ordine avrebbe disseccato in lui le sorgenti della vita.
Mastro Antoine de Beauvouloir era padre, aveva una figlia allevata in condizioni che ne facevano la sposa di Etienne. Era così difficile prevedere gli eventi che avrebbero reso un figlio, destinato dal padre al cardinalato, l'erede presunto della casa d'Hérouvillè, che Beauvouloir non aveva mai notato la somiglianza dei destini di Etienne e di Gabrielle. Fu un'idea subitanea, ispirata dalla sua devozione a quei due esseri, più che dalla sua ambizione. Nonostante la sua abilità, la moglie gli era morta di parto nel dargli una figlia, la cui salute fu così fragile ch'egli pensò che la madre avesse trasmesso al proprio frutto i germi della morte. Beauvouloir amò la sua Gabrielle come tutti i vegliardi amano il loro unico rampollo. La sua scienza e le sue cure costanti regalarono una vita fittizia alla gracile creatura che egli coltivò come un fioraio coltiva una pianta forestiera. L'aveva sottratta a tutti gli sguardi nella sua proprietà di Forcalier, dove fu protetta contro le insidie del tempo dalla benevolenza generale che circondava un uomo al quale ognuno doveva un cero, e il cui potere scientifico ispirava una sorta di rispettoso terrore. Imparentandosi con la casa d'Hérouville, aveva accresciuto le immunità di cui godeva nella provincia e sventato le vessazioni dei suoi nemici con la sua temibile posizione presso il governatore, ma si era ben guardato, venendo al castello, di condurvi il fiore che teneva sepolto a Forcalier, proprietà più importante per le terre che ne dipendevano che per l'abitazione, e sulla quale contava per trovare alla figlia una posizione conforme ai suoi piani. Promettendo al vecchio duca una posterità, chiedendogli la promessa d'approvare la sua condotta, pensò all'improvviso a Gabrielle, a quella dolce bambina, la cui madre era stata dimenticata dal duca come aveva dimenticato il figlio Etienne. Attese la partenza del padrone prima di porre in atto il suo piano, prevedendo che se il duca ne fosse venuto a conoscenza, le enormi difficoltà, che avrebbero potuto essere eliminate in virtù di un risultato favorevole, sarebbero state insormontabili fin dall'inizio.
La casa di mastro Beauvouloir era esposta a mezzogiorno, sul versante di una di quelle dolci colline che circondano le vallate di Normandia; un folto bosco la cingeva a tramontana; alti muri e siepi normanne con i loro fossati profondi, formavano un impenetrabile recinto. Il giardino scendeva, in dolce declivio, sino al fiume che bagnava i pascoli della valle, e a cui l'alta scarpata sulla quale correva una doppia siepe, formava in quel punto una bordura naturale. All'interno della siepe, si snodava un segreto vialetto disegnato dalla sinuosità delle acque, folto di salici, faggi e querce, come il sentiero di una foresta. Dalla casa fino a quel bastione si estendevano le masse del verde tipico di quel ricco paese, bella distesa ombreggiata da un filare di alberi rari, le cui sfumature componevano una tappezzeria felicemente variopinta; là, la tinta argentea di un pino si stagliava sul verde cupo di alcuni ontani; qui, davanti a un gruppo di vecchie querce, svettava la chioma sempre agitata di un pioppo slanciato; più lontano alcuni salici piangenti reclinavano le loro pallide foglie tra i grossi noci dalla chioma rotonda. Il filare permetteva di scendere, a ogni ora del giorno, dalla casa verso la siepe senza dover temere i raggi del sole. La facciata, davanti alla quale si snodava il nastro giallo di una terrazza sabbiosa, era ombreggiata da una galleria di legno intorno alla quale si attorcigliavano piante rampicanti che nel mese di maggio proiettavano i loro fiori sino alle finestre del primo piano. Senza essere vasto, il giardino sembrava immenso per il modo in cui era disegnato; e i suoi punti panoramici, abilmente disposti sulle alture del terreno, si sposavano a quelli della valle ove l'occhio spaziava liberamente. Secondo gli impulsi del pensiero, Gabrielle poteva ritrovare la solitudine di uno spazio ridotto senza scorgervi altro che un'erba folta e l'azzurro del cielo tra le cime degli alberi, oppure librarsi sulle più ricche prospettive seguendo le sfumature delle linee verdi, dai loro primi piani così splendenti fino al fondo puro dell'orizzonte dove esse si perdevano, ora nell'oceano azzurro dell'aria, ora nelle montagne di nuvole che vi galleggiavano.
Curata dalla nonna, servita dalla nutrice, Gabrielle Beauvouloir non usciva da quella casa modesta se non per recarsi alla parrocchia, il cui campanile si scorgeva sulla cima della collina, e sempre l'accompagnavano l'ava, la nutrice e il valletto del padre. Era quindi arrivata all'età di diciassette anni nella soave ignoranza che la rarità dei libri permetteva a una fanciulla di conservare, senza che sembrasse straordinaria in un tempo in cui le donne istruite erano fenomeni rari. Quella casa era stata come un convento, più la libertà, meno la preghiera imposta, in cui ella era vissuta sotto gli occhi di una vecchia pia, sotto la protezione del padre, l'unico uomo che avesse mai visto. Tale solitudine profonda, richiesta fin dalla nascita dalla debolezza apparente della sua costituzione, era stata accuratamente intrattenuta da Beauvouloir. Via via che Gabrielle cresceva, le cure che le venivano prodigate, l'influenza di un'aria pura, avevano in verità fortificato la sua gracile giovinezza. Nondimeno il dotto medico non poteva ingannarsi nel vedere le ombre madreperlacee che circondavano gli occhi della figlia, intenerirsi, scurirsi, infiammarsi a seconda delle emozioni; la debolezza del corpo e la forza dell'anima si manifestavano attraverso indizi che la sua lunga pratica gli permettevano di riconoscere; inoltre, la celeste bellezza di Gabrielle gli aveva fatto temere le scellerate imprese tanto comuni in un tempo di violenza e di sedizione. Mille ragioni avevano perciò consigliato a quel buon padre d'infittire l'ombra e d'ingrandire la solitudine intorno alla figlia, la cui eccessiva sensibilità lo spaventava; una passione, un rapimento, un assalto qualunque, gliel'avrebbero ferita a morte. Benché la fanciulla incorresse raramente in un rimprovero, una parola d'ammonizione la sconvolgeva; ella la conservava in fondo al cuore dove penetrava e generava una malinconia meditabonda; andava a piangere, e piangeva a lungo. Il vecchio medico aveva dovuto rinunciare a raccontare alla figlia le storie che incantano i bambini, giacché ella ne riceveva troppo vive impressioni. Perciò quell'uomo, che una lunga pratica di vita aveva reso così sapiente, si era dato premura di sviluppare il corpo della figlia per ammortire i colpi inferti da un'anima così vigorosa. Poiché Gabrielle era tutta la sua vita, il suo amore, la sua sola erede, non aveva mai esitato a procurarsi le cose il cui apporto doveva dare il risultato desiderato. Tenne accuratamente lontani i libri, i quadri, la musica, tutte le creazioni delle arti che potevano risvegliare il pensiero. Con l'aiuto della madre, interessava Gabrielle a lavori manuali. La tappezzeria, il cucito, il merletto, la coltivazione dei fiori, le faccende domestiche, la raccolta della frutta, insomma le occupazioni più materiali della vita, venivano date in pasto allo spirito della deliziosa creatura; Beauvouloir le portava begli arcolai, cassapanche finemente scolpite, ricchi tappeti, vasellame di Bernard de Palissy, tavole, inginocchiatoi, sedie scolpite e ricoperte di stoffe preziose, biancheria ricamata, gioielli. Con l'istinto della paternità, il vegliardo sceglieva sempre i suoi regali tra le opere i cui ornamenti appartenevano al genere fantastico detto arabesco, e che non parlano né ai sensi né all'anima, ma si rivolgono soltanto allo spirito mediante le creazioni della fantasia pura. Così, cosa strana, la vita che l'odio di un padre aveva ingiunto a Etienne d'Hérouville, l'amore paterno aveva detto a Beauvouloir d'imporla a Gabrielle. Nell'uno e nell'altra l'anima doveva uccidere il corpo; e senza una profonda solitudine, stabilita dal caso nell'uno, voluta dalla scienza nell'altra, potevano entrambi soccombere, l'uno al terrore, l'altra sotto il peso di una troppo viva emozione d'amore. Ma, ahimé! invece di nascere in un paese di lande e di brughiere, nel cuore di una natura arida dalle forme decise e dure, che tutti i grandi pittori hanno dato come sfondo alle loro vergini, Gabrielle viveva in fondo a una grassa e opulenta vallata. Beauvouloir non aveva potuto distruggere l'armoniosa disposizione dei boschetti naturali, l'aggraziata disposizione delle aiuole di fiori, la fresca morbidezza del tappeto verde, l'amore espresso dagli allacciamenti delle piante rampicanti. Queste vivaci poesie avevano il loro linguaggio, più inteso che capito da Gabrielle, la quale si lasciava andare a confuse fantasticherie all'ombra degli alberi; attraverso le idee nebulose che le suggerivano le sue ammirate contemplazioni sotto un bel cielo, e i suoi lunghi studi di quel paesaggio osservato in tutti gli aspetti che vi imprimevano le stagioni e le variazioni di un'atmosfera marina ove vengono a morire le brume dell'Inghilterra, ove cominciano le luminosità della Francia, si faceva strada nella sua mente una luce lontana, un'aurora che squarciava le tenebre in cui la manteneva il padre.
Beauvouloir non aveva sottratto Gabrielle neanche all'influenza dell'amore divino: all'ammirazione della natura ella associava l'adorazione del Creatore; si era lanciata nella prima via aperta ai sentimenti femminili: amava Dio, amava Gesù, la Vergine e i santi, amava la Chiesa e le sue pompe; era cattolica al modo di santa Teresa che vedeva in Gesù un infallibile sposo, un continuo matrimonio. Ma Gabrielle si abbandonava a questa passione delle anime forti con una semplicità così toccante, che avrebbe disarmato la seduzione più brutale con l'infantile ingenuità del suo linguaggio.
Dove conduceva Gabrielle, quella vita d'innocenza? Come istruire un'intelligenza pura come l'acqua di un lago tranquillo che abbia riflesso soltanto l'azzurro del cielo? Quali immagini disegnare su quella tela bianca? Attorno a quale albero fare avvolgere le campanule candide sbocciate su quel convolvolo? Mai il padre si era posto domande del genere senza provare un brivido interiore. In quel momento, il buon vecchio scienziato camminava lentamente sulla sua mula, come se avesse voluto rendere eterna la strada che conduceva dal castello d'Hérouville a Ourscamp, nome del villaggio presso il quale si trovava la sua proprietà di Forcalier. L'amore infinito che nutriva per la figlia, gli aveva fatto concepire un sì ardito progetto! Un solo essere al mondo poteva renderla felice, e quell'uomo era Etienne. Certo, il figlio angelico di Jeanne de Saint-Savin e la candida figlia di Gertrude Marano erano due creature gemelle. Qualunque altra donna che non fosse Gabrielle doveva spaventare e uccidere l'erede presunto della casa d'Hérouville, proprio come sembrava a Beauvouloir che Gabrielle dovesse perire a causa di ogni uomo, i cui sentimenti e le cui forme esteriori non avessero la virginale delicatezza di Etienne. Evidentemente il povero medico non vi aveva mai pensato; il caso si era compiaciuto di quel ravvicinamento, e lo imponeva. Ma sotto il regno di Luigi XIII osar convincere il duca d'Hérouville a far sposare il suo unico figlio con la figlia di un rebouteur normanno! E nondimeno, da questo matrimonio soltanto poteva risultare quella stirpe che voleva imperiosamente il vecchio duca. La natura aveva destinato quei due begli esseri l'uno all'altro, Dio li aveva ravvicinati mediante un'incredibile disposizione di eventi, mentre le idee umane, le leggi, ponevano fra di loro abissi invalicabili. Benché il vegliardo credesse di vedervi il dito di Dio, e nonostante la promessa che aveva strappato al duca, egli fu colto da una tale apprensione pensando alle violenze di quel carattere indomito, che tornò sui suoi passi nel momento in cui, pervenuto sulla sommità della collina opposta a quella di Ours camp, scorse il fumo che saliva dal tetto tra gli alberi della sua proprietà. Fu deciso dall'illegittima parentela, considerazione che poteva influire sull'animo del suo padrone. Poi, una volta deciso, Beauvouloir ebbe fiducia nei casi della vita; poteva darsi che il duca morisse prima del matrimonio; e d'altro canto faceva assegnamento sugli esempi: una contadina del Delfinato, Françoise Mignot, aveva appena sposato il maresciallo de l'Hôpital; il figlio del conestabile Anne de Montmorency aveva appena sposato Diane, figlia di Enrico II e di una dama piemontese chiamata Philippe Duc.
Durante tale deliberazione, in cui l'amore paterno valutava tutte le possibilità, discuteva le buone come le cattive probabilità, e cercava di intravedere l'avvenire soppesandone gli elementi, Gabrielle passeggiava nel giardino dove sceglieva alcuni fiori per ornarne i vasi dell'illustre vasaio che fece con lo smalto ciò che Benvenuto Cellini aveva fatto con i metalli. Gabrielle aveva messo quel vaso, adorno di animali in rilievo, su una tavola, in mezzo al salotto, e lo riempiva di fiori per rallegrare la nonna, e fors'anche per dare una forma ai propri pensieri. Il grande vaso di maiolica, detta di Limoges, era pieno, ultimato, posato sul sontuoso tappeto che copriva la tavola, e Gabrielle diceva alla nonna: «Guardate un po'!», allorché Beauvouloir entrò. La figlia corse a gettarsi tra le braccia del padre. Dopo le prime effusioni di tenerezza, Gabrielle volle che il vegliardo ammirasse il mazzo, ma dopo averlo guardato, Beauvouloir gettò sulla figlia uno sguardo profondo che la fece arrossire.
«È tempo,» egli si disse comprendendo il linguaggio di quei fiori di cui ciascuno era stato certamente studiato nella forma e nel colore, tanto ciascuno era ben sistemato al suo posto, dove creava un effetto magico nel mazzo.
Gabrielle rimase in piedi, senza pensare al fiore cominciato sul telaio. Alla vista della figlia, una lacrima sgorgò dagli occhi di Beauvouloir, solcò le guance che assumevano ancora difficilmente un'espressione seria, e cadde sulla camicia che il farsetto aperto sul ventre lasciava intravedere sopra le brache, secondo la moda del tempo. Gettò il cappello adorno di una vecchia piuma rossa, per poter fare con la mano il giro della propria testa pelata. Contemplando di nuovo la figlia che, sotto le travi scure del salotto tappezzato di cuoio, adorno di mobili d'ebano, di portiere di grosse stoffe di seta, decorato da un alto camino, e illuminato da una tenera luce, era ancora tutta sua, il povero padre sentì le lacrime agli occhi e le asciugò. Un padre che ama un figlio vorrebbe che restasse sempre piccolo; quanto a colui che senza un profondo dolore può vedere la propria figlia passare sotto il dominio di un altro uomo, costui non risale verso i mondi superiori, ma scende verso le specie infime.
«Che cosa avete, figlio mio?» chiese la vecchia madre togliendosi gli occhiali e cercando nell'atteggiamento solitamente allegro del brav'uomo la ragione del silenzio che la sorprendeva.
Il vecchio medico additò la figlia all'ava che annuì con un gesto di soddisfazione, come per dire: «È davvero carina!»
Chi non avrebbe provato l'emozione di Beauvouloir nel vedere la fanciulla così come la disegnava l'abbigliamento dell'epoca e la luce fresca della Normandia? Gabrielle indossava quel bustino a punta davanti, e quadrato sul dietro, di cui quasi tutti i pittori italiani hanno rivestito le loro sante e le loro madonne. L'elegante giubbetto celeste, grazioso come quello di una libellula rivestiva il busto come un corsetto, comprimendolo in modo da modellare finemente le forme che sembrava appiattisse, disegnava le spalle, il dorso, la vita, con la precisione di un disegno fatto dal più abile artista, e terminava con una scollatura oblunga guarnita da un leggero ricamo di seta color bruno pallido, che lasciava vedere tanto nudo quando era necessario per mostrare la bellezza della donna, ma non abbastanza per risvegliare il desiderio. Un abito color bruno pallido, che continuava il disegno di linee sottolineate dal corpetto di velluto, ricadeva fino ai piedi formando pieghe sottili e come appiattite. La figura era così sottile che Gabrielle sembrava alta. Il suo braccio minuto pendeva con l'inerzia che un pensiero profondo imprime all'atteggiamento. In quella posa, ella era un modello vivente degli ingenui capolavori della statuaria, gusto allora diffuso e che suscitava l'ammirazione per la soavità delle linee diritte, ma non rigide, nonché per la fermezza di un disegno che non esclude la vita. Mai profilo di rondine offrì, sfiorando a sera una finestra, forme più elegantemente delineate. Il viso di Gabrielle era minuto senza essere piatto, e il suo collo e la sua fronte erano percorsi da sottili fili bluastri che vi disegnavano sfumature simili a quelle dell'agata, mostrando la delicatezza di un incarnato così trasparente che quasi si sarebbe creduto di veder scorrere il sangue nelle vene. Quel candore eccessivo era tenuamente roseo sulle guance. Nascosti sotto una calottina di velluto azzurro ricamato di perle, i suoi capelli, di un biondo uniforme, correvano come due ruscelli d'oro lungo le tempie, inanellandosi sulle spalle che lasciavano scoperte. Il colore caldo di quella serica capigliatura animava il candore abbagliante del collo e purificava ulteriormente, col suo riflesso, il profilo del volto già così puro. Gli occhi, lunghi e come compressi tra le palpebre carnose, erano in armonia con la finezza del corpo e della testa; il grigio perla vi brillava senza vivacità, il candore vi celava la passione. La linea del naso sarebbe parsa fredda come una lama d'acciaio, senza due narici vellutate e rosee i cui palpiti sembravano in disaccordo con la castità di una fronte sognante, spesso stupita, talora ridente, e sempre di un'augusta serenità. Infine, un piccolo orecchio vivace attirava lo sguardo, mostrando sotto la calotta, tra due ciuffi di capelli, la goccia di un rubino, il cui colore spiccava vigorosamente sul niveo collo. Non era né la bellezza normanna in cui la carne abbonda, né la bellezza meridionale in cui la passione ingrandisce la materia, né la bellezza francese, fuggitiva come le sue espressioni, né la bellezza del nord malinconica e fredda, era la serafica e profonda bellezza della Chiesa cattolica, flessibile e rigida, severa e tenera.
«Dove si troverà una duchessa più graziosa?» si disse Beauvouloir compiacendosi nel guardare Gabrielle che, leggermente inclinata, mentre tendeva il collo per seguire fuori il volo di un uccello, poteva essere paragonata soltanto a una gazzella fermatasi ad ascoltare il murmure dell'acqua, là dove va a dissetarsi.
«Vieni a sederti qui,» disse, battendosi la coscia e facendo a Gabrielle un cenno che annunciava una confidenza Gabrielle capì e venne. Si posò sul padre con la leggerezza della gazzella, e passò il braccio intorno al collo di Beauvouloir il cui colletto fu bruscamente sgualcito.
«A chi stavi pensando mentre coglievi quei fiori? Mai li hai disposti con tanta eleganza.»
«A molte cose,» ella disse. «Ammirando quei fiori, che sembrano fatti per noi, io mi chiedevo per chi siamo fatti noi, quali sono gli esseri che ci guardano. Voi siete mio padre, posso dirvi ciò che accade in me; siete abile, mi spiegherete tutto. Io sento in me come una forza che vuole esercitarsi, lotto contro qualcosa. Quando il cielo è grigio, sono contenta a metà, sono triste, ma calma. Quando fa bello, e i fiori profumano, e io sono laggiù sulla mia panchina sotto il caprifoglio e i gelsomini, salgono in me come delle ondate che si infrangono contro la mia immobilità. Mi vengono in mente idee che battono contro di me e fuggono come gli uccelli a sera, alle nostre finestre. Non posso trattenerle. Ebbene! quando ho fatto un mazzo dove i colori sfumano come in una tappezzeria, dove il rosso invade il bianco, il verde e il bruno s'incrociano, quando tutto vi abbonda, e l'aria vi gioca, e vi è contrasto di fiori e un miscuglio di profumi e calici che cozzano fra loro, io mi sento come felice ravvisando ciò che accade in me. Quando, in chiesa, suona l'organo e il clero risponde, e vi sono due canti distinti che si parlano, le voci umane e la musica, ebbene, io sono contenta, quell'armonia mi risuona nel petto, prego con un piacere che mi ravviva il sangue...»
Ascoltando la figlia, Beauvouloir la esaminava con occhio sagace: il suo sguardo sarebbe sembrato attonito per la forza stessa dei pensieri che ne irraggiavano, proprio come l'acqua di una cascata sembra immobile. Egli sollevava il velo di carne che gli nascondeva il gioco segreto con il quale l'anima reagisce sul corpo, studiava i sintomi diversi che la sua lunga esperienza aveva colto in tutte le persone affidate alle sue cure, e li paragonava ai sintomi contenuti in quel corpo fragile le cui ossa lo terrorizzavano per la loro delicatezza, il cui colorito latteo lo spaventava per la sua scarsa consistenza; e cercava di collegare gli insegnamenti della sua scienza all'avvenire di quell'angelica fanciulla, e aveva le vertigini trovandosi così, come se fosse stato su un abisso; la voce troppo vibrante, il petto troppo grazioso di Gabrielle lo inquietavano, e interrogava se stesso, dopo averla interrogata.
«Tu soffri, qui!» esclamò infine, spinto da un ultimo pensiero in cui si riassunse la sua meditazione. Ella chinò delicatamente la testa. «Alla grazia di Dio!» disse il vegliardo sospirando.
«Ti porto al castello di Hérouville. Al mare potrai fare dei bagni che ti fortificheranno.»
«È vero, padre mio? non vi prendete gioco della vostra Gabrielle? Ho tanto desiderato vedere il castello, gli uomini d'arme, i capitani e monsignore.»
«Sì, figlia mia. La tua nutrice e Jean ti accompagneranno.»
«Presto?»
«Domani,» disse il vegliardo che si precipitò in giardino per nascondere la propria agitazione alla madre e alla figlia.
«Dio m'è testimone,» esclamò, «che nessun pensiero ambizioso mi fa agire. Mia figlia da salvare, il povero piccolo Etienne da rendere felice, ecco, questi sono i miei soli motivi!»
Se interrogava in tal modo se stesso, è in quanto sentiva, in fondo alla propria coscienza, un'inestinguibile soddisfazione nel sapere che, grazie alla riuscita del proprio progetto, un giorno Gabrielle sarebbe stata duchessa d'Hérouville. Vi è sempre un uomo in un padre. Passeggiò a lungo, rientrò per cena, e per tutta la serata si compiacque nel guardare la figlia nell'alone della dolce e malinconica poesia alla quale l'aveva abituata.
Quando, prima di coricarsi, la nonna, la nutrice, il medico e Gabrielle si inginocchiarono per recitare la loro preghiera in comune, egli disse loro: «Supplichiamo tutti quanti Dio perché benedica la mia iniziativa.»
La nonna, che conosceva il proposito del figlio, ebbe gli occhi inumiditi da ciò che le restava di lacrime. La curiosa Gabrielle aveva il viso rosso di felicità. Il padre tremava, tanto aveva paura di una catastrofe.
«Dopo tutto,» gli disse la madre, «non ti spaventare, Antoine! Il duca non ucciderà la sua nipotina.»
«No,» rispose, «ma può costringerla a sposare un masnadiero di barone che ce la ferirebbe.»
L'indomani Gabrielle, salita su un asino, seguita dalla nutrice a piedi, dal padre che cavalcava la sua mula, e accompagnata dal valletto che conduceva due cavalli carichi di bagagli, si mise in cammino verso il castello d'Hérouville, dove la carovana arrivò soltanto all'imbrunire. Per poter mantenere il segreto del viaggio, Beauvouloir si era incamminato per vie traverse partendo di buon mattino, e aveva fatto portare delle provviste da consumare in viaggio, senza farsi vedere nelle locande. Beauvouloir entrò dunque di notte, senza essere notato dagli abitanti del castello, nell'abitazione che il figlio maledetto aveva occupato così a lungo, e dove l'attendeva Bertrand, la sola persona con la quale si fosse confidato. Il vecchio scudiero aiutò il medico, la nutrice e il valletto a scaricare i cavalli, a trasportare il bagaglio e a sistemare la figlia di Beauvouloir nella dimora di Etienne. Quando Bertrand vide Gabrielle, restò sbalordito.
«Mi sembra di vedere la signora!» esclamò. «È snella e sottile come lei, ha i suoi colori pallidi e i suoi capelli biondi; il vecchio duca l'amerà.»
«Dio lo voglia!» disse Beauvouloir. «Ma riconoscerà il suo sangue attraverso il mio?»
«Non può rinnegarlo,» disse Bertrand. «Sono andato spesso a prenderlo alla porta della Bella Romana, che abitava in via Culture-Sainte-Catherine. Il cardinale di Lorena fu costretto a lasciarla a monsignore, per la vergogna di essere stato maltrattato uscendo da casa sua. Monsignore che a quei tempi andava per i vent'anni, deve ben ricordarsi di quell'imboscata, era già assai ardito, posso ben raccontarlo oggi, faceva rigare i suoi nemici!»
«Non pensa più a tutto ciò,» disse Beauvouloir. «Sa che mia moglie è morta, ma sa a malapena che ho una figlia!»
«Due vecchi soldatacci come noi condurranno la barca in porto,» disse Bertrand. «Dopo tutto, se il duca va in collera e se la prende con le nostre carcasse, hanno fatto il loro tempo.»
Prima di partire, il duca d'Hérouville aveva proibito a tutti gli abitanti del castello, minacciando le pene più severe, di andare sulla spiaggia dove Etienne aveva trascorso la vita fino a quel momento, a meno che il duca di Nivron non vi avesse condotto qualcuno con sé. L'ordine, suggerito da Beauvouloir, il quale aveva dimostrato la necessità di lasciare Etienne padrone delle proprie abitudini, garantiva a Gabrielle e alla nutrice l'inviolabilità del territorio dal quale il medico ordinò di non uscire mai senza il suo permesso.
Durante quei due giorni Etienne era rimasto nella camera gentilizia, dove lo tratteneva la suggestione dei suoi dolorosi ricordi. Quel letto era stato il letto di sua madre; a due passi ella aveva subito la terribile scena del parto in cui Beauvouloir aveva salvato due esistenze, a quei mobili aveva confidato i suoi pensieri, se n'era servita, i suoi occhi avevano spesso errato su quei soffitti; quante volte era venuta a quella finestra per chiamare, con un grido, con un gesto, il suo povero bambino sconfessato, ora padrone assoluto del castello. Rimasto solo nella camera dove l'ultima volta era venuto di nascosto, condotto da Beauvouloir per dare un ultimo bacio alla madre morente, egli ve la faceva rivivere, le parlava, l'ascoltava; si abbeverava a quella sorgente che non inaridisce mai, e da cui sgorgano tanti canti simili al Super Flumina Babylonia. L'indomani del suo ritorno, Beauvouloir andò a trovare il padrone e lo rimproverò dolcemente per essere rimasto in camera senza uscire, facendogli osservare che non doveva sostituire alla vita all'aria aperta, la vita di un prigioniero.
«Questo luogo è assai spazioso,» rispose Etienne, «vi è l'anima di mia madre.»
Il medico ottenne tuttavia, con la dolce influenza dell'affetto, che Etienne passeggiasse ogni giorno sia in riva al mare, sia fuori nelle campagne che gli erano sconosciute. Nondimeno Etienne, sempre in preda ai ricordi, l'indomani restò fino a sera alla finestra, intento a guardare il mare che gli offrì aspetti così svariati da credere di non averlo mai visto così bello. Alle sue contemplazioni alternò la lettura del Petrarca, uno dei suoi autori favoriti, quello la cui poesia gli andava più diritta al cuore per la costanza e l'unità del suo amore. Etienne non aveva in sé la stoffa di innumerevoli passioni, non poteva amare che in un solo modo, una sola volta. Se quest'amore doveva essere profondo, come tutto ciò che è uno, doveva essere calmo nelle sue espressioni, soave e puro come i sonetti del poeta italiano. Al tramonto, il figlio della solitudine si mise a cantare con quella voce meravigliosa che era risuonata come una speranza alle orecchie più sorde alla musica, quelle di suo padre. Egli espresse la propria malinconia variando una medesima aria che ripeté diverse volte alla maniera dell'usignolo. L'aria, attribuita al defunto re Enrico IV, non era quella di Gabrielle, ma un'aria assai superiore per fattura, melodia, espressione di tenerezza, e che gli ammiratori dei vecchi tempi riconosceranno dalle parole anch'esse composte dal grande re; essa si ispirò probabilmente ai ritornelli che avevano cullato la sua infanzia nelle montagne del Béarn:

Vieni, aurora,
io t'imploro,
sono gaio se ti vedo;
la pastora
che m'è cara
è vermiglia come te;
di rugiada
innaffiata,
meno fresca è la rosa;
meno fine
è l'ermellino,
meno candore ha il giglio.

Dopo essersi ingenuamente raffigurato il pensiero del proprio cuore con il canto, Etienne contemplò il mare dicendosi: «Ecco il mio diletto e il mio solo amore!» Poi cantò questi altri versi della canzonetta:

Ella è bionda,
non ha seconda!

e li ripeté esprimendo la poesia sollecitatrice che sovrabbonda in un giovane timido, audace quando è solitario. Vi erano dei sogni in quel canto sinuoso, preso, ripreso, interrotto, ricominciato, poi perduto in un'ultima modulazione i cui colori si affievolirono come le vibrazioni di una campana. In quel momento, una voce che fu tentato di attribuire a una qualche sirena emersa dal mare, una voce di donna, ripeté l'aria che aveva cantato, ma con tutte le esitazioni inevitabili in una persona alla quale si rivela per la prima volta la musica; egli riconobbe il balbettio di un cuore che nasceva alla poesia degli accordi. Etienne, al quale lunghi studi sulla propria voce avevano insegnato il linguaggio dei suoni, in cui l'anima trova le stesse risorse che nella parola per esprimere i propri pensieri, poteva lui solo indovinare tutta la timida sorpresa che quei tentativi manifestavano. Con quale religiosa e sottile ammirazione non era stato ascoltato? La calma dell'aria gli permetteva di sentire tutto, ed egli trasalì al fremito delle pieghe fluttuanti di un vestito; si stupì, lui che le emozioni suscitate dal terrore spingevano sempre a due passi dalla morte, di sentire dentro di sé la sensazione balsamica in altri tempi suscitata dall'arrivo di sua madre.
«Orsù, Gabrielle, bambina mia,» disse Beauvouloir, «ti ho proibito di rimanere dopo il tramonto su queste spiagge. Rientra in casa, figlia mia.»
«Gabrielle!» si disse Etienne, «che bel nome!»
Poco dopo comparve Beauvouloir e risvegliò il suo padrone da una di quelle meditazioni che assomigliavano a sogni. Era notte, si alzava la luna. «Monsignore,» disse, «oggi non siete ancora uscito, non è cosa ragionevole.»
«Ed io,» rispose Etienne, «posso andare sulla spiaggia dopo il tramonto?»
Il sottinteso di tale frase che rivelava la dolce malizia di un primo desiderio, fece sorridere il vegliardo.
«Tu hai una figlia, Beauvouloir?»
«Sì, monsignore, la figlia della vecchiaia, la mia bambina diletta. Monsignor duca, il vostro illustre padre, m'ha così vivamente raccomandato di vegliare sui vostri preziosi giorni, che non potendo andare, con mio grande rammarico, a trovarla a Forcalier dove si trovava, l'ho fatta partire, e per sottrarla a tutti gli sguardi, l'ho messa nella casa dove prima abitava monsignore. E così delicata, tutto mi fa paura per lei, anche un sentimento troppo vivo; perciò non le ho fatto imparare niente, ne sarebbe morta.»
«Non sa niente!» disse Etienne sorpreso.
«Ha tutte le qualità di una brava donna di casa, ma ha vissuto come vive una pianta. L'ignoranza, monsignore, è santa come la scienza; la scienza e l'ignoranza sono per le creature due modi di essere; entrambe conservano l'anima come un sudario; la scienza vi ha fatto vivere, l'ignoranza salverà mia figlia. Le perle ben nascoste sfuggono al tuffatore e vivono felici. Io posso paragonare la mia Gabrielle ad una perla; la sua carnagione ne ha l'oriente, la sua anima la dolcezza, e fino ad oggi la mia proprietà di Forcalier le ha servito da ostrica.»
«Vieni con me,» disse Etienne avvolgendosi in un mantello, «voglio andare in riva al mare, il tempo è mite.»
Beauvouloir e il suo padrone camminarono in silenzio finché una luce proveniente dalle imposte della casa del pescatore non ebbe solcato il mare come un ruscello d'oro.
«Non potrei esprimere,» esclamò il timido erede rivolgendosi al medico, «le sensazioni che suscita in me la vista di una luce proiettata sul mare. Ho contemplato così di frequente la finestra di quella camera finché non si spegnesse la luce!» aggiunse indicando la camera della madre.
«Per quanto delicata sia Gabrielle,» rispose allegramente Beauvouloir, «ella può uscire e passeggiare con noi, la notte è calda e l'aria non contiene alcun vapore, vado a prenderla, ma siate ragionevole, monsignore.»
Etienne era troppo timido per proporre a Beauvouloir di accompagnarlo alla casa del pescatore; d'altro canto si trovava in quello stato di torpore in cui ci fa sprofondare l'affluire delle idee e delle sensazioni generate dall'aurora della passione. Più libero, trovandosi solo, esclamò nel vedere il mare illuminato dalla luna: «L'Oceano è dunque passato nella mia anima!»
L'aspetto della graziosa statuetta che veniva verso di lui, e che la luna inargentava avvolgendola della sua luce, moltiplicò le palpitazioni nel cuore di Etienne, ma senza farlo soffrire.
«Bambina mia,» disse Beauvouloir, «ecco monsignore.»
In quel momento, il povero Etienne si augurò la statura colossale di suo padre; avrebbe voluto mostrarsi forte, e non gracile. Tutte le vanità dell'amore e dell'uomo gli penetravano insieme nel cuore come altrettante frecce, ed egli rimase in un tetro silenzio commisurando per la prima volta l'estensione delle proprie imperfezioni. Imbarazzato innanzi tutto dal saluto della fanciulla, glielo restituì goffamente e rimase accanto a Beauvouloir con il quale discorse mentre passeggiavano lungo il mare, ma il comportamento timido e rispettoso di Gabrielle lo rese ardito tanto che osò rivolgerle la parola. La circostanza del canto era effetto del caso; il medico non aveva voluto preparare nulla; pensava che tra due esseri ai quali la solitudine aveva lasciato il cuore puro, l'amore sarebbe nato in tutta la sua semplicità. La ripetizione dell'aria da parte di Gabrielle fu dunque un soggetto di conversazione già pronto. Durante quella passeggiata, Etienne sentì dentro di sé la leggerezza corporale che tutti gli uomini hanno provato nel momento in cui il primo amore trasporta il principio della loro vita in un'altra creatura. Propose a Gabrielle di insegnarle a cantare. Il povero ragazzo era così felice di potersi mostrare agli occhi della fanciulla investito di una superiorità qualunque, che trasalì di piacere quando ella accettò. In quel momento la luce colpì in pieno Gabrielle e permise a Etienne di riconoscere i punti della sua vaga somiglianza con la defunta contessa. Come Jeanne de Saint-Savin, la figlia di Beauvouloir era sottile e delicata; in lei, come nella duchessa, la sofferenza e la malinconia generavano una grazia misteriosa. Ella aveva la nobiltà particolare alle anime in cui le maniere del mondo non hanno alterato nulla, in cui tutto è bello perché tutto è naturale. Ma in Gabrielle scorreva inoltre il sangue della «Belle Romaine» che era sgorgato per due generazioni, e che dava alla fanciullina un cuore di cortigiana violenta in un'anima pura; donde un'esaltazione che le arrossò lo sguardo, che le santificò la fronte, che le fece esalare quasi un bagliore e comunicò ai suoi movimenti i fremiti di una fiamma. Beauvouloir rabbrividì quando notò quel fenomeno che oggi si potrebbe chiamare la fosforescenza del pensiero, e che il medico osservava allora come una promessa di morte. Etienne sorprese la fanciulla a tendere il collo in un movimento d'uccello timido che guardi intorno al nido. Nascosta dal padre, Gabrielle volle vedere Etienne comodamente, e il suo sguardo esprimeva alla stessa stregua curiosità e piacere, benevolenza e ingenua audacia. Per lei, Etienne non era debole, ma delicato; ella lo trovava così simile a sé, che niente la spaventava in quel signore; il colorito di Etienne, le sue belle mani, il suo sorriso malato, i suoi capelli divisi in due bande e che ricadevano in riccioli sparsi sul pizzo del colletto rovesciato, la nobile fronte solcata da nobili rughe, il contrasto di lusso e di miseria, di potere e di piccolezza, le piacevano; non lusingavano forse i desideri di protezione materna che sono in germe nell'amore? Non stimolavano già il bisogno che travaglia ogni donna di scoprire qualità superiori in colui che ella vuole amare? In entrambi, idee, sensazioni nuove zampillavano con una forza, con un'abbondanza che gonfiava la loro anima; entrambi restavano stupiti e silenziosi, poiché l'espressione dei sentimenti è tanto meno dimostrativa quanto più essi sono profondi. Ogni amore duraturo comincia con sognanti meditazioni. Conveniva forse a quei due esseri vedersi per la prima volta nella luce tenue della luna, per non essere abbagliati all'improvviso dagli splendori dell'amore; dovevano incontrarsi in riva al mare che offriva loro un'immagine dell'immensità dei loro sentimenti. Si separarono ricolmi l'uno dell'altra, temendo entrambi di non essersi piaciuti.
Dalla sua finestra Etienne guardò la luce della camera in cui era Gabrielle. Durante quell'ora di speranza e di timori, il giovane poeta trovò significati nuovi ai sonetti del Petrarca. Aveva intravisto Laura, una fine e deliziosa figura, pura e dorata come un raggio di sole, intelligente come l'angelo, debole come la donna. I suoi venti anni di studio scoprirono un nesso, egli capì la mistica alleanza di tutte le bellezze; riconobbe quanto della donna vi fosse nella poesia che adorava; infine amava da tanto tempo senza saperlo, che tutto il suo passato si confuse nelle emozioni di quella bella notte. La somiglianza di Gabrielle con la madre gli parve un ordine divinamente impartito. Non tradiva il proprio dolore amando, l'amore continuava per lui la maternità. Contemplava, di notte, la fanciullina addormentata in quella capanna, con gli stessi sentimenti che provava sua madre quando egli vi si trovava. Quest'altra somiglianza gli collegava ulteriormente il presente al passato. Sulle nuvole dei ricordi, gli apparve il volto addolorato di Jeanne de Sain-Savin; la rivide col suo sorriso stentato, sentì le sue dolci parole, ella reclinò la testa, e pianse. La luce della casa si spense. Etienne cantò la graziosa canzonetta di Enrico IV con espressione nuova. Di lontano, gli risposero i tentativi di Gabrielle. Anche la fanciulla compiva il suo primo viaggio nei paradisi incantati dell'estasi amorosa. La risposta riempì di gioia il cuore di Etienne; scorrendo nelle sue vene, il sangue vi spandeva una forza che egli non si era mai sentito, l'amore lo rendeva potente. Solo gli esseri deboli possono conoscere la voluttà di tale nuova creazione in mezzo alla vita. I poveri, i sofferenti, i maltrattati hanno gioie ineffabili, poche cose sono per loro l'universo. Etienne apparteneva per mille legami al popolo della Città dolente. La sua grandezza recente non gli suscitava che terrore, l'amore gli versava il balsamo creatore della forza: egli amava d'amore.
L'indomani, Etienne si alzò di buon'ora per correre alla sua vecchia casa, ove Gabrielle animata da curiosità, sollecitata da un'impazienza inconfessata si era di buon mattino inanellata i capelli e aveva indossato il suo delizioso abito. Entrambi erano pieni del desiderio di rivedersi, e temevano i mutui effetti di quell'incontro. Quanto a lui, pensate che aveva scelto i pizzi più fini, il mantello più adorno, le brache di velluto viola; aveva scelto insomma il bell'abbigliamento che raccomanda a tutte le memorie la pallida figura di Luigi XIII, figura oppressa in seno alla grandezza, come Etienne lo era stato fino a quel momento. Quell'abbigliamento non era il solo punto di somiglianza che esistesse tra il signore e il suo suddito. Mille sensibilità si riscontravano in Etienne come in Luigi XIII: la castità, la malinconia, le sofferenze vaghe ma reali, le timidezze cavalleresche, il timore di non poter esprimere il sentimento nella sua purezza, la paura di esser troppo presto indotto alla felicità che alle anime grandi piace differire, la gravezza del potere, quell'inclinazione all'ubbidienza che si trova nei caratteri indifferenti agli interessi, ma pieni d'amore perciò che un bel genio religioso ha chiamato l'astrale.
Benché assai inesperta del mondo, Gabrielle aveva pensato che la figlia di un rebouteur, l'umile abitante di Forcalier, si trovasse a troppo grande distanza da monsignor Etienne, duca di Nivron, l'erede della casa d'Hérouville, perché fossero eguali; ella non giungeva fino al punto di indovinare la nobilitazione dell'amore. L'ingenua creatura non vi aveva visto un motivo per ambire a un posto dove ogni altra fanciulla sarebbe stata ansiosa di sedersi, non vi aveva visto che ostacoli. Amando già senza sapere che cosa fosse amare, ella si trovava lontano dal proprio piacere e voleva avvicinarsene, come un bambino sogna il grappolo dorato, oggetto delle proprie brame, troppo in alto situato. Per una fanciulla commossa alla vista di un fiore, e che intravedeva l'amore nei canti della liturgia, come erano stati dolci e forti i sentimenti provati il giorno prima, alla vista di quella debolezza nobiliare che rassicurava la sua; ma Etienne era diventato più grande quella notte, e lei se n'era fatta una speranza, un potere; l'aveva messo tanto in alto che disperava di poter giungere fino a lui.
«Mi permetterete di venire qualche volta vicino a voi, nella vostra proprietà?» chiese il duca abbassando gli occhi.
Nel vedere Etienne così timoroso, così umile, giacché anche lui aveva deificato la figlia di Beauvouloir, Gabrielle fu imbarazzata dallo scettro che egli le consegnava, ma fu anche profondamente commossa e lusingata da quella sottomissione. Le donne sole sanno quali e quante seduzioni generi il rispetto che porta loro un signore. Nondimeno, ella ebbe paura di sbagliarsi, e curiosa esattamente come la prima donna, volle sapere.
«Non mi avete promesso ieri di farmi conoscere la musica?» gli rispose sperando che la musica sarebbe stata un pretesto per trovarsi con lui.
Se la povera fanciulla avesse saputo la vita di Etienne, si sarebbe ben guardata dall'esprimere un dubbio. Per lui, la parola era un'eco dell'anima, e tale frase gli suscitò il più profondo dolore. Egli arrivava col cuore colmo, temendo la benché minima ombra nella sua luce, ed incontrava un dubbio. La sua gioia si spense, egli ripiombò nel deserto e non vi trovò più i fiori di cui l'aveva abbellito. Illuminata dalla prescienza dei dolori che distingue l'angelo incaricato di addolcirli, e che certamente è la Carità del cielo, Gabrielle intuì la pena che aveva provocato. Fu così vivamente colpita dal proprio errore che si augurò la potenza di Dio per poter svelare il proprio cuore a Etienne, giacché ella aveva provato la crudele emozione che suscitavano un rimprovero, uno sguardo severo; gli mostrò ingenuamente le nubi che erano sorte nella sua anima e che fasciavano d'oro l'alba del suo amore. Una lacrima di Gabrielle mutò il dolore di Etienne in piacere, ed egli volle allora accusarsi di tirannia. Fu una fortuna che ai loro esordi essi conoscessero in tal modo il diapason dei loro cuori: evitarono i mille urti che li avrebbero feriti. All'improvviso Etienne, impaziente di trincerarsi dietro un'occupazione, condusse Gabrielle a un tavolo, davanti alla piccola finestra dove aveva sofferto e dove ormai avrebbe ammirato un fiore più bello di tutti quelli che aveva studiato. Poi aprì un libro sul quale si chinarono le loro teste, cosicché i loro capelli si mischiarono.
Quei due esseri così forti nel cuore, così malaticci nel corpo, ma abbelliti dalla grazia della sofferenza, formavano un quadro toccante. Gabrielle ignorava la civetteria: uno sguardo veniva accordato non appena sollecitato, e i dolci raggi dei loro occhi cessavano di confondersi soltanto per pudore, ella era felice di dire a Etienne quanto le facesse piacere sentire la sua voce. Quando le spiegava il significato delle note o il loro valore, ella dimenticava il significato delle parole. Ascoltava, lasciando la melodia per lo strumento, l'idea per la forma: ingenua lusinga, la prima che incontri il vero amore. Gabrielle trovava bello Etienne; e volle palpare il velluto del mantello, toccare il pizzo del colletto. Quanto a Etienne, egli si trasformava sotto lo sguardo creatore di quegli occhi penetranti; essi gli infondevano una linfa fecondante che gli scintillava negli occhi; gli riluceva sulla fronte, lo ritemprava interiormente, ed egli non soffriva di quel gioco nuovo delle sue facoltà. Anzi, si fortificavano. La felicità era come il latte nutritivo della sua nuova vita.
Poiché niente poteva distrarli da se stessi, essi rimasero insieme non soltanto quel giorno, ma tutti gli altri, giacché si appartennero fin dal primo giorno, passandosi l'un l'altro lo scettro, giocando con se medesimi come il bambino gioca con la vita. Seduti e felici sulla sabbia dorata, ciascuno diceva all'altro il proprio passato, doloroso in lui, ma pieno di fantasticherie; sognante in lei, ma pieno di sofferenti piaceri.
«Io non ho avuto madre,» diceva Gabrielle, «ma mio padre è stato buono come Dio.»
«Io non ho avuto padre,» rispondeva il figlio maledetto, «ma mia madre è stata tutto un cielo.»
Etienne raccontava la sua giovinezza, il suo amore per la madre, il suo gusto per i fiori. A tale parola, Gabrielle prorompeva in esclamazioni. Interrogata, arrossiva, si schermiva dal rispondere; poi, quando un'ombra passava su quella fronte che la morte sembrava sfiorasse con la sua ala, su quell'anima visibile dove apparivano le minime emozioni di Etienne, ella rispondeva: «È perché anch'io amavo i fiori.»
Non era forse una dichiarazione come le vergini ne sanno fare, quella di credersi legata fin nel passato dalla comunanza di gusti? L'amore cerca sempre di invecchiarsi, è la civetteria dei bambini.
Etienne portò dei fiori il giorno dopo, ordinando che gliene venissero cercati di rari, come un tempo sua madre ne faceva cercare per lui. Come sapere la profondità alla quale arrivavano in un essere solitario le radici di un sentimento che riprendeva in tal modo le tradizioni della maternità, prodigando a una donna le cure carezzevoli con le quali sua madre gli aveva deliziato la vita! Per lui, quale grandezza in quei nonnulla in cui si confondevano i suoi due unici affetti! I fiori e la musica diventarono il linguaggio del loro amore. Gabrielle rispose con dei mazzi di fiori agli invii di Etienne, quei mazzi dei quali uno solo aveva fatto indovinare al vecchio rebouteur che la sua ignorante figliola ne già sapeva fin troppo. L'ignoranza materiale dei due amanti formava come uno sfondo nero sul quale i minimi tratti della loro intimità tutta spirituale si distaccava con una grazia squisita, come i profili rossi e così puri delle figure etrusche. Le loro minime parole portavano un ruscellare di idee, poiché esse erano il frutto delle loro meditazioni. Incapaci di inventare l'arditezza, per loro ogni principio sembrava una fine. Benché sempre liberi, erano imprigionati in una ingenuità, che sarebbe stata disperante se uno di loro avesse potuto dare un senso ai suoi confusi desideri. Erano insieme i poeti e la poesia. La musica, la più sensuale delle arti per le anime innamorate, fu l'intermediaria delle loro idee ed essi si compiacevano nel ripetere una stessa frase sfogando la passione in quelle belle cascate di suoni in cui le loro anime vibravano senza ostacoli.
Molti amori procedono per opposizione: sono litigi e rappacificazioni, il volgare scontro dello Spirito e della Materia. Ma il primo colpo d'ala del vero amore lo solleva già ben più alto di tali lotte; esso non distingue più due nature laddove tutto è medesima essenza; simile al genio nella sua più alta espressione, sa stare nella luce più viva; la sostiene, vi cresce, e non ha bisogno d'ombra per acquistare risalto. Gabrielle, perché era donna, Etienne, perché aveva molto sofferto e molto meditato, percorsero rapidamente lo spazio di cui si impadroniscono le passioni volgari e ben presto lo oltrepassarono. Come tutte le nature deboli furono più rapidamente penetrati dalla Fede, da quella porpora celeste che duplica la forza duplicando l'anima. Per loro, il sole fu sempre allo zenit. Ben presto ebbero quella divina credenza in se stessi che non tollera né gelosie né torture; ebbero l'abnegazione sempre pronta, l'ammirazione costante. In tali condizioni, l'amore era senza dolore. Eguali per debolezza, forti per la loro unione, se il nobile era superiore per scienza e per certa grandezza di convenzione, la figlia del medico le eclissava per la bellezza, l'elevatezza del sentimento, per la finezza che sapeva imprimere al godimento. Così, ad un tratto, due bianche colombe volano con ala simile sotto un cielo puro; Etienne ama, è amato, il presente è sereno, l'avvenire è senza nubi, è sovrano, il castello appartiene a lui, il mare a tutti e due, nessuna inquietudine turba l'armonioso concerto del loro duplice cantico, la verginità dei sensi e dello spirito fa il mondo più vasto; i loro pensieri si snodano senza sforzi; il desiderio, le cui soddisfazioni appassiscono tante cose, il desiderio, questo difetto dell'amore terrestre, non li raggiunge ancora. Come due zeffiri seduti sullo stesso ramo di salice, la loro felicità consiste nel contemplare la loro immagine nello specchio di un'acqua limpida; l'immensità è sufficiente per loro, ammirano l'Oceano senza pensare di scivolarvi sulla barca dalle bianche vele, dai cordami fioriti, guidata dalla Speranza.
Vi è nell'amore un momento in cui basta a se stesso, in cui è felice di essere. Durante la primavera in cui tutto è in boccio, l'amante si nasconde talora dalla donna amata per meglio goderne, per meglio vederla; ma Etienne e Gabrielle si tuffarono insieme nelle delizie di quell'ora infantile; ora erano due sorelle per la grazia delle confidenze, ora due fratelli per l'audacia delle ricerche. Di solito l'amore vuole uno schiavo e un dio, ma essi realizzarono il delizioso sogno di Platone; non vi era che un solo essere divinizzato. Si proteggevano a vicenda. Vennero prima le carezze, lentamente, ad una ad una, ma caste come i giochi così vivaci, così allegri, così leggiadri dei giovani animali che sperimentano la vita. Il sentimento che li induceva a trasportare la loro anima in un canto appassionato, li portò all'amore attraverso le mille trasformazioni di una stessa felicità. Le loro gioie non provocavano loro né delirio né insonnia. Fu l'infanzia del piacere che cresceva senza conoscere i bei fiori rossi che incoronano il suo stelo. Si abbandonavano l'uno all'altra senza supporre il pericolo, si abbandonavano in una parola come in uno sguardo, in un bacio come nella lunga pressione delle loro mani intrecciate. Si vantavano l'un l'altra ingenuamente, le loro bellezze spendevano in quei segreti idilli, tesori di linguaggio, immaginando le più dolci esagerazioni, i più violenti diminutivi trovati dalla musa antica dei Tibullio e ripetuti dalla poesia italiana. Era sulle loro labbra e nei loro cuori il costante ritorno delle frange liquide del mare sulla sabbia fine della spiaggia, tutte simili, tutte dissimili. Gioiosa, eterna fedeltà!
Se doveste contare i giorni, quel tempo prese cinque mesi, se doveste contare le innumerevoli sensazioni, i pensieri, i sogni, gli sguardi, i fiori schiusi, le speranze realizzate, le gioie senza fine, una capigliatura sciolta e minuziosamente sparsa, poi riordinata e ornata di fiori, i discorsi interrotti, riallacciati, abbandonati, le risate giocose, i piedi bagnati nel mare, le cacce infantili alle conchiglie nascoste nelle rocce, i baci, le sorprese, le strette, metteteci tutta una vita, la morte s'incaricherà di giustificare l'espressione. Vi sono esistenze sempre tetre, portate a compimento sotto cieli grigi: ma supponete un bel giorno in cui il sole infiammi un'aria azzurra: tale fu il maggio della loro tenerezza durante il quale Etienne aveva appeso tutti i suoi dolori passati al cuore di Gabrielle, e la fanciulla aveva legato tutte le sue gioie future a quello del suo signore. Etienne non aveva avuto che un dolore in vita sua, la morte della madre; non doveva esservi che un solo amore, Gabrielle.
La grossolana rivalità di un ambizioso fece precipitare il corso di quella vita di miele. Il duca d'Hérouville, rotto a tutte le astuzie, politico rude ma abile, sentì risvegliarsi in sé la voce della diffidenza, dopo aver dato la parola che gli chiedeva il medico. Il barone d'Artognon, luogotenente della sua compagnia d'ordinanza, aveva in politica tutta la sua fiducia. Il barone era un uomo come piacevano al duca d'Hérouville, una specie di macellaio, squadrato con l'accetta, alto, dal viso maschio, acerbo e freddo, il coraggioso al servizio del trono, di maniere rudi, di volontà ferrea nell'esecuzione, e docile a maneggiarsi; nobile, d'altro canto, ambizioso con la probità del soldato e l'astuzia del politico. Aveva la mano che corrispondeva al viso, la mano larga e villosa del condottiero. Aveva maniere brusche, la parola breve e concisa. Ora, il governatore aveva incaricato il luogotenente di sorvegliare la condotta che avrebbe tenuto il medico nei confronti del nuovo erede presunto. Nonostante il segreto che circondava Gabrielle, era difficile ingannare il luogotenente di una compagnia d'ordinanza; egli sentì il canto di due voci, vide a sera la luce nella casa in riva al mare; indovinò che tutte le premure di Etienne, tutti i fiori richiesti e i suoi ordini moltiplicati riguardavano una donna; poi sorprese la nutrice di Gabrielle per la strada mentre andava a prendere qualche capo di abbigliamento a Forcalier, portandovi della biancheria, e riportandone un telaio e dei mobili da fanciulla. Il rude soldato volle vedere e vide la figlia del rebouteur; se ne innamorò. Beauvouloir era ricco. Il duca sarebbe stato furioso dell'audacia del brav'uomo. Il barone d'Artognon fondò su questi avvenimenti l'edificio della sua fortuna. Il duca, venendo a sapere che il figlio era innamorato, avrebbe voluto dargli una donna di gran casato, erede di qualche feudo, e per staccare Etienne dal suo amore sarebbe bastato rendere infedele Gabrielle sposandola a un nobile le cui terre sarebbero state date in pegno a qualche banchiere lombardo. Il barone non aveva terre. Tali dati sarebbero stati eccellenti con i caratteri che si trovano di solito nel mondo, ma dovevano fallire in Etienne e Gabrielle. Il caso tuttavia aveva già favorito il barone d'Artognon.
Durante il suo soggiorno a Parigi, il duca aveva vendicato la morte di Maximilien uccidendo l'avversario del figlio e aveva escogitato per Etienne un matrimonio insperato con l'erede dei feudi di un ramo della casa di Grandlieu, un'alta e bella persona sdegnosa, ma che fu lusingata dalla speranza di portare un giorno il titolo di duchessa d'Hérouville. Il duca sperò di far sposare al figlio la damigella di Grandlieu. Venendo a sapere che Etienne amava la figlia di un miserabile medico, egli volle ciò che sperava. Per lui, quello scambio era fuori questione. Voi sapete se quell'uomo di politica brutale capiva brutalmente l'amore! Aveva lasciato morire accanto a sé la madre di Etienne, senza aver capito uno solo dei suoi sospiri. Mai forse in vita sua aveva provato una collera tanto violenta come quella da cui fu colto quando dall'ultimo messaggio del barone seppe con quale rapidità si realizzavano i progetti di Beauvouloir, cui attribuì la più audace ambizione. Il duca comandò i suoi equipaggi e venne da Parigi a Rouen portando al castello la contessa di Grandlieu, sua sorella, la marchesa di Noirmoutier, e la damigella di Grandlieu, col pretesto di mostrar loro la provincia di Normandia. Qualche giorno prima del suo arrivo, senza che si sapesse in che modo la voce si fosse diffusa nel paese, da Hérouville a Rouen non si parlava d'altro che del la passione del giovane duca di Nivron per Gabrielle Beauvouloir, la figlia del celebre rebouteur. La gente di Rouen ne parlò al duca proprio nel bel mezzo del festino che gli fu offerto, giacché i convitati erano ben contenti di indispettire il despota della Normandia. Tale circostanza eccitò al massimo la collera del governatore. Egli fece scrivere al barone di mantenere segretissima la sua venuta a Hérouville, dandogli ordini perché ponesse rimedio a ciò che considerava come una disgrazia. In questi frangenti, Etienne e Gabrielle avevano dipanato tutto il filo del loro gomitolo nell'immenso labirinto dell'amore, ed entrambi, poco desiderosi di uscirne, volevano vivervi. Un giorno, erano rimasti vicino alla finestra dove si compirono tante cose. Le ore, dapprima riempite di dolci conversari, si erano concluse con qualche silenzio meditabondo. Essi cominciavano a sentirsi dentro il volere indeciso di un possesso completo: erano giunti a con fidarsi reciprocamente le loro idee confuse, riflesso di una bella immagine in due anime pure. Durante quelle ore ancora serene, gli occhi di Etienne si riempivano talvolta di lacrime mentre teneva la mano di Gabrielle incollata alle proprie labbra. Come la madre, ma in quell'istante più felice nel suo amore di quanto lei non lo fosse mai stata, il figlio maledetto contemplava il mare, che in quel momento era d'oro sulla spiaggia, nero all'orizzonte e disseminato di onde argentee foriere di tempesta. Gabrielle, conformandosi all'atteggiamento del suo amico, guardava quello spettacolo e taceva. Un solo sguardo, uno di quelli grazie a cui le anime si appoggiano l'una all'altra, bastava loro per comunicarsi i loro pensieri. L'ultimo abbandono non era per Gabrielle un sacrificio, né per Etienne un'esigenza. Ciascuno dei due amava di quell'amore così divinamente simile a se stesso in tutti gli istanti della sua eternità, che ignora la dedizione, che non teme né delusioni né ritardi. Solo che Etienne e Gabrielle erano in un'ignoranza totale delle soddisfazioni il cui desiderio assillava la loro anima. Quando i tenui colori del crepuscolo ebbero steso il loro velo sul mare, e il silenzio non fu più interrotto se non dalla respirazione del flusso e del riflusso sulla spiaggia, Etienne si alzò e Gabrielle imitò quel movimento con un timore vago, poiché egli aveva abbandonato la sua mano. Con un braccio, Etienne strinse a sé Gabrielle in un gesto di tenera coesione. Comprendendo il suo desiderio, ella gli fece sentire il peso del suo corpo, abbastanza per dargli la certezza che gli apparteneva, non tanto da stancarlo. L'amante posò la testa troppo pesante sulla spalla dell'amica, la sua bocca si posò sul seno tumultuoso, i suoi capelli inondarono le candide spalle e carezzarono il collo di Gabrielle. La fanciulla ingenuamente innamorata piegò la testa per lasciare più spazio a Etienne, e per sostenersi gli mise un braccio intorno al collo. Rimasero così, senza dir parola, finché la notte non fu scesa. Allora i grilli cantarono nelle loro fessure e i due amanti ascoltarono quella musica come per concentrare tutti i loro sensi in uno solo. Certamente, in quel momento potevano soltanto essere paragonati a un angelo che con i piedi posati sul mondo attenda l'ora di rivolare verso il cielo. Essi avevano realizzato il bel sogno del genio mistico di Platone e di tutti coloro che cercano un senso all'umanità; facevano un'anima sola, erano proprio quella perla misteriosa destinata ad ornare la fronte di un qualche astro sconosciuto, la speranza di noi tutti!
«Mi riaccompagnerai?» disse Gabrielle emergendo per prima da quella calma deliziosa.
«Perché lasciarci?» rispose Etienne.
«Noi dovremmo stare sempre insieme,» ella disse.
«Rimani.»
«Sì.»
Il passo pesante del vecchio Beauvouloir si fece sentire nella stanza vicina. Il medico trovò i due giovani separati, e li aveva visti allacciati alla finestra. L'amore più puro ama ancora il mistero.
«Non sta bene, bambina mia,» egli disse a Gabrielle. «Rimanere così tardi, qui, senza luce.»
«Perché?» ella disse. «Voi sapete bene che ci amiamo, e che egli è padrone al castello.»
«Figli miei,» rispose Beauvouloir, «se vi amate, la vostra felicità esige che vi sposiate per trascorrere insieme la vostra vita; ma il vostro matrimonio è soggetto alla volontà di monsignore il duca...»
«Mio padre mi ha promesso di soddisfare tutti i miei desideri,» esclamò vivamente Etienne interrompendolo.
«Allora scrivetegli, monsignore,» rispose il medico, «esprimetegli il vostro desiderio, e datemi la vostra lettera perché la metta insieme a quella che ho scritto io. Bertrand partirà immediatamente per rimettere i nostri dispacci a monsignore in persona. Ho saputo che è a Rouen, conduce con sé l'erede della casa di Grandlieu, e non penso che sia per lui... Se dessi ascolto ai miei presentimenti, porterei via Gabrielle questa notte stessa...»
«Separarci!» esclamò Etienne che venne meno dal dolore, appoggiandosi alla sua amica.
«Padre mio!»
«Gabrielle,» disse il medico tendendole il flacone che andò a prendere su un tavolo e che ella fece respirare a Etienne. «Gabrielle, la mia scienza mi ha detto che la natura vi aveva destinato l'uno all'altra... Ma volevo preparare monsignor duca a un matrimonio che offende tutte le sue idee, e il demonio l'ha prevenuto contro di noi. Egli è monsignore il duca di Nivron,» disse il padre a Gabrielle, «e tu sei la figlia di un povero medico.»
«Mio padre ha giurato di non contrariarmi in nulla mai,» disse Etienne con calma.
«Ha ben giurato anche a me di approvare la mia scelta di una sposa per voi,» rispose il medico, «ma se non mantiene la promessa?»
Etienne si sedette come fulminato.
«Il mare era fosco stasera,» disse dopo un momento di silenzio.
«Se sapeste montare a cavallo, monsignore,» disse il medico, «vi farei fuggire con Gabrielle questa sera stessa: vi conosco entrambi, e so che ogni altra unione vi sarà funesta. Il duca mi farebbe certamente gettare in galera e mi ci lascerebbe per il resto dei miei giorni venendo a conoscenza della fuga; ma io morirei contento, se la mia morte assicurasse la vostra felicità. Ahimé, montare a cavallo significherebbe rischiare la vostra vita e quella di Gabrielle. Bisogna affrontare qui la collera del governatore.»
«Qui,» ripeté il povero Etienne.
«Siamo stati traditi da qualcuno del castello che ha fatto nascere il corruccio di vostro padre,» riprese Beauvouloir.
«Andiamo a gettarci insieme in mare,» disse Etienne a Gabrielle, piegandosi verso l'orecchio della fanciulla che si era inginocchiata accanto al suo amante.
Ella chinò la testa sorridendo. Beauvouloir indovinò tutto.
«Monsignore,» riprese, «il vostro sapere, quanto la vostra intelligenza, vi ha fatto eloquente, l'amore deve rendervi irresistibile: dichiarate il vostro amore a monsignore il duca, confermerete così la mia lettera che è abbastanza persuasiva. Non tutto è perduto, credo. Amo mia figlia quanto voi, e voglio difenderla.»
Etienne scosse la testa.
«Il mare era davvero fosco stasera, » disse.
«Era come un'onda d'oro ai nostri piedi,» rispose Gabrielle con voce melodiosa.
Etienne fece venire dei lumi e si sedette a un tavolo per scrivere al padre. Da un lato della sedia vi era Gabrielle inginocchiata e silenziosa, che guardava la lettera senza leggerla, giacché leggeva tutto sulla fronte d'Etienne. Dall'altro lato stava il vecchio Beauvouloir la cui faccia gioviale era profondamente triste, triste come la camera dove morì la madre di Etienne. Una voce segreta gridava al medico: «Egli avrà il destino di sua madre!»
Finita la lettera, Etienne la tese al vegliardo che si affrettò a darla a Bertrand. Il cavallo del vecchio scudiero era già sellato, l'uomo pronto: partì e incontrò il duca a quattro leghe da Hérouville.
«Conducimi sino alla porta della torre,» disse Gabrielle al suo amico quando furono soli.
Passarono entrambi dalla biblioteca del cardinale e scesero dalla torre dove si trovava la porta la cui chiave era stata consegnata da Etienne a Gabrielle. Inebetito dall'apprensione della sventura, il povero ragazzo lasciò nella torre la fiaccola che gli serviva a far luce alla sua diletta e la riaccompagnò verso casa. A pochi passi dal giardinetto che incoronava di fiori l'umile dimora, i due amanti si fermarono. Resi audaci dal vago timore che li agitava, si scambiarono, nell'ombra e nel silenzio, quel primo bacio in cui i sensi e l'anima si mettono insieme per suscitare un piacere rivelatore. Etienne capì l'amore nella sua duplice espressione, e Gabrielle fuggì via per paura di essere trascinata dalla voluttà, ma a che cosa?... Non lo sapeva.
Nel momento in cui il duca di Nivron saliva i gradini della scala, dopo aver chiuso la porta della torre, un grido di terrore lanciato da Gabrielle risuonò al suo orecchio con la vivacità di un lampo che bruci gli occhi. Etienne attraversò gli appartamenti del castello, scese dalla grande scala, raggiunse la spiaggia, e corse verso la casa di Gabrielle che vide illuminata. Arrivando nel giardinetto, Gabrielle aveva scorto, al chiarore della fiaccola che illuminava l'arcolaio della nutrice, un uomo seduto al posto della brava donna. Al rumore dei passi l'uomo era andato verso di lei e l'aveva spaventata. L'aspetto del barone d'Artognon giustificava pienamente la paura che ispirava a Gabrielle.
«Siete la figlia di Beauvouloir, il medico di monsignore?» le disse il luogotenente della compagnia d'ordinanza quando Gabrielle fu rimessa dal suo spavento.
«Sì, signore.»
«Ho cose della massima importanza da confidarvi. Io sono il barone d'Artognon, il luogotenente della compagnia d'ordinanza comandata da monsignore il duca di Hérouville.»
Nelle circostanze in cui si trovavano i due amanti, Gabrielle fu colpita da quelle parole e dal tono di franchezza col quale il soldato le pronunciò.
«La vostra tutrice è di là, e può sentirci, venite,» disse il barone. Uscì, e Gabrielle lo seguì. Andarono entrambi sulla spiaggia che era dietro la casa.
«Non abbiate timore,» le disse il barone.
Quelle parole avrebbero spaventato una persona che non fosse stata ignorante; ma una fanciulla semplice e che ami, non si crede mai in pericolo.
«Cara figliola,» le disse il barone sforzandosi di dare un tono mielato alla propria voce, «voi e vostro padre siete sull'orlo di un abisso dove cadrete domani; non potrei vederlo senza avvertirvi. Monsignore è furioso contro vostro padre e contro di voi, vi sospetta di aver sedotto il figlio e preferisce vederlo morto piuttosto che vederlo vostro marito: questo, quanto a suo figlio. Quanto a vostro padre, ecco che cosa ha risoluto monsignore. Nove anni orsono, vostro padre fu implicato in un processo criminale; si trattava della sottrazione di un nobile bambino al momento del parto della madre, sottrazione per la quale egli ha prestato la propria opera. Monsignore, conoscendo l'influenza di vostro padre, lo protesse dall'azione penale del parlamento; ma lo farà arrestare e lo rimetterà nelle mani della giustizia chiedendo che si proceda contro di lui. Vostro padre sarà torturato vivo, ma grazie ai servigi resi al suo padrone, otterrà forse di essere soltanto impiccato; quanto a voi, ignoro che cosa abbia deciso monsignore, ma so che potete salvare monsignor di Nivron dalla collera del padre, salvare Beauvouloir dal supplizio orribile che lo attende, e salvare voi stessa.»
«Che cosa occorre fare?» disse Gabrielle.
«Andate a gettarvi ai piedi di monsignore, a confessargli che suo figlio vi ama vostro malgrado, e a dirgli che voi non lo amate. Come prova, gli offrirete di sposare l'uomo che gli piacerà designarvi come marito. È generoso, vi sistemerà riccamente.»
«Posso fare tutto, tranne che rinnegare il mio amore.»
«Ma se è necessario per salvare vostro padre, voi, e monsignore di Nivron?»
«Etienne,» ella disse, «ne morrà, e anch'io!»
«Monsignor di Nivron sarà triste di perdervi, ma vivrà per l'onore della sua casa; voi vi rassegnerete a non essere che la moglie di un barone, invece di essere duchessa, e vostro padre vivrà,» rispose l'uomo categorico.
In quel momento Etienne giungeva alla casetta. Non vide Gabrielle e lanciò un grido stridente.
«Eccolo,» esclamò la fanciulla, «lasciatemi andare a rassicurarlo.»
«Verrò a sentire la vostra risposta domattina,» disse il barone.
«Consulterò mio padre,» rispose lei.
«Voi non lo vedrete più, ho appena ricevuto l'ordine di arrestarlo e mandarlo a Rouen, sotto scorta e in catene,» egli disse lasciando Gabrielle terrorizzata.
La fanciulla si precipitò in casa e vi trovò Etienne spaventato dal silenzio col quale la nutrice aveva risposto alla sua prima domanda: «Dov'è?»
«Eccomi!» esclamò la fanciulla. La sua voce era agghiacciata, i suoi colori scomparsi, e il passo le si era fatto pesante.
«Da dove vieni?» egli disse, «hai gridato.»
«Sì, ho sbattuto contro...»
«No, amore mio,» rispose Etienne interrompendola, «ho sentito i passi di un uomo.»
«Etienne, probabilmente abbiamo offeso Dio, mettiamoci in ginocchio e preghiamo. Ti dirò tutto dopo.»
Etienne e Gabrielle s'inginocchiarono sull'inginocchiatoio, la nutrice recitò il rosario.
«Mio Dio,» disse la fanciulla in uno slancio che le fece valicare gli spazi terrestri, «se non abbiamo peccato contro i vostri santi comandamenti, se non abbiamo offeso né la Chiesa, né il re, noi che formiamo una sola ed unica persona nella quale l'amore risplende come la luce che avete messo in una perla del mare, fateci la grazia di non separarci né in questo mondo né nell'altro!»
«Cara madre,» soggiunse Etienne, «tu che sei nei cieli, ottieni dalla Vergine che se non possiamo essere felici, Gabrielle ed io, moriamo almeno insieme, senza soffrire. Chiamaci, verremo a te!»
Poi, dopo aver recitato le loro preghiere della sera, Gabrielle raccontò il suo incontro con il barone d'Artognon.
«Gabrielle,» disse il giovane attingendo il coraggio nella sua disperazione d'amore, «saprò resistere a mio padre.»
La baciò sulla fronte, non più sulle labbra, poi tornò al castello, deciso ad affrontare l'uomo terribile che pesava tanto sulla sua vita. Non sapeva che la casa di Gabrielle sarebbe stata sorvegliata dai soldati non appena l'avesse lasciata.
Il giorno dopo Etienne fu sopraffatto dal dolore quando, andando a trovare Gabrielle, la trovò prigioniera; ma Gabrielle mandò la nutrice a dirgli che sarebbe morta piuttosto che tradirlo, che d'altro canto aveva trovato il modo di eludere la vigilanza delle guardie, e che si sarebbe rifugiata nella biblioteca del cardinale dove nessuno avrebbe potuto sospettare la sua presenza; ma ignorava quando avrebbe potuto portare a compimento il suo progetto. Etienne rimase allora nella sua camera, dove le forze del cuore gli si logorarono in una penosa attesa.
Alle tre, gli equipaggi del duca e il suo seguito fecero il loro ingresso al castello, ove egli avrebbe dovuto cenare con la sua compagnia. In effetti, al calar del giorno la signora contessa di Grandlieu, alla quale la figlia dava il braccio, il duca e la marchesa di Noirmoutier salivano la grande scala in un profondo silenzio, poiché la fronte severa del padrone aveva spaventato tutti i servitori. Benché il barone avesse saputo dell'evasione di Gabrielle, egli aveva affermato che era sorvegliata, ma tremava all'idea di aver compromesso la riuscita del suo piano particolare, nel caso in cui il duca avesse visto il proprio disegno ostacolato da quella fuga. Quelle due facce terribili avevano un'espressione torva, mal camuffata dall'aria amabile che imponeva la galanteria. Il duca aveva ordinato al figlio di trovarsi nel salone. Quando vi entrò la compagnia, il barone d'Artognon capì dalla fisionomia abbattuta di Etienne che egli ignorava ancora la fuga di Gabrielle.
«Ecco il signore mio figlio,» disse il vecchio duca prendendo Etienne per mano e presentandolo alle signore.
Etienne le salutò senza dir parola. La contessa e la damigella di Grandlieu si scambiarono uno sguardo che non sfuggì al vegliardo.
«Vostra figlia sarà mal accompagnata,» egli disse piano, «non è questo che pensate?»
«Penso proprio il contrario, mio caro duca,» rispose la madre sorridendo.
La marchesa di Noirmoutier, che accompagnava la sorella, si mise a ridere finemente. Quel riso trafisse il cuore di Etienne già terrificato dall'imponente damigella.
«Ebbene, monsignor duca!» disse il padre con voce bassa e l'aria gioconda, «non vi ho trovato un bell'esemplare? Che ne dite di questo pezzo di figliola, mio cherubino?»
Il vecchio duca non metteva in dubbio l'ubbidienza del figlio. Etienne era per lui il figlio di sua madre, la stessa pasta docile da modellare. «Che abbia un figlio e crepi!» pensava il vegliardo, «poco ne cale.»
«Padre mio,» disse il giovane con voce soave, «non vi capisco.»
«Seguitemi nelle vostre stanze, ho due parole da dirvi,» fece il duca passando nella camera d'onore.
Etienne seguì il padre. Le tre dame, spinte da un moto di curiosità condiviso dal barone d'Artognon, deambularono per il salone in maniera da trovarsi raggruppati alla porta della camera d'onore che il duca aveva lasciata semiaperta.
«Caro Beniamino,» disse il vegliardo addolcendo dapprima la voce, «ti ho scelto per moglie questa bella e grande damigella, ella è l'erede dei feudi di un ramo cadetto della casa di Grandlieu, buona e vecchia nobiltà del ducato di Bretagna. Sii dunque un cortese compagno, e ricordati le più belle cose dei tuoi libri per dir loro delle galanterie, prima di farne.»
«Padre mio, il primo dovere di un gentiluomo non è quello di mantenere la propria parola?»
«Sì.»
«Ebbene, quando vi ho perdonato la morte di mia madre, morta qui per colpa del suo matrimonio con voi, non mi avete promesso di non contrariare mai i miei desideri? Io stesso vi ubbidirò come al Dio della famiglia, avete detto. Non vi usurpo niente, non chiedo che di avere il mio libero arbitrio in una questione in cui ne va della mia vita, e che riguarda me solo: il mio matrimonio.»
«Intendevo,» disse il vegliardo sentendosi salire il sangue al viso, «che tu non ti saresti opposto alla continuazione della nostra nobile razza.»
«Voi non mi avete posto condizioni,» disse Etienne. «Io non so cosa l'amore abbia in comune con una razza; ma ciò che ben so, è che amo la figlia del vostro vecchio amico Beauvouloir, e nipote della vostra amica la ‹Belle Romaine›.»
«Ma ella è morta,» rispose il vecchio colosso con un'aria cupa e beffarda che lasciava presagire la sua intenzione di farla scomparire.
Vi fu un momento di profondo silenzio.
Il vegliardo scorse le tre dame e il barone d'Artognon. In quell'istante supremo, Etienne, il cui udito era così delicato, sentì nella biblioteca la povera Gabrielle che, volendo far saper al suo amico di esservi rinchiusa, cantava queste parole:

Meno fine
è l'ermellino
meno fresco è il giglio.

Il figlio maledetto, che l'orribile frase del padre aveva sprofondato negli abissi della morte, riemerse alla superficie della vita sulle ali di questa poesia. Benché quel moto di terrore gli avesse già spezzato il cuore, radunò le forze, rialzò la testa, guardò il padre in faccia per la prima volta in vita sua, ricambiò disprezzo con disprezzo, e disse con l'accento dell'odio: «Un gentiluomo non deve mentire!» Con un balzo si lanciò verso la porta opposta a quella del salone e gridò: «Gabrielle!»
All'improvviso, la soave creatura comparve nell'ombra come un giglio nel fogliame, e tremò davanti a quel gruppo di donne ironiche, edotte degli amori di Etienne. Simile a quei nembi che portano il fulmine, il vecchio duca, giunto a un grado di rabbia indescrivibile, si staccò sullo sfondo brillante formato dall'abbigliamento delle tre dame di corte. Tra la discendenza della razza e una mésalliance, ogni altro uomo avrebbe esitato; ma nel vecchio uomo indomito si manifestò la ferocia che fino a quel momento aveva risolto tutte le difficoltà umane; in ogni evenienza egli estraeva la spada, come il solo rimedio che conoscesse ai nodi gordiani della vita. In quella circostanza in cui lo sconvolgimento delle idee era al colmo, la sua natura doveva trionfare. Due volte colto in flagrante delitto di menzogna da un essere aborrito, dal figlio mille volte maledetto, e più che mai maledetto nel momento in cui la sua debolezza disprezzata, e per lui la più spregevole, trionfava su un'onnipotenza fino a quel momento infallibile, non vi fu più in lui né padre né uomo: la tigre uscì dall'antro in cui si nascondeva. Il vegliardo, reso giovane dalla vendetta, gettò sulla più incantevole coppia di angeli cui fosse mai consentito metter piede sulla terra uno sguardo carico d'odio e già assassino.
«Ebbene! Crepate tutti! Tu, sporco aborto, la prova della mia vergogna. Tu,» disse a Gabrielle, «miserabile sgualdrina dalla lingua di vipera che hai avvelenato la mia casa!»
Queste parole portarono nel cuore dei due giovani il terrore di cui erano gravide. Nel momento in cui Etienne vide la larga mano del padre armata di una spada e alzata su Gabrielle, morì, e Gabrielle cadde morta volendo trattenerlo.
Il vegliardo chiuse rabbiosamente la porta e disse alla damigella di Grandlieu: «Vi sposerò io!»
«E voi siete abbastanza gagliardo per avere una bella stirpe,» disse la contessa all'orecchio di quel vegliardo che aveva servito sotto sette re di Francia.

Parigi, 1831-1836